percorsi museali - Comune di Santa Maria a Monte

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percorsi museali - Comune di Santa Maria a Monte
Comune di Santa Maria a Monte
Provincia di Pisa
SETTORE 3
OGGETTO
ALLESTIMENTO DEGLI SPAZI ESPOSITIVI ALL’INTERNO DEL PROGETTO
DI VALORIZZAZIONE DEL CENTRO STORICO E RECUPERO DELL’AREA
DELLA ROCCA CON DESTINAZIONE A COMPLESSO ARCHEOLOGICO E
MUSEO DEL TERRITORIO
Documentazione di gara
DESCRIZIONE PERCORSI MUSEALI
Progettista
Dott. Luigi Degl’Innocenti
RUP
Dott. Luigi Degl’Innocenti
Collaboratore
Dott. Mariano Boschi
Santa Maria a Monte Febbraio 2014
Descrizione Percorsi Museali
Mancando in Santa Maria a Monte un luogo deputato a celebrare la memoria storica e religiosa della propria
patrona Beata Diana Giuntini, l’Amministrazione Comunale ha l’intenzione di intitolare alla suddetta Beata
il Museo Civico la cui apertura è prevista per la prossima Pasqua. I locali previsti per l’esposizione fanno
parte di un edificio (si vedano le planimetrie allegate) situato in continuità con l’area archeologica della
Rocca.
Il progetto dovrà destinare negli ambienti al piano superiore il percorso più prettamente archeologico, dal
momento che i vani permettono, attraverso una serie di aperture, di interagire anche visivamente con l’area
del parco archeologico, il cui accesso per di più è consentito proprio dal piano primo. Almeno nella prima
fase di inaugurazione, tale percorso archeologico dovrà essere a carattere temporaneo. L’esposizione, dal
titolo “Prima della Rocca. Etruschi, Romani, Longobardi nel territorio di Santa Maria a Monte”, dovrà essere
il naturale esito del programma di recupero e presentazione del patrimonio archeologico del territorio
comunale di Santa Maria a Monte, visto nella più ampia prospettiva del Medio Valdarno Inferiore ed,
incentrandosi sui materiali provenienti dallo scavo di Sant’Ippolito in Anniano, dovrà illustrare la nascita del
complesso dapprima ecclesiale, poi civile e militare, della Rocca di Santa Maria a Monte. Per quanto
riguarda il fabbisogno espositivo, che dovrà in ogni caso tener conto della possibilità di essere reimpiegato
per altre esposizioni, si ritiene adeguata la dotazione di due contenitori, che esporranno rispettivamente
materiali d’età etrusca e romana, e d’età tardo antica, fino all’arrivo dei Longobardi (VII sec.).
L’illustrazione del percorso espositivo, i cui contenuti saranno forniti dalla Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Toscana, sarà distribuita in un numero di pannelli da valutare anche in relazione alle
dimensioni dei vani.
Per quanto riguarda invece l’esposizione definitiva, sempre relativa al percorso archeologico, questa dovrà
tenere conto dei reperti provenienti dagli scavi compiuti sulla Rocca, e sarà meglio definita in ragione della
disponibilità dei materiali.
Al piano terra invece dovrà trovare collocazione la tematica più legata alla storia locale e alla figura della sua
patrona, la Beata Diana Giuntini. Un primo percorso, ideato come una sorta di “benvenuto” ai visitatori,
dovrà legare lo stemma del Comune di Santa Maria a Monte, visto sia nella sua versione attuale sia nella sua
veste quattrocentesca, alla statua medievale della Madonna col Bambino. Di seguito si forniscono i contenuti
sulla base dei quali sviluppare l’allestimento, che potrà prevedere l’utilizzo sia della semplice pannellatura
sia di strumenti più multimediali e interattivi:
Lo stemma di Santa Maria a Monte (fotoriproduzione dello stemma). Il simbolo che contraddistingue la
comunità di Santa Maria a Monte è composto, al centro, dalla figura della Beata Vergine che, vestita con una
tunica rossa e un manto verde, sorregge sulle ginocchia il Bambino benedicente. La Madonna, dotata come il
Figlio di aureola dorata, è seduta su una nuvola argentata posta sopra un monte dorato e campeggia su uno
sfondo di colore azzurro. Lo stemma, collocato su di uno scudo sannitico, è sormontato da una corona
d’argento, mentre nella parte inferiore è accompagnato da una composizione formata da una fronda di
quercia con ghiande dorate a destra, e da una fronda di alloro con drupe d’oro a sinistra, entrambe legate
centralmente da un nastro tricolore.
Lo stemma nel Quattrocento (manoscritto da esporre: dimensioni 66 x 42 cm.). Contenuto nel fondo
“Deliberazioni” dell’Archivio Storico del Comune di Santa Maria a Monte, è possibile trovare, alla carta 142
verso del volume 9, quello che con una buona dose di sicurezza è identificabile con il più antico stemma
disegnato di Santa Maria a Monte. Visibile in alto a sinistra del foglio, il simbolo araldico è posto ad
ornamento della relativa delibera databile al 1424. Purtroppo non decorato con colori, lo schizzo ha
comunque il merito di raffigurare, seduta su un trono chiuso in alto da tutta una serie di archetti ornamentali,
la Vergine Maria con in braccio il Bambin Gesù, sostenuto anche in questo caso sulle ginocchia.
Anche se in maniera ancora embrionale, il disegno fa emergere due elementi propri del periodo
quattrocentesco-rinascimentale: si tratta, in primo luogo, dell’abbozzo di prospettiva con cui il disegnatore
cerca di rendere la seduta dove si trova la Madonna; secondariamente, è possibile leggere il tentativo di
raffigurare il manto della Madre di Gesù tramite un panneggio molto mosso e variato, capace di svelare e di
assecondare, specie nella parte inferiore, le forme del corpo.
Altri elementi interessanti sono i due simboli disposti sui piedistalli dei due montanti del trono, in
corrispondenza della copertura cuspidata: a sinistra il leone, figura del popolo e testimone di come
quest’ultimo avesse raggiunto, tramite l’istituzione comunale, una certa autonomia; a destra il giglio, il quale
rimandava alla supremazia di Firenze, che nel 1327 si impadronì del castello di Santa Maria a Monte.
L’origine dello stemma (fotoriproduzione della Madonna lignea). È molto probabile che il simbolo di Santa
Maria a Monte possa essere derivato da una delle più preziose e antiche opere d’arte del territorio: si tratta
della Madonna in trono con Bambino, scultura in legno dipinto e dorato oggi collocata in un’edicola ricavata
sulla parete absidale alla destra dell’altar maggiore della Collegiata di San Giovanni Apostolo ed
Evangelista.
Secondo la tradizione, essa proviene, assieme al pulpito e al crocifisso ligneo visibili anch’essi all’interno
della Collegiata, dall’antica pieve di Rocca intitolata a Santa Maria Assunta. Addirittura Torello Gerbi,
autore nel 1883 di un libello intitolato Cenni storici, civili, militari e religiosi di Santa Maria a Monte,
sostiene che queste tre opere si fossero miracolosamente salvate dall’incendio che distrusse la pieve. Ciò che
invece appare sicuro è quanto scrive Valentino Felice Mannucci nel 1745, a proposito della collocazione
della Madonna. All’interno delle Notizie della terra di Santa Maria a Monte nel Valdarno di Sotto, il
Mannucci testimonia infatti come la «statua rappresentante Nostra Signora col suo Figlio, che tengono il
Rosario nelle mani» fosse «tenuta in venerazione» all’interno di una cappella dedicata alla Santissima
Vergine del Rosario, collocata sulla parete sinistra dell’ingresso, di seguito all’altare intitolato alla
Santissima Annunziata.
Sul piano stilistico, la statua lignea è rappresentata secondo gli schemi ricorrenti nella Toscana del XIII
secolo: il Bambino, raffigurato nell’atto di benedire, anziché essere collocato al centro ed in perfetta
frontalità, appare decentrato, seduto sul ginocchio sinistro della Vergine. Il gusto schiettamente romanico si
manifesta nella salda squadratura delle forme e nella semplificazione dei panneggi che si susseguono fra le
ginocchia della Madre con profondi incavi creando una figura grave animata da una bellezza regale e
semplice al tempo stesso. La veste è ornata in alto da sette bottoni vitrei ed il più grande, sul petto, reca la
data del 1255 e il nome di un Lippus Optimus Vir, stessa scritta che figura anche sull’alzato del basamento
quadrangolare con gli angoli smussati; non è dato sapere se il nome inciso sia quello dell’esecutore o del
committente dell’opera. Oltre che dagli originali bottoni la veste è ornata da una cintura con una fibbia-nodo
dal lembo cadente decorato con piccoli fiori stilizzati. L’opera è attribuita alla scuola di Giotto e comparve
anche alla mostra giottesca del 1937 e a quella d’arte sacra allestita dalla Diocesi di San Miniato nel 1969.
L’incoronazione della Madonna (fotoriproduzione/bolla vescovile da esporre; dimensioni: 55,5 x 42 cm.). È
possibile notare come la Madonna con una mano regga lo scettro e con l’altra il Bambino, mentre ambedue i
soggetti presentano sul capo corone in argento. Questi ultimi preziosi ornamenti sono recenti: ce lo
testimonia la bolla con cui nel 1955 Monsignor Felice Beccaro, «per la grazia di Dio e della Santa Sede
Apostolica Vescovo di San Miniato», volendo celebrare i sette secoli precisi di venerazione, aveva decretato
l’incoronazione della statua lignea della theotokòs, la Madre di Dio, affidando al suo confratello
nell’episcopato, Monsignor Fausto Baldini, Vescovo di Massa Marittima e Piombino, già Proposto di Santa
Maria a Monte, la celebrazione liturgica della cerimonia.
Il rito ebbe luogo in Piazza della Vittoria il 7 agosto 1955 con un grande concorso di popolo. A ricordare
questo grande evento mariano rimane la bolla vescovile esposta, che richiama le motivazioni per cui il
Vescovo di San Miniato con il popolo di Santa Maria a Monte intendevano rendere un omaggio speciale alla
Beata Vergine Maria e a suo Figlio.
Per quanto riguarda invece il secondo percorso museale, questo dovrà coinvolgere la figura storica e
religiosa della Beata Diana Giuntini. Lo scopo dovrà essere quello di riuscire a dipanare, attraverso gli
elementi esposti, la storia biografica della patrona, il cui allestimento potrà avvalersi, anche in questo caso,
sia della pannellatura sia di una strumentazione più interattiva e dinamica. Di seguito si forniscono i
contenuti sulla base dei quali sviluppare tale percorso museale:
La Beata Diana Giuntini. Il corpo della Beata Diana Giuntini riposa nella chiesa Collegiata di San Giovanni
Apostolo ed Evangelista di Santa Maria a Monte. E’ questo il primo segno evidente della sua esistenza ma
soprattutto della devozione che le è stata da sempre tributata: il corpo di una giovane donna si è conservato
per molti secoli, mantenendosi integro e sano e senza subire le alterazioni a cui sarebbe soggetta
normalmente una salma.
Difficile ricostruire la vita della Beata perché, a fronte di un cospicuo numero di opere agiografiche scritte
nel corso dei secoli soprattutto da ecclesiastici che hanno vissuto a Santa Maria a Monte, scarseggiano i
documenti archivistici diretti. Tuttavia, lo scopo del percorso museale è quello di cercare di dipanare,
attraverso i documenti esposti (siano essi archivistici, artistici o letterari) la storia biografica di una Beata “a
furor di popolo” che, a distanza di settecento anni dalla sua morte, continua a stimolare l’interesse e la fede
di un paese intero e non solo.
Il Libro d’oro (fotoriproduzione/manoscritto da esporre; dimensioni: 57 x 37 cm.). Proveniente dalla
Parrocchia di San Giovanni Apostolo ed Evangelista di Santa Maria a Monte, il libro cosiddetto “d’oro” è un
manoscritto cartaceo che raccoglie non soltanto documenti religiosi sopravvissuti alla distruzione fiorentina
del castello fatti trascrivere da Clemente Mazzei, pievano dal 1450 al 1485, ma anche altre fonti di vario
genere sia precedenti al 1450 sia risalenti ai primi anni del XVIII secolo.
Tra questi ultimi documenti figura la Vita della Beata Diana di Santa Maria in Monte, scritta dal Canonico
Giovan Battista Dini, priore della Collegiata vissuto nella prima metà del XVIII secolo. Nello scrivere tale
testo, databile all’aprile del 1713, il Dini è mosso da un comprensibile intento devozionale, il quale lo rende
prolifico nel narrare numerosi miracoli compiuti in vita dalla Beata ma allo stesso tempo lo allontana da
quella che è molto probabilmente la verità storica degli eventi. Ad ogni modo tale scritto, anche se in realtà
risulta poco attendibile visto che l’autore, affidandosi quasi esclusivamente al culto presente nei fedeli, non
compie alcuna indagine storica né documentaria, ha rappresentato la principale fonte da cui generazioni di
santamariamontesi hanno conosciuto la vita e le opere della Beata Diana, loro patrona.
Il Dini fa nascere la Beata da genitori nobili e anziani che riescono ad avere quest’unica figlia per grazia
ricevuta: il padre sarebbe stato Maffeo di Giorgio Giuntini e la madre Maria un’esponente della famiglia
Ghislieri di Bologna. Nodi ben più complessi da sciogliere sono le date di nascita e di morte: anche se il Dini
farebbe vivere Diana dal 6 maggio 1187 al 1231, inquadrandola in una vita di povertà e di penitenza, è
necessario posticipare di circa un secolo la datazione; alla luce del vasto e complesso movimento eremiticopenitenziale che interessò l’Italia nel corso del XIII secolo, è infatti possibile affermare con sufficiente
sicurezza che la Beata visse tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento.
L’ospedale della Beata Diana (manoscritto da esporre; dimensioni: 66 x 42 cm.). L’unico dato documentario
sicuro che riguarda la Beata Diana è l’esistenza a Santa Maria a Monte nel 1373 di un ospedale della Beata
Diana, come confermato da un documento contenuto nel terzo volume appartenente al fondo “Deliberazioni”
dell’Archivio Storico del Comune di Santa Maria a Monte. Ciò attesta che già nella seconda metà del
Trecento Diana era oggetto di venerazione, dal momento che le è tributato l’appellativo di “Beata”, e
soprattutto, mettendola in relazione con un ospedale, richiama alla mente l’attività caritativa attribuitale dagli
agiografi, i quali parlano proprio di un ospedale da lei fondato alla morte dei genitori con i beni di famiglia.
Ad onor del vero, non è possibile comunque escludere che la fondazione dell’ospedale da parte della Beata
Diana sia stata dedotta dal fatto che esso risultava a lei dedicato: è probabile infatti che l’ospedale fosse stato
fondato dal Comune di Santa Maria a Monte dopo la morte di Diana, avvenuta sicuramente prima del 1373,
per continuarne la sua opera caritativa che nella mente e soprattutto nel cuore dei santamariamontesi doveva
essere ancora presente.
La Beata del Bamberini (dipinto da esporre; dimensioni: 62 x 73 cm.). Inserito all’interno del più ampio
periodo artistico del barocco fiorentino, Anton Domenico Bamberini fu un pittore attivo tra la fine del
Seicento e la metà del Settecento, prevalentemente in provincia di Pisa, e in particolare nella diocesi di San
Miniato.
Oltre ad affrescare le pareti delle più importanti chiese di San Miniato, come la Cattedrale, il Santuario del
Santissimo Crocifisso e la chiesa dei Santi Jacopo e Lucia, il Bamberini ebbe modo di lavorare nella chiesa
di Santa Cristiana a Santa Croce Sull’Arno, a Marti, nella chiesa di Santa Maria Novella, ed anche a Santa
Maria a Monte. Suoi, infatti, erano gli affreschi che decoravano le pareti della Collegiata. Già fatiscenti,
vennero sostituiti a partire dal 1825 da altri dipinti eseguiti da Luigi Ademollo, tutt’oggi visibili.
Sempre a Santa Maria a Monte il Bamberini realizzò nel 1734, come attesta la firma e la data presenti sul
retro, una piccola tela ad olio, dove rappresentò La Beata Diana. Come documentato da Valentino Felice
Mannucci all’interno delle Notizie della Terra di Santa Maria a Monte da lui redatte nel 1745, la tela era
collocata «sopra l’arco della cappella della Beata Diana», posta a sinistra dell’altar maggiore. Il pittore
raffigura, nella parte sinistra del dipinto, la Beata a mezzo busto, lasciando, nella zona opposta, lo spazio per
lo sfondo occupato dal settecentesco paesaggio di Santa Maria a Monte, con il padule in primo piano.
Appena sotto la veduta, il pittore inserisce tre gigli bianchi, a simboleggiare la sua purezza. La donna,
raffigurata in meditazione mentre tiene con la mano sinistra un libro aperto, viene ritratta con la veste della
monaca agostiniana.
E’ tuttavia da escludersi l’appartenenza della Beata all’ordine agostiniano: infatti l’adesione di Diana alla
regola di Sant’Agostino trae probabilmente origine sia dalle opere degli agiografi agostiniani, i quali erano
logicamente interessati ad inserire anche la Beata fra le glorie del loro ordine, sia da una pala d’altare
quattrocentesca, parte della quale si trova oggi a Varsavia, che comprendeva l’immagine della Beata in abiti
monastici neri, sostanzialmente simili a quelli delle monache agostiniane.
E’ più che probabile invece che Diana, rifiutati i propri averi per dedicarsi ad una vita di perfezione, si fosse
ritirata a vita eremitica e isolata senza legarsi ad enti o istituzioni religiose, magari nei pressi dell’antica
chiesa di San Michele fuori le mura del castello, dove ancora nel XVII secolo esisteva un luogo chiamato il
romitorio di Santa Diana.
L’agiografia a stampa del Can. Dini (libro a stampa da esporre; dimensioni: 22 x 14 cm.). Riprendendo in
forma leggermente diversa quanto da lui scritto nel Libro d’oro della Collegiata di Santa Maria a Monte, il
Canonico Giovan Battista Dini decise di dare alle stampe la Vita della Beata Diana Giuntini, la quale venne
pubblicata per la prima volta nel 1721 in occasione della traslazione del corpo della Beata dalla Cappella
laterale all’altar maggiore.
E’ senz’altro questa l’agiografia che ha avuto la maggior diffusione a Santa Maria a Monte, tanto che ne
vennero fatte numerose ristampe anche in epoche successive. Una di queste è l’edizione risalente al 1851,
stampata dalla Tipografia Bartoletti di Santa Croce sull’Arno e corredata da alcune litografie che vanno ad
affiancare il testo. Una in particolare colloca la Beata, rappresentata a figura intera mentre sorregge con la
mano destra la croce e con la sinistra il libro delle Sacre Scritture, accanto alla «Torre di San Dalmazio, dove
si trovò il corpo della Beata».
Tutta la tradizione agiografica vorrebbe infatti che il corpo di Diana fosse stato sepolto nella chiesa di San
Dalmazio che, cadendo in rovina, fece perdere il ricordo dell’ubicazione della tomba, finché non fu ritrovata
miracolosamente nel 1428, dopo che «stette il sacro corpo della B. Diana nascosto sotto terra
centonovantasett’anni». Due sono i prodigi legati al ritrovamento della salma: alcuni agiografi narrano che i
buoi di un contadino si inginocchiarono con le zampe anteriori nei pressi della sua tomba dimenticata; altri
invece, come il Dini, tramandano la storia di una «fanciullina semplice ed assai divota» che, attratta da un
giglio bianco cresciuto fuori stagione nel prato, sentì la voce della Beata chiedere aiuto per essere
dissotterrata.
Questa tradizione desta non poche perplessità per il fatto che la venerazione popolare che circondava fin da
viva la Beata non poteva far dimenticare la collocazione della sua tomba ed inoltre della chiesa di San
Dalmazio, seppur in rovina, non si era certo perso il ricordo, tanto è vero che il vescovo ausiliare di Lucca,
durante la visita pastorale del 1466, ne ordinò il restauro. E’ più probabile invece che, al momento della
morte, il corpo della Beata rimanesse esposto nella pieve di Rocca, essendo questo l’edificio religioso
principale in cui la salma non venne mai sepolta ma tenuta esposta alla venerazione dei fedeli, sicuramente
fino al 1327. Questo fu l’anno in cui Santa Maria a Monte, munitissimo castello lucchese, fu assediato e
conquistato dai fiorentini, i quali costituirono il perno di tutto il sistema difensivo sulla Rocca, che diventò il
loro presidio e sede della guarnigione militare. Il clero locale dovette perciò trovarsi un’altra chiesa in cui
officiare: la comunità religiosa, in un primo tempo, si spostò verosimilmente nell’altro edificio sacro
presente nelle vicinanze del castello ai piedi del colle. Si trattava della chiesa di San Dalmazio, dove
traslarono anche la salma della Beata. Quando poi il castello venne restaurato e fu terminato l’ampliamento
del piccolo oratorio di San Giovanni, che divenne l’attuale Collegiata, il corpo venne lì definitivamente
ubicato, nella cappella a lei dedicata.
E’ questo l’evento che ancora oggi viene rievocato il lunedì di Pasqua: in onore della Beata una processione
ha inizio dalla cappella posta nelle vicinanze dell’antica chiesa di San Dalmazio, in fondo alla costa della
collina, e sale fino alla Collegiata, a perenne ricordo della traslazione del suo corpo dall’una all’altra chiesa.
La bolla papale di Sisto IV (fotoriproduzione/documento da esporre; dimensioni: 30 x 39 cm.). La Beata
Diana non ebbe mai un vero e proprio processo di beatificazione: a quell’epoca processi del genere erano rari
e le procedure per beatificazioni e canonizzazioni furono fissate solo dopo il Concilio di Trento; prima di
allora era in pratica la voce popolare ad elevare un personaggio agli onori dell’altare fin dal momento della
sua morte, avendone conosciuto la santità di vita. Solo in un secondo momento interveniva l’approvazione
dell’autorità competente, che il più delle volte si limitava ad un tacito consenso. Per quanto riguarda la Beata
Diana il culto venne indirettamente approvato da parte dell’autorità ecclesiastica attraverso una bolla
d’indulgenza concessa dal Cardinale Forteguerri nel 1473. Infatti anche la Santa Sede volle riconoscere il
culto riservato dai santamariamontesi alla Beata Diana: la bolla pontificia emanata dal papa Sisto IV
testimoniava la concessione in perpetuo dell’indulgenza di cento giorni a chi avesse visitato l’altare della
Beata Diana a lei dedicato nella Collegiata, dal primo Vespro del giorno di Pasqua di Resurrezione fino a
tutto il terzo giorno. Tale documento viene dapprima menzionato nella Visita Pastorale fatta da Monsignor
Carlo Cortigiani, Vescovo di San Miniato, dall’anno 1683 all’anno 1689; successivamente viene citato nel
1883 anche da Torello Gerbi nei suoi Cenni storici, militari, civili e religiosi di Santa Maria a Monte.
La Beata dell’Anguillesi (fotoriproduzione/documento da esporre). Nel 1791 Giovanni Domenico
Anguillesi, uno degli esponenti della cultura italiana fra Sette e Ottocento, compose un sonetto in onore della
Beata Diana. Quell’anno la Pasqua cadeva il 13 aprile e probabilmente gli venne commissionato il
componimento in coincidenza con i festeggiamenti celebrati a Santa Maria a Monte, definita dal poeta come
«caro suol natio» e «cara amica terra». La lettera che riporta il componimento fa parte della raccolta
L’epistolario ossia Scelta di lettere inedite famigliari curiose erudite storiche galanti di donne e d’uomini
celebri morti o viventi nel secolo XVIII o nel MDCC, stampata nella Tipografia Graziosi a Sant’Apollinare.
Nato a Vicopisano (Pisa) il 28 aprile 1766 da famiglia modesta, l’Anguillesi, trascorsa l’infanzia a Calcinaia,
si trasferì a Pisa, dove studiò al seminario arcivescovile. Frequentò poi l’università conseguendo la laurea in
giurisprudenza nel 1785. Tuttavia, alla carriera forense, ben presto preferì le lettere italiane e latine. Stimato,
oltre che come uomo di lettere, per la sua probità e per le sue capacità amministrative, ricoprì varie cariche
pubbliche, prima di morire a Pisa il 5 aprile 1833. Appassionato al genere sacro, verso il quale lo spingeva la
sua profonda religiosità, l’Anguillesi, oltre al sonetto sulla Beata Diana, nel 1797 onorò con la sua poesia
Santa Ubaldesca di Calcinaia.
La Beata e la famiglia Carducci. La famiglia Carducci visse a Santa Maria a Monte negli anni dal 1856 al
1858. Nella primavera del 1856 il dottor Michele Carducci, ottenuta la condotta medica presso il paese di
Santa Maria a Monte, da Pian Castagnaio si trasferisce con la moglie Ildegonda Celli ed i due figli Dante e
Valfredo nell’abitazione santamariamontese, ubicata al numero 29 dell’attuale Via Carducci, ed oggi
divenuta “Museo Casa Carducci”, nonché sede dell’Archivio Storico preunitario del Comune. Qui, ogni
sabato, scendendo dalle colline sanminiatesi e percorrendo a piedi diciotto chilometri, si recava a trovare la
famiglia il figlio maggiore, nonché giovane poeta, Giosuè, il quale, negli stessi anni, deteneva la cattedra di
professore di retorica al ginnasio di San Miniato al Tedesco.
Sia Michele sia Giosuè, nel corso del loro breve soggiorno «su la fiorita Collina Tosca», ebbero modo di
entrare in contatto con la devozione che Santa Maria a Monte tributava alla sua patrona, ovviamente
ciascuno secondo le sue competenze: medico-scientifiche per il padre Michele, poetico-letterarie per Giosuè.
La ricognizione di Michele Carducci (fotoriproduzione/documento da esporre; dimensioni: 30 x 39 cm.).
Esattamente il 5 Gennaio del 1857 Michele Carducci, in qualità di medico chirurgo, eseguì una perizia
scientifica sul corpo della Beata, le cui spoglie sono esposte ogni anno alla venerazione dei fedeli il giorno
del Lunedì di Pasqua, dedicato proprio ai festeggiamenti della Beata.
A testimonianza di tale ricognizione rimane il Processo Verbale fatto per il riscontro del Sacro Corpo della
Beata Diana Giuntini in Santa Maria a Monte, conservato nell’Archivio Diocesano di San Miniato.
Quell’anno la Pasqua cadeva il 13 di Aprile e «per soddisfare al voto della Popolazione di Santa Maria a
Monte, desiderosa di solennizzare con straordinario apparato la Festività della Beata Diana Protettrice di
detta Terra […], il Reverendissimo Signor Arciprete Dottore Enrico del fu Filippo Bondi propose ai Molto
Reverendissimi Signori Canonici, rappresentanti il Capitolo di Santa Maria a Monte, che in aumento della
Festa ordinaria annuale si esponesse alla pubblica Venerazione processionalmente il Corpo della Beata
Diana». La proposta venne approvata prima dal Capitolo e poi dal Vescovo di San Miniato «l’Illusstrissimo e
Reverendissimo Monsignor Franco dei Marchesi Maccaroni», il quale «accordò le richieste facoltà a
condizione che il Corpo della Santa fosse preventivamente visitato da un Medico Chirurgo per costatare lo
stato attuale del corpo […], e determinare se fosse in grado di esser trasportato a processione senza pericolo
di detrimento». Nella chiesa Collegiata di Santa Maria a Monte, presso l’altar maggiore dove risiedeva l’urna
della Beata, l’Arciprete Enrico Bondi, in qualità di delegato del Vescovo di San Miniato, procedette dunque
«all’infrazione de’ tre sigilli e alla apertura della Cassa»: erano presenti tre esponenti della Deputazione della
Beata Diana e quattro Canonici rappresentanti del Capitolo di Santa Maria a Monte, oltre a due testimoni e al
medico chirurgo, il dottor Michele Carducci, incaricato a compiere la perizia. Dopo «un diligente esame»
compiuto sul corpo della Beata, il Carducci riferì come quest’ultimo fosse «in uno stato di perfetta integrità
in rapporto al sistema osseo e che tranne poche costole della sezione superiore della regione toracea, esistono
in uno stato mirabile le congiunture dell’estremità superiori fino ad ambo le mani; le quali oltre godere di
uno stato di perfetta integrità, offrono i loro integumenti in stato di disseccazione e le unghie stesse senza
offrire la menoma degenerazione». «Ad una ulteriore osservazione del Sacro Corpo», il dottore constatò
come «anche le estremità esteriori si mantengono in forte legamento di articolazione, e che specialmente
stavano ben congiunte col bacino». Michele Carducci concludeva la sua ricognizione asserendo che
«meraviglioso è lo stato di conservazione di quel Corpo organico, e che il di Lei trasporto processionale non
potrà menomamente alterarlo»; infine «dichiarò con stupore che se portento soprannaturale non avesse
presieduto a questa preservazione, certamente le potenze fisiche avrebbero ridotto ad uno stato fossile quel
complesso organico».
L’ode di Giosuè Carducci (libro a stampa da esporre; dimensioni: 15,5 x 10,5 cm.). Fu in occasione dei
festeggiamenti del 1857, per i quali il padre Michele era stato incaricato di fare la ricognizione sul corpo
della Beata, che nel marzo del medesimo anno Giosuè scrisse l’ode Alla Beata Diana Giuntini, proteggitrice
indigete della terra di Santa Maria in Monte. Il componimento risulta essere un’ode saffica rimata, scritta dal
Carducci sul modello fantoniano e di stampo oraziano: «è la più di gusto antico tra le mie odi oraziane»,
scrive Giosuè all’amico Giuseppe Chiarini il 1 Aprile 1857. Ricollegandosi ad una precisa ricorrenza
religiosa in cui si festeggiava la Beata, celebrata in Santa Maria a Monte il Lunedì di Pasqua, nell’ode si
intrecciano elementi classici precristiani (probabilmente desunti da un’ode di Orazio per la festa del Fauno)
ed aspetti del rito folclorico locale. Il nome stesso della Beata favorisce del resto la compenetrazione del
mondo religioso popolare con il mito classico pagano. L’intenzione era quella di mostrare che «si poteva fare
poesia religiosa tra pagana e cristiana e anche cristiana pura, ma non manzoniana», e che «la fede nella
forma non ci entrava e che pur senza fede si potevano fare le forme della fede del beato trecento» (Carducci,
Opere, 1835-1840, XXIV, 115-116).
L’ode venne inserita dal ventiduenne Carducci nelle Rime, un volumetto composto da 25 sonetti e 13 odi che
venne pubblicato il 23 Luglio 1857 in 500 copie, a spese dell’autore, dalla Tipografia di Massimino Ristori a
San Miniato. La raccolta, che doveva risultare esemplare del suo classicismo giovanile, rappresenta il primo
riconoscimento ufficiale della breve ma intensa attività poetica che l’artista toscano svolse negli anni
Cinquanta dell’Ottocento tra Firenze, Pisa, le amiatine Celle e Pian Castagnaio, e San Miniato al Tedesco,
dove egli andava ad insegnare retorica al ginnasio.
La ricognizione del 1999. Nel mese di Maggio 1999, su richiesta della “Congregazione della Beata Diana
Giuntini” di Santa Maria a Monte e per volere di Monsignor Edoardo Ricci, Vescovo della Diocesi di San
Miniato, il gruppo di paleopatologia dell’Università di Pisa ha effettuato, alla presenza del proposto Don
Alvaro Gori, la ricognizione delle spoglie mortali della Beata Diana Giuntini, conservati nella Collegiata di
San Giovanni Apostolo ed Evangelista a Santa Maria a Monte.
Tale ricognizione ha finalmente consentito di stabilire alcuni punti fermi indispensabili per la ricostruzione
di una biografia certa della Beata. Intanto Diana morì in giovane età, fra i 20 e i 30 anni. Questo non farebbe
altro che giustificare l’assenza di documenti d’archivio che la riguardino: in questo ridotto arco di tempo è
dunque abbastanza probabile che Diana non abbia avuto modo di stipulare contratti o di essere destinataria di
qualche decreto vescovile. In più, se prendessimo per buono il 1287 come anno di nascita, proposto dai più
“affidabili” agiografi della Beata, la morte della Beata non dovrebbe essere posteriore al trentesimo anno
d’età, cioè al 1317.
Altro dato emerso è il processo di “mummificazione naturale” subito dalla salma: ciò implicherebbe che il
corpo della Beata non fu mai inumato, in accordo con l’ipotesi di una immediata venerazione delle spoglie
mortali di Diana, al punto che, in assenza di segni di decomposizione, esse rimasero perennemente esposte
nell’antica pieve di Rocca.
Infine le ginocchia presentano un forte ispessimento della cute, i suoi denti rivelano scarsi segni di usura,
mentre le ossa del bacino non recano i segni che si produrrebbero in seguito all’espletamento di un parto. I
denti poco consumati sono senz’altro prova di un’alimentazione non solo povera, ma anche scarsa;
l’ispessimento della cute in prossimità delle ginocchia ci indurrebbe a pensare Diana genuflessa a lungo in
preghiera e l’assenza dei segni del parto nelle ossa si accorderebbe con uno stato di vita verginale. Questi
dati, letti complessivamente, non fanno altro che confermare come la Beata Diana fosse stata una ragazza,
morta in giovane età, dedita completamente alla vita contemplativa.
I contenuti sopra forniti sono da considerarsi la base, il filo logico essenziale su cui costruire i percorsi
museali riferibili al piano terra, i quali potranno usufruire di fotoriproduzioni per quanto riguarda alcuni
elementi esposti (sopra segnalati), qualora non pervenissero in tempo utile le autorizzazioni degli enti
preposti.
Dott. Mariano Boschi