chi ha inventato lo spumante

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chi ha inventato lo spumante
CHI HA INVENTATO LO SPUMANTE ?
di Mario Fregoni
Anno 1999 n.6
P
er millenni l’origine delle bollicine del vino è stata considerata misteriosa. Un’idea dello
stato delle conoscenze si può desumere dalle affermazioni del Bacci, medico del Papa,
che scri s e un’opera di 7 libri in latino, che nessun Paese viticolo al mondo possiede lo
tre all’Italia, dal titolo “De naturali vinorum historia de vinis Italiae” (Roma, 1596). escriv en-D
do le caratteristiche del vino Albano, egli sottolinea: «Il fatto che le boll cin e emesse
i
da questo
tipo di vino siano molto vivaci, alcuni giovanissimi scrittori lo attrib iscono u
ad un caso fort i-u
to», ossia alla ch usura
i
della botte che conservava i “fumi” del vino. Il Bacci invece pensava
«che questi fumi spontanei nei vini gener si o o
sono c o
mposti della essenza stessa e della na u- t
ra del vino, o ono
s
senza dubbio caratteristiche particolari della struttura del vino». Succes is
vamente si pensò che si trattasse di fe omeni
n chimici, gli stessi che producevano anche l’alcol.
Fu Pasteu r(182 2-1895), con le sue ricerche sui meccanismi fermentativi, a chiarire che le bollicine
provengono pre alentemente
v
dalla fermentazione operata dai lieviti, che trasformano gli zuccheri in
alcol ed anidride car onica,
b
oppure dai batteri della malolattic cheadall’acido malico ricavano acido
lattico ed anid ide
r carbonica, ga -quest’ultim
s
-oche emergendo dal vino dà le bollicine
.
L’introduzione è più che sufficiente per stimolare alcune domande: chi ha scoperto il fenomeno
della spumantizzazione? Quando? C meola attuavano gli antichi? Con che cosa
?
La storia antica
Senza contare che il Libro dei Salmi (circa 1.000 a.C.) pone una coppa di spumante nelle mani
di Dio, si rammenta che il nostro poeta Orazio ha definito Omero il “Vinosus Homerus”, per
sottolinea er i numerosi e puntuali riferimenti alla vite ed al vino presenti nelle sue opere, ri as
lenti circa al IX sec. a. C. Omero è sicuramente autore degno di fede e quando il grande vate
greco parla dello scudo di Achille (scolpito da Vulcano), descrive un’arat ra in cuiu i contadini
erano rifocillati da “un uomo che giva in volta, e lor ponea nelle man un napp spumante
o di
dolcissimo bacco” (Iliade, XVIII libro). Noi non possiamo credere si trattasse di una semplice
espressione poetica, per la precisione di Omer e per
o la semplice ragione che in natura il vino
ha sempre prodotto bollicine anche senza la provocazione dell’uomo
.
Tuttavia in epoca romana le citazioni sono più ampie e si devono a Virgilio, Properzio, Lucano e
Columella .
Virgilio (7 -019 a.C.) ha scrit ot un passo abbastanza noto, che così recita: «Et ille impiger h ua
8 può
sit , spumantem pateram et pleno se produit auro; post alii proceres» (Aen., I, 73 -40). Si
ripetere qui quanto si riporterà per Properzio, poiché lo stesso Virgilio ha definito la coppa i
d
spumante aureo. Sempre Virgilio scrisse che: “Spumat plenis vindemia labris”, confermando
l’uso del termine spumante
.
Properzio (4 -15
7 a.C.) afferma che “Largius effuso madead tibi mensa Falerno spumet
, et aurato mollius in calice” (El. II, 33, 3 -40).
9 L’aggettivo auratus è riferibile, ovviamente, anche al
calice. Infatti per l’Albana passita dell’antichità, Galla Placidia scrisse che «sei degna di berti in
oro» (da qui il nome di Bertinoro, la culla dell’Albana). Va però detto che a quei tempi i vin ei
rano sicuramente “aurei” perché ottenuti con lunghe macerazioni sulle vinacce e quindi ricchi
di polifenoli che davano il colore dorato (ed ambrato) ai vini. Lo studioso Rothstein è di questo
secondo avviso, non per ragioni tecniche ma per questioni filolog che . i
Falernum” (Phars. X, 63).
Lucano (3 9
-65 d.C.) scrive che “Indomitum Meroe cogen spumare
s
A quell’epoca si otteneva lo spumante di Falerno facendolo rifermentare mediante l’aggiunta di
mosto di uve appassite di una varietà denominata Meroe, originari dell’Etiopia.
a
Sta di fatto
che uno spumante di questo tipo fu servito in una fastosa cena organizzata in onore di Cesare
e Cleopatra. Si ha qui la conferma che i romani conoscevano la tecnica della rifermentazione
programmata per creare le “bullulae”
.
Co lumella (I sec. d.C.) descrive la tradizione della produzione del “defrutum” e della “sapa”,
mosti concentrati con l’ebollizione (per evaporazione dell’acqua) sino al 50% o ad 1/3. Questi
mosti concentrati, fra i primi dell’antichità, venivano aggiunti al osto inmfermentazione (dopo
2 giorni) per aumentare il grado alcolico oppure per ottenere la rifermentazione
.
In conclusione, da questi sacri testi risulta chiaro che lo spumante era già prodotto al tempo
dei Romani, certo non con le tecniche attuali, ma on lec rifermentazioni di vini dolci nei re i- c
pienti di allora (anfore di terracotta, ecc.), oppure con l’aggiunta di uva appassita o di mosto
1
dolce a vini base già fermentati. Per individuare questi vini i romani usavano i termini “saliens”, “titillans”, “spumans”, “spumescens”, che indicano chiaramente l’uscita delle bollicine
dal vino, il frizzante e lo spumante. Al tempo dei romani i vini con le bollicine venivano altresì
denominati “aigleucos” ed “acinatici”. I primi erano prodotti partendo dal mosto, la cui fermentazione, creatrice delle bollicine, veniva impedita o meglio ritardata immergendo le anfore in
acque fredde, al fine di avere vino frizzante (allora detto spumante) per più lungo tempo. A
Pompei è stata scoperta una cantina avente un cunicolo attraversato in continuazione da acqua
fredda, nella quale venivano posti i dolium con il mosto da spumantizzare lentamente. La tecnica che si adotta oggi per la produzione del Moscato dell’OltrePo Pavese e dell’Asti spumante
era quindi già applicata dai romani; attualmente si conserva il mosto in frigorifero –anche per
mesi – per evitare che fermentando perda la sua freschezza aromatica di fruttato e lo si fa
fermentare circa un paio di mesi prima dell’immissione al consumo. L’acinatico era invece prodotto con mosto ottenuto da uve appassite. Questo veniva usato da solo oppure serviva per la
rifermentazione di altri vini tranquilli (ossia di vini privi di zuccheri e quindi di bollicine). E’ il
caso della spumantizzazione del Falernum con uve passite della varietà Meroe (citato da Lucano). L’ ”acinazio” è citato da Ulpiano (=228 d.C.) nel 100° libro del “De Legibus” e soprattutto
da Cassiodoro (c. 490-585 d.C.), che ben conosceva gli acinatici del Veronese (gli attuali Recioto ed Amarone) ed il “Torchiato di Fregona” (passito del trevigiano).
La storia all’epoca medioevale, rinascimentale e risorgimentale
Nel “buio medioevo” si riscontra una citazione dei vini con le bollicine degli inizi del 1.100, della
famosa Scuola Salernitana, ampiamente nota per la sua formazione “scientifica” medica. Nel
“Regimen Sanitatis”, si consiglia un moderato consumo di vini frizzanti. Nella stessa epoca e
successivamente vennero citati i frizzanti della Toscana, delle zone di Montecarlo e Pescia, e
quelli francesi dell’abbazia benedettina di S. Ilaire.
Si ritiene che il “Governo toscano” sia nato nei primi secoli dopo il mille e, come è noto, consisteva nel ringiovanire il vino secco facendolo rifermentare con mosto ottenuto da uve passite;
inizialmente si fecero appassire o cuocere uve di Lambrusca (Vitis silvestris) e successivamente
uve di Vitis vinifera (Sangiovese, Trebbiano toscano, Malvasia lunga del Chianti), utilizzate anche per elaborare i “Vin Santi”.
Il Papa più enofilo di tutti i tempi fu Paolo III Farnese (1468-1549), i gusti amplissimi del quale
furono descritti dal suo bottigliere Sante Lancerio (1559). Questo Papa conosceva tutti i vini italiani, tra i quali il Razzese, che sua Santità prendeva per scacciare i freddi dell’inverno, ma
anche quelli tradizionalmente frizzanti di Castell’Arquato (Piacenza).
Nel rinascimento si continuò a mantenere il gas nelle botti cercando di chiuderle il più possibile
e di tenerle a bassa temperatura durante la fermentazione. Per ottenere la rifermentazione si
poneva il vino sulle vinacce (bucce) fresche, oppure si “tagliava” il vino con il mosto nuovo,
oppure si faceva appassire l’uva e dalla sua pigiatura differita si otteneva un mosto molto zuccherino, capace di fare rifermentare il vino giovane o vecchio. In tal maniera si ottenevano vini
con le bollicine in tutta Italia ed in Corsica.
Il Bacci (l.c.) sostenne che l’”acinazio” può essere assimilato al “Retornato” ed al “Razzese”.
L’”Acinazio” veniva ottenuto da mosto che stillava spontaneamente da uve passite prima della
loro spremitura (vino della goccia), ma non si può escludere che un mosto così ricco di zuccheri desse origine ad un vino frizzante. Fra i nomi medioevali utilizzati per i frizzanti si rammentano quelli di “mordaci”, “piccanti”, “raspanti” e “razzenti”. In merito al Razzese di Monterosso
(Cinque Terre), il Bacci (l.c.) ha sostenuto che i vini “scintillano blandamente nei bicchieri”. Il
“razzese” veniva travasato, dopo la prima fermentazione, “in vasi più piccoli e lo affidano al
mare e dicono che con il moto delle onde si perfeziona". Il Bacci (op.c.) sempre discorrendo di
“Acinatium” (antico) o “Razzese” (ligure) afferma che “dai racemi e dagli acini fatti bollire col
mosto, questi vini acquistano una gradevolezza, un non so che di “frizzante” che li rende piacevoli al gusto, un nitore aureo o di gemma assieme alla purezza della sostanza, tali che si
conservano incorrotti a lungo”. L’autore in parola ricorda che nel veronese si produceva molto
vino rosso “Acinatium” o Acinazio, “che dà al palato una gradevole sensazione «pizzicante»,
acquistata nella bollitura con quegli acini”. Presso Desenzano il Bacci segnala Vernacce che
fanno uscire di senno. “E’ un vino che dà a chi lo gusta una simpatica sensazione di frizzante”.
Tra i Trebulani (Trebbiani) ne indica uno vigoroso simile “al Cretico, dorato nella sostanza, limpido, spumeggiante di bollicine, e che si conserva per tre anni”. Il Bacci ha indifferentemente
usato i termini “frizzante” e “spumeggiante” per indicare i vini che avevano “preso la spuma” in
modo spontaneo o provocato. Sempre secondo Bacci (l.c.), a Velletri con la cottura si usava ridurre l’uva in diversa misura (ad es.: meno per quella di collina e più per quella di pianura) e
poi aggiungere all’uva cotta una decima parte di “sapa” (vino ridotto ad un terzo con
l’ebollizione) ancora in fermentazione. Richiama molto la tecnica della “cuvée” degli spumanti.
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In merito al vino di Monterano il Bacci (l.c.) segnala che “fa lacrimare gli occhi di coloro che lo
bevono, salendo con una fresca esalazione mentre lo si versa nel calice ed anche mentre lo si
beve”; ovviamente l’esalazione era data dalle bollicine di CO2.
All’epoca del Bacci altri medici si occuparono di frizzanti, quali Fracastoro e Pisanelli (favorevoli
al consumo) e Conforto (contrario ai frizzanti). Fu sempre nel rinascimento che si usò il vocabolo “ispumante” per indicare i vini con le bollicine. In particolare Francesco Redi (1626-1698)
nel suo “Bacco in Toscana” esaltò il Moscadello di Montalcino.
Alla seconda metà del ‘600 ed ai primi del ‘700 appartiene una testimonianza scritta veramente eccezionale per l’Italia, vale a dire l’aureo poemetto (in latino) di Padre Rodolfo Acquaviva
(1658-1729), Gesuita che resse il collegio dell'ordine sito a Montepulciano. Il poemetto, dal titolo "Rubri apud Politianos Vini confectio stylo Virgiliano descripta", tratta dell'arte di elaborare
il vino presso i Poliziani, cioé i viticoltori di Montepulciano (Siena). Il poemetto descrive minuziosamente la pigiatura dell'uva ed il deflusso del mosto dal foro di fondo del tino. Questo mosto veniva addizionato di uva cotta di Lambrusca (Vitis silvestris, cioé selvatica), prima di essere messo a rifermentare a contatto o no con le bucce. "Un fuoco violento percuota un resistente paiolo (finché un'ora affannosa non interrompe il suo volo a metà del cammino) e si sciolga
alla fiamma la giusta quantità di dolce uva lambrusca, che i contadini d'Etruria chiamano col
nome dei padri, averusto". Questo mosto infuocato veniva versato nel tino perché: "il calore,
s'intende rinnova l'energia del mosto", vale a dire provoca la rifermentazione (per la presenza
di zuccheri nel mosto di "averusto"). La rifermentazione veniva qui ottenuta subito dopo la
prima fermentazione, mentre il "governo toscano" usava uva appassita e quindi era più tardivo
di alcuni mesi.
Quello che stupisce é la coincidenza dell'epoca di vita di P. Rodolfo Acquaviva con quella del
benedettino Dom Perignon (leggendario frate dell'abbazia di Hautvillers, al quale, in assenza di
documenti, sono state assegnate le date di nascita e di morte del Re Sole Luigi XIV, vale a dire
1638-1715). La leggenda di Don Perignon forse fu inventata da un altro frate della stessa abbazia, Dom Grossard, molto fantasioso. Si dice che Don Perignon fosse astemio, vegetariano e
cieco. Degustava le uve al mattino alla finestra dopo averle lasciate per tutta la notte all’aria
aperta. Altri frati lavorarono alla cantina di Hautvillers, quali Oudart, Godinot, Pluché, e perfezionarono la rifermentazione in bottiglia per l'elaborazione dello Champagne, mitico spumante
francese. Si dirà che l'una (rifermentazione) si realizzava nel tino con mosto concentrato a caldo e l'altra in bottiglia, ma le due rifermentazioni si ottenevano sempre con un mosto dolce,
perché si deve rammentare che Dom Perignon non ha mai usato lo zucchero nel "liqueur de tirage". Il saccarosio di canna era allora molto raro e costoso. Fu Napoleone III (1808-1870) che
istituì un premio per l’estrazione dello zucchero dalla barbabietola. Per la storia, Dom Perignon
nel primo esperimento, collocato nel 1670, pare abbia usato uno sciroppo zuccherino (mosto?)
ai fiori di pesco. Comunque, sia P. Rodolfo che Dom Perignon non hanno inventato alcunché di
tecnologicamente importante, ma hanno solo adattato o perfezionato una metodologia già conosciuta all'epoca dei romani.
Senza nulla togliere ai meriti dell’opera dei frati della Champagne, relativi al miglioramento
delle tecniche di spumantizzazione, si fa rilevare che la pressione di CO2 superiore alle 6 atmosfere non si sarebbe potuta ottenere senza le bottiglie di vetro resistenti all’elevata pressione
(inventate in Inghilterra nel 1632 da Sir Kenelm Digby) e senza i tappi di sughero.
Un salto tecnologico forte è stato infine ottenuto da un altro italiano, il Martinotti, che ad
Asti nel 1895 perfezionò il metodo di rifermentazione in autoclave, per ottenere gli spumanti
che vanno ingiustamente sotto il nome di charmat, dal nome dell’ingegnere francese che diffuse le autoclavi. Molte industrie italiane hanno, infine, portato un contributo sostanziale alla
tecnologia di produzione dello spumante.
Conclusioni
Sotto il profilo storico possiamo affermare che l’Italia ha dato un grande contributo alla scoperta del principio della rifermentazione, che rappresenta la base produttiva degli spumanti “programmati” moderni. L’antica documentazione latina scritta esistente è inconfutabile, mentre i
Francesi, pur avendo il merito di avere prodotto lo Champagne (superando i “maestri italiani”)
con la rifermentazione in bottiglia resistente all’alta pressione, in fatto di documenti scritti sono
alquanto sprovvisti e la stessa storia di Don Perignon rientra nelle leggende, affascinanti ma
prive di prove documentali.
I romani e gli italiani hanno contribuito sostanzialmente a scoprire i principi che governano i
vini con le bollicine, ed a farli evolvere verso l’alta tecnologia che oggi tutti conosciamo.
Mario Fregoni
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