10 modulo Etnografia_della_formazione

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10 modulo Etnografia_della_formazione
10° Modulo
Etnografia della formazione.
Sommario
In questo modulo illustreremo la prospettiva etnografica nello studio di situazioni salienti dal
punto di vista formativo e scolastico.
Tali situazioni verranno indagate in quanto “osservatori” di particolare interesse al fine di far
emergere contingenze di rilevanza educativa che appartengono al quotidiano e che, dunque,
rischiano di non essere colte in senso esplorativo e/o progettuale.
Parleremo dei metodi, delle strategie, degli strumenti, dei campi di applicazione e
presenteremo dei materiali di sapore etnografico da utilizzare sia in senso operativo sia per
una esplorazione di carattere epistemologico in merito alla non coincidenza fra teoria della
conoscenza e processi di costruzione della stessa, con particolare riferimento al tema della
differenza.
Temi:
1. L’attualità della prospettiva etnografica in educazione;
2. Procedure e tecniche dell’etnografia educativa;
3. Le fasi strutturali;
4. La pedagogia interpretativa;
5. L’indagine etnografica come tecnica di stras-formazione del sé: Carlos Castaneda;
6. Visioni del mondo diverse: differenti sistemi cognitivi;
7. Lo sciamanesimo come teoria della conoscenza:
1. L’attualità della prospettiva etnografica in educazione.
“l’altro comincia accanto a me. Bisognerebbe anche aggiungere che in numerose culture (tutte
hanno costruito delle antropologie, delle rappresentazioni dell’uomo e dell’umanità) l’altro
comincia dall’io senza che Flaubert, Hugo e Lacan c’entrino qualcosa: la pluralità degli elementi
che definiscono l’io come una realtà composita, provvisoria ed effimera – prodotto di eredità ed
influenze diverse – sembra tanto essenziale che i lavori degli etnologi, relativisti o no, dedicano
alla nozione molto problematica di persona un capitolo assolutamente indispensabile per quelli
che si occupano d’organizzazione sociale e d’economia” (M. Augè, Un etnologo nel metrò,
Milano, Elèuthera, 2005, Tit. orig. Un ethnologue dans le métro, Hachette Livre, 1986, p. 31).
La nostra epoca è caratterizzata dalle grandi migrazioni dai paesi poveri e/o in guerra
all’Occidente cosiddetto ricco, evoluto, democratico. La scuola e la formazione si confrontano
sempre più con i temi legati alla differenza, alla multicultura, all’integrazione. La società, se da
un lato sembra accondiscendere alle tendenze omologatrici del mercato globale, dall’altro,
muta velocemente gli assetti comunitari che la costituisco per la presenza, sempre più
rilevante, di culture minoritarie, di differenze etiche, religiose, di costume, ecc..
La convivenza in classe di alunni che appartengono a mondi altri è consueta mentre tutte le
frontiere del mondo sembrano essere definitivamente solcate senza lasciare più spazio
all’avventura di paesi e popoli sconosciuti.
“Lo studio delle culture altre, in quanto sistemi ordinati di significati, sembra così dare origine
ad una etnografia creola, che ha come punto di riferimento (anche metodologico) non la
purezza ma la mescolanza e la varietà. Le nostre orecchie abituate a un’uniforme e rilassante
monotonia culturale sono inevitabilmente sorprese e un po’ spaesate – positivamente spaesate
– dall’irruzione di questa polifonia, le cui voci propongono armonie nuove e in apparenza
dissonanti, ma che in realtà aprono la nostra percezione a nuove possibilità, nuovi modi di
ascoltare il mondo. L’intreccio di queste melodie dà vita a una poliritmia, a un amalgama di
pulsazioni diverse il cui battito intesse ormai la nostra vita d’ogni giorno, trasformando
l’intercultura e la conoscenza dell’altro da evento storico e accidentale in dimensione
quotidiana, ma non per questo meno sorprendente e straordinaria” (F. Dovigo, Etnopedagogia.
Viaggiare nella formazione, Milano, Angeli, 2002, p. 41).
“ L’etnografia non ha dunque finito di viaggiare. Solo, le sue mete non sono più lontani paesi
esotici (o tristi tropici) ma i paesi d’origine; quelli che credevamo territori rassicuranti, centri
immobili di riferimento della cultura si sono trasformati in habitat in cui saperi e pratiche
diverse si confrontano e si intrecciano senza sosta, in un processo di creolizzazione continua.
Da questo punto di vista, la presenza colorata e ormai consueta degli stranieri in quel
paesaggio che consideravamo domestico, non fa che confermare in fondo ciò che l’antropologia
aveva già da tempo lasciato intravedere: siamo stranieri a noi stessi.
Questa situazione di spaesamento, di disagio, ma anche di curiosità per l’altro che siamo noi, e
per noi che siamo l’altro, costituisce l’attuale campo di ricerca di un’etnografia che non è più
del lontano, ma del vicino e quotidiano. E proprio in questo insolito quotidiano sembra allora
aprirsi lo spazio per una ricerca etnografica, in cui il metodo nomade diviene risorsa attraverso
cui esplorare le culture e le pratiche diffuse dell’educazione.
La prima caratteristica dell’etnopedagogia, in quanto etnografia della formazione, è proprio
questa capacità di guardare con interesse a ciò che, proprio perché così contiguo, finisce per
cadere sotta la soglia dell’attenzione, per apparire scontato” (F. Dovigo, Etnopedagogia.
Viaggiare nella formazione, Milano, Angeli, 2002, p. 60).
Approfondimenti e orientamenti bibliografici:
R. Bodei, Multiversum, Napoli, Bibliopolis, 1977;
P. F. Carspecken, Critical Ethography in Educational Research. A Theoretical and Pratical guide,
London, Routledge, 1996;
C. Geertz, Antropologia e filosofia, Bologna, Il Mulino, 2001;
M. Giusti, Pedagogia interculturale, Roma-Bari, Laterza, 2004.
2. Procedure e tecniche dell’etnografia educativa.
… nella si può tentare se non stabilire l’inizio e la direzione di una strada infinitamente lunga.
La pretesa di qualsiasi completezza sistematica e definitiva sarebbe, se non altro, un’illusione.
Qui il singolo ricercatore può ottenere la perfezione solo nel senso soggettivo che egli
comunichi tutto ciò che è riuscito a vedere.
George Simmel
“L’etnografia è un procedimento di indagine empirica che impegna il ricercatore in
un’esperienza definita come lavoro sul campo, caratterizzata dall’osservazione ravvicinata e
per periodi prolungati delle attività quotidiane in un contesto educativo; in seguito, i dati
raccolti sono analizzati per una ricostruzione della microcultura specifica del contesto, in
particolare le regole di interazione assunte, le dinamiche di partecipazione dei soggetti, gli
scopi e i modelli culturali condivisi e quelli conflittuali nelle attività rilevanti che compongono
l’oggetto di indagine” (P. Sorcio, La ricerca qualitativa in educazione. Problemi e metodi, Roma,
Carocci, 2005, p. 67).
“I modelli culturali sono schemi di conoscenza, ampiamente diffusi all’interno di un gruppo
sociale che svolgono differenti funzioni: incorporano le caratteristiche essenziali di specifici
aspetti del mondo naturale, sociale e psicologico, sono strumenti del pensiero perché sono
strutture di immagazzinazione delle informazioni; hanno una funzione inferenziale (nel senso
che guidano il riconoscimento, la comprensione e l’anticipazione di stati futuri) e una funzione
normativa, indicando le forme appropriate dell’agire sociale, presentano anche una tonalità
affettiva, riguardando l’interesse personale intorno ai contenuti” (P. Sorcio, La ricerca
qualitativa in educazione. Problemi e metodi, Roma, Carocci, 2005, pp. 68/69).
Di conseguenza essi hanno molto a che fare con le decisionalità, gli approcci, i modelli stessi,
infine, le epistemologie che sottendono i processi di insegnamento, come quelli di
apprendimento.
Il metodo etnografico, nell’investigazione come nelle prassi educative, richiede la raccolta
accurata
e
sistematica
di
documenti,
dati
e
informazioni
per
l’individuazione,
la
rappresentazione e l’analisi approfondita dei modelli culturali di una comunità.
Un segno distintivo di questa strategia investigativa risulta pertanto l’esplorazione aperta nel
contesto naturale, il fine di ascoltare e rappresentare il punto di vista dei suoi “abitanti”, la
preferenza nei confronti di dati poco o per nulla strutturati, l’ampio utilizzo di descrizioni,
narrazioni, interpretazioni. Risulta quindi evidente che il dato quantitativo è letto entro una
cornice epistemologica qualitativa che privilegia la dimensione simbolica ed orientativa dei
fenomeni nei confronti di una misurabilità codificata da parametri standard1. Di qui, il ricorso
ad un’organizzazione strutturale dell’itinerario di ricerca che, inevitabilmente, si affida a mappe
cognitive e schemi di riferimento ricorsivi ed autoregolativi.
Tale procedimento può aiutarci a cogliere sia le regolarità funzionali e/o normative segnalate
dall’elemento quantitativo, sia la differenza, la soggettività, l’imprevisto che, sempre, segnano
le interazioni sociali, rilevati dal versante qualitativo. Si tratta di quella che Geertz definisce
efficacemente come la natura microscopica dell’etnografia2. Ma, per quanto concerne il risvolto
quantitativo di questa particolare euristica, la comparabilità e la traslabilità dei dati è inferibile
solo nella loro contestuale situazionabilità, e pertanto il criterio di validità è di tipo
1
Cfr. P. Atkinson, M. Hammersley, Ethnography and Partecipant Observation, in N. K. Denzin,
Y. S. Lincoln, Strategies of Qualitative Inquiry, London, Sage, 1998.
2
Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino, 1987.
comunicativo-pragmatico, si fonda su narrazioni condivise e non sul criterio astratto
dell’oggettività3.
Questi “elementi strutturali” dell’etnografia educativa determinano l’osservazione partecipante
del ricercatore, ossia il suo divenire parte, sia pure marginale, di un contesto che
inevitabilmente reagisce alla sua presenza e che quindi, muta. Per questo motivo egli stesso
diventerà oggetto sorvegliato e critico della propria azione osservativi. In breve, egli utilizza la
sua soggettività come “ambiente” in cui si elabora la conoscenza, ovvero, riflette sulle proprie
rappresentazioni originarie di quel contesto e sulle loro successive modificazioni, sulle
proiezioni che derivano dal suo stesso immaginario, dalle aspettative, dagli interessi ecc..,
sulla differenza che segna confini e intrecci fra i suoi modelli culturali e quelli che va
osservando.
Scrive Levy-Strauss nel suo giornale di viaggio: “Pur ritenendosi umano, l’etnologo cerca di
conoscere e giudicare l’uomo da un punto di vista sufficientemente elevato e distaccato, per
astrarlo dalle contingenze particolari a una data società o a una data civiltà” (C. Levy-Strauss,
Tristi Tropici. L’avventura dell’antropologo, Milano, Il Saggiatore, 2004, tit. orig. Tristes
Tropiques, Paris, Plon, 1955, p. 53).
Per ulteriori approfondimenti:
A. M. Gomes, “Vegna che ta fago scriver”. Etnografia della scolarizzazione in una comunità
Sinti, Roma, CISLI 1998;
M. Pollock, Race Bending, in “Antropology and Education Quarterly”, n. 35 (1), 2004;
P. Atkinson, A. Coffey, S. Delamont, J. Lofland, L. Lofland, Handbook of Etnography, London,
Sage, 2001;
3. Le fasi strutturali.
In generale, possiamo riconoscervi alcune fasi strutturali:
•
identificazione di una situazione saliente che presenta le caratteristiche di osservatorio
naturale;
•
elaborare una prima versione aperta del progetto di ricerca e delle grigie allargate di
riferimento teorico e metodologico, ovvero: Inquadramento della ricerca;
3
Cfr. R. Rotry, La filosofia e lo specchio della natura, Milano, Bompiani, 1986.
•
predisporre il lavoro sul campo: osservazione partecipata ma non intrusiva, raccolta,
catalogazione di informazioni in una comunità (note descrittive del contesto comunitario
caratterizzate da un alto grado di precisione e di dettagli e prive, per quanto è possibile,
di valutazioni: mappe del territorio, fasi temporali e ritmi, eventi). Analisi dei testi, dei
documenti, delle fonti orali (canti, leggende, ninnananne, filastrocche), dei segni
distintivi la cultura materiale (oggetti d’uso comune, decorativi, ad elevato valore
simbolico, artigianali) e delle interviste etnografiche. Il ricercatore deve maturare una
sensibilità estetica che, da un lato, lo aiuta a non gerarchizzare i paradigmi
appartenenti alle differenti culture, dall’altro, a cogliere la trama relazionale4 di una
comunità senza irrompervi a mutarne le strutture tradizionali. Occorre infatti mantenere
quello “sguardo da lontano” di cui ci parla Levy-Strauss5. Lo sguardo cauto e rispettoso
di una presenza che, pure, ha coscienza della sua partecipazione ad un sistema, ma, al
contempo, gli impedisce di diventare un “abitante” di quella comunità. La riflessività
intorno al rapporto familiarità/estraneità aiuta il ricercatore a valutare la costruzione
tras-formativa che lo coinvolge nell’itinerario di ricerca.
•
procedere ad un’eventuale riconfigurazione del progetto generale di investigazione
(note riflessive sull’evoluzione e le fasi della ricerca: dubbi e congetture, diario di
lavoro, prime valutazioni, ecc..);
•
stilare le prime narrazioni della microcultura di contesto con particolare attenzione nei
confronti delle strutture delle interazioni e dei modelli culturali. È una fase ad alto
quoziente di congetturalità: formulazione di nuove ipotesi e articolazione critica delle
ipotesi iniziali, controllo e revisione del disegno iniziale del progetto;
•
Analisi ricostruttiva che ha lo scopo di rendere espliciti i fattori culturali e soggettivi sia
del contesto studiato, sia del contesto di studio. Per contesto di studio si intende la
soggettività del ricercatore delle dinamiche relazionale del gruppo di ricerca, dei
modelli, dei metodi, delle strategie, degli strumenti …, attraverso procedure di
decodifica delle note a partire dall’analisi dei significati attribuiti, dalle loro assonanze e
differenze. Si tratta, in breve, di una Ricostruzione preliminare);
•
concertazione, confronto e socializzazione delle narrazioni, delle ipotesi interpretative,
dei punti visuale, degli approcci epistemologici spesso impliciti; incrocio dei dati
osservativi e delle strategie applicate, esame critico dei primi risultati ed eventuale
riassestamento dell’itinerario di ricerca (Ricostruzione avanzata e generazione di mappe
dialogiche);
•
Ulteriore arricchimento, rinnovamento e/o semplificazione dei modelli teorici di
riferimento e messa a punto di nuovi strumenti sia culturali che operativi e
4
Cfr. G. Bateson e M. C. Bateson, Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 2002, tit. orig.
Angels Fear. Toward an Epistemology of the Sacred, 1987.
5
Cfr. C. Levy-Strauss, Lo sguardo da lontano, Torino, Einaudi, 1987;
potenziamento degli impliciti formativi nell’intreccio di inferenze ed analisi fra contesto
di studio e contesto studiato (Riflessività dell’osservazione).
Per ulteriori approfondimenti bibliografici cfr:
A. Coffey, The Ethnographic Self, Thousand Oaks, Sage, 2000;
D. Demetrio, Micropedagogia, Firenze, La Nuova Italia, 1992;
D. M. von Fettermann, Ethnography, Step by Step, Newbury Park, Sage, 1989.
4. La pedagogia interpretativa.
La pedagogia interpretativa fa riferimento ad una epistemologia costruttuivista, si avvale dello
studio delle rappresentazioni che gli individui e i gruppi hanno della realtà, tende a
destrutturare i modelli che ne guidano la decisionalità al fine di una loro riconfigurazione
critica. Si tratta dunque di finalità più esplorative che confermative o normative.
“Nella prospettiva della ricerca interpretativa, il soggetto non è un semplice testimone di una
relazione tra fattori, ma diventa oggetto di interesse nella sua unicità e specificità. Le
intenzioni che muovono le sue azioni, le sue ragioni, i significati che egli attribuisce al mondo e
che contribuiscono a costruirlo, i contesti e gli ambiti sociali in cui si muove diventano specifici
oggetti di studio. Il ricercatore viene quindi chiamato a raccogliere un grande numero di indizi,
sotto forma di dati fattuali, e a interpretarli per assegnare ad essi un senso, trasformando un
insieme slegato di fatti e comportamenti in un sapere inerente ad una data realtà.
Questa assegnazione di senso non è ovviamente indipendente dalle nostre precomprensioni,
ossia da tutto quel bagaglio di sapere tacito acquisito nelle interazioni con il mondo e con gli
altri che costituiscono il substrato su cui poggiano le azioni e le interazioni nella nostra vita
quotidiana.
(…)
In ambito educativo comprendere l’altro significa comprendere il particolare bisogno educativo
del soggetto a cui si rivolge l’intervento, ossia l’utente, l’allievo. La comprensione a cui fa
riferimento l’educazione è una comprensione empatia, che consiste nel sapersi calare, seppur
momentaneamente, intenzionalmente e con piena e consapevole possibilità di ritorno, nei
panni dell’utente per vedere il mondo dal suo punto di vista, vedere l’altro così come l’altro si
vede, interpretare la realtà come l’altro la interpreta, cogliere il contesto situazionale che
contraddistingue e rende unica e irripetibile la sua esperienza di vita quotidiana.
Questa operazione passa inevitabilmente per la ricostruzione delle visioni del mondo dei
soggetti, ossia delle rappresentazioni alla base del loro agire. Nella loro veste più formalizzata,
le rappresentazioni possono essere dei veri e propri modelli mentali, ossia schemi di
riferimento che guidano il soggetto nelle decisioni e nelle scelte che egli compie quando si
trova ad agire nel mondo. Attraverso i modelli mentali il soggetto gestisce la complessità del
reale raccontandosi la realtà, allo scopo di renderla comprensibile in primo luogo a se stesso”
(R. Trinchero, I metodi della ricerca educativa, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 86/87).
Per ulteriori approfondimenti bibliografici cfr:
H. von Foerster, Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987;
M. D. Le Compte, J. Preissle, Ethnogrphy and qualitative design in educational research, New
York, Accademic Press, 1993.
5. L’indagine etnografica come tecnica di stras-formazione del sé: l’esempio di Carlos
Castaneda
“Mentre preparavo la tesi alla facoltà di antropologia dell’Università della California, a Los
Angeles, mi imbattei in un vecchio sciamano, un indiano Yaqui originario dello stato messicano
di Sonora. Si chiamava Juan Matus.
(…)
Mentre accadeva tutto ciò, ebbi la fortuna di seguire le lezioni del professor Harold Garfinkel
della facoltà di Sociologia dell’UCLA. Egli mi fornì uno straordinario modello di ricerca
etnologica, in base al quale le azioni pratiche della vita quotidiana sono un oggetto bona fide
per la speculazione filosofica e come ogni fenomeno analizzato deve essere esaminato per se
stesso e in base a regole e concordanze proprie. Se c’erano leggi o prescrizioni da estrapolare,
esse avrebbero dovuto essere adeguate al fenomeno stesso. Di conseguenza, la azioni pratiche
degli sciamani, viste come sistema coerente dotato di regole e configurazioni proprie,
costituivano un oggetto valido per un’indagine seria. Questa indagine non doveva essere
soggetta a teorie costituite o a confronti con i dati matematici ottenuti sotto gli auspici di un
diverso assunto filosofico.
… mi immersi nel mio lavoro antropologico sul campo. Le due forze che mi guidavano (…)
erano la consapevolezza del poco tempo rimasto prima che i processi cognitivi delle culture
americane indigene venissero cancellati nella confusione della tecnologia moderna, e la
convinzione che il fenomeno da osservare, di qualunque cosa si fosse trattato, costituiva un
oggetto d’indagine bona fine e meritava quindi tutta la mia attenzione e serietà.
(…)
Se dovessi dare una descrizione sintetica di quello che feci nella mia ricerca sul campo direi
che lo stregone indiano Yaqui, don Juan Matus, mi trasmise l’universo conoscitivo degli
sciamani dell’antico Messico che chiamava cognizione.
Con questo termine si intendono i processi che governano la consapevolezza della vita di tutti i
giorni, processi che comprendono la memoria, l’esperienza, la percezione e l’uso competente di
qualsivoglia sintassi. All’epoca, il concetto di cognizione rappresentava l’ostacolo maggiore. Per
un occidentale istruito come me era inconcepibile pensare che la cognizione, quale è definita
nella speculazione filosofica moderna, fosse qualcosa di diverso da un processo omogeneo e
onnicomprensivo, valido per tutta l’umanità. L’uomo occidentale è disposto ad ammettere
differenze culturali che spieghino modi curiosi di descrivere i fenomeni, ma le differenze
culturali non potrebbero mai giustificare l’esistenza di processi legati alla memoria,
all’esperienza, alla percezione e all’uso competente della lingua, diversi da quelli che
conosciamo. In altre parole, per l’uomo occidentale, esiste la cognizione solo come insieme di
processi generali.
Per gli stregoni della stirpe di don Juan, invece, c’è la cognizione dell’uomo moderno e la
cognizione degli sciamani dell’antico Messico.
Per don Juan si trattava di interi universi di vita quotidiana intrinsecamente diversi l’uno
dall’altro.
A un certo punto, a mia insaputa, il mio compito passò misteriosamente dalla semplice raccolta
di dati antropologici all’interiorizzazione dei nuovi processi cognitivi del mondo sciamanico.
Un’interiorizzazione genuina di questi assunti implica una trasformazione, un rapporto diverso
con il mondo di tutti i giorni. Gli sciamani scoprirono che l’impulso iniziale di questa
trasformazione è sempre una forma di devozione intellettuale a qualcosa che sembra un
semplice concetto ma, inaspettatamente, presenta potenti correnti sotterranee” (C. Castaneda,
Gli insegnamenti di don Juan (1968), Milano, BUR, 2005, tit. orig, The Teachings of Don Juan,
A Yaqui Way Of Knowledge, New York, Barror International INC, pp 9/12) .
Altre fonti e approfondimenti bibliografici cfr:
C. Levy-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964;
C. Levy-Strauss, Lo sguardo da lontano, Torino, Einaudi, 1987;
C. Levy-Strauss, Tristi Tropici. L’avventura dell’antropologo, Milano, Il Saggiatore, 2004, tit.
orig. Tristes Tropiques, Paris, Plon, 1955.
C. Prandi, L. Lévy-Bruhl, Pensiero primitivo e mentalità moderna, Milano, Unicopli, 2005;
6. Visioni del mondo diverse: differenti sistemi cognitivi.
“Le parole di don Juan spiegano meglio questo cambiamento:
<<Il mondo di tutti i giorni nn può essere considerato qualcosa di personale, che esercita un
potere su di noi, che può creaci o distruggerci, perché il campo di battaglia dell’uomo non è la
lotta con il mondo circostante.
Il suo campo di battaglia si trova al di là dell’orizzonte, in una regione inimmaginabile per la
maggior parte degli uomini, una regione dove l’uomo cessa di essere l’uomo>>.
Don Juan spiegò queste affermazioni dicendo che, dal punto di vista energetico, era
indispensabile che gli uomini iniziassero a comprendere che l’unica cosa che conta è il loro
incontro con l’infinito. Non riuscì a fornire una descrizione più semplice del termine infinito.
Disse che era energeticamente irriducibile. Non si poteva ricorrere a una metafora per
spiegarlo, né si poteva farvi riferimento se non con termini vaghi (…) stava descrivendo un
fatto energetico.
Per lui, i fatti energetici erano le conclusioni alle quali egli stesso e gli altri sciamani della sua
stirpe erano giunti quando avevano acquisito una funzione che chiamavano vedere: l’atto di
percepire direttamente l’energia che fluisce nell’universo. Questa capacità è uno dei punti
culminanti dello sciamanesimo.
A sentire don Juan Matus, il compito di farmi entrare nell’universo conoscitivo degli sciamani
dell’antico Messico fu svolto in modo tradizionale: fece con me quello che era stato fatto con
qualsiasi iniziato allo sciamanesimo nel corso dei secoli.
L’interiorizzazione dei processi di un sistema cognitivo diverso iniziava sempre focalizzando
l’attenzione degli iniziati sulla presa d coscienza della nostra condizione di esseri avviati verso
la morte. Don Juan e gli altri sciamani della sua stirpe erano convinti che la piena
consapevolezza di questo fatto energetico, di questa verità irriducibile, avrebbe portato
all’accettazione della nuova cognizione.
Il risultato finale che gli sciamani come don Juan volevano far raggiungere ai loro discepoli era
una consapevolezza che, proprio per la sua semplicità, è molto difficile da ottenere: la
consapevolezza che siamo esseri destinati a morire. Di conseguenza, la vera battaglia
dell’uomo non è quella che combatte con i suoi simili, ma con l’infinito, e non si può neppure
parlare di una battaglia; si tratta, sostanzialmente, di un’accettazione. Dobbiamo accettare
volontariamente l’infinito.
Nell descrizione degli stregoni, le nostre vite hanno origine nell’infinito e terminano dove hanno
avuto origine: nell’infinito.
(…)
Don Juan mi spiegò che il fatto energetico, fondamento del sistema cognitivo degli sciamani
dell’antico Messico, era che ogni sfumatura del cosmo è un’espressione di energia. Grazie alla
loro facoltà di vedere l’energia direttamente, gli sciamani scoprirono il fatto energetico che
l’intero universo è composto da una coppia di forze, opposte e complementari al tempo stesso,
che chiamavano energia animata ed energia inanimata.
Don Juan sosteneva che gli sciamani dell’antico Messico erano stati i primi a vedere che tutti
gli organismi della terra possiedono energia vibratoria. Li chiamarono esseri organici e videro
che è l’organismo stesso a determinare la coesione e i limiti di questa energia. Videro anche
che ci sono agglomerati di eneria animata, vibratoria, che possiedono una propia coesione,
indipendentemente dai legami di un organismo.
Li chiamarono esseri inorganici e li descrissero come masse di energia coesa che risultano
invisibili all’occio umano: un’energia che è consapevole di se stessa e possiede un’unità
determinata da una forza aggregante diversa dalla forza aggregante di un organismo.
Gli sciamani della stirpe di don Juan videro che la condizione essenziale dell’energia animata,
organica o inorganica è quella di trasformare l’energia dell’universo nel suo complesso in dati
sensoriali.
Nel caso degli esseri organici, questi dati sensoriali si trasformano quindi in un sistema di
interpretazione nel quale l’energia viene classificata, e a ogni classificazione, qualunque essa
sia, viene assegnata una determinata reazione(C. Castaneda, Gli insegnamenti di don Juan
(1968), Milano, BUR, 2005, tit. orig, The Teachings of Don Juan, A Yaqui Way Of Knowledge,
New York, Barror International INC, pp 13/15)”.
7. Lo sciamanesimo come teoria della conoscenza:
“Secondo la logoca delle sciamani, nel caso degli esseri umani, il sistema di interpretazione dei
dati sensoriali è la loro cognizione.
Essi sostengono che la cognizione umana ouò essere temporaneamente interrotta, dal
momento che si tratta semplicemente di un sistema tassonomico, nel quale le reazioni sono
state classificate insieme all’interpretazione dei dati sensoriali.
Gli stregoni sostengono che quando avviene questa interruzione, l’energia che fluisce
nell’universo può essere percepita direttamente. Essi affermano che percepire direttamente
l’energia è come vederla con gli occhi, anche se gli occhi sono coinvolti solo in parte.
La percezione diretta del’energia consentì agli stregoni della stirpe di don Juan di vedere gli
esseri umani come agglomerati di campi di energia che appaiono sotto forma di sfere
luminose. Osservare gli esseri umani sotto tali sembianze consentì agli sciamani di giungere a
conclusioni straordinarie dal punto di vista energetico.
Essi notarono che ogni sfera luminosa è singolarmente connessa a una massa di energia di
proporzioni inimmaginabili presente nell’universo; chiamarono questa massa l’oscuro mare
della consapevolezza. Osservarono anche che ogni sfera luminosa è unita all’oscuro mare della
consapevolezza in quanto ancora più luminoso della sfera stessa. Gli sciamani lo chiamano il
punto di unione, perché osservarono che è in quel luogo che avviene la percezione. In quel
punto il flusso dell’energia viene trasformato in dati sensoriali e quei dati vengono quindi
interpretati come il mondo che ci circonda.
Quando gli chiesi di spiegarmi come avveniva il processo di trasformazione del flusso di
energia in dati sensoriali, don Juan rispose che l’unica cosa che gli sciamani sanno a questo
proposito è che l’immensa massa di energia chiamata l’oscuro mare della conoscenza fornisce
agli esseri umani tutto ciò di cui hanno bisogno per trasformare l’energia in dati sensoriali. Un
processo simile non avrebbe mai potuto essere decifrato a causa della vastità della fonte
originaria. (…)
Ad esempio, mi mise in guardia sul fatto che il mio mondo quotidiano non fosse governato
dalla mia percezione, ma dalla mia interpretazione della percezione. (C. Castaneda, Gli
insegnamenti di don Juan (1968), Milano, BUR, 2005, tit. orig, The Teachings of Don Juan, A
Yaqui Way Of Knowledge, New York, Barror International, INC, pp. 15/17)”.
Per me c’è solo un viaggio su strade che hanno un cuore, qualsiasi strada abbia un cuore.
Là io viaggio, e l’unica sfida che valga è attraversarla in tutta la sua lunghezza.
Là io viaggio guardando, guardando, senza fiato.
Don Juan
Per ulteriori approfondimenti bibliografici cfr:
C. Piccardo, A. Benozzo, Etnografia organizzativa, Milano, Cortina, 1996;
H. Schwarttzman, Ethnography in Organizations, London, Sage, 1993;
J. P. Spradley, The Ethnography Interview, New York, Rinehart & Winston, 1979.