IL VENERABILE SERVO DI CRISTO, MAESTRO

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IL VENERABILE SERVO DI CRISTO, MAESTRO
IL VENERABILE SERVO DI CRISTO, MAESTRO DOMENICO, FONDATORE DEL NOSTRO ORDINE
Nell’autunno del 1205 Domenico si trovava in Danimarca insieme al suo vescovo, Diego di
Acebes. Possiamo immaginarli infreddoliti e stanchi, seduti insieme ad altri viaggiatori accanto
al fuoco: il 1205 non era stato per loro un anno troppo fortunato. Avevano viaggiato dalla
Castiglia alla Danimarca per concludere un affare diplomatico che era finito in nulla. Quello che
stavano passando non era certo un buon momento, ma, senza che nessuno dei due potesse
immaginarlo, si preparava per loro una delusione ancora più grande.
Dobbiamo considerare che questi viaggi “danesi”, compiuti da san Domenico, sono molto
importanti per la genesi dell’ordine dei predicatori. Si pensa comunemente che l’ordine
scaturisca dall’incontro con gli eretici albigesi e certamente questa realtà è determinante per
noi domenicani, ma Domenico trova in Danimarca qualcosa che lo segnerà per sempre, tanto
da generare un desiderio profondissimo che però non riuscirà mai a realizzare. Ma cosa
avviene in Danimarca nei primi anni del duecento che impressiona il nostro amato padre?
Davanti a lui si distende una linea di orizzonte incerta e opaca persa tra la nebbia e la neve,
questo orizzonte sembra non offrire nulla di più che freddo e fame. Un paesaggio senz’altro
monotono, specialmente per un uomo abituato al profilo dei monti, ma in questa vaga linea di
orizzonte c’è qualcosa che interroga questi nostri viaggiatori. C’è qualcosa in questa pianura
che si perde verso il levante che li turba profondamente. Domenico e Diego sono molto colpiti
dallo Spirito che soffia in questa terra lontana. Ebbene possiamo dire che quella grande
tensione che segna la chiesa della Danimarca dovrebbe segnare ogni chiesa in ogni tempo e in
particolare ogni singola comunità domenicana. Ma torniamo a Domenico e al suo soggiorno
danese.
Ebbene, siamo in pieno autunno e la missione che dovevano compiere è fallita miseramente:
sono stati inviati in quella terra lontana per concludere un matrimonio regale, ma la ragazza,
ora che si deve portarla in spagna, è morta. Siamo evidentemente di fronte a quelle questioni
politiche che nel medioevo passavano attraverso le unioni familiari. Padre Vicaire, lo storico
domenicano che tanto si occupa della vita di Domenico, insinua addirittura che la ragazza
avesse cambiato idea e avesse preferito la clausura al matrimonio, convincendo la famiglia a
darla per morta. Per Diego è un grosso scacco e se a noi, oggi, la cosa sembra del tutto
irrilevante, ma per i due ambasciatori di allora, la faccenda era ben diversa: il viaggio era
costato molto, in termini di tempo, di denaro, ma soprattutto si era speso il prestigio della
corte di Castiglia e la Castiglia aveva già le sue brave difficoltà con i mori alle porte e la sua
nobiltà divisa e turbolenta. Non sappiamo quali pensieri passassero nella testa di Diego e di
Domenico, possiamo però supporre che fossero delusi e che sentissero tutto il peso di quel
fallimento. Oltre a questa vicenda così umana c’è un fatto che tocca il cuore dei due amici, essi
scoprono con stupore tutto un mondo proiettato verso l’ignoto. In quel tempo, infatti, la
Danimarca era una marca estrema, oltre alla quale si estendevano confini indeterminati. Terre
senza limiti precisi si aprivano verso l’est, terre abitate da uomini, donne, bambini e vecchi che
aspettavano da un tempo immemorabile la comparsa di qualcuno capace di dire loro che la vita
non era un’inutile spreco di forza e di sentimenti, di dire che l’amore aveva preso il
sopravvento sulla notte e che per tutti loro, nessuno escluso, c’era l’abbraccio di Dio, un Dio
incredibilmente buono e padre, mistero eterno di una Grazia difficile da capire, ma accessibile
ad ogni uomo di buona volontà.
Quelle terre, quegli uomini erano così diventate, per Diego e Domenico, un fatto enorme e
sconvolgente. Il venerabile servo di Cristo, maestro Domenico, fondatore del nostro Ordine
all’epoca aveva trentacinque anni ed era un uomo nel pieno della sua maturità. Diego lo aveva
scelto come parte della sua dotazione di viaggio, che era poi costituita da una scorta piuttosto
numerosa e attrezzata. Avevano proceduto a cavallo viaggiando per diversi mesi e in quei
giorni d’autunno nessuno dei due poteva sapere cosa l’attendeva nel domani, ma avevano
davanti a loro anni intensissimi, delusioni cocenti, difficoltà enormi e un’impresa molto, molto
diversa da quella che avrebbe potuto immaginare in quel momento. Infatti nell’autunno del
1205 la loro speranza era tutta rivolta verso le terre di levante. La cristianità danese era
impegnata in una missione di cristianizzazione dei confini estremi del mondo e loro ne erano
irrimediabilmente attratti. I missionari danesi, diversamente dal mondo tedesco, che si
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appoggiava molto alla struttura militare, si mettevano in viaggio senza particolari garanzie e
spesso venivano inghiottiti dal nulla, fatti a pezzi dalle selvagge tribù pagane. Questo mondo,
di cui giunge eco alla corte del re di Danimarca, chiama a se in modo inesorabile il sottopriore
Domenico di Guzman. Il suo vescovo è però legato alla corte del re di Castiglia, è anzi uno
degli artefici della nuova cristianizzazione della Spagna. Un uomo a cui il destino aveva
consegnato incarichi di grande rilievo, mettendo nelle sue mani la sorte di molti cristiani. La
Spagna poi era il loro paese e aveva un grande bisogno di loro! Ma la chiamata verso le terre
esterne era ormai troppo evidente per essere ignorata: che fare, dunque, continuare la vita di
sempre o farla finita e partire? Decisero di chiedere consiglio a qualcuno che poteva vedere le
cose secondo una prospettiva diversa.
D’altra parte ogni volta che gettavano lo sguardo oltre la mura di cinta, sentivano
distintamente la piccolezza della loro vita di fronte alla grande chiamata del Vangelo.
Dobbiamo anche pensare che Diego e Domenico proprio in questo momento capiscano la
correlazione che esiste tra povertà e libertà: essi desiderano essere tanto liberi da poter
andare oltre e talmente poveri da essere liberati da qualsiasi vincolo. Solo questa povertà
infatti avrebbe loro permesso di poter donare tutto. Per loro, in modo abbastanza improvviso,
povertà e libertà si coniugano in un binomio inscindibile e saranno proprio questi gli elementi
indispensabili alla vita dell’ordine che nascerà. Sappiamo che di li a poco Diego e Domenico
riprendono la strada per andare a Roma, dove sottoporre al papa la questione matrimoniale
che li aveva portati così lontani. Nella sede pontificia Innocenzo III dirimerà la faccenda in
modo a loro sfavorevole, ma subito dopo passano a questioni ben più gravi della politica:
sembra infatti che l’arcivescovo di Lund, in Danimarca, chiedesse al papa la concessione di
poteri straordinari per affrontare la missione in Estonia. Diego che è latore di questa supplica
ritiene di poter offrire al santo padre le proprie dimissioni dalla cattedra episcopale, egli infatti
desidera con tutto se stesso la vita missionaria. D’altra parte la diocesi di Osma è pacificata, la
cristianità si è qui ristabilita da un secolo e tutto l’orizzonte della loro vita si apre su un mondo
solidamente cattolico. L’esistenza nel chiostro canonicale è ben avviata e potremo quasi dire
che all’interno di quelle mura claustrali c’è una buona e solida vita cristiana, una preghiera
fervorosa, una carità quotidiana, una condivisione acquisita e stabile. C’è insomma una vita
degnamente cristiana, ma Domenico e Diego ormai sentono che oltre i confini esterni ci sono
uomini che li aspettano. Probabilmente Innocenzo li ascolta, ma la sua visione del mondo è più
complessa, sappiamo infatti che rifiuta la loro proposta e li dirige verso un’altra missione. Con
il senno di oggi possiamo capire il punto di vista del papa: vi sono infatti posti al mondo dove
la predicazione occorre in modo ancora più urgente, ma per Domenico è una grande sofferenza
dover rinunciare alle terre dell’est. Il ritorno in patria dunque è molto triste e dobbiamo
pensare al nostro beato padre come ad un uomo deluso e forse anche avvilito.
Ecco dunque che possiamo lasciare il nostro Domenico in questo pezzo della storia, tra il 1205
e il 1206. Se ci allontaniamo da quel frate pensieroso, per tornare ai giorni nostri, potremo
considerare che in quel momento Domenico si trova a vivere alcune cose che stanno alla radice
di quell’ordine religioso tutto volto alla predicazione del Vangelo che di lì a poco sorgerà sulle
ceneri della crociata albigese. Per quanto possa sembrare strano manca in Domenico un vero
interesse per la fondazione di un ordine religioso, i “domenicani” non sono nei suoi pensieri.
San Domenico pensa alla vita degli apostoli, alla vita cristiana ed è preso dalla fondazione di se
stesso. Seguendo il suo percorso possiamo capire come la conversione non sia mai un fatto
definitivo. Domenico ha un sogno e potremo benissimo dire che la stessa vita domenicana
nasce da un sogno, egli sogna ad occhi aperti la possibilità di raggiungere quegli uomini di cui
ha sentito parlare in Danimarca, gente di cui non sa assolutamente nulla. Il suo cuore e il suo
intelletto mettono davvero al centro il Vangelo. D’alta parte se noi davvero crediamo nella
verità della “buona novella” non possiamo lasciarla al margine della nostra vita. Essa
dev’essere il fatto centrale del nostro esistere. Domenico opera in questo modo, pone cioè Dio
al centro e l’urgenza di predicare il Vangelo come un fatto attuale a cui non può subordinare
nulla.
Questa in poche parole è la vita domenicana, come per lui anche per noi la predicazione deve
riguardare il presente, il qui e ora del nostro tempo. C’è poi una seconda considerazione sul
quel 1205 di san Domenico ed è questa: su questo suo sogno Domenico costruisce un progetto
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ben definito. Il suo sogno viene trasformato in un disegno determinato. Credo che questo sia
un atto molto cristiano. Breve o lunga che sia la nostra esistenza deve avere un suo progetto,
un piano in cui attuare concretamente le nostre priorità. Domenico vede chiaramente la sua
vita in mezzo alle popolazione dell’est, vede tutta la precarietà e il pericolo che questa
missione comporta e desidera attuarla fino in fondo. Individua una priorità e decide di
perseguirla senza curarsi delle convenienze. Questo non significa che non sappia abbandonarsi
in Dio, tutt’altro, c’è un desiderio di aprire una trattativa con Dio, come Giacobbe al guado, in
un certo modo anche Domenico lotta con Dio cercando di costruire il suo destino.
Credo che per noi, uomini e donne impegnati nella professione solenne nell’ordine, debba
avvenire la stessa cosa: dobbiamo in altre parole individuare il nostro percorso, la nostra
priorità, insomma il “luogo” di quegli uomini a cui vogliamo portare il Vangelo, dobbiamo
costruirci un “piano operativo”, un progetto chiaro e ben definito. C’è però, a questo punto,
una terza cosa che dobbiamo considerare: Domenico, nel 1205, deve scontrarsi con una realtà
che metterà a soqquadro il suo disegno, una realtà che prenderà i suoi sogni, i suoi progetti e
li butterà letteralmente all’aria: potremo anche chiamare questo fatto destino, un destino
avverso e cattivo, ma Domenico vede una traccia dello Spirito, una risposta di Dio alle sue
domande. Tutto gli si rivolta contro e qui si fa spazio l’obbedienza. Badiamo bene che non si
tratta di una semplice obbedienza al santo padre o al suo ordinario, che a sua volta si piega ad
un mandato ben diverso da quello sperato. Si tratta di una obbedienza alla storia, alla sua
storia personale e alla storia tutta più in generale.
Noi stessi cerchiamo di incontrare la voce di Dio ponendogli ai piedi il nostro progetto di vita.
Piccolo o grande che sia questo progetto a volte è sconvolto e veniamo chiaramente indirizzati
ad altro. Potremo in un certo modo dire che il nostro fare progetti sia un modo contingente di
dialogare con Dio. Facilmente scopriamo di essere destinati ad altro e questo dobbiamo
accettarlo. Per capire tutto questo però dobbiamo qualche volta fermarci, ritirarci nel silenzio e
ragionare sulla nostra vicenda personale, sulla storia che ci circonda. La voce di Dio non è
udibile nel caos e non è udibile nemmeno sul momento. Dio non tace, ma è anche vero che
non parla la rumorosa lingua degli uomini, le sue parole tracciano il silenzio e penetrano nel
nostro cuore lasciando un seme che possiamo anche ignorare. Ci accorgiamo di Dio solo
guardandoci indietro, come la Maddalena al sepolcro. Ella si gira e intravede una figura,
sembra un giardiniere, un uomo addetto all’orto. Non diversamente da lei noi dobbiamo ogni
tanto fermarci e guardarci indietro. Dobbiamo fare memoria del nostro cammino e indagare
sulla nostra vita.
Dunque da questo momento della vita di Domenico deduciamo tre cose e sono queste:
il sogno,
il progetto,
l’obbedienza.
La terza di queste cose è la più difficile, se noi mettiamo i nostri sogni e i nostri progetti nelle
mani di Dio dobbiamo anche accettare che li possa sconvolgere. L’obbedienza che ne consegue
non ci opprime, anzi ci libera. La prima obbedienza occorre anzitutto darla a noi stessi, essere
con fedeltà ciò che siamo, la seconda alla storia e agli sconvolgimenti che questa opera. Per
noi che accettiamo la vita religiosa c’è una terza obbedienza nei confronti del maestro generale
attraverso i superiori che l’ordine volta per volta ci fornisce, ma senz’altro è questa la più
semplice delle obbedienze. Sebbene nella nostra realtà di laici sia piuttosto raro che vi sia una
richiesta esplicita di obbedienza, questa deve però albergare nel nostro cuore come una buona
abitudine. Infatti l’obbedienza è una realtà profonda della vita religiosa che si deve anzitutto
attuare come habitus, come consuetudine mentale, che ci permette di vivere sempre rivolti in
una certa direzione.
Cari fratelli e care sorelle,
come sapete bene anche la nostra vita di laici in un ordine religioso deve essere chiaramente
orientata, la nostra esistenza avviene per lo più a “Nazaret”, imitando quel tempo di Gesù fatto
di lavoro e di nascondimento e questa abiezione ci deve essere cara. La nostra vita religiosa, la
nostra spiritualità si compie principalmente nel lavoro e, per alcuni di noi, anche nella famiglia.
La nostra realtà è quella del nascondimento e non dobbiamo mai cercare una visibilità
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eccessiva. La realtà del mondo però rischia di frastornarci e dobbiamo cercare dei momenti di
deserto in cui cercare spazi di silenzio e di preghiera dove possiamo fare l’anamnesi della
nostra storia, dei nostri progetti e della voce di Dio che si spande nella nostra vita quotidiana.
Una voce che molto spesso non riusciamo a cogliere. In questo modo possono rivelarsi anche
per noi quegli aspetti della vita di Domenico che lo hanno spinto a cercare l’ultimo posto nella
Chiesa per poter offrire tutto se stesso alla predicazione. Come lui anche noi dobbiamo
misurarci con questa “kenosi”, ovvero con questo desiderio di occupare i luoghi più bassi, i
luoghi più difficili per la predicazione. La vita religiosa di un laico non è la triste imitazione della
vita presbiteriale o monastica e credo che occorra una certa prudenza nell’accedere alle
questioni della liturgia: la Chiesa si fa nell’Eucarestia e l’Eucarestia fa la Chiesa, ma questo
sacramento non ha nessun bisogno delle moine di una laico sull’altare. Dobbiamo invece
concentrarci sul sogno di evangelizzazione del nostro beato padre Domenico.
Questo sogno deve prevedere un nostro progetto di vita, una meta precisa, un programma.
L’ordine a cui apparteniamo ci indica la via dello studio e della contemplazione. Questa realtà
riguarda tutti, nessuno escluso e ci obbliga a non perdere tempo in facezie. La predicazione
scaturirà naturalmente da questa piattaforma, come un dono. Dobbiamo però essere pronti
alla delusione e alla sconfitta, una cosa questa che fa parte integrale della vita cristiana. Infine
però c’è un aspetto trionfante nella vita di Domenico e di Diego di Acebes, un aspetto che
dobbiamo far nostro, ed è la giovinezza. La loro infatti è un incredibile “giovinezza”: Diego e
Domenico giovani non lo sono affatto, vivono anzi una stagione che, specialmente allora, non
permetteva prospettive nuove. Loro invece hanno delle attese e delle speranze e non tengono
in nessun conto la loro condizione anagrafica. Dio, infatti, se ne sbatte del nostro compleanno,
della nostra condizione temporale: nel progetto di Dio non ci sono ne vecchi, ne giovani, ne
sani, ne malati: nei disegni di Dio ci sono solo persone ancora capaci di perdersi in un sogno o
piuttosto persone incapaci di sognare, ma quest’ultime sono già vecchie anche se hanno
vent’anni. Dobbiamo così considerare attentamente come nei disegni del Padre Eterno ci sia
solo l’eternità e all’eternità basti un minuto soltanto. Il nostro computo del tempo, di fronte a
questo, è ridicolo.
Ecco dunque che anche noi dovremo considerare la nostra vita nello stesso modo, un giorno
solo basta per una vita spesa nel Vangelo e non c’è ne giovane, ne vecchio, ne donna, ne
uomo, ne schiavo, ne libero: c’è solo Dio e tanto basta.
Così anche noi oggi dobbiamo scoprire con stupore quel mondo ignoto che passa anche per la
nostra via di casa, dobbiamo vedere come la nostra terra sia diventata una marca di confine,
dalla quale lanciarci nella missione di cercare uomini e anime. Ci sono terre straniere nei nostri
stessi quartieri, terre che sono abitate da uomini, donne, bambini e vecchi che aspettano da un
tempo immemorabile la comparsa di qualcuno capace di dire loro che la vita non è inutile, che
l’amore ha preso il sopravvento sulla notte e che per tutti loro c’è un abbraccio di Dio: un Dio
incredibilmente buono e padre, mistero infinito di una Grazia difficile da capire, ma accessibile
ad ogni uomo di buona volontà.
Questo è un compito tutto nostro, un compito che si può realizzare solo nella estrema
semplicità di vita delle nostre varie “Nazaret”, alla semplice condizione di nutrire ancora una
sogno e avere un preciso progetto.
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