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Disputa sugli ingegni.
L’educazione dell’individuo in Huarte,
Possevino, Persio e altri
Cristiano Casalini
Dipartimento di Scienze
della Formazione e del Territorio
Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma
Università di Parma - [email protected]
Con la comparsa dell’Examen de ingenios (1572)
di Juan Huarte de San Juan, lo studio dell’anima e delle sue funzioni razionali viene indissolubilmente associato all’osservazione del corpo e delle sue differenziazioni. Non si tratta semplicemente di una ripetizione di
tradizionali questioni lasciate aperte dalle ambiguità
del testo aristotelico, quali il rapporto di causazione e
di moto tra anima e corpo, o la localizzazione delle
funzioni razionali negli organi corporei e così via, bensì di determinare quali attività immateriali dell’anima
vengano favorite o sfavorite da una determinata configurazione temperamentale del corpo. In questo quadro,
l’interesse dello psicologo non è più votato alla delineazione dell’elemento comune e generico tra le anime
degli uomini, ma alla costruzione di una tavola tassonomica di caratterizzazioni individuali cui l’anima va
soggetta; anzi, senza le quali essa (forse) non esiste.
Seguendo una linea già battuta dagli umanisti, Huarte
denomina tale caratterizzazione ingegno, ma la teoria
entro cui inquadra questo concetto è quella di una psiEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 1 (2012), pp. 29-51
ISSN 2280 - 7837 © 2012 Edizioni Anicia, Roma, Italia
Cristiano Casalini
cologia differenziale che non è ascrivibile ad alcun
precursore.
L’opera di Huarte scatena perciò una disputa, nella quale entreranno filosofi naturali come Antonio Persio (Trattato dell’ingegno dell’uomo, 1576), gesuiti
come Antonio Possevino (Cultura ingeniorum, 1593 –
Coltura degl’ingegni, 1598) e Antonio Zara (Anatomia
ingeniorum, 1611), a contendersi il concetto di ingegno secondo differenti, molto spesso contrastanti, prospettive psicologiche ed educative. L’esito storico di
questa disputa sarà l’oblio (maggiore o minore) dei
nomi di tutti i contendenti, fatti salvi il Persio – legato
alla fortuna di Telesio – e il Possevino, il cui nome resterà ben impresso nella storia della biblioteconomia.
Ma il loro discorrere intorno alle connotazioni delle
differenze individuali, ai temperamenti più adatti all’apprendimento delle discipline, all’anatomia e fisiologia
degli ingegni rispetto ai corpi umani diverrà un prezioso
patrimonio tanto delle scienze antropologiche, quanto
della letteratura e del sapere comune, sempre affascinato dal gioco combinatorio degli umori e dall’evidenza dei suoi riscontri fisici.
1. Una questione clinica
Un aspetto poco riconosciuto in storiografia (salvo
quella propriamente storico-medica e qualche rara eccezione)1 è quello delle conseguenze che l’irruzione
1
L. García-Ballester, «Medical science and medical teaching at
the University of Salamanca in the 15th century», in M. Feingold e V.
Navarro-Brotóns (a cura di), Universities and Science in Early Modern Period, Springer, 2006, pp. 37-64; J.M. López Piñero e F. Bujosa
Pomar, Tradición y renovación en la medicina española del siglo XVI,
in «Asclepio», XXX-XXXI, 1978-1979, pp. 285-307; J.M. Lopez Pi-
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del galenismo nell’insegnamento della medicina ha
portato all’antropologia del XVI secolo. Fino alla prima metà del secolo, infatti, i corsi di medicina si fondavano ancora sulla lettura del Canone di Avicenna.
La tendenza umanistica alla sostituzione dei testi di
tradizione medievale con nuove edizioni di autori classici riportò in auge il corpus galenico, e le università
iberiche furono tra le prime (se si esclude Padova) ad
abbracciare la nouvelle vague: Valencia, Salamanca,
Alcalá – Valladolid restò per lo più fedele al maestro
arabo – divennero in breve tempo i centri europei più
importanti per l’insegnamento della medicina, sottraendo a Salerno una plurisecolare nomea. L’anatomia
chirurgica di Vesalio, che si mise a sezionare i cadaveri nel teatro anatomico patavino per “provare” la verità
o gli errori del medico latino (grave lo scorno della rete
mirabile!), attraversò come un fulmine il Mediterraneo
e si diffuse tra i medici galenici spagnoli, ma, anzichè
insinuare dubbi sulle dottrine di Galeno, non fece che
provocare il definitivo abbandono del Canone con le
sue corrispondenze astronomiche non riscontrabili nella realtà fisica del corpo umano.
Dunque, un Galeno cinquecentesco. Si è poco riflettuto – dicevamo – sull’importanza di questa moda nelle
ñero, The Vesalian Movement in 16th century Spain, in «Journal of the
History of Biology», vol. XII, 1, Spring 1979, pp. 45-81; A.I. Martín
Ferreira, El humanismo médico en la Universidad de Alcalá (siglo
XVI), Universidad de Alcalá, 1995. A. Grafton e L. Jardine, From
Humanism to the Humanities: Education ant the liberal arts in Fifteenth and Sixteenth-Century Europe, Cambridge, Harvard University
Press, 1986; P.F. Grendler, Schooling in Renaissance Italy: Literacy
and Learning, 1300-1600, Baltimore, John Hopkins University Press,
1989. Nella letteratura relativa a Huarte, si vedano in particolare F.
Mattei, La figura e l’opera di Juan Huarte de San Juan, Roma, Anicia, 2011; M.K. Read, Juan Huarte de San Juan, Boston, Twayne Publishers, 1981.
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aule di medicina: il corpus del medico, infatti, non
conteneva soltanto testi anatomici, opere sulle malattie
infettive, sugli organi e così via; accanto a questa mole
imponente di osservazioni mediche, infatti, esistevano
brevi libelli o saggi in cui Galeno si era addentrato in
questioni prettamente filosofiche, o di carattere morale.
Il successo di Galeno presso i medici comportò la nascita di una nuova tradizione nella psicologia, in cui il
rapporto tra l’anima ed il corpo veniva rideclinato a
partire, non più dalla funzione egemonica dell’anima,
sia vista platonicamente come nocchiero della nave sia
aristotelicamente come forma di un corpo avente la vita in potenza, bensì dall’influenza che la materialità del
corpo esercita sulle funzioni specifiche dell’anima.
Questa nuova indagine riporta al centro del dibattito l’ingegno. Tale nozione era abbondamente nota al
tempo, e certamente il vocabolario del Calepino, che ne
riportava l’etimologia al verbo “gigno” e faceva perciò
riferimento alla capacità generativa dell’anima umana,
definiva i contorni sancendo una cultura comune piuttosto di produrne una nuova. L’ingegno era perciò
considerato un aspetto dell’uomo, proprio dell’anima, i
cui contorni tuttavia non erano stati tracciati in modo
definito dalla speculazione filosofica e psicologica, ma
lasciati piuttosto alle espressioni di senso comune, alla
letteratura o alla cultura retorica di impronta umanistica: l’ingegno era perciò felice o triste, sottile o crasso,
a seconda della sua capacità di inventare figure retoriche convincenti o risolvere problemi di eloquenza in
bella figura.
Proprio un umanista iberico Juan Luís Vives, aveva tentato per la prima volta di dare del concetto di ingegno un’inquadratura psicologica, e all’ingegno aveva destinato un capitolo del suo De anima. Nel fare
questo, Vives aveva liberato la questione dell’ingegno
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dalle secche dell’oratoria per introdurla nel vivo del
dibattito scientifico.
Si è creduto bene di chiamare ingegno tutta la forza della nostra mente, della quale abbiamo parlato finora; poiché si mostra e si manifesta con l’esercizio dei suoi strumenti2.
La sua dottrina rappresentava bene l’idea umanistica di “ingegno”, benché nella sua concezione del
rapporto tra mente e corpo si sentisse forte l’eco platonizzante della mente come homo sapiens in domo stulti, e
faceva riferimento ad una abilità generale dell’uomo a
esercitare al meglio le facoltà razionali dell’anima. Va
detto tuttavia che la cultura umanistica fu proprio quella da cui vennero ripresi i testi di Galeno (si pensi al
medico spagnolo Vallés, che ne fece celebri corsi); e
della riflessione galenica anche Vives non poteva non
risentire. L’ingegno infatti rappresenta anche per lui il
punto di congiunzione tra il mondo immateriale
dell’anima, le sue facoltà razionali (invariabili dal punto di vista della sostanza), e il mondo corporeo, con le
sue differenze e i suoi continui cambiamenti: la variabilità e la molteplicità del corpo comportano pertanto
una specificazione degli strumenti dell’anima, alcuni
facilitati e altri ostacolati dalla particolare complessione dell’individuo. Per questo, l’ingegno, che costituisce per Vives la finestra sul mondo da cui la mente
guarda3, non può essere concepito soltanto come funzione generale, ma si specifica diversamente in base alla conformazione fisiologica del cervello, ove trovano
2
J.L. Vives, De anima et vita, a cura di M. Sancipriano, Padova,
Gregoriana, 1974, p. 288.
3
E in base all’opacità del vetro è più o meno in grado di esercitare la sua funzione visiva.
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sede le funzioni razionali dell’anima, che comunicano
col corpo sulla base degli spiriti e del sangue.
Gli organi della funzione razionale si trovano nel cervello e
consistono in certi spiriti molto tenui e splendenti, esalati lassù dal sangue del cuore. Questi spiriti sono gli strumenti più
interni di tutte le cognizioni. Quando sono freddi per evaporazione dal sangue freddo intorno al cuore, le operazioni della mente riescono pigre e deboli: donde gli uomini diventano
ottusi e storditi. [...] Al contrario, quando gli spiriti sono caldi, le azioni sono celeri e concitate4.
Attraverso gli spiriti, l’anatomia galenica prendeva dunque piede anche nella dottrina del Vives: «Il
sangue e gli spiriti seguono la forza e la natura delle
quattro principali qualità, secondo che ciascuna di queste è prevalsa dalla mescolanza»5.
Il dipanamento della teoria degli umori non rappresentò, tuttavia, per Vives, una questione che esigesse particolare precisione: nel descrivere i diversi atteggiamenti e le diverse indoli degli individui sulla base
della prevalenza di questo o quell’umore, il lettore non
avverte la tensione scientifica che caratterizzerà invece
uno Huarte, un Possevino o uno Zara, che si occuperanno successivamente di ingegno, con lo scopo dichiarato di tracciarne una tassonomia e trarne delle
conseguenze di carattere educativo e, più in generale,
politico.
Come quando l’artefice dispone e adatta gli strumenti non può
attendere all’opera da farsi, così anche l’attività razionale nell’infanzia, pienamente occupata intorno agli umori e agli spiriti, non può applicarli alle sue funzioni. [...] Da questi umori e
questi spiriti nasce non solo la varietà e la diversità degli ingegni, ma anche tanta opposizione quanta ce n’è fra i sembianti
4
5
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Ibid., pp. 290-291.
Ibid., p. 293.
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umani. Di ciò ho già detto qualcosa nell’opera Dell’insegnamento delle discipline6.
Vives introduce così la questione dell’ingegno fra
quelle degne di essere menzionate e indagate all’interno
di un De anima. Certo, il De anima di Vives non è uno
dei diffusi commentari accademici all’opera di Aristotele, nella lunga serie dei quali continueremo a non trovare trattato l’argomento dell’ingegno per tutto il Cinquecento. Tuttavia, è chiaro che un argomento nuovo,
o almeno fino alla prima metà del secolo non ancora
inserito tra quelli standard per un corso universitario
sull’anima, viene introdotto all’interno della psicologia, con la conseguenza, alla lunga, di provocarne una
trasformazione.
L’ingegno, che è diverso in ragione della molteplicità, proprietà del corpo come materia, trasforma la
questione psicologica in una questione prettamente clinica, diagnostica e, quindi, anche curativo-educativa.
Resta cioè nell’alveo della psicologia, ma trasforma la
psicologia in un aspetto della scienza medica. È indubbio che questa marcata presenza nell’opera di un noto
umanista fu infatti all’origine dell’interesse da parte di
un medico spagnolo, Juan Huarte de San Juan, a cui in
realtà dobbiamo la prima grande sintesi sul tema
dell’ingegno e sui suoi correlati psicologici, pedagogici e politici: l’Examen de ingenios (1572).
2. I magistri disputantes
Huarte disegna la sua teoria dell’ingegno lungo
due assi principali, che potremmo definire l’uno quan6
Ibid., p. 297.
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titativo e l’altro qualitativo. Col primo asse Huarte fa
sue le distinzioni della cultura umanistica precedente,
e, concependo etimologicamente l’ingegno come la
maggior o minore capacità di un individuo di generare
conoscenza, distribuisce gli individui dal minimo di
questa capacità (gli ingegni pecorini) al massimo del
suo possesso (gli ingegni capricciosi). Come vedremo
successivamente, questa annotazione è già di grande rilievo per quanto riguarda la questione educativa, dato
che alle due tipologie di ingegno, secondo Huarte, deve corrispondere una diversa didattica. Su questa linea
(che ha affascinato il giovane Chomsky), il concetto di
ingegno si è travasato, attraverso il XVII e il XVIII nel
concetto di genio. Col secondo asse, invece, Huarte affronta nel modo più rigoroso il problema dell’applicazione della teoria degli umori di Galeno alla psicologia di impianto aristotelico, per sviscerare e ricoprire
per intero la gamma dei possibili ingegni umani: gli
ingegni non differiscono, da questo punto di vista, per
quantità di possesso individuale, ma per la qualità che
contraddistingue il temperamento. Quattro sono gli
umori: sangue, flegma, bile nera e bile gialla; quattro le
qualità prime: caldo, freddo, secco e umido. Quattro i
temperamenti, che si distinguono per lo squilibrio della
mescolanza, generato dalla prevalenza di un umore rispetto agli altri: sanguigno, flemmatico, colerico, melancolico. Galeno, nel Quod animi mores temperamenta
sequantur, si era fermato a concludere che i comportamenti dell’uomo dipendono deterministicamente dallo squilibrio umorale. Per Huarte la dottrina era valida,
ma incompleta: occorreva infatti non solo spiegare i
caratteri individuali, ma anche i riflessi dei temperamenti sull’esercizio delle facoltà cognitive. E dato che
queste sono, per la psicologia di tradizione platonicoaristotelica fissata dalla prassi delle università, memo36
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ria, imaginativa e intelletto, occorreva distinguere quali
temperamenti favorissero ciascuna di queste facoltà.
L’anatomia entrava di nuovo nel modello medico
huartiano a giustificare il fatto che le combinazioni temperamentali fossero quattro mentre le facoltà razionali
fossero soltanto tre: il cervello, d’altra parte, era composto di quattro sezioni, tre delle quali erano ventricoli destinati alla presenza simultanea delle tre facoltà razionali,
la quarta (il cervelletto) destinata invece alla concozione
degli spiriti; questi ultimi in Huarte, diversamente da Vives, vedevano in qualche modo ridimensionata la loro
funzione di cerniera tra temperamento e anima. Huarte
escludeva così che la combinazione freddo-secco potesse,
al massimo della sua estensione, corrispondere all’esercizio di qualsiasi funzione cognitiva, dato che il corpo
raggiunge quello stato solo nel momento in cui diviene
cadavere. Le altre combinazioni erano invece facilmente assegnabili, in base anche al sistema di metafore
di tradizione peripatetica che vedeva la memoria come
luogo di impressioni di immagini o specie, e perciò necessariamente umido e freddo (il caldo causerebbe l’evaporazione e così la perdita delle impressioni), l’intelletto al contrario come caldo e secco e l’imaginativa
come calda e umida, proprio in virtù dei bollori che favoriscono le capacità intuitive e fantastiche.
Su questo asse di differenze qualitative di ingegno, Huarte riprendeva poi la teoria galenica dei gradi,
secondo la quale lo stemperamento, ovvero la prevalenza di una coppia di qualità, poteva essere distante
dall’equilibrio perfetto in misura più o meno maggiore.
Il concetto di equilibrio era proprio quello che,
tuttavia, allontanava Huarte dal maestro Galeno, così
da non proporne una pedissequa applicazione. Per Galeno, infatti, l’equilibrio era lo stato perfetto dell’uomo, così che i temperamenti, di fatto, rappresentavano
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una forma di patologia da curare attraverso dietetica e
climatica opportune. Al contrario, per Huarte la condizione naturale dell’individuo è il suo stato temperamentale, il suo particolare squilibrio, che non può né
deve essere curato. Non può, perchè la derivazione
biologica di un particolare temperamento impedisce la
possibilità di variarlo radicalmente: significherebbe passare da una qualità A alla sua contraria senza passare
dallo stesso procedimento che ha prodotto A. Non deve, perchè la prevalenza di un umore viene concepita
da Huarte come la vera natura dell’uomo, così che modificarla significherebbe la cessazione di un individuo
e l’inizio di uno nuovo non migliore del precedente.
Il temperamento è dunque, nella sua essenza, individuale e immodificabile. Huarte concepisce l’idea
che vi siano delle possibili differenze di genere e stato.
Ma le variazioni sono variazioni di tono che si sovrappongono ad un temperamento congenito che non può
venirne mutato in qualità. Così, il maschio è tendenzialmente caldo e secco, mentre la femmina è fredda e
umida, e perciò l’uomo predisposto alla speculazione
mentre non così la donna. Il bambino è contraddistinto
da una complessione umida che rende umido il suo ingegno, mentre l’anziano è secco, e così il suo ingegno.
L’uomo può incidere – ma questo è uno degli aspetti
pedagogici della dottrina huartiana – sul proprio temperamento attraverso i rimedi della medicina tradizionale (dieta e viaggi), ma gli effetti sono di poco conto7;
mentre ha la possibilità di incidere maggiormente sul
temperamento della propria prole, dipendendo essa
dalla sua abilità di scegliersi la donna appropriata e u7
Se si escludono le variazioni di temperamento cui andò soggetto il popolo di Israele, in conseguenza della lunga permanenza nel deserto, come testimonia la Bibbia.
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sare le accortezze che Huarte elenca nell’ultimo capitolo della sua opera per perfezionare l’atto riproduttivo.
Nel suo Examen de ingenios, Huarte elaborava così
un modello di osservazione capace di ricostruire il profilo psicologico peculiare di un individuo in base alla sua
complessione corporea. La conclusione che ne traeva
era che lo stemperamento del corpo determinava tanto il
comportamento morale di un individuo quanto le sue
funzioni cognitive. L’esito filosofico di questa dottrina
era una versione compiutamente materialistica e deterministica del galenismo, che non poteva essere accettata
così com’era dal cattolicesimo post-tridentino.
L’Inquisizione impose a Huarte una nuova versione
della sua opera, in cui venissero espunti o corretti gli spigoli della dottrina galenica e del tutto cancellato l’improbabile capitolo in cui lo smaliziato autore dell’Examen
aveva tentato senza troppo impegno una autocontraddittoria difesa dell’immortalità dell’anima. Ciononostante,
l’opera di Huarte si diffuse in tutta Europa e trovò anche
in terra di controriforma orecchie sensibili.
Il gesuita Antonio Possevino rispose con la sua Coltura degl’ingegni alla provocazione dell’antropologia huartiana. La dottrina era buona, sosteneva Possevino, anche
se era necessaria una correzione fondamentale: se infatti non si fosse trovato uno spazio per il libero arbitrio la teoria di Huarte conduceva direttamente o all’ateismo, a causa del suo materialismo, o – peggio ancora,
secondo Possevino – al calvinismo, che si fondava sul
concetto cardine di predestinazione. Il determinismo
huartiano, che attribuiva alla natura biologica la responsabilità del temperamento individuale (e perciò
del suo destino, come abbiamo visto) non aveva che da
sostituire alla parola “natura” la parola “Dio” per trasformarsi, da trattato pragmatico-scientifico in un colossale pamphlet protestante.
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Possevino, con una sensibilità che diremo tipicamente gesuita (in considerazione dell’interesse che l’opera di Huarte generò tra i membri colti dell’Ordine),
accettò il concetto di ingegno così come proposto da
Huarte, e trovò nella “parabola dei talenti” la legittimazione testamentaria della teoria huartiana. La diversità individuale implicava quindi una capacità di osservazione e introspezione che era lo strumento fondamentale della Compagnia, impegnata fin dagli inizi sui
fronti della confessione delle classi dirigenti, della diplomazia di corte, della predicazione e, sopratutto, dell’educazione dei giovani. L’esame degli ingegni rappresentava dunque una sponda scientifica alle pratiche
gesuite e uno strumento per decifrare da un punto di
vista medico i segni dello spirito attraverso la complessione. Uno strumento duttile e pratico, utile sia per conoscere le caratteristiche dell’interlocutore sporadico
sia per selezionare all’ingresso gli aspiranti membri
dell’ordine e gli studenti capaci. Alla selezione in ingresso Possevino tuttavia aggiungeva, come detto, la
rilevanza del libero arbitrio, che viene infuso da Dio
nell’anima insieme alle eventuali grazie gratisdate (talenti sovrannaturali per beneficiare il prossimo) e le
virtù, che combinate col corpo danno origine all’ingegno individuale. Col libero arbitrio la volontà torna ad
essere il perno attorno a cui ruotano le funzioni dell’anima: se essa non può prescindere dalla base materiale
della corporeità, non è meno vero che può riuscire
nell’impresa di contribuire a migliorare (e modificare)
l’ingegno iniziale. Quella che sembra una mera giustapposizione, o una correzione di rotta rispetto alla teoria di Huarte, produce in realtà un’antropologia del
tutto diversa, e per quanto ci riguarda, una pedagogia
chiaramente contrapposta.
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Possevino ne è consapevole, e per contraddire
Huarte tenta di insinuare nel suo lettore una deformazione della dottrina del medico spagnolo, attribuendo
all’Examen de ingenios il pensiero di Girolamo Cardano, che nel De subtilitate affermava esservi un unico
temperamento per l’uomo, inclinato necessariamente al
male (secondo Galeno, il temperamento caldo e umido). Ma Cardano rappresentava in realtà un filone di
indagine molto diverso da Huarte, un filone naturalistico-matematico che più si incontrava con la cultura umanistica di un Telesio che non con l’empirismo classificatorio dello spagnolo.
Proprio a questo filone apparteneva invece Antonio
Persio, allievo del Telesio e curatore di alcune sue opere,
che ebbe la fortuna di frequentare la bottega del Manuzio
proprio nei giorni in questi andava stampando la traduzione italiana dell’Examen. Di lì a due anni, uscì, sempre
per il Manuzio e ad opera del Persio, il Trattato dell’ingegno dell’huomo che rispondeva (senza citarlo) alla sfida di Huarte utilizzando arnesi de facto telesiani. Ciò che
colpisce del Persio, di cui è recente una edizione critica,
è che delle differenze individuali che più avevano interessato Huarte e che interesseranno Possevino e Antonio Zara non c’è traccia. Il Persio, dopo aver tratto la
definizione di ingegno da Huarte e dal Calepino, pesca
dalla cultura medica soltanto il concetto degli spiriti, e
con essi identifica l’ingegno dell’uomo.
Questo nome d’ingegno, alla guisa di tanti altri vocaboli
della nostra lingua volgare, di corpo è tutto Latino, & volgare
solamente d’accidenti, che volgarmente si piega: & però lo
dirimeremo come se fosse Latino in tutto. dicesi dunque dal
verbo ingigno, che vale ingenero, come se volesse dire, in
procreando, od in generando, pianto a dentro dalla cosa che
procreo, o genero, una certa virtù. perchè quando si genera
l’huomo, va inchiusa nel seme una certa virtù, & agume, che si
dirà. Hora e da por mente che questo nome i più nobili auttori
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della lingua Latina communemente presono per natura non solo
di cosa animata, ma di cosa priva d’anima, come di luogo,
[...] & al costume de gli huomini, come ingenium bonum,
pravum, vafrum, benignum, pudicum, honestum etc. & modi
di dir tali, redire ad ingenium, ciò è, ritornare al solito costume,
& mutare ingenium, mutar costume, & tant’altri che in leggendo ritroverete. [...] Perciochè noi per ingegno intendiamo
propiamente quella parte dello spirito, per la quale siamo atti
a comprender le cose, da cui è questo mio ragionamento: nè
mai lo prendiamo per natura, o radissime volte, come fu
preso da’ migliori della nostra lingua, Tancredi prencipe di
Salerno fu signore assai humano, & di benigno ingegno8.
Come è evidente, tornano in Persio alcuni argomenti del Vives, e con essi una cultura umanistica che
sembra tuttavia agli sgoccioli di fronte all’impetuosa
avanzata delle tassonomie scientifiche, le quali invece
troveranno di lì a poco completa legittimazione nella
rivoluzione baconiana. In questo contesto va compresa
la riproposizione dei temi huartiani e posseviniani da
parte di Antonio Zara, il quale, nella prima parte della
sua opera, penserà di sistemare nuovamente il concetto
di ingegno collocandolo più coerentemente entro un
quadro anatomico e naturale più definito. Naturalmente, il centro del quadro resterà saldamente ancorato al
libero arbitrio, uscito indenne, proprio negli anni
dell’Anatomia ingeniorum, dall’annosa disputa de auxiliis, che vide opporsi domenicani e gesuiti sulla priorità della grazia divina nei confronti delle forze naturali
dell’uomo.
8
D’Antonio Persio / Trattato dell’ingegno dell’huomo / Al Clariss. Sign. Pietro Contarini / Del Clariss. Sign. Philippo, In VINETIA,
MDLXXVI, appresso Aldo Manutio, p. 12.
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3. L’apprendimento del linguaggio
Il campo in cui si manifesta più evidente il contrasto tra la teoria huartiana e la variazione apportata dal
Possevino è quello dell’apprendimento linguistico. La
battaglia si gioca su due fronti: quello della logica e
quello della biolinguistica.
Sul fronte logico, Huarte e Possevino si oppongono
come si oppongono gli scolastici da secoli: convenzionalisti e nominalisti da una parte, realisti e naturalisti
dall’altra. Huarte, che sostiene di seguire in proposito
la dottrina aristotelica, ritiene che quella delle lingue
sia un’invenzione umana, e che pertanto il legame tra
parola e cosa sia puramente convenzionale.
Nel catalogo delle scienze, che noi dicemmo appartenere alla
memoria, ponemmo la lingua Latina, & l’altre, che parlano
tutte le nationi del mondo: il che nessun huomo savio può
negare: perché le lingue furono ritrovate dagli huomini per
potere communicar tra loro, & spiegare l’uno all’altro i suoi
concetti, senza che in esse sia altro misterio (né principii naturali) d’essersi accordati i primi inventori, & a beneplacito
(come dice Aristotele) formar le voci, & dare a ciascuna il
suo significato. Da questo risultò tanto gran numero di voci,
& tante maniere di parlare, tanto senza regola, né ragione,
che, se l’huomo non havesse buona memoria, sarebbe impossibile impararle con alcuna altra potenza9.
L’apprendimento linguistico non necessita, secondo Huarte, di intuizioni o speculazioni, fondandosi soltanto sull’acquisizione e la ritenzione di termini. La
lingua è per lui lessico e grammatica dogmatica, una
faccenda di vocabolario.
9
J. Huarte de San Juan, Essame degl’ingegni, trad. it., di Camillo Camilli (1582), a cura di C. Casalini e L. Salvarani, Roma, Anicia,
2010, p. 168.
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Possevino parte dal punto di vista contrario ma le
argomentazioni da lui addotte a sostegno del naturalismo
linguistico, anziché agli scolastici precedenti, conducono
direttamente alle dottrine cripto-umanistiche della cabbala cristiana. L’universo frastagliato delle lingue storiche, anziché provare la natura convenzionale del linguaggio, è per Possevino solo l’epifenomeno mondano
della differenziazione avviata con Babele. L’origine
delle lingue è infatti comune, la Ur-lingua, che è chiaramente l’ebraico biblico comunicato direttamente da
Dio ad Abramo e da questi usato per nominare cose ed
animali. Il beneplacito di chi le trovò huartiano si trasforma in Possevino nel beneplacito di Adamo: senonché il suo stato di perfezione e la diretta comunicazione linguistica di Dio fa sì che la sua libertà a nominare
cose create da Dio non sia che una “finzione divina”:
l’arbitrio di Adamo è infatti confinato entri i limiti della convenienza della parola alla cosa creata, ovvero ad
un isomorfismo sia logico che verbale a cui la ragione
di Adamo aderisce necessariamente.
Possevino va oltre queste indicazioni quando si
tratta di recuperare un’ulteriore prova della natura non
convenzionale del linguaggio: egli infatti fa ricorso alal
dottrina pichiana del Bereshit nell’Heptaplus, per sostenere che non solo le lingue storiche provengono
dall’ebraico di Adamo, ma, all’interno di questo ebraico, è la singola parola a condensare entro di sè le infinite moltiplicazioni ed estensioni linguistiche future.
La parola divina ha infatti scelto Bereshit come inizio
di tutto il racconto mitico del Vecchio Testamento, ed
il cabbalista cristiano ritrova nelle combinazioni insite
nel lemma significati, simboli e strutture comuni a tutte le lingue perchè riflettenti per speculum et in aenigmate l’essenza divina stessa. Feroce avversario del
convenzionalismo, Possevino spiega la derivazione
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Disputa sugli ingegni
delle lingue dal Bereshit ebraico ricorrendo ad alcuni
luoghi comuni della tradizione ermetica e ricostruendo
una genealogia di autorità contrastante con la dottrina
aristotelica: Cratilo, Platone, Pico della Mirandola,
perfino Tostato. Se la naturalità dell’ebraico è dimostrata con la Sacra Scrittura, quella del greco e del latino è dimostrata dalla razionalità della loro costruzione,
storicamente (!) accertata dal commercio che i Greci
ed i Fenici (con cui sarebbero maggiormente entrati in
contatto i Romani) ebbero con gli Ebrei e da cui trassero qualche scintilla di verità tradotta nel tempo dal popolo eletto e custodita nella sua lingua.
Per interpretare i misteri della lingua sacra e, viceversa, per intendere il carattere divino derivato dalle
lingue storiche è necessaria secondo Possevino una
particolare e nobilissima felicità di ingegno, che consente un abile impiego del giudizio e che va molto al di
là della capacità di memorizzazione grammaticale e
lessicale richiesta da Huarte ed esplicitamente da lui
disprezzata come sintomo di ingegno pecorino.
Il galenismo di Huarte esige coerenza: le lingue si
apprendono per mezzo della memoria. Se lo stemperamento che favorisce la memoria è quello umido, l’età
infantile, con la sua complessione morbida e la mancanza di strati e strati di impressioni che l’esperienza
apporterà, è la più adatta all’apprendimento di una lingua. Meno lo è l’età adolescenziale, quando il calore
trasforma l’umido in vapori e bollori; per nulla lo è
l’età senile, indurita, secca e solcata da rughe. La memoria scema col tempo, e con essa la capacità di apprendere la lingua. Certo, Huarte fa leva, come il galenismo d’altronde insegna, su una facile osservazione
empirica, ed associa fenomeni riscontrabili nella tradizione e nel senso comune (che solo in tempi moderni
vengono inquadrati nel ramo delle patologie degenera45
Cristiano Casalini
tive) con evidenze sintomatiche e fisiologiche. Tuttavia, le uniche due concessioni che la dottrina huartiana
fa a possibili variazioni di temperamento nella vita di
un individuo (e solo di grado, non di qualità), sono
l’appartenenza ad un genere (se maschile caldo e secco,
de femminile freddo e umido) e lo stadio di sviluppo.
Possevino ha due motivi, uno teorico, l’altro biografico, per opporsi a questa particolare dottrina di
Huarte. L’aspetto teorico è, naturalmente, ancora legato
al peso che l’innesto del libero arbitrio in una antropologia huartiano-galenica conferisce alla volontà individuale. A stare con la parabola dei talenti, gli uomini
sono diversi tra loro ma hanno la possibilità (il dovere,
per l’evangelista) di investire e far fruttare la loro differenza: il libero arbitrio e la volontà sono infusi proprio a questo scopo. La lingua, dunque, in questa accezione non sarà niente di più di un possibile oggetto di
apprendimento, che, pur nella diversa abilità con cui i
vari ingegni possono accostarsi ad essa, si offre alla
conoscenza di qualsiasi individuo in base alla disponibilità di quest’ultimo all’impegno e allo studio. Ciò significa che, pur divenendo più difficile a causa dell’indurimento delle carni e della memoria, l’apprendimento
di una lingua non sarà impossibile nemmeno in tarda
età. Ed è qui che Possevino inserisce una considerazione autobiografica a sostegno e dimostrazione della
sua teoria: lui stesso, inviato da Gregorio XIII e Mercuriano (poi Acquaviva) nelle terre ortodosse, ha appreso il russo e altre lingue straniere senza – dice lui –
alcuna difficoltà.
C’è infine un ultimo corollario nella discussione
della questione linguistica che divide Huarte e Possevino, e la cosa attiene direttamente alla difesa (d’ufficio) che il gesuita Possevino deve fare riguardo alle
virtù retoriche dei teologi scolastici, negate risoluta46
Disputa sugli ingegni
mente da Huarte con larga messe di esperienze personali. Huarte, infatti, opponendo intelletto e memoria,
oppone necessariamente l’abilità speculativa all’eloquenza, e arriva a sostenere che i grandi teologi, se sono grandi, scrivono e parlano pessimamente, mentre i
grandi predicatori capaci di convincere masse o sovrani non hanno l’ingegno sufficientemente secco per ragionare sulla verità delle cose. Da studente, Huarte ricorda ancora sogghignando di quel gran filosofo dello
studium di Alcalá che fu chiamato a tenere l’orazione
funebre a un importante collega e si dimenticò di tutto
il suo discorso, interrompendosi più volte con gran
scherno degli astanti. E cita anche l’episodio di un celebre teologo spagnolo che, invitato da Paolo III in Italia a mostrargli le sue doti speculative, dovette farsi
tradurre tutto il suo ragionamento dall’ambasciatore di
Spagna a causa del suo incomprensibile latino. Tommaso, dice Huarte, scriveva barbaramente.
Possevino, dal canto suo, trova invece nei teologi
passati una buona prosa, e, se non proprio nei passati,
senz’altro nei più celebri teologi contemporanei, che –
neanche a dirlo – appartengono perlopiù all’Ordine gesuita. Il concetto è che il predicatore è al servizio della
verità, ma anche quello che la costruzione del discorso
è anche la forma speculativa del discorso: il logos (discursus) si esprime in una forma di cui la struttura non
è artificio inessenziale, ma veicolo per scoprire (inventio) verità più profonde. La parola rappresenta per Possevino, ancora una volta, lo speculum simbolico in cui è
contenuto tutto il reale in un gioco combinatorio di corrispondenze, armonie, movimenti, che, essendo sempre
vero, è necessariamente anche bello e convincente.
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Cristiano Casalini
4. Respondeo ut. La questione educativa: essame o
coltura?
Come ha detto Mattei: «La disputa sull’ingegno è
il topos in cui tre filoni di filosofia naturale vengono ad
incontrarsi e ad incrociare argomenti dialettici. Meglio,
ci si trova di fronte a tre asciutti naturalismi: quello
scolastico, quello platonico-rinascimentale, quello di
Huarte de san Juan, il più moderno e coraggiosamente
diverso dagli altri. [...] Molte le conseguenze, allora.
Giacché qui muta la concezione umanistico-paidetica
dell’uomo vitruviano e rinascimentale. Muta la concezione del soggetto e del libero arbitrio. Muta la
concezione dell’ingegno (non coltura alla Possevino,
ma essame). Muta la concezione morale e lo sviluppo
destinale dell’individuo, qui legato al temperamento
naturale e agli umori. Muta la concezione dell’individuo e della sua universale uguaglianza. [...] E in definitiva, nella differenza d’ingegno finisce per risiedere
il segreto dell’ascesa sociale e dello sviluppo di Stati e
società»10.
Lo scopo finale dell’Examen era per Huarte il miglioramento della conduzione dello Stato: conoscere
gli ingegni implicava saper selezionare gli individui
più adatti per svolgere ciascuna professione. Il lavoro
richiede infatti l’esercizio di una specifica facoltà razionale e, pertanto, un errore nell’essame dell’ingegno
corrisponde necessariamente al blocco di un ingranaggio della macchina statale. Se l’ingegno ha un’origine
biologica dobbiamo concluderne che per Huarte l’educazione non ha significato? Al contrario. Egli tuttavia
pensa che lo spazio per l’educazione si giochi esclusiva10
F. Mattei, La figura e l’opera di Juan Huarte de San Juan,
cit., p. 17.
48
Disputa sugli ingegni
mente tra le polarità della selezione all’ingresso e una
formazione specialistica fin dagli inizi. Insegnare o esercitare una facoltà per cui non si è portati significa
perdere il tempo indarno. Huarte cita in proposito l’esperienza personale di quando, da studente, avendo due
compagni di studi, ebbero in tre anni di corso (ad ogni
anno corrispondeva, secondo il costume, un’unica disciplina) esiti completamente diversi: e mentre per due
anni lui si era rotto la testa vanamente studiando discipline per cui non era portato, il terzo anno riuscì invece
fra tutti un’aquila principale.
Si tratta di un esempio che poco avrebbe smosso il
Persio, umanisticamente fuori dalla cultura universitaria e dalle preoccupazioni educative ad essa connesse.
Diversa infatti è la funzione dell’ingegno, infatti, nel
Trattato dell’ingegno dell’huomo, e diversa è la concezione gerarchica delle funzioni cognitive individuali.
La più disprezzata delle capacità, sia da parte di Huarte
che da parte di Possevino, ovvero quella di memorizzazione, trova invece in Persio uno acuto difensore: ma
in questo caso è evidente il peso delle arti mnemotecniche, in base alla cui tradizione si assegna alla memoria una capacità non solo ritentiva, ma anche e soprattutto creativa rispetto al sapere. Questa valorizzazione
non può aver più nelle pagine di Huarte, che pensa al suo
lavoro come ad un lavoro di pragmatica, funzionale ad un
saper pratico che, come esito, deve aver quello del funzionamento della macchina sociale rispetto al lavoro.
Dal canto suo, Possevino aveva introdotto il concetto di libero arbitrio per una evidente necessità teologica, ma anche per indicare una linea pedagogica diversa tanto dall’elitarismo improduttivo degli umanisti,
quanto dallo specialismo naturalistico huartiano. I collegi gesuiti trovarono nella Coltura degl’ingegni la loro legittimazione pedagogica: la possibilità dell’appli49
Cristiano Casalini
cazione e la non vanità dello sforzo per la riuscita individuale in tutti i campi apriva lo spazio di intervento
educativo al maestro e all’organizzazione di un’istituzione scolastica efficiente per portare i suoi studenti
a risultati eccellenti in ogni campo.
Le due opere rispondevano dunque a due diverse
sollecitazioni pedagogiche ed “istituzionali”. Mentre
quella di Huarte puntava ad una riforma degli studi (di
quelli universitari in particolare) che prevedesse l’uscita dalla morsa universalistica tipica tanto della mentalità scolastica quanto di quella degli umanisti, l’opera
di Possevino mirava a perfezionare l’istituzione collegiale gesuita perfezionando il personale e gli studenti,
selezionando sia gli ingegni sia la motivazione invididuale, elemento imprescindibile per la buona riuscita
di un percorso scolastico.
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ANTONIO POSSEVINO S.J.
COLTURA DEGL’INGEGNI
(IN VICENZA, / Appresso Giorgio Greco, M. D. XCVIII)
Degnità dell’huomo,
e doni concedutigli da Dio,
onde insieme si comprende il suo fine.
Cap. I.
“Gli huomini di grande et eccellente ingegno (disse Lattantio) i quali affatto si diedero ad apprender le discipline, tutta
la fatica la quale poterono spendere, questa, con avere dispregiate tutte e le publiche e le private attioni, impiegarono
in cercare la verità: stimando che era molto più nobile lo investigare et il sapere la ragione delle cose humane e divine,
che l’attendere al guadagno de’ beni temporali, o a crescere
ne gli honori. Per le quali cose, percioché sono fragili e terrene, et appartengono alla sola coltura del corpo, nissuno
migliore, nissuno più giusto può divenire.
Erano essi veramente degni della cognitione della verità, la
quale di sapere desideravano, e di maniera che questa a tutte
le cose anteponevano. Percioché chiara cosa è, che alcuni
gittarono via le loro cose familiari, e rinunciarono a tutti i
mondani piaceri: accioché ignudi e ispediti seguissero la
nuda e sola virtù, di cui il nome e l’auttorità valse tanto appresso loro, che giudicarono in essa consistere il premio del
sommo bene”.
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