Rischio educ. 13 febbr06 - Centro Culturale A.Manzoni Bresso

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Rischio educ. 13 febbr06 - Centro Culturale A.Manzoni Bresso
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L’EDUCAZIONE: UNA SFIDA DA RACCOGLIERE
Presentazione del libro “Il rischio educativo” di don Luigi Giussani
Bresso, 13 febbraio 2006
Relatori:
prof. LORENZO ORNAGHI, Rettore dell’Università Cattolica di Milano
prof. FRANCO NEMBRINI, presidente della FOE
MARIO GATTI, moderatore
Come sapete è stata lanciata una campagna "Se ci fosse un’educazione del popolo tutti
starebbero meglio”. Questa campagna, per rivalutare e rimettere al centro dell’attenzione
l’educazione, parte dalle considerazioni di un libro che per moltissimi è stato sostanzialmente
un’esperienza e un metodo, “Il Rischio Educativo”.
Questa sera vogliamo presentare questo libro, chiedendo al Rettore della Università Cattolica
di Milano, professor Lorenzo Ornaghi e al professor Franco Nembrini, presidente della
federazione Opere educative e dirigente del Complesso Scolastico “La Traccia “ di Calcinate,
di esemplificare per come è possibile, il contenuto e il metodo di questo libro e soprattutto le
ragioni per le quali è importante leggerlo, e, nella situazione attuale, riaffermare l’essenzialità
del problema dell’educazione, le implicazioni e le esperienze educative in atto proprio a partire
da questo metodo. Teniamo conto che il problema educativo riguarda non solo il mondo della
scuola ma di tutta la società e che si può vedere in tutti gli aspetti della vita sociale del
nostro Paese.
prof. FRANCO NEMBRINI
Grazie. Sono imbarazzatissimo di parlare prima del Rettore dell’Università Cattolica, avevo
ipotizzato di poter aggiustare il tiro del mio intervento dopo il suo. Già avevo detto agli
organizzatori che ci tenevo molto ad esserci a questo incontro, proprio per sentire dal
Rettore l’importanza di questo libro nella situazione attuale della nostra società.
Vi offro così alcune suggestioni, alcune esemplificazioni rispetto a quel che contiene questo
libro che mi accompagna da più di trent’anni, studente prima, insegnante poi e soprattutto
padre di famiglia, illuminando l’esperienza educativa in atto su tutti questi fronti.
Vi racconto quel che ho visto, ho imparato, cercando di vivere con i miei figli, i miei alunni, i
miei amici quel che nel libro è descritto e quel che è accaduto di fronte alle grandi parole, alle
grandi verità in esso contenute, perché non si finisce mai di impararle, di esserne illuminati
nelle esperienze in atto, così da non finire mai di approfondirle, di lasciarsene provocare, di
desiderare di andare ancora più a fondo, perché la vita rimanda continuamente al testo e il
testo rimanda continuamente alla vita, illuminandola, giudicandola, cambiandola. Questo è
possibile per il rapporto personale con questo testo, ma anche perché è la descrizione di quel
che è stato il mio rapporto personale con l’autore del libro. Se mai un giorno infatti dovessi
scrivere un testo sull’educazione, lo intitolerei “ Ho visto educare”.
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Per me è stato infatti guardando due grandi figure di padri, mio padre e don Giussani, che ho
capito quel poco che cercherò di dirvi.
Prima però voglio rispondere alla domanda perché valga la pena di leggere il libro,
raccontandovi quel che mi è successo pochi giorni fa. Ho ricevuto da una città italiana, una
telefonata di una dirigente di un istituto statale omnicomprensivo, materna, elementare e
media. Questa preside mi raccontava che da due anni, all’interno del Collegio Docenti, era
stato deciso di lavorare sul tema dell’educazione perché a tutti gli insegnanti era troppo
evidente ormai che la scuola non potesse limitarsi a istruire ma, proprio svolgendo il compito
che le è proprio, cioè l’istruzione, dovesse assumersi una responsabilità educativa; e nello
stesso tempo che era stato deciso di studiare da dove cominciare, quale metodo fosse
possibile per cominciare ad educare nella situazione attuale. Così avevano cominciato a
studiare diversi metodi, salesiano, montessoriano ecc.. Mi ha raccontato tutto il percorso di
questo Collegio Docenti alla ricerca di un metodo vincente, finché si era imbattuto nel metodo
descritto ne “ Il rischio educativo” di questo prete che la dirigente non conosceva e di cui non
aveva mai sentito parlare. Con tutto il Collegio si era approfondito il testo, cercando di
coglierne i significati e le implicazioni, arrivando alla conclusione che il metodo lì descritto
fosse estremamente convincente, adeguato alla situazione e alla sensibilità di tutti gli
insegnanti. All’unanimità il Collegio Docenti aveva assunto “Il rischio educativo” come
l’indicazione pedagogica, come il metodo educativo della scuola, fino al punto da che decidere
di intitolare la scuola stessa a “Don Luigi Giussani”. La telefonata era perché le sembrava
corretto chiedere il parere dei responsabili di Comunione e Liberazione, di cui don Giussani è il
padre fondatore.
Non credevo alle mie orecchie, provate a pensare all’itinerario che questi insegnanti hanno
fatto:
1) che tutto il Collegio Docenti decida che la scuola non può accontentarsi di istruire (e c’è da
immaginare che lo facciano bene!) ma che è luogo di educazione,
2) che vada alla ricerca di un metodo perché nessuno dei professori sa di averlo in tasca e
desidera vedere cosa dicano i grandi maestri con esperienze in atto,
3) che ne “Il rischio educativo” abbiano intravisto una possibilità condivisibile e adeguata.
Mi ha anche fatto degli esempi concreti: mi ha raccontato che nella loro scuola hanno il
problema dell’integrazione di culture diverse, di immigrati stranieri in numero molto alto.
Quando hanno letto le pagine in cui don Giussani spiega che non si può se non partire dalle
esigenze del cuore, dall’esigenza di felicità che è propria del cuore umano, che questo cuore,
questa esigenza di bene, di bellezza, di verità, questa ipotesi positiva della realtà in virtù della
quale poter incontrare i bambini e accompagnarli nella crescita, è lo stesso per tutte le razze,
per tutte le età, per tutte le situazioni sociali, hanno intuito che quello era il metodo giusto.
Partire dal cuore, dalle esigenze del cuore riconosciuto nella sua natura, nella sua struttura
fondamentale, è ciò di cui avevamo bisogno per impostare seriamente il problema del dialogo
inter-religioso, inter-culturale, ecc.
Basterebbe questo per dirci perché valga la pena leggere il libro.
Pensate che io con i miei amici stiamo facendo incontri e assemblee in tutta Italia e all’estero
su questo libro ed emerge ovunque, dal preside della Sierra Leone come da quello del Rettore
dell’Università Cattolica di Budapest, che l’idea portante de “Il rischio educativo” è vincente e
avvincente perché pone la questione nei suoi termini radicali, proponibili a tutti. E’ veramente
una sfida culturale che io, i miei amici e chi conosce questo testo andiamo portando in giro,
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con la scoperta che è una sfida ritenuta percorribile, interessante da tutti, da qualsiasi
religione o situazione provengano.
Posso aggiungere, nella mia esperienza di insegnante e di padre, insisto su questo perché ho
avuto la fortuna di avere un padre straordinario e queste cose le ho annusate, le ho respirate
fin da piccolo,
le parole sintetiche per capire questo libro.
1) Occorre capire la prima frase del libro, con la gigantesca definizione di educazione che don
Giussani recupera dal teologo Jungmann “L’EDUCAZIONE È UN’ INTRODUZIONE ALLA
REALTÀ” e poi aggiungerà, nelle pagine successive, che è un’introduzione alla realtà totale.
Quando oggi incontro i ragazzi, alunni o figli, la prima impressione chiarissima, tragicamente
chiara, è che questi ragazzi crescono senza una adeguata percezione della realtà. Tutta la
tragedia del nostro tempo mi sembra condensabile in questa affermazione: ai nostri figli, ai
nostri giovani rischia di essere rubata la realtà. Dico rubata per sottolineare l’aspetto di
responsabilità grave di una certa cultura, di una certa scuola, di certi giornali, di un certo
modo di fare informazione e formazione…, altrimenti se non sottolineassi questa
responsabilità si potrebbe dire più semplicemente e radicalmente che è venuta meno da parte
di un’intera generazione di adulti, la capacità di educare, cioè la capacità di consegnare ai
propri figli, ai propri alunni, ai propri studenti, un sentimento positivo della realtà.
Questo sentimento positivo della realtà è ciò che don Giussani chiama tradizione, cioè una
ipotesi, un sentimento positivo della realtà che è l’unica cosa che possa far diventare grande
un bambino con un minimo di solidità, di certezza.
UNA TRADIZIONE, CIOÈ IL CONSEGNARE AI PROPRI FIGLI UN SENTIMENTO
POSITIVO DELLA REALTÀ È CONDIZIONE DI CERTEZZA. Questo è il primo grande
termine spiegato ne “Il rischio educativo”. Senza certezza non si diventa grandi.
Faccio sempre un esempio ai miei alunni: un bambino di tre anni che comincia a chiedere il
perché delle cose, chiede agli adulti, in fondo “Assicuratemi che le cose, assicuratemi che la
vita che mi attende, l’ambiente in cui mi trovo, in una parola, la realtà è buona.”
Buona vuol dire fondata, significativa, ultimamente positiva. Senza questa percezione di una
realtà ultimamente positiva non può avvenire la crescita naturale, normale di un bambino.
Questa certezza fonda la salute anche psicologica di un bambino, tanto che se un bambino di
tre anni non ricevesse la risposta certa, ad esempio, che quello che vede in cielo è il sole, non
crescerebbe. Questa sicurezza che il padre comunica è condizione per la normale crescita e
man mano che cresce le domande si approfondiscono e riguarderanno non solo il sole ma il
senso del sole, e del dolore, della vita e della morte… Chiedendo agli adulti, il bambino chiede
di essere introdotto in una realtà che esige, spera sia ultimamente positiva. Perciò il
grandissimo richiamo del Papa fin dal primo giorno del suo pontificato è contro il relativismo,
contro il nichilismo che fa crescere una generazione di giovani tendenzialmente scettica e
perciò disperata, e perciò sempre più spesso violenta. Non si può vivere a lungo tristi senza
diventare cattivi e violenti. I nostri figli pagano questa tristezza, questa incertezza, questa
assenza, quella che io, per grazia di Dio non ho avuto. Io sono cresciuto con un grande padre di
dieci figli, grande uomo di scuola, era bidello, l'ultimo figlio è nato quando il primo aveva 15
anni. Mio padre ha fatto veramente fatica, ammalato da quando aveva 40 anni di sclerosi, per i
trent’anni successivi ha arrancato nella vita nel senso letterale del termine, anche
fisicamente, col suo bastone, vincendo la malattia e combattendola ogni giorno. Quando io
bambino guardavo mio padre, avevo davanti il signore del mondo, era grande perché, avendo
fatto la terza elementare, non sapeva niente dell’istruzione ma sapeva ciò che è importante
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sapere nella vita: sapeva del bene e del male, della vita e della morte, della gioia e del dolore.
E noi bambini, quando lo guardavamo, respiravamo questa solidità, questa certezza. Veramente
era la casa fondata sulla roccia dove abbiamo vissuto e con la certezza, con la letizia che lì
respiravamo, siamo diventati grandi.
Quando don Giussani dice tradizione, dice una cosa così. Ho sempre visto descritta la figura di
mio padre in questa tradizione, cioè in questa capacità dell’adulto di dire al bambino “ la vita è
una cosa buona, è un ‘casino’ ma è ultimamente una cosa buona. Vieni dietro a me, segui i miei
passi, metti i piedi dove li metto io.”
Oggi la generazione di ragazzi sta invece diventando grande con intorno le sabbie mobili per
cui ha paura, è bloccata, non sa dove mettere il passo, dove appoggiare il piede. Chi le dice:
“metti il piede qui,” e poi “no, qui” , e ancora “no, là” ….
In un paesino alla periferia di Milano ho incontrato un ragazzo di seconda media che mi ha
detto: “Io gioco 8 ore al giorno alla Playstation. Mi appassiona il gioco del calcio e ci gioco 8
ore al giorno.” “Bene, se hai questo interesse per il calcio, vuol dire che giocherai alla
domenica con gli amici, andrai allo stadio…- gli dico io.
“ No, niente di tutto questo. Non tiro al pallone, non tifo, non vado allo stadio con gli amici.”
“Come?- lo incalzo io- non hai mai giocato al pallone? Non vai con gli amici al campo?”
E lui serissimo: “ No, vede, nel calcio io perdo. Alla Playstation invece io vinco sempre. Nella
realtà io sono un perdente.”
E’ una stupidata, ma se un ragazzo di 12 anni ha di sé questa percezione, “io nella realtà sono
un perdente”, che cosa gli sta franando sotto i piedi e Dio solo sa cosa ne verrà fuori? Proprio
quel sentimento ultimamente positivo della realtà che sto dicendo.
Questo contenuto è il cuore de “Il rischio educativo”.
Le altre parole si capiscono se si comprende questo cuore, questa idea di una ipotesi
esplicativa, di una ipotesi buona da offrire ai nostri figli, ai nostri alunni. Il resto viene di
conseguenza. Che non vuol dire sapere tutto, anzi è questa la condizione, così introduco l’altra
parola:
2) AUTORITA’, la seconda parola efficace de “Il rischio educativo”.
AUTORITÀ È IL LUOGO FISICO IN CUI QUESTA TRADIZIONE VIENE CONSEGNATA,
dice don Giussani. L’adulto, il padre, la madre, la scuola, l’università, l’adulto che passa per
strada, il nonno, il postino…perché se l’educazione è ciò che stiamo dicendo, riguarda tutti, non
è questione di scuola e di famiglia soltanto, è di tutti, dell’idraulico come del postino,
dell’adulto che cammina per strada ed educa per come si veste, per come cammina, per come
saluta, per come usa il tempo, il tram, la casa….Tutti educhiamo e ci educhiamo. Questo
accompagnarsi verso il proprio destino è proprio dell’uomo, il resto lo fanno anche le bestie.
L’educazione, l’avventura di andare incontro al proprio destino, alla propria realizzazione è
propria dell’uomo, invece. tutti educhiamo ed è responsabilità di tutti educare.
C’è un luogo, che don Giussani definisce autorità, che è proprio il rapporto che consente il
passaggio della tradizione. Bisogna che gli adulti tornino ad essere i luoghi di questa autorità,
nel senso più positivo del termine, dopo anni in cui questa parola l’abbiamo temuta come la
degenerazione del rapporto educativo.
Dobbiamo dirlo con forza: l’autorità, il rapporto, il luogo in cui la tradizione viene consegnata.
Quindi il gesto d’amore, di stima più grande che si possa fare nei confronti dei giovani è
essere autorità, essere autorevoli. E non occorre essere esperti di chissà cosa, di chissà quali
discipline. Soprattutto le mamme, oggi, sembrano non più titolate a essere madri, si
contagiano dalle parrucchiere, forse, leggendo determinato giornali e se non hanno la
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consulenza della psicologa, della assistente sociale, ecc. sembrano essere incapaci di fare i
genitori! Si dichiarano incapaci.
Il mio papà aveva la terza elementare ed è stato un ottimo genitore. Perché il resto si impara
nel tempo della vita, e che gioia tirar grande un figlio e scoprire che poi ha da insegnarti! Ma
occorre prima che ci sia questo rapporto di autorevolezza, perché il figlio diventi più grande
di te, bisogna che prima ti possa venir dietro. Non può diventare padre se prima non è figlio.
Non si educa se non si è educati. Non si educa se prima non si segue un altro.
Allora, torno all’esempio di prima, il figlio che chiede al padre del sole e poi se è il sole che si
muove, e il padre che, un po’ ignorante, risponde che sì, è il sole a muoversi intorno a noi (in
fondo siamo stati secoli a credere questo e gli uomini sono diventati grandi lo stesso!), e il
figlio che si fida in un rapporto, anche in una cosa sbagliata che il padre afferma: questa è la
premessa perché questo figlio, un giorno, possa dire “ Papà, sai che quello che mi avevi detto
era sbagliato? Ho studiato ed è la Terra a girare, non il Sole.” Il padre imparerà da suo figlio,
ma ci vuole questo rispetto e questa stima dell’autorità, del luogo autorevole come condizione
perché una convinzione vera possa maturare nel figlio.
Occorre una tradizione che permette una certezza, un luogo autorevole che permette, don
Giussani la chiama, una coerenza delle cose. Nel rapporto con quella autorità le cose è come se
si mettessero insieme, come se diventassero ordinate.
Per finire, le ultime due parole, che indicano in fondo l’aspetto più intrigante e interessante
del libro, sono VERIFICA E RISCHIO.
VERIFICA, dice don Giussani, UNICA POSSIBILITÀ DI UNA VERA CONVINZIONE.
Bisogna che le ragioni che si sono date, la speranza che si è data, le ragioni che si sono
insegnate, il figlio le prenda su di sé (e che spettacolo quando succede!!!)
Quando tu padre cerchi di insegnare le cose al figlio, vedi che c’è l’età in cui le vive di sponda,
le vive in fiducia, le vive perché gliele dici tu, poi viene il momento in cui tuo figlio salta, vive la
“crisi adolescenziale”, prende le distanze da te e dice: “Adesso vado a vedere se le cose che
mi hai insegnato sono vere per me.”
Questa è la verifica personale, per cui le ragioni, approfondite perfino, corrette dove è il
caso, le ragioni del papà e della mamma, le ragioni dell’insegnante, devono diventare sue, del
ragazzo delle medie e poi soprattutto delle superiori. E un ragazzo, un giovane diventa un
uomo fatto quando le ragioni sono sue, sono la sua convinzione, il suo convincimento, quando
l’ipotesi che gli è stata offerta e testimoniata fino ad allora, finalmente diventa sua, diventa
un’ipotesi in cui si cimenta lui con le realtà e con tutti gli aspetti della realtà che vive, quando
va a vedere se è vero ciò che gli è stato detto.
Questo passaggio comporta un RISCHIO, che è l’ultima parola del libro che dà origine al titolo
e per un certo aspetto è proprio la parola più decisiva.
E’ un rischio, c’è un aspetto di libertà nell’altro così irrinunciabile che mai, mi pare dicesse
Kafka, “neppure la più pazza educazione può estirpare”.
Il senso religioso, la domanda sul senso delle cose, della vita: c’è un aspetto di libertà che non
può mai essere eliminata del tutto. C’è un aspetto di libertà per cui il figlio al quale hai offerto
un’ipotesi educativa, le cose in cui credi, quelle che hanno reso grande la vita a te, può dire di
no. Può dire di no perché c’è un’ultima responsabilità che è sua, tutta sua, solamente sua, ed è
così radicale che può presentarsi come un no.
Portare il peso, la croce di questo possibile no, di questa possibile ribellione, che può durare
un giorno, un anno, una vita, è in fondo la grande fatica di un genitore o di un insegnante. Dare
la vita per l’altro e l’altro si ribella, dice no.
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Ma bisogna resistere, bisogna tenere.
Fatemi allora dire le ultime parole velocissime: se è così, almeno dal punto di vista
dell’esperienza cristiana che vivo, se c’è una parola che può essere considerata sinonimo di
educazione é MISERICORDIA.
L’EDUCAZIONE È MISERICORDIA, CIOÈ UN AMORE ALL’ALTRO PERCHÉ C’È,
cioè prima che la pensi come te, prima che ti dica di sì o di no, prima, ancora prima di ogni
esito e di ogni risposta. Prima. Tant’è che li mettiamo al mondo così, prima di sapere se sono
maschio o femmina, sani o malati, biondi o mori, buoni o cattivi…. Li si mette al mondo per un
atto di gratuità assoluta, che dopo, nel tempo, perdiamo ma all’inizio è un gesto d’amore
assolutamente puro. Bisognerebbe conservare quella purezza, perché l’unica cosa che educa i
figli è che si sentano amati così come sono, prima di chiedere loro di cambiare.
Si chiama misericordia. E’ vero che è una cosa che sa fare solo Dio, ma proprio perché Dio è
venuto sulla Terra e qualcosa ci consente di vivere, di condividere con Lui della sua natura e
della sua pedagogia, si può vivere così, si può vivere in classe, con la moglie, con i figli, tra
amici, con misericordia, cioè volendo bene al punto da portare il loro no.
E’ la parabola del Grande Educatore, di Dio: il figliol prodigo. Quel padre lì era Dio, e se può
accadere a Dio che uno dei figli gli dica: “Senti, delle tue prediche, dei tuoi favori, della tua
Chiesa, dei tuoi preti, dei tuoi amici, non mi interessa più nulla. Dammi la parte che mi spetta
che vado a sprecarla nel peggiore dei modi.” Quel Padre lo ha lasciato andare. Ma che cosa ha
fatto per tutto il tempo? un minuto dopo che il figlio se ne è andato? Ha fatto quella cosa
geniale che don Giussani chiama nel testo FUNZIONE DI COERENZA DELL’ADULTO.
E’ stato lì a tener su la casa, perché sapeva che se mai un giorno il figlio avesse voluto
ravvedersi , bisognava che potesse dire: “ Mi alzerò e tornerò alla casa di mio padre.”
Per poter dire così, bisognava che una casa ci fosse, che la casa rimanesse, fondata sulla
roccia.
Questa è l’unica possibilità che il figliol prodigo ha avuto per ravvedersi.
Anzi per come conosco i figli, che sono un po’ ‘bastardi’ dentro, essi vanno via e lo sanno, ti
guardano e sanno che “ se dopo mi va male, io lo so che tu mi riprendi lo stesso! La rischio
anche…”
Sono così, i ragazzi sono così. Hanno la possibilità di sbagliare e di tornare perché la loro
autorità, il loro riferimento resta come una casa sulla roccia, a cui si può sempre tornare.
Questa misericordia, questo perdono sempre possibile e sempre esercitato, mi pare possa
essere anche culturalmente il segreto dell’educazione, l’inizio dell’educazione.
Quando l’educazione è “Io ti devi insegnare delle cose che tu deficiente non sai” (è la
posizione media dell’insegnante che entra in classe!!), oppure” Io ti devo inculcare e convincere
di certi valori che tu vigliacco non vuoi condividere e invece devi”, cioè quando l’educando
avverte una pretesa su di sé, scatta solo la difesa. E fa bene.
Se si sente abbracciato, stimato e amato prima di cambiare, allora trova l’energia, in quel
rapporto trova anche l’energia per cambiare.
prof. LORENZO ORNAGHI
Non è facile aggiungere cose dopo quel che ha detto il prof. Nembrini con tanta passione e
competenza.
Provo a rispondere un po’ alla larga alla domanda posta dal professor Gatti.
Come si fa a dire o a spiegare perché leggere un libro? Mi verrebbe da dire: “Leggetelo, poi
discutiamo!”
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Ma si può dire: “ Vien voglia di leggere un libro, prendendo magari due passaggi per come
risuonano.” Non conosco un altro metodo per far venir voglia di leggere un libro.
Prima però vorrei dire ciò su cui ci siamo preparati, Nembrini ed io.
Questo è un libro nuovo.
Quando una cosa è nuova? Quando non l’avevo vista prima o non la conoscevo prima. Cioè il
nuovo, è ciò che emerge all’improvviso.
Eppure spesso nell’esperienza nostra, il nuovo tende ad essere il già noto, il già risaputo che
riemerge.
Non vi è dubbio che questo libro, che don Giussani aveva scritto negli anni ‘70, fosse allora un
libro talmente nuovo che, come avete visto, Nembrini sa quasi a memoria, con qualche piccolo
errore che poi vi svelerò.
Nuovo, allora. Ma se uno lo legge adesso è ancora nuovo o no?
Era nuovo allora, quando, dentro il percorso di don Giussani, il tema dell’educazione era
sicuramente un tema talmente inusuale che richiamarlo poteva sembrare quasi o retrogrado o
sovversivo, o reazionario o eversivo.
Dove stava l’elemento invece rivoluzionario? Proprio in ciò che Nembrini ci ha detto.
L’educazione, come molti termini che noi adoperiamo e che diventano termini usurati, usati
talmente spesso che alla fine smarriscono il senso, aveva perso la sua etimologia più profonda.
Educazione: evocare, condurre fuori, chiamare fuori.
Ecco perché è così importante l’elemento della TRADIZIONE, del trasmettere qualcosa.
In quegli anni educare era soprattutto diventato un aggettivo, “educativo”, c’entrava
l’educatore e l’educazione era vista in un rapporto quasi univoco, da maestro a discepolo.
Nembrini ci ha detto: l’educazione, se ci pensiamo, è certo quella dell’educatore rispetto al
bambino o allo studente universitario, è certo quella dei genitori rispetto ai figli, ma, ecco il
passaggio nuovo rispetto ad allora ed anche rispetto ai tempi attuali, è l’educazione del
fratello rispetto al fratello, dell’amico rispetto all’amico fino all’educazione del giovane
rispetto al vecchio.
Questo cosa dice? L’educazione riguarda tutti, e’ responsabilita’ di tutti.
Ecco allora l’apertura nuova di don Giussani, il primo passaggio citato: l’educazione è
introduzione alla realtà. Anzi, è introduzione nella realtà, (prima correzione di Nembrini) come
dice il volantino di questo incontro, citando proprio le prime parole del libro.
Io ti educo, cioè ti metto dentro, mi e ti metto dentro alla realtà. Il punto iniziale di questa
edizione, l’idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani, è il fatto che attraverso i
giovani si ricostruisce una società, perciò il grande problema della società è innanzitutto
educare i giovani.
Il contrario di quel che avviene adesso.
Punto fondamentale allora è che IL PROBLEMA DELL’EDUCAZIONE È IL PROBLEMA DELLA
SOCIETÀ. Lo è, tanto che l’appello che citava il professor Gatti, dice “Se ci fosse
un’educazione del popolo, tutti starebbero meglio”
Se ci fosse un’autentica educazione nella e della società, tutti starebbero meglio.
L’educazione esce da un rapporto puramente inter-individuale, tra me e te, e pur conservando
questo rapporto inter-individuale, assume la connotazione più autenticamente sociale, riguarda
tutti, è responsabilità di tutti. Alla fine tutti starebbero meglio.
Ora porre in quegli anni, gli anni ’70, a partire dal ’68, (anno di grande confusione e subbuglio
sociale, come ben ricordiamo) quel tema, era reazionario o eversivo rivoluzionario.
Di più: quella novità, nel tempo, non si è irrigidita, non è invecchiata.
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Allora, più che il termine “nuovo” per indicare il perché leggere questo libro, è il termine
“giovane”, questo è un libro giovane.
Cosa vuol dire? In che senso? È un libro che sfida il tempo, che resiste al tempo, non nel
senso che non si fa consumare dal tempo, ma che attraversa il tempo, risponde al tempo.
C’è uno dei passaggi nel testo che vi leggo, (devo dire che don Giussani ogni tanto inventava dei
termini, o li usava a modo suo, non era un filologo), un paragrafo che intitola ‘L’educabilità’ che
è termine diverso da educazione:
“ In un recente dibattito mi è stata rivolta la domanda “Come continuare ad essere giovani?”
La risposta ha attinenza con quello che nel Rischio educativo- trattando del tempo maturo in
cui educatore ed educato vivono una stessa esperienza del mondo lavorando “insieme, fianco a
fianco, per un destino che tutti riunisce“ - ho chiamato “una vita che passando avanza in
giovinezza, in educabilità, in stupore e commozione di fronte alle cose. Dovendo indicare la
formula di quella continuità di giovinezza, mi balzano alla mente ancor oggi questi stessi
elementi. “
La seconda parte del titolo del paragrafo è “Educabilità: una continuità di giovinezza”, un
rischio educativo che continua.
Mi viene in mente un’immagine di don Giussani che arriva a lezione una mattina, (le sue lezioni
partivano spesso dall’osservazione del reale) e dice pieno di stupore e di commozione che ,
entrato in chiesa, aveva visto un anziano prete che pregava in latino “Deus qui laetificat
iuventutem meam” Dio che allieta la mia giovinezza. Quel prete aveva 80 anni: appunto, una
giovinezza che nel cammino umano è una giovinezza perenne.
L’educare è allora non un restare, un aspetto del conservare, ma è una continuità.
Credo che nella funzione educativa, questa continuità di giovinezza sia importante.
Libro nuovo sì, che continua nella sua giovinezza.
Mi permetto poi altri due passaggi che nel libro sollecitano la ragione per una lettura, oltre a
quelle ragioni che sapete già.
La prima è proprio riguardo al rischio, “La prova del rischio” pag. 6
“In tale metodo ovviamente si gioca un rischio nell’insistere sulla razionalità del progetto di
fede: non può pretendere di essere una dimostrazione matematica o comunque apodittica. E
si entra in rischio quando si dica che è dall’esperienza che una convinzione può scaturire: non
si tratta infatti di un feeling da evocare, di una emozione pietistica da suscitare, ma di un
impegno che non può barare; si è quindi alla mercè delle sabbie mobili di una libertà. Ricordo
una significativa affermazione di Hans Urs von Balthasar: “egli comprende che, per
comprendere, deve realizzare la verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà
discepolo. Egli si impegna, si affida al cammino.”
Prima annotazione: rischio è uno di quei termini strani, tutti ci accorgiamo che siamo in una
età, in una stagione in cui non si rischia, si fa finta di rischiare, in realtà si chiede più di
essere garantiti, assicurati, protetti che di rischiare; se mai rischio è una cosa che si avvicina
di più all’azzardo.
Rischio è uno di quei termini su cui quelli che per mestiere cercano il significato originario, la
struttura più sepolta, l’etimologia della parola, si sono dati da fare senza capire fino in fondo
dove stia il significato profondo. C’è chi lo fa derivare dal termine greco, chi da quello arabo.
Nel termine greco sta non solo il significato di ‘protezione’, - il padre in primis protegge il
figlio che educa, protegge in maniera autorevole, - ma c’è anche il significato di ‘salvazione’.
Il rischio è secondo i greci, protezione e salvazione.
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Perché il rischio è importante, dice don Giussani ? Perché “in questo modo egli diventerà
discepolo. Egli si impegna, si affida al cammino” citando Hans Urs von Balthasar.
C’era appunto nel volantino di questa sera la frase che spiega cos’è educazione, è “introduzione
nella realtà, la parola realtà sta alla parola educazione come la meta sta al cammino.”
Noi ci accorgiamo che stiamo camminando, che c’è una realtà, ma per capire la realtà, per
amarla ci vuole un’educazione, e ci vuole appunto, attraverso questa educazione, camminare
non a zig zag, ma verso una meta.
La meta, come dice don Giussani, è tutto il significato delle mie domande. E questo vale per
ognuno di noi, vale per la società, vale per i popoli, vale per tutto ciò che è storia, la storia di
ognuno di noi e la Storia che per millenni andrà avanti ancora, fino alla conclusione dei tempi.
C’è però un terzo passaggio, sempre nella prima pagina dell’introduzione:
“Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l’educazione: come educarci, in che cosa
consiste e come si svolge l’educazione, un’educazione che sia vera, cioè corrispondente
all’umano. Educazione dunque dell’umano, dell’originale che è in noi, che in ognuno si flette in un
modo diverso, anche se, sostanzialmente e fondamentalmente, il cuore è sempre lo stesso.
Infatti nella varietà delle espressioni, delle culture e delle consuetudini, il cuore dell’uomo è
uno: il cuore mio è il cuore tuo, ed è il medesimo cuore di chi vive lontano da noi, in altri Paesi o
continenti.
La prima preoccupazione di un’educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore
dell’uomo così come Dio l’ha fatto.”
Sembra la scoperta dell’acqua calda. Eppure, per quando fu detto, per come fu detto, e per
quali conseguenze abbia avuto….qualche elemento per dire che ha funzionato si pone con
evidenza.
Credo che le ragioni per le quali in qualche modo non si possa discutere sul fatto che abbia
funzionato, vengano dette nella prefazione da Nikolaus Lobkowicz, (rettore dell’Università di
Monaco di Baviera, attualmente Presidente dell’Università Cattolica di Eichstatt e membro del
Pontificio Consiglio per la Cultura). Fra le tante ragioni, belle, intelligenti, interessanti, ne cito
una:
“Don Giussani ha opposto a questo atteggiamento (cioè quello per cui viviamo senza
rendercene conto, la realtà non è quella che man mano noi conosciamo ma quella che gli altri ci
dicono essere la realtà) una riflessione di tutt’altro genere (ecco la chiave di lettura secondo
me di questo metodo e della sua efficacia) : come io divento me stesso?”
Se ci riflettiamo, il tornare su questa che potrebbe sembrare un’osservazione semplice, per
un uomo giovane è invece rivoluzionaria.
Come io divento me stesso? Ecco che il compito dell’educatore, ma non soltanto dell’insegnante
verso lo studente, del padre con il figlio, ma anche di ognuno di noi rispetto agli altri, diventa
quanto di più forte umanamente ci sia, quanto di più simile alla misericordia, di cui parlava
Nembrini, ci sia.
Perché, come io divento me stesso? Come faccio sì che aiuto misericordiosamente un altro ad
essere se stesso? Credo che in questo stia uno degli elementi di novità, o se vogliamo di
eterna giovinezza, più forti del libro.
Non so se queste considerazioni siano sufficienti ad invogliare alla lettura, servono però,
credo, a dire a chi lo sfoglia di non prenderlo come un libro che si deve leggere, ma come un
libro in cui si deve cercare, più che una carezza al nostro preconcetto, un pugno alle nostre
false certezze.
Questo credo sia l’applicazione più appropriata e più genia di questo metodo.
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GATTI
Richiederei al professor Ornaghi di capire come all’interno del mondo scolastico ma anche
dell’intera società, questo libro possa essere un pugno nello stomaco.
E come, nel panorama educativo di oggi, ricreare le condizioni per cui questo appello abbia una
sua fruibilità, possa incidere all’interno di questa emergenza.
Se e come questa emergenza si evidenzia all’interno della società e delle attività che
normalmente vengono fatte. E’ vero che c’è l’emergenza educativa ma occorre porre rimedio a
questa emergenza. L’emergenza richiede un intervento, se non vuol restare una parola vuota.
Dice l’appello citato: “E’ diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha
un valore se non i soldi, il potere, la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse,
come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere
senza risposta.”
Come questo appello che segnala una delle emergenze sociali forse tra le più gravi che
esistono in Italia e nell’Europa stessa, come a questa emergenza sull’educazione si può
rispondere oggi e quali sono le modalità per rispondere a questa domanda che i giovani hanno
di essere educati?
Prof. ORNAGHI
Domanda complessa! Provo a dare poche osservazioni.
Emergenza, nel senso che se ci guardiamo attorno qui a Bresso, ma anche a Milano, in Italia ma
anche in Europa, sentiamo rintocchi di realtà preoccupanti. Se guardassimo con gli occhi che
viaggiano sui secoli, potremmo dire che ci sono tutti o quasi tutti i segni per cui grandi realtà,
grandi popoli, grandi civiltà cominciano a declinare, anche perché coloro che compongono una
comunità, un popolo sembrano segnati dall’apatia, dall’indifferenza.
Indicatore che io considero rilevantissimo a testimonianza del fatto che l’educazione sia
un’emergenza è il fatto che non solo i giovani ma anche quelli dell’età più di mezzo, i trentenni
e i quarantenni, si ripiegano sul presente.
Le civiltà che crescono, i popoli più forti sono quelli che guardano lontano, appunto che
considerano che “il cammino ha una meta”.
Nelle nostre società occidentali è come se, in forme diverse, gli uomini non avessero più una
meta, se non quella di conservare ciò che hanno, di difenderlo a tutti i costi, senza un
traguardo, senza un orizzonte. Così, con questa assenza di meta, di orizzonte, le società non
sono destinate a durare a lungo, la Storia ce lo dice.
In questo senso educare secondo quello che abbiamo detto prima, significa una forte
connotazione sociale e, se si intende uscire dall’emergenza, rispondere all’emergenza, la forma
di vita educante ed educativa è la più importante per ridare slancio alle nostre comunità, alle
nostre società.
Che poi si riesca è un altro discorso, ma di sicuro questa è un’emergenza molto di più che il
reagire al declino con il cosiddetto sviluppo economico, perché comunque lo sviluppo economico
ha una sua ciclicità inesorabile, quello educativo no, è “quel cammino verso la meta”.
Come fare? Credo servano pochissimo i discorsi, che alla fine sono solo intellettuali nella loro
forma peggiore, cioè intellettualistici, con serie di affermazioni retoriche che sono le più
pericolose perché producono nei giovani ancor più un rifiuto.
Il meccanismo per rispondere, quindi per dar spazio ad una educazione autentica è
l’esperienza, anche perché la diffusione di un messaggio verbale è breve nel tempo, cioè ha un
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contagio breve, ravvicinato, invece è l’esperienza che assicura un contagio ampio, una
diffusione ampia. Allora non basta dire dell’educazione, occorre praticare l’educazione.
Quanto più la si pratica, quanto più si diffonde. Credo che questo sia il senso dell’esperienza e
che significhi “l’introdurre nella realtà”. Se non ti introduco nella realtà, tu non la conosci.
Questa è la grande diversità tra il soltanto dire, che spesso assomiglia in molte fasi storiche
al mero recitare, e il fare, il mettere in atto.
Se mi sposto da questo angolo di osservazione e faccio il mio lavoro, quale grado di probabilità
ha questa azione di bloccare ed invertire questa tendenza della nostra società? Non lo saprei
valutare perché accanto a questa educazione stanno molte altre cose, stanno le condizioni, sta
la religiosità anche come fattore storico, non in termini di fede.
Se non so misurare le probabilità di invertire la tendenza pericolosa, di sicuro invece posso
dire che non abbiamo molti altri strumenti, oltre appunto all’educazione.
Se intendiamo davvero ricostruire, ridisegnare una comunità, se vogliamo indicare di nuovo un
orizzonte credibile, quindi razionale e ragionevole, credo che non esista altro modo se non
l’educazione.
Il contraccolpo sarebbe uno e uno solo: la ricaduta di nuovo, ahimè, nell’ideologia che per sua
natura nega “l’introduzione nella realtà”. O la ricaduta in una ideologia relativista, nichilista e
per sua natura perdente anche sul piano pragmatico di fronte a chi ha una convinzione forte
dell’ideologia, o in una ideologia con connotati già visti di totalitarismo e di autoritarismo, che
a quel punto sarebbero in segno evidente che il processo storico della civiltà europea è sul
finire.
Il processo allora avrà poco da essere invertito. Comunque sarebbe ancora responsabilità
nostra perché o ci crediamo e lo facciamo, o non ci crediamo e crolliamo,. La scelta individuale
diventa anch’essa un elemento di libertà personale e sociale.
Un altro elemento forte di connessione, bello da leggere ne “Il rischio educativo” è infatti il
tema, sempre stupendo nella storia dell’uomo e mai fino un fondo esplorato, della libertà.
GATTI
Una stessa domanda rivolgo al professor Nembrini. Come nell’esperienza del condurre una
scuola, questa esperienza dell’invertire, del fermare questa emergenza, si pone? Quali sono gli
strumenti che si possono mettere in atto per invertire questa tendenza?
Prof. NEMBRINI
Invertirla, non lo so. Non so se ce la faremo mai. Come ha detto il Rettore, non è misurabile
l’esito storico di un momento così complesso, così difficile, per certi aspetti così
estremamente affascinante.
Stiamo assistendo ad un momento epocale di scontri di civiltà diverse, alcune in declino, altre
dal punto di vista delle convinzioni, estremamente giovani. Lo si vede per l’esuberanza di vita,
per il numero dei figli, per la speranza per un futuro rispetto alla nostra civiltà che vive solo
di un presente, senza orizzonte.
Non so se sarà possibile invertire questa tendenza, o se, come è già accaduto una volta, a
fronte del collasso, del tracollo della civiltà ( i barbari hanno fatta piazza pulita dell’impero
romano, per cui poi ci sono voluti 1000 anni perché dalle ceneri rinascesse una civiltà), occorre
far qualcosa di simile a quel che i monaci hanno fatto in quell’epoca, ponendo le premesse
perché dal disastro una nuova civiltà nascesse.
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I monaci hanno fatto una cosa semplice, hanno creato dei luoghi emblematici, non hanno avuto
la preoccupazione di puntellare quello che veniva giù, non hanno avuto la preoccupazione di un
mondo che se ne andava, hanno cominciato a guardare a sé.
La parola “esperienza” che il Rettore ci ha ricordato mi sembra la chiave di volta.
E nella esperienza quotidiana, affidando a Dio il percorso della storia, come è bene fare
sempre se no non si dorme più di notte, hanno fatto la loro parte.
Ho fatto la mia parte, adesso arrangiati Tu, Signore- dice il Vangelo. E pregavano i monaci,
però facendo fino in fondo la propria parte, dando tutto della vita, dando tutto di sé alle
responsabilità che sentivano di dover vivere. Fu e diventò una grandissima esperienza
educativa. Lì, attorno ai monasteri nacquero le scuole, lì nacquero le Università, lì nacque la
custodia di quell’idea della libertà che poi farà fiorire il meglio della cultura medievale di tutto
l’Occidente.
Bisogna fare qualcosa del genere. Come? Rispondendo per quel poco o quel piccolo che ciascuno
è chiamato a dire e a fare, a mettere in atto.
E’ stato detto nel presentarmi che sono responsabile della scuola “la Traccia” di Calcinate.
Io non ho mai pensato di dover aprire scuole, mi sembrava già un compito importante e
difficile far bene quello che dovevo fare, l’insegnante ed il padre di famiglia. Ero sposato da
poco, quando una sera capitarono da me cinque genitori di paesi vicini, della Bassa bergamasca;
cinque persone semplicissime che per motivi vari erano capitate a casa mia per dire: “Siamo
disperati perché il degrado della scuola dove vanno i nostri figli è veramente preoccupante:
noi in casa cerchiamo di consegnar loro (come abbiamo detto stasera) la tradizione cristiana,
loro sono in una scuola che programmaticamente rema contro, in modo sistematico, in modo
scientifico. Non si può avere una scuola che rispetti il nostro tentativo di genitori?”
Cosa avreste fatto voi? Di fronte ad una domanda così accorata, cosa avreste fatto?
Avreste risposto come ho fatto io: “Proviamoci. Se non c’è, proviamoci a fare una scuola
rispettosa delle nostre tradizioni!”
Abbiamo fondato insieme una cooperativa di genitori che gestiva una piccola scuola. Nel 1984
avevo 29 anni, avevo bambini ancora piccoli, le medie per loro erano ancora lontane…. (poi ti
svegli una mattina che un figlio è già militare!!! Il tempo passa così!)
Non era allora un problema dei miei figli, ma a cinque papà disperati cosa dici? Puoi restare
indifferente? Tiri su le maniche e ci provi. Chiami nuovi amici e ci provi.
Era all’inizio una scuoletta, nata proprio come scuola media per rispondere a quella esigenza.
Abbiamo aperto in condizioni disperate, in una modalità assolutamente pionieristica, di cui
adesso mi vergogno….
Ora, in una località piccola come Calcinate, questa scuola ha 850 studenti, raccolti da 40 paesi
dei dintorni, una elementare, una media, una scuola professionale, due licei, un liceo
linguistico…Pensate, un liceo linguistico a Calcinate, dove la lingua italiana è la prima lingua
straniera perché tutti parlano il dialetto! Riusciamo qualche volta a convincere i ragazzi ad
andare anche all’Università!
Dobbiamo rispondere, tu devi rispondere nel tuo pezzettino.
Questa scuola, nel sistema scolastico generale, non cambierà nulla, ma lì ci proviamo, con i
genitori ci proviamo. Serve la dedizione di una vita, della vita.
Oppure quando ascolto i ragazzi che frequento che mi dicono di come, tra i chiostri
dell’Università Cattolica, ancora si respira aria di educazione, e mi raccontano del tal docente
con cui si incontrano nei chiostri, è una bellezza.
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Come è stato per me. Io non ho potuto frequentare l’università, perché mi toccava lavorare,
frequentavo solo quelle ore indispensabili e poi facevo gli esami, chiedendo il permesso al
lavoro e studiando il sabato e la domenica. Ma quando, alla resa dei conti, ho dovuto cedere
per potermi laureare, per finire gli esami che mi mancavano, ho chiesto al padrone di lasciarmi
a casa per alcuni mesi. Per me è stato il periodo più bello della mia vita, c’era ancora, allora,
don Giussani che insegnava! Il tipo di rapporto che in Cattolica si viveva e ancora si vive
adesso, come mi dicono, era ed è educazione.
Cosa può fare il Rettore della Cattolica, per questa emergenza educativa? Può far sì che quel
luogo dove i ragazzi vanno sia sempre di più un luogo dove si educa, dove si incontra un
maestro, dove si può stare fino a sera perché lì, in qualche modo è la tua casa, lì diventi
grande.
Non con tutti i docenti, non sempre, però che sia sempre di più così.
Il Rettore facesse così, fa la sua parte per cambiare il mondo.
Come si salva il mondo, ci penserà Dio, non deve pensarci lui o noi.
Io nella mia scuola, e voi qui, nel vostro paese, fate tutta la vostra parte.
Siete qui in tanti, se usciste dicendo che la questione educativa vi preme, se i bambini di
Bresso domani avessero di fronte voi adulti che invece di lamentarsi e maledire la vita,
fischiassero per la strada di contentezza, per la positività della vita, affrontassero la vita con
un orizzonte….
Un paese che fischia è un paese che educa, invece non si fischia più, non si canta più.
Nel proprio piccolo, ognuno faccia la sua parte.
Un’ultima cosa su tutto quel che ci ha ricordato il Rettore riguardo all’aspetto sociale
gravissimo: c’è la politica, che in qual che modo, come diceva Paolo VI, è la forma più alta della
carità.
C’è la politica di cui bisogna smettere di parlar male, e bisogna riappassionare i figli alla
politica, cioè al servizio del bene comune. La politica vuol dire che ci sono schieramenti,
partiti, pensieri, posizioni, filosofie da studiare, da cercare di capire. Non è tutto uguale. C’è
un aspetto di responsabilità anche politica, per cui un paese può andare in una direzione o in
un'altra, rispetto ad esempio alle tematiche educative. O ci sono nella stessa coalizione
posizioni diverse da capire, da valorizzare, da combattere, ma c’è una responsabilità politica
che ciascuno di noi porta non solo col voto, ma col lavoro e col dialogo di ogni giorno.
Insomma, ognuno di noi nel suo piccolo può far molto. Dopo, dove andrà il mondo non lo so io e
non lo sapete voi.
Io so che il giorno del giudizio risponderò se ho fatto la mia parte, non se ho salvato il mondo.
Se ho fatto la mia parte, che vuol dire tutta la mia parte, che non è poco perché chiede
sacrificio, oggi in particolare. Ognuno faccia tutta la sua parte.
(Trascrizione dalla registrazione, non rivista dai relatori)
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