Storie di bambini - Hidden Children

Transcript

Storie di bambini - Hidden Children
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
Storie di bambini - Hidden Children
Tra il 1939 e il 1945, tutti i bambini di religione ebraica che vivevano nell’Europa occupata dai Nazisti
rischiavano la vita. Per sopravvivere, molti di essi si nascosero o vissero sotto mentite spoglie, celando la
propria vera identità e la propria religione. Trascorsero quegli anni in orfanotrofi, conventi, fienili, cantine,
costretti a nascondersi o a simulare un’altra identità. Dopo la fine della guerra e la sconfitta della Germania
nazista, molti di essi lasciarono l’Europa, dove i ricordi delle terribili esperienze vissute erano troppo vividi,
e si costruirono una nuova vita altrove, principalmente negli Stati Uniti e in Israele.
Nel 1991, con l’aiuto di Abraham H. Foxman, direttore nazionale dell’Anti-Defamation League (ADL) 1.600
Hidden Children provenienti da 28 paesi si incontrarono a New York City al “First International Gathering of
Children Hidden During World War II 1”.
Questa proposta didattica, pensata per gli studenti dell’ultimo anno della Scuola Secondaria di
Primo Grado e per il biennio di quella di Secondo Grado, vuole offrire un momento di riflessione
sulle vicende di alcuni bambini che sono sopravvissuti alla Shoah nascondendosi e sulle
implicazioni che tale esperienza porta con sé. L’attività legata alla prima vicenda che ho scelto
inizia in medias res con la storia di Hania Goldman, oggi Ann Shore. L’insegnante illustrerà agli
alunni il testo in corsivo, consegnando in fotocopia e facendo leggere le parti che si trovano nei
riquadri (il materiale didattico è raccolto in appendice).
1
“Prima riunione internazionale di bambini vissuti in clandestinità durante la Seconda Guerra Mondiale”.
1
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
Nascondersi
La storia di Hania 2
Hania Goldman è nata il 13 aprile 1929 a Zabno, in Polonia; è sopravvissuta alla Shoah nascondendosi con
la mamma e la sorella in un fienile infestato di pulci, non lontano dalla sua città natale. Il precario rifugio
era una stanzetta angusta e senza finestre, in cui non entrava aria fresca, dove la bimba visse per più di due
anni, nella costante paura di essere scoperta dai nazisti. Hania è una delle decine di migliaia di bambini che
sono sopravvissuti alla Shoah nascondendosi. Oggi questi bambini, diventati adulti e ora anziani, sono noti
come “hidden children”. Alcuni di essi dovettero nascondere la propria identità sotto nomi cristiani,
costruendosi un passato immaginario. La gran parte di essi fu costretta a sparire senza lasciare traccia di sè,
trovando rifugio in conventi o orfanotrofi, o venendo adottati da famiglie non ebraiche estremamente
coraggiose: infatti la punizione per chi nascondeva un ebreo era la morte. Molti bambini, come Hania,
vissero in fienili, cantine, fognature.
Hania, che ora vive negli Stati Uniti, dove è diventata una pittrice di successo e si chiama Ann Shore,
conserva dei bei ricordi dell’infanzia trascorsa a Zabno.
“Era un paradiso, tutta la cittadina era un campo giochi per noi. In estate,
quando il sole era caldo, facevamo il bagno nel fiume che attraversava il
paese. Giocavamo nei campi pieni di boccioli di fiore. E in inverno
pattinavamo sullo stagno ghiacciato e ci lanciavamo giù a picco da una
collina. Eravamo sempre circondati da risate e da amore”. 3
C’era tuttavia un problema: Hania e la sua famiglia erano ebrei e i cittadini gentili di Zabno non
nascondevano il loro odio verso questo popolo. Essere ebrei voleva dire valere un po’ di meno, i gentili
potevano tirare sassi agli ebrei e fare di essi il bersaglio per i propri insulti. Hania ricorda che una volta il
negozio dei suoi genitori fu bombardato di sassi. In un’altra occasione suo padre fu picchiato così
pesantemente che tornò a casa con il volto insanguinato. Il 1 settembre 1939 l’esercito di Hitler invase la
Polonia, dando così inizio alla Seconda Guerra Mondiale e il 7 dello stesso mese le truppe dell’Unione
Sovietica, allora alleate della Germania, invasero la Polonia da est. Il 27 la Polonia si arrese e gli ebrei di
2
La storia di Ann Shore qui presentata è stata in parte tradotta dal volume After the Holocaust, di Howard Greenfeld,
Greenwillow Books, New York, 2001 e in parte è il risultato delle lunghe conversazioni di cui Ann, cara amica e donna
speciale, mi ha fatto dono durante i nostri incontri presso la sede della Hidden Children Association di New York.
3
Howard Greenfeld, After the Holocaust, Greenwillow Books, New York, 2001, pag.6. La traduzione italiana è mia.
2
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
Zabno si trovarono ufficialmente soggetti alle politiche razziali della Germania hitleriana; da quel momento
essi dovettero cucire una stella gialla sui propri vestiti e fu loro proibito di allontanarsi dalle proprie città.
Quando Hania si presentò a scuola con la stella gialla venne presa in giro dai compagni non ebrei; all’inizio
fu umiliata da questa situazione ma a breve le fu proibito frequentare la scuola. Un giorno, mentre stava
giocando all’aperto, due nazisti su una motocicletta la fermarono e le chiesero di vedere la stella gialla.
Hania fu picchiata brutalmente perché i nazisti sostenevano che stava cercando di nasconderla. Il 10 marzo
1942 trenta ebrei della cittadina furono trascinati fuori dalle loro case, allineati contro il muro di una
fabbrica e fucilati. Quella stessa notte i nazisti fecero irruzione in casa di Hania cercando suo padre. Si
avvicinarono al letto della bambina, le premettero il fucile contro la testa e le chiesero se sapeva dove fosse
il padre; ella rispose che non lo sapeva ma uscendo i nazisti si accorsero di una porta che conduceva alla
cantina, dove trovarono il papà, che fu fucilato davanti agli occhi pietrificati della figlia.
“Non molto tempo dopo, nel mezzo della notte, mia madre, mia sorella e io
fuggimmo dalla nostra città alla ricerca di un posto dove nasconderci. Mia
mamma si ricordava della povera vedova di un fattore con quattro figli –
comprava scarpe nel negozio dei miei genitori – e trovammo la sua fattoria
nella campagna. Mia madre la pregò di darci rifugio ma ella rifiutò; alla fine,
in cambio di denaro e di oggetti preziosi, ci permise di nasconderci in un
buio fienile sopra la casa, sotto un tetto di paglia”. 4
Dopo pochi mesi, quando fummo senza soldi e senza niente da dare alla
donna, ella cercò di mandarci via. Mia madre si rifiutò, sapendo che se
avessimo lasciato il nostro nascondigli saremmo state catturate e uccise.
Fece credere alla donna che anche lei sarebbe stata uccisa, per aver dato
asilo a degli ebrei. Convintasi che doveva salvarsi la pelle, la donna accettò
… Con rabbia. Divenne violenta, portò via la scala dal fienile e interruppe
ogni contatto con noi, fatta eccezione per gli urli e gli insulti che ci destinava
ogni qualvolta scopriva che cercavamo di uscire dal fienile.(…)”.
Gli unici contatti umani che Hania e la sua famiglia ebbero per più di due anni furono con tre ragazzi ebrei di
Zabno che vivevano in clandestinità. Hania trascorse quei due anni sbirciando, attraverso le assi del fienile, i
bambini della fattoria che ridevano e giocavano, proprio come una volta aveva fatto anche lei. I polacchi,
ovunque, davano la caccia agli ebrei, per catturarli e denunciarli ai tedeschi.
Ann ricorda:
4
Howard Greenfeld, op. cit., pagg. 9-10.
3
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
“A volte la paura era insopportabile. Quando il vento soffiava sentivamo
rumori da tutte le direzioni. Lo stormire dei rami e dei cespugli e il latrare
dei cani ci terrorizzavano, ci fermavamo immobili per sentire se qualcuno
arrivava. Eravamo sempre in allerta”. 5
Concluso il racconto, l’insegnante solleciterà gli studenti alla riflessione e alla discussione di
classe ponendo loro alcune domande:
-
Pensa a cosa ti piace della tua casa: quali sono i tuoi oggetti preferiti, quelli che ti danno sicurezza e
ti fanno sentire al riparo dai pericoli? Scegline ed elencane tre. Perché ti danno sicurezza e cosa
significano per te? Come ti sentiresti se dovessi abbandonare tutto ciò che hai, le tue comodità, le
cose che ami, pur di sopravvivere?
-
Ti è mai capitato di guardare altri/e ragazzi/e giocare e di non poterti unire a loro, perché eri
malato/a o in punizione oppure ancora perché non eri parte di un gruppo? O ancora, ti è mai
capitato di escludere qualche ragazzo/a perché non apparteneva al tuo gruppo? Come ci si sente, a
tuo parere, a osservare gli altri che fanno ciò che anche noi vorremmo fare? Come ci si sente invece
ad escludere gli altri dalle nostre attività? A tuo parere si tratta di una vittoria o di una sconfitta?
Non esistono risposte giuste o sbagliate, scopo dell’attività è di sollecitare la discussione, la
riflessione e l’immedesimazione degli studenti di oggi con i coetanei vissuti durante la Shoah.
La paura
Edith Knoll, che ora vive a Great Neck, New York, nacque in Germania da genitori polacchi. Nel 1938,
quando non aveva ancora dieci anni, la sua famiglia fu rimandata in Polonia. In seguito riuscì a rifugiarsi in
Belgio ma quando i nazisti invasero il paese, Edith e sua madre furono costrette a nascondersi. Vennero
aiutate da un medico che le fece ospitare nella clinica dove lavorava ma, sfortunatamente, poterono
fermarsi qui solo poche settimane, al termine delle quali trovarono nuovo rifugio in un convento fuori
Bruxelles.
“In viaggio verso il convento alle 5 del mattino. Ero terrorizzata. Eravamo
terrorizzate. Perché avrebbero potuto trovarci. Avevo paura quando
sentivo un passo. Avevo paura della gente che mi guardava, mi
5
Howard Greenfeld, op. cit., pag. 10.
4
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
domandavo se la persona successiva mi avrebbe denunciata, e sarebbe
stata la fine. Arrivammo al convento in tram e non ci volle poi così tanto,
ma quando ci ripensai in seguito mi sembrò di averci messo delle ore.
Quando giungemmo al convento e fummo introdotte nell’ufficio della
Madre Superiora, lei ci abbracciò e noi ci sentimmo al sicuro per un po’.
Era una donna incredibile. Alla fine della guerra nascondeva dieci ebrei
adulti, ventotto bambini, paracadutisti britannici, armi, combattenti
della resistenza. Lei stessa era uno di questi combattenti ed ebbe una
decorazione alla fine della guerra. Ci ospitò per quasi due anni”. 6
Edith fu fortunata perché nel convento dove si rifugiò poté ricevere un’educazione, imparò le lingue e la
stenografia e perché non fu separata da sua madre. Ma un giorno arrivarono i tedeschi:
“Stavano cercando i paracadutisti britannici. In uno dei campi era stato
trovato un guanto. Fummo portate fuori dall’edificio – ho sempre
pensato che era così grande, ma quando ci sono tornata ho capito che
non lo era. Fummo portate nel campo e ci nascondemmo dietro ai
cespugli per tutto il giorno, quando i tedeschi se ne andarono ci fu detto
di tornare indietro – le suore ci stavano cercando. Alle 5 del mattino,
dopo aver messo insieme poche cose alla luce di una candela, fummo
costrette a sparire. Molti bambini furono portati agli orfanotrofi (…) e io
tornai con mia madre alla clinica dove eravamo state nascoste la prima
volta e quando suonai il campanello, la Madre Superiora disse: ‘Non
potrei buttare fuori un cane, come posso mandare via voi?’. Ci nascose
nel convento – nessuno vi mise mai piede e nessuno era al corrente della
nostra presenza, eccezion fatta per tre suore. Avevamo una scala che
portava a una cucina e un prete veniva qualche volta a raccontarci come
procedeva l’invasione, a darci speranza che la liberazione fosse vicina. E
così rimanevamo, nel terrore, dietro a queste porte”. 7
6
7
Howard Greenfeld, The Hidden Children, Houghton Mifflin Company, Boston, 1993, pag. 35. La traduzione è mia.
Howard Greenfeld, op. cit., pagg. 36-37.
5
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
-
Hai mai provato paura? Del buio, di una persona, di qualcosa che non conosci? Come sei riuscito a
superare quel momento, dove e in che cosa hai trovato rifugio? È rimasta una traccia, dentro di te,
dell’esperienza vissuta?
Un dolce di cioccolata
Nella primavera del 1942, i genitori di Rachelle Goldstein decisero di nascondere i loro figli. Vivevano in
Belgio e il costante aumento di deportazioni di ebrei dal Belgio faceva loro temere per i propri bambini.
Organizzarono di nasconderli in un orfanotrofio nei dintorni di Bruxelles. Si trattava di un istituto
protestante, cosa rara in Belgio, un Paese a maggioranza cattolica. Rachelle, che non aveva ancora tre anni,
si ritrovò in orfanotrofio con i fratelli e i cugini. L’anormale le appariva normale: tutti i bambini erano senza
genitori, quindi non c’era ragione di credere che la vita dovesse essere diversa. Tuttavia, il giorno del suo
terzo compleanno si sentì sola:
“Avevo qualcosa, non ricordo cosa, forse gli orecchioni. Mia zia venne a
trovare i suoi figli e mi portò la torta di cioccolato da parte della
mamma, davvero uno squisitezza. Me lo ricordo. Ero in isolamento – mi
misero in una stanza a parte perché ero malata – così non riuscii
neppure a vedere mia zia. Qualcuno entrò, mi diede la torta di cioccolato
e disse: “questo è da parte di tua madre”. E mi ricordo che mi sedetti,
mangiando la mia torta di cioccolato, con le lacrime che mi rigavano le
guance”. 8
8
•
Perché Rachelle inizia a piangere in un momento apparentemente allegro,ossia quando riceve un
dolce di cioccolata?
•
Hai mai sentito nostalgia dei tuoi genitori? Dove e in quale circostanza?
Howard Greenfeld, op. cit., pag. 45.
6
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
A Rachelle mancavano il calore e l’affetto delle normali relazioni umane più che le comodità, un letto o un
buon pasto, come possiamo capire da questo passaggio:
“Non sapevo cosa fossero le persone normali. Per me le persone erano
preti, suore o laici. Non ero molto sicura di cosa fossero gli adulti o le
famiglie – molte di queste cose per me non avevano senso. Non capivo
cosa fossero le relazioni anche se avevo un ricordo molto molto vivido di
mia madre. Mi ricordavo che mia madre mi aveva abbracciata, e questo
era ciò che mi faceva andare avanti. Di solito sognavo di essere di nuovo
tra le braccia di mia madre. Una volta arrivata lì, mi avevano tolto i miei
vestiti e indossavo lo stesso grembiule che avevano tutti i bambini.
L’unica cosa che avevo ancora di mio era un cappotto blu e il mio
cappotto blu divenne una coperta che mi dava sicurezza. Lo chiamavo il
mio amico, mon ami. Era tutto ciò che avevo di mio, questo e le mie
scarpe, che indossai per un anno e mezzo.
Non riuscivo più a vedere il volto dei miei genitori. Provavo a
dipingermeli ma non ci riuscivo. Tutto ciò che ricordavo era la
sensazione di loro, il contatto. Mi trovavo in un istituto dove le persone
non toccano i bambini. (…) Le suore erano molto distanti, erano
occupate a pregare tutto il giorno. Non avevano molto a che fare con
noi”. 9
9
Howard Greenfeld, op. cit., pag. 48.
7
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
Vivere sotto mentite spoglie
Prima di affrontare le singole vicende, l’insegnante stimolerà la riflessione sull’identità dei
propri studenti consegnando loro una scheda in cui porrà alcune domande (la scheda può essere
compilata individualmente o in piccoli gruppi):
•
Rifletti sulla tua identità, su chi sei, sulle caratteristiche che ti identificano come individuo. Che cosa
fa di te ciò che sei?
Ecco alcuni suggerimenti (gli studenti possono aggiungere altre categorie e dovranno scegliere le
tre a loro parere più importanti):
•
•
- Le tue idee e i tuoi pensieri
- Ciò in cui credi
- Le tue azioni
- Il tuo nome e le tue caratteristiche fisiche
- La storia della tua famiglia
- Ciò che sai fare
- La lingua che parli
- La religione cui appartieni
- I tuoi gusti personali (abbigliamento, hobby, amici …)
Puoi cambiare alcune di queste caratteristiche? Ce ne sono alcune che non ti è dato modificare?
Conosci persone che cercano di essere ciò che non sono? A tuo parere, cosa motiva questo
comportamento e che risultati ne ottengono?
(n.b. le domande che seguono sono necessariamente individuali)
•
Fai o hai mai fatto uno sforzo consapevole per cambiare qualcuna delle specificità che ti
caratterizzano? Perché e in quale circostanza?
•
Tu sei sempre te stesso o sei diverso, in base alle persone con cui ti trovi? Se ti accade di essere
diverso in mezzo a persone diverse, dentro ti senti sempre il medesimo individuo? Se le azioni sono
ciò che ti definisce come la persona che sei e se agisci diversamente trovandoti in gruppi di persone
diversi, sei quindi un individuo differente in base a chi ti circonda?
•
Conosci qualcuno con cui puoi sempre “essere te stesso”? Che cosa ti piace e cosa non ti piace
dell’individuo che sei?
8
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
A questo punto l’insegnante può introdurre il tema della lezione, spiegando:
I ragazzi costretti a nascondersi durante la Shoah non ebbero possibilità di scegliere in che modo cambiare
la propria identità, furono costretti a cambiare per sopravvivere. Alcuni impararono una lingua nuova,
dovettero professare un’altra religione, adottare nuovi nomi e persino modificare il proprio aspetto fisico.
Vissero mesi e anni nel terrore di essere scoperti e, di conseguenza, uccisi.
Ecco il racconto di alcuni bambini che sono stati costretti a cambiare identità per sopravvivere.
Nechama Tec è sopravvissuta alla Shoah nascondendo le sue origini ebraiche poiché i suoi tratti somatici,
capelli e occhi chiari, le permisero di farsi passare per polacca. Così ci racconta la sua esperienza:
Dentro di me stava avvenendo una lenta trasformazione. Era come se, in determinate
circostanze, avessi perso traccia di chi ero realmente e avessi iniziato a pensare a me stessa
come a una polacca. Divenni una persona doppia, una in privato e una in pubblico. Quando
mi trovavo lontano dalla mia famiglia ero così assorbita dal mio io pubblico che non dovevo
neppure recitare un ruolo, mi sentivo realmente la persona che mi si chiedeva di essere.
C’erano occasioni in cui pensavo davvero di essere la nipote di Stefa, polacca come tutti i
suoi parenti. Non dimenticavo chi ero, solo ero diventata capace di mettere il mio vero io in
quel dato contesto.
Mi piaceva il mio nuovo nome. Sentirmi e pensare di essere Krysia Bloch mi rendeva la vita
più facile e mi sentivo meno in pericolo quando si parlava di ebrei. Potevo ascoltare racconti
antisemiti con indifferenza e persino ridere di cuore quando si parlava delle disgrazie degli
ebrei. Sapevo che stavano facendo del male al mio popolo ma una parte di me era come
loro.
Non ho mai parlato di questi cambiamenti con nessuno. Non ne ero orgogliosa. Mi sentivo
in colpa e in imbarazzo. Mi sentivo una traditrice. Era come se, rinunciando al mio vecchio
io, rinunciassi anche alla mia famiglia. A volte questo mi spaventava a morte, perché la mia
famiglia era tutto ciò che avevo.
Queste emozioni , incoerenti e forti, combattevano continuamente dentro di me e io non
facevo nulla per bloccare questo processo, in parte non lo volevo. Era più facile così. La vita
continuò e venni assorbita sempre più da ciò che mi circondava, opposi sempre meno
resistenza a ciò che mi stava accadendo”10.
10
Nechama Tec, Dry tears: the Story of a Lost Childhood, Oxford University Press, New York, 1984. La traduzione è
mia.
9
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
•
•
•
Rileggi nella scheda precedente, i tre elementi che hai indicato come distintivi della tua
identità. Cosa proveresti se fossi costretto/a a modificarli per poter sopravvivere?
Rinunceresti volontariamente a una di queste caratteristiche? Perché? Come cambierebbe
la percezione che hai di te stesso?
Hai mai cambiato nome per gioco, fingendo di essere qualcun altro?
Stefanie Seltzer aveva quattro anni quando lei e la sua famiglia furono costretti a cambiare identità:
“Avevamo appena cambiato nome, io stessa avevo un altro nome.
Quando arrivò il postino e chiese di mia madre – lo ricordo con
estrema chiarezza – io ero fuori e dissi: ‘Questo è il nome che mia
madre aveva prima’. Oggi non avrebbe alcuna importanza, vero? Ma
allora era importante e noi fummo costretti a scappare. La donna con
cui stavamo mi sentì di sfuggita. Forse il postino non mi avrebbe
tradita. Era un gioco di probabilità: forse il postino mi avrebbe tradita,
forse no. Ma siccome nessuno sapeva come avrebbe reagito questo
postino, noi fummo costretti a fuggire”.
Gisele Warshawsky è nata a Lipsia nel 1934, terza figlia di una coppia di mercanti di lino di origine polacca.
La loro era una casa calda e piena d’amore e Gisele crebbe nell’osservanza delle tradizioni ebraiche, le
festività, il Sabato, che la famiglia osservava con devozione. Un giorno del 1938 le cose cambiarono: la
famiglia fu svegliata nel cuore della notte, condotta in stazione e rimpatriata in Polonia: i tedeschi stavano
liberando il loro paese di tutti gli ebrei stranieri. Tuttavia, il padre di Gisele fu in grado di dimostrare che lui e
la moglie erano apolidi e che i loro figli erano nati in Germania: per queste ragioni poterono tornare alla
loro casa. La deportazione in Polonia, dove le condizioni di vita per gli ebrei erano terribili, era stata evitata,
ma presto fu chiaro che Gisele e i suoi non potevano rimanere in Germania. Decisero quindi di fuggire in
Belgio e il padre fu il primo a tentare la fuga, ma al confine fu catturato dai belgi e portato in prigione, dove
si ammalò di polmonite e morì nel marzo del 1939. La famiglia riuscì in ogni caso a stabilirsi ad Anversa, ma
dopo l’invasione del Belgio dovettero nascondersi per sopravvivere. Gisele fu mandata in un orfanotrofio
cattolico gestito da suore che ospitava circa novanta bambini, trentacinque dei quali erano ebrei. A ognuno
di essi fu dato un nuovo nome e fu ordinato di non rivelare a nessuno la propria religione. Solo la madre
superiora e Padre Benoit, che diceva messa, erano al corrente della reale identità dei piccoli ospiti. In questo
orfanotrofio la vita era molto dura: le suore infatti non offrivano né calore né compassione, ma solo rifugio.
10
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
“Non avevamo cibo. Ci davano un pane molto, molto cattivo. Le suore
mangiavano pane buono ma i bambini no. Noi avevamo le rimanenze
di una panetteria della città. In estate era così cattivo che non si poteva
mangiare. Era rancido. Ci servivano le aringhe sulle quali strisciavano i
vermi: dovevamo togliere la pelle e i vermi per mangiare ciò che si
trovava all’interno.
Eravamo tutti magri e sporchi. Facevamo il bagno una volta alla
settimana. E le suore, si sa, erano cattoliche devote. Le ragazze più
vecchie facevano il bagno ai bambini più piccoli e io cercavo di essere
sempre davanti alla fila, in modo da essere la prima o la seconda nella
vasca da bagno, perché non cambiavano l’acqua. Ma sfortunatamente,
essendo uno dei bambini più piccoli, non riuscivo sempre a essere la
prima, così dovevo lavarmi nell’acqua sporca”. 11
Solo due persone facevano qualcosa per rendere più facile la vita dei bambini all’orfanotrofio:
“Padre Benoit portava alcuni di noi, bambini più piccoli, nei campi per
farci fare un’escursione. Era molto simpatico. Io ero uno dei bambini
fortunati che riusciva a uscire magari una volta al mese. Andavamo nei
campi sotto la pioggia e cercavamo bacche. Cercavamo le fragole solo
per avere qualcosa da mangiare. Eravamo affamati – semplicemente
non avevamo cibo. C’era una giovane donna – non ricordo il nome- che
lavorava in cucina. Cucinava a aiutava le suore. Questa giovane era così
addolorata per i bambini piccoli, in particolare per quelli di otto, nove o
dieci anni. Ci dava una fetta di pane, vero pane di campagna preparato
lì per le monache, lo affettava e ci metteva un po’ di miele e del burro.
Ce lo dava di nascosto e noi dividevamo questa grande fetta di pane tra
due o tre bambine. Ed era come la manna dal cielo”. 12
In seguito Gisele fu mandata in un convitto nel villaggio di Sugny, sul confine tra Belgio e Lussemburgo, dove
rimase per un anno e mezzo.
11
12
Howard Greenfeld, op. cit., pagg. 38-39.
Howard Greenfeld, op. cit., pag. 39.
11
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
“Andavamo a messa la domenica (…). Tra noi c’erano anche delle ragazze
protestanti che non dovevano neppure presenziare alla messa. Le ragazze
ebree continuavano ad andarci, ci sentivamo protette dalla religione
cattolica. Mi vergognavo di essere ebrea, difficilmente lo ammettevo o
pensavo a me stessa come a qualcosa di diverso da una ragazza
cristiana” 13.
13
Howard Greenfeld, op. cit., pag. 41.
12