Untitled - M.G.L. Valentini

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Untitled - M.G.L. Valentini
M.G.L. Valentini
Cristal i
ISBN 978-1-4092-2318-4
© 1984 MGL VALENTINI
Tutti i diritti riservati
Copertina: MGL Valentini
Grafica: Marco Licio Fabi
Contatta l’autrice
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Questo romanzo è di pura fantasia. Qualsiasi riferimento a cose, nomi,
persone o fatti, è del tutto casuale.
狼の
声そろうなり
雪のくれ
ŌKAMI NO
KOE SOROUNARI
YUKI NO KURE
Naitō Jōsō
I LUPI
ULULANO INSIEME:
TRAMONTO DI NEVE!
A Caterina, la mia prima lettrice
e a Lisa, per le sue lacrime versate
"Se penso e rifletto a lungo sugli eventi gioiosi, tristi e a volte
tragici che il destino riserva a ognuno di noi durante l'arco della
propria esistenza, mi sia consentito paragonare il cammino della
vita a tanti piccoli cristalli iridescenti, uno concatenato all'altro che,
a seconda degli imprevisti davanti ai quali il destino ci pone di volta
in volta, vengono inesplicabilmente a sgretolarsi uno dietro l'altro,
come una incessante reazione a catena che possa venire fermata
solo dalla forza di volontà del singolo individuo.
Ma non sempre è il destino a innescare tale reazione.
Una volontà più forte della nostra potrebbe avere facile ragione
di noi, così da trascinarci in un vortice sempre più buio e profondo
dal quale difficilmente potremmo venirne fuori se venissimo
prontamente, o peggio premeditatamente, privati della nostra forza
interiore. Spesso questa volontà così sottile e ambigua si insinua
dentro di noi con dolcezza e pazienza, tessendo, anno dopo anno,
una ragnatela invisibile ai nostri occhi, con la quale ci tiene
segretamente vincolati al suo volere. E solo quando è troppo tardi
ci rendiamo conto di essere completamente succubi e abulici. Ed è
allora che riversiamo la colpa sul destino e, forti di questa
convinzione, lasciamo che gli eventi proseguano indisturbati nel
loro cammino.
Mi chiedo, alle volte, come ciò sia possibile e mi soffermo a
pensare a quegli uomini indomiti che per tutta la vita si divertono a
forzare la mano al destino, a sfidarlo continuamente per elevarsi a
suo simile, per venire, in ultimo, sopraffatti da quella medesima
misteriosa mano. Ma penso altresì che siamo esseri umani, con
tutti i nostri difetti, i nostri pregi, i nostri vizi e con quella forte
curiosità che ci spinge a voler sapere sempre di più per avere
sempre di più, trascinandoci oltre i limiti imposti dalla natura.
E forse, tra destino e volere, esiste un solo insormontabile
ostacolo: la perfezione.
L.A. Fawkes.
Estate 1974"
Libro Primo
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Iniziò a piovere pochi minuti prima che terminasse la lezione e gli
studenti si voltarono verso le finestre, distraendosi per un attimo dal
discorso del docente. Il pezzo di cielo che si intravedeva attraverso i vetri
sporchi e ombrati dal fumo delle sigarette non lasciava presagire niente
di buono per il resto della giornata: pesanti nuvoloni neri tuonavano
minacciosi, mentre lampi e fulmini si rincorrevano squarciando per pochi
secondi il plumbeo colore del cielo.
Il professore si rese conto della mancanza improvvisa di
concentrazione da parte degli studenti e decise di porre fine alla lezione,
concludendo:
«Bene, ragazzi. Per oggi è tutto. Durante il weekend rivedete sul libro
quello che vi ho spiegato e se trovate qualcosa di poco chiaro ne
riparleremo la prossima volta. Buon divertimento.»
Pioveva sempre più violentemente e sui marciapiedi e sulle strade si
formarono veri e propri laghi, una recrudescenza del rigido inverno
appena trascorso. Ormai l'estate era alle porte e le giornate si
susseguivano calde e soleggiate, infondendo calore e allegria sui volti
della gente. Quell'improvviso temporale primaverile colse tutti di
sorpresa e pungenti commenti s'innalzarono per l'aria, mentre ognuno
correva in cerca di un provvisorio riparo.
Sbuffando, Alan Wild si assicurò i libri sotto il braccio e si mise a
correre in direzione degli alloggi universitari. Scivolò sull'asfalto bagnato
e riuscì a tenersi in equilibrio per puro miracolo, schivando all'ultimo
istante una macchina che sfrecciava veloce e che provvide a schizzarlo
fino al collo. Imprecò ed entrò nel portone dell'edificio, facendosi poi i
due piani a piedi per arrivare al suo appartamento.
Con gesto stanco posò i libri sul tavolo della cucina e si diresse verso
il bagno per farsi la doccia, fischiettando il motivo di una canzone. Si
fermò davanti allo specchio e si mirò a lungo, voltando la testa ora da un
lato ora dall'altro, finendo col fare l'occhiolino alla propria immagine. Mio
caro Alan, si disse con orgoglio, ancora tre esami e la tesi ed è fatta: poi
potrai goderti tutti i fine settimana che vorrai, alla faccia della pioggia.
Sorrise soddisfatto e studiò la propria figura. Anche così, con i folti
ricci castani che gocciolavano, il maglione e i jeans infangati e bagnati,
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rimaneva un ragazzo attraente che, con una sola occhiata, riusciva a
rapire i cuori femminili, facendo cadere tutte le donne ai suoi piedi.
Era sempre stato narcisista fino all'esasperazione. Con i coetanei non
perdeva mai occasione per esercitare il suo egocentrismo,
esacerbandoli oltremodo, col solo risultato di rimanere con pochi amici;
con le ragazze sfoggiava tutto il fascino che possedeva,
pavoneggiandosi con albagia, scrutandole dall'alto in basso, come se
fosse stato un dio, un Apollo redivivo. E tutte lo adoravano, facevano
cerchio intorno a lui, sommergendolo di complimenti ed effusioni.
Scosse la testa, come per accantonare i ricordi e s'infilò sotto la
doccia, crogiolandosi a lungo al tepore dell'acqua. Quindi indossò
l'accappatoio e prese l'asciugamano per frizionare i capelli.
Il solo tornare indietro nel tempo, a quando era piccolo, lo fece ridere.
Anche allora si poneva davanti allo specchio e si mirava a lungo,
alzando la testa con orgoglio, aggiustandosi un ricciolo ribelle e facendo
finta di essere un cow boy, un guerriero, un paladino del bene. E ad
osservarlo in tutte le sue pose narcisiste c'era sempre stata la sua dolce
sorellina che batteva le mani, rideva e lo incitava a continuare, senza
mai stancarsi di lodarlo e di fargli complimenti. E accanto a lei c'era
sempre...
Si rabbuiò all'improvviso, disgustato. Con stizza buttò via
l'asciugamano e si pettinò i ricci arruffati. Ecco: si era rovinato la giornata
andando a rimuginare nei ricordi. Non doveva pensarci: lui non esisteva.
Maledizione! imprecò con rabbia. Accidenti a te! Hai il potere di rovinare
l'esistenza altrui anche quando non ci sei più!
A passi lunghi e risoluti raggiunse la propria camera e dall'armadio
prese un paio di jeans e una camicia, mentre dall'ingresso qualcuno
chiamava:
«Alan? Sei già arrivato?»
Con un profondo sospiro cercò di assumere un tono di voce tranquillo
prima di rispondere:
«Sì. Ti sei bagnata?»
Sentì chiudere il portone e i passi di sua sorella che si dirigevano
verso la cucina.
«Non molto. Ho atteso che diminuisse di piovere prima di muovermi.
Che tempo matto!» commentò la ragazza con vivacità.
Alan abbozzò un sorriso mentre raccoglieva gli abiti bagnati e li
posava nel cestino dei panni sporchi. Raggiunse la sorella in cucina e
rimase sulla soglia della porta a osservarla mentre lei metteva l'acqua
nella pentola e controllava l'arrosto nel forno.
«Ehi, dico! Hai finito di startene lì impalato a fissarmi?»
Alan si scosse dalle proprie riflessioni e rispose al sorriso che gli era
rivolto. Prese la tovaglia e si mise ad apparecchiare, mentre una
gradevole fragranza di arrosto si diffondeva per l'appartamento.
Fuori continuava a piovere incessantemente e il vento si faceva più
impetuoso e freddo, trascinandosi dietro grosse nubi nere cariche di
pioggia che parevano rincorrersi tra loro come protagoniste di una gara
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perenne, mentre gli alberi si inchinavano al loro passaggio facendo
cantare le foglie come un lungo battito di mani. Per le strade non si
scorgeva più nessuno; solo un cane guaiva in lontananza, un lamento
triste e pieno di solitudine.
Hilda sbirciò dietro le tendine della finestra e quel grigio paesaggio le
mise addosso una grande malinconia. Appena aveva iniziato a piovere si
era sentita pervadere dall'angoscia, accompagnata da un vago senso di
impotenza. E lei era impotente davanti al corso della vita, della sua vita.
Con un sospiro tornò ai fornelli e si concentrò sul pranzo per non
ricadere nel vortice di ricordi dolorosi.
«Ehi!» esclamò Alan studiandola corrucciato. «Non dirmi che ci pensi
ancora!»
Lei sussultò appena e si voltò verso il fratello, replicando risentita:
«Sei veramente così sicuro di te?»
«Non è così? Riconoscerei quell'espressione anche se ti vedessi lontana
mille miglia!» insistette irritato.
Hilda gli lanciò un'occhiata fulminante, pronta per la guerra verbale
che sarebbe scoppiata di lì a pochi secondi, ma prima che avesse la
possibilità di rispondergli qualcuno suonò alla porta, spezzando
tempestivamente la tensione che si stava creando.
«Vado io, non ti scomodare.» borbottò Alan.
Mentre andava ad aprire, lei fece una smorfia e lo scimmiottò
sottovoce:
«Vado io, non ti scomodare!»
Incuriosita avanzò verso l'ingresso e vide Sandy sulla porta, il
ragazzo dell'ultimo piano. Era l'unico, in tutta la palazzina, ad avere il
telefono e, di conseguenza, ogni volta che qualche parente o amico
chiamava, era costretto ad avvisare l'interessato giungendo nelle ore più
disparate della giornata.
Hilda lo salutò con un sorriso e Alan si voltò verso di lei, spiegando:
«È una chiamata per noi. Pare sia la zia. Vado a sentire cos'è successo
e torno subito.»
«Ok. La pasta è pronta.» l'informò con un’alzata di spalle.
Sandy la salutò e se ne andò insieme ad Alan, mentre lei rimaneva a
guardare la porta che si chiudeva alle loro spalle.
E rimase immobile a lungo, al centro dell'ingresso, nel più totale
silenzio, senza pensare a niente. Poi, lentamente, chinò la testa e
incurvò le spalle, mentre una lacrima scendeva a rigarle la guancia
pallida. Pianse in silenzio, consapevole di avere solo quel breve lasso di
tempo per lasciarsi andare, prima che Alan tornasse.
Si maledisse per essersi tradita, risvegliando i sospetti del fratello che
lei, con enorme sforzo, era riuscita a sopire già da alcuni anni. Alan le
aveva ripetuto infinite volte di dimenticarlo, di non considerarlo più un
fratello e lei, per evitare le sue continue scenate, gli aveva fatto credere
di essersi rassegnata, evitando accuratamente di pensare a Siegfried in
sua presenza. Ma come posso dimenticare di avere un altro fratello? Un
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fratello che continuo ad amare anche se sono trascorsi otto anni
dall'ultima volta che l'ho visto?
Si asciugò le lacrime e tornò in cucina, dirigendosi verso la finestra e
scostò le tendine per osservare il paesaggio grigio che le si presentava
davanti, senza, però, vederlo realmente, trascinata ormai nel vortice di
ricordi tristi e crudeli che avevano segnato la sua infanzia.
La sua mente rievocava immagini lontane e dolci, quando lei, Alan e
Siegfried giocavano insieme, ridevano, scherzavano e si volevano bene.
I suoi due fratelli facevano a gara nel ricoprirla di attenzioni, effusioni,
baci e carezze perché, dicevano, era la piccolina e aveva quindi bisogno
di tanto affetto. E lei, a sua volta, considerava i suoi fratelli come due
cavalieri che l'amavano e la proteggevano.
Quel gioco era durato fino a quando Alan, a quindici anni, aveva
deciso che era meglio far sfoggio del suo fascino con altre ragazze
anziché con lei, lasciando campo libero al suo più diretto e acerrimo
rivale. E lei, abituata per undici anni a essere il centro di tutte le
attenzioni dei fratelli, avvertendo quel vuoto improvviso attorno a sé
aveva riversato tutto il suo amore su Siegfried. Quella sorta di
abbandono da parte del fratello maggiore aveva avuto il potere di farla
star male e, come era naturale in una bambina, pensò che un dolore
così grande non l'avrebbe mai più provato. Viziata e coccolata fin da
quando era venuta alla luce, amata e sommersa di complimenti da parte
di entrambi i fratelli, considerò il voltafaccia di Alan come una pugnalata
data a tradimento e faticò molto a perdonarlo.
A tredici anni Siegfried era già conosciuto in tutti i peggiori ambienti
della città. Con i suoi amici si divertiva a molestare la gente, a
commettere furti, a fare a pugni con i coetanei, a perpetrare veri e propri
atti di vandalismo e teppismo; fin da piccolo aveva mostrato una palese
tendenza ad amare le armi e ogni volta che gli si presentava l'occasione
non si faceva scrupoli nell'usarle. In particolare aveva una certa
debolezza per le armi bianche che, come avrebbe sempre sostenuto in
seguito, avevano la facoltà di risvegliare la parte più aggressiva e abile
di chi se ne serviva.
Di tutto questo Hilda non aveva mai saputo niente. Con lei si era
comportato sempre con premura e gentilezza, ricoprendola di maggior
affetto dopo che Alan gli aveva lasciato il campo libero per correre dietro
alle ragazze. E lei aveva continuato ad adorarlo, forse più di prima,
concedendogli tutto l'amore che in precedenza aveva dovuto scindere in
parti uguali tra lui e Alan. Si era resa conto fin da piccola che non le era
concesso amare più un fratello dell'altro; quella rivalità tra loro le faceva
paura. Se, per distrazione, mostrava più attenzione a uno dei due, l'altro
subito scoccava un'occhiata micidiale in direzione del fratello e
immediatamente si mettevano a litigare. Per evitare che quella rivalità
sfociasse nell'odio, aveva sempre bilanciato in maniera uguale il proprio
affetto, sebbene, nel suo intimo, fosse più incline ad amare Siegfried.
L'improvviso allontanamento di Alan l'aveva lasciata libera di dedicarsi
appieno al fratello preferito.
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Ma anche la più totale abnegazione alla fine costringe ad aprire gli
occhi e Hilda aveva iniziato a intuire che qualcosa non andava. Se con
lei Siegfried era dolce e affettuoso, con i suoi genitori, invece, non
faceva altro che litigare furiosamente. Anche se troppo tardi per poter
rimediare, avevano scoperto che frequentava delinquenti in erba,
sempre pronti a commettere malvagità di ogni genere e a nulla erano
valsi gli schiaffi paterni per ricondurlo sulla retta via.
I continui litigi le avevano fatto intuire la verità e quando aveva
chiesto ad Alan di spiegarle cosa stava accadendo, il ragazzo le aveva
sussurrato sconsolato:
«Siegfried è un delinquente.»
Rabbrividì al ricordo di quel particolare momento della propria
infanzia e si appoggiò alla finestra.
Per una bambina di undici anni quella verità risultò difficile da
accettare. Si sentì malissimo e per diverso tempo si rinchiuse in se
stessa, piangendo e maledicendo Siegfried. Nel breve periodo di un
mese era stata tradita prima da Alan e poi da colui nel quale aveva
riposto tutta la sua fiducia. Reagì nell'unico modo che le era possibile,
iniziando a diffidare dei suoi fratelli, a ignorarli, sentendo crescere dentro
di sé rabbia e solitudine.
Ma quello stato di cose durò poco: cinque mesi più tardi i loro genitori
morirono in un incidente stradale e i tre orfanelli furono accolti in casa
della zia materna. Con loro, Alan e Hilda rimasero fino a quando il
ragazzo non si iscrisse all'università, mentre Siegfried pensò bene di
sparire dopo poche settimane.
Otto anni. Da otto anni non ti sei più fatto vedere, pensò con tristezza,
continuando a guardare la pioggia che cadeva incessante.
Con un enorme sforzo ricacciò indietro le lacrime e passò una mano
sulla fronte, mordendosi le labbra. Come un automa si avvicinò ai fornelli
e si accinse a togliere la pasta dal fuoco.
Alan, senza dubbio, aveva ragione quando le ripeteva di dimenticarlo
eppure, nonostante tutti gli sforzi che faceva, non ci riusciva. Il passato
apparteneva al passato e così doveva essere, anche se seguitava a
ripensare ai momenti più tristi della sua vita come se avesse voluto
cambiarli in un ultimo, disperato tentativo.
«Continuare a pensarci non risolverà niente.» le aveva detto Alan con
rabbia, dopo che Siegfried se ne era andato per sempre. «Non è colpa di
nessuno se ci è capitata la disgrazia di avere un fratello delinquente.
Non vale la pena di pensare a lui: dimenticalo e poi ti sentirai meglio.»
L'aveva guardata a lungo, studiando quegli occhi tumefatti e rossi per
le tante lacrime versate, quindi aveva continuato con più pacatezza:
«Non preoccuparti. In fin dei conti, alla tua età si dimentica facilmente.»
E lei aveva dodici anni quando Siegfried se ne era andato senza dire
una parola.
Ma io non ho dimenticato. Non potrei mai. Lui è mio fratello e
continuerò a sperare che un giorno ritorni. Sospirò tristemente,
pensando che quell'attesa le era già costata molto.
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Oddio, basta! Basta! Non posso continuare a torturarmi così in
eterno! Siegfried ha scelto da solo la propria vita: a modo suo sarà felice.
«Hilda!»
La ragazza sobbalzò al tono imperioso e improvviso: immersa nei
ricordi non aveva udito Alan rientrare. Lo guardò timorosa e quello che
vide non le piacque. Alan la fissava torvo, le mani nelle tasche dei jeans,
a testimonianza che era da un po' lì a studiarla.
«Quante volte ti ho ripetuto e continuo a ripeterti che non devi
pensarci?» urlò inviperito, dando sfogo alla collera feroce che il solo
pensiero del fratello gli procurava.
«Scusami.» mormorò lei chinando la testa.
Il ragazzo inspirò a fondo, cercando di ritrovare il controllo delle
proprie emozioni. Maledetto! imprecò con stizza. Possibile che debba
sempre combattere contro il tuo fantasma? Con rabbia si sedette a
tavola e ringhiò:
«Allora? Non avevi detto che la pasta era pronta?»
Hilda annuì e si precipitò a preparare i piatti col cuore che le batteva
impazzito. Gli improvvisi e violenti scoppi d'ira del fratello iniziavano a
preoccuparla e ogni qualvolta lo vedeva pronto a esplodere evitava con
ogni mezzo possibile di far precipitare le cose. Così se ne rimase in
silenzio per l'intera durata del pranzo, ascoltando con malinconia la
pioggia che batteva contro i vetri con un ritmo sempre uguale.
Con un pallido sorriso accettò l'aiuto che Alan le offrì al termine del
pasto e quando il ragazzo si ritirò in camera sua sospirò di sollievo,
chiudendo la mente a qualsiasi pensiero.
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«Hilda, io vado da Sandy. Devi uscire?»
Dalla propria camera, alzando la voce per farsi udire, lei rispose:
«Ho un appuntamento con LA per studiare.»
Alan fece una smorfia di disprezzo e bofonchiò:
«Tornerò per cena. Vedi di farti trovare a casa per quell'ora.»
Appena sentì chiudere la porta di casa, Hilda si lasciò sfuggire un
sospiro di sollievo e aggiustò una piega invisibile sulla gonna. Quindi si
diresse in bagno per prepararsi e iniziò a spazzolare i lunghi capelli
corvini.
Sorrise pensando alla sua amica. Alan la disprezzava e questo LA lo
sapeva, nonostante per un certo periodo di tempo fossero stati insieme.
Ma non se ne curava affatto. Hilda la conosceva già da cinque anni, in
pratica da quando si era trasferita lì con Alan e poteva giurare di non
averla mai vista pensierosa o con un problema da risolvere: LA era
sempre allegra e spensierata; niente riusciva a sminuire la voglia di
vivere che la sosteneva.
Una puttana dal viso d'angelo, dicevano di lei. Poteva avere tutte le
virtù di questo mondo, però le piaceva troppo divertirsi e per questo era
stata marchiata.
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Già, pensò Hilda malinconica, fa presto la gente a giudicare. Possono
dire tutto il male che vogliono su di te, ma per me sei semplicemente
magnifica. Sei la mia unica vera amica e non ti cambierei con una santa.
Solo tu hai saputo aiutarmi e comprendermi senza che io ti chiedessi o
dicessi niente.
Si voltò verso la finestra con un'espressione intensa sul volto pallido,
le sopracciglia aggrottate e i capelli che le ricadevano voluminosi e
ondulati sulle spalle. LA, pensò, non è minore la bellezza anche se cade
a un soffio di vento.
All'improvviso il ricordo di quella domenica mattina le fece venire le
lacrime agli occhi e si morse le labbra per non cedere alla debolezza. Il
passato le tornava troppo spesso in mente, crudele e ossessionante,
malgrado facesse sforzi enormi per dimenticare.
Scosse la testa e decise di fare due passi prima di andare da LA e,
afferrato l'impermeabile, uscì senza pensarci oltre.
Da poco aveva smesso di piovere, anche se la città era ancora
avvolta da un cupo grigiore e un leggero vento la fece rabbrividire
all'improvviso. La sua mente era un continuo via vai di ricordi che si
susseguivano con velocità dirompente e che la perseguitavano ormai da
cinque anni, tenendola segregata nella prigione di se stessa.
L'uomo è come un fiore portato dal vento, si ripeté per la centesima
volta. È il Karma.
Lasciò spaziare la mente in un luogo da fiaba, dove si rintanava
quando voleva fuggire alla realtà, e quel luogo così cristallino,
incontaminato, dove solo a lei era consentito l'accesso, rifletteva una
luce abbagliante, fatta di miriadi di cristalli iridescenti. Cristalli che
rilucevano sopra una cascata di capelli biondi che svolazzavano liberi e
che sembravano trasparenti, tanto erano chiari. I capelli di Siegfried, così
biondi da meritarsi il soprannome di Dagr, il mitico dio del giorno. E lui le
sorrideva, col suo volto da bambino, circondato da un velo di nebbia.
Otto anni...
Rabbrividì, mentre alcune gocce di pioggia ricominciavano a cadere.
Scrutò il cielo plumbeo e decise di rientrare. Era anche ora di andare da
LA.
Ritornò sui propri passi e mise il cappuccio dell'impermeabile in testa.
Tra meno di un mese doveva dare un esame ed era meglio non pensare
ad altro. Se si fosse dedicata allo studio, sarebbe riuscita a superare la
prova facilmente; la media dei suoi voti era buona e non avrebbe
permesso ai ricordi di rovinargliela. E anche volendo, non si sarebbe
potuta permettere il lusso di prendersela comoda.
Quando sua zia aveva telefonato, li aveva avvertiti che quello che i
loro genitori avevano lasciato in banca si stava consumando e se Alan
non si fosse sbrigato a laurearsi e a trovare lavoro, si sarebbero ritrovati
senza fondi e lei avrebbe dovuto abbandonare gli studi. In parole povere,
si sarebbero ritrovati sul lastrico e sua zia aveva lasciato chiaramente
intendere che lei non avrebbe potuto far niente. Meglio ancora: nei tre
anni che li aveva mantenuti aveva fatto anche troppo.
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Ma che bella prospettiva! pensò Hilda con sarcasmo.
Con stizza accelerò il passo, mentre la pioggia cadeva con maggior
insistenza. Fu in quel momento che qualcosa attrasse la sua attenzione.
A prima vista sembrava un fagottino grigio e peloso, abbandonato per la
strada e se non fosse stato perché tremava convulsamente, non
l'avrebbe neppure notato. Incuriosita si avvicinò accucciandosi e allungò
una mano, quando un guaito la fece sobbalzare. Fissò il fagotto e subito
dopo sorrise, prendendolo in braccio: era solo un cucciolo di cane
inzuppato come un pulcino che tremava per il freddo. Lo strinse a sé
cercando di trasmettergli un po' del suo calore e il cucciolo la guardò
drizzando le orecchie.
«Dimmi: chi ha avuto il coraggio di abbandonarti sotto questa pioggia?»
mormorò accarezzandolo piano.
Mossa da compassione, decise di portarlo a casa e si mise a correre,
arrivando a destinazione con un violento batticuore. Senza curarsi di
togliere l'impermeabile che gocciolava, si diresse in bagno, posò il
cucciolo a terra e aprì l'acqua per riempire la vasca.
«Mi auguro che tu non abbia paura di un bel bagnetto caldo.» commentò
osservando il batuffolo bianco che a mala pena si teneva sulle zampe.
Ridendo si sbarazzò dell'impermeabile, cercando un nome da dargli e
quando l'acqua giunse al livello desiderato, prese il suo nuovo amico e
gli fece un bel bagno caldo, insaponandolo e frizionandolo a dovere. Ci
impiegò quasi un'ora a lavarlo e asciugarlo, lottando per tenerlo fermo
ma, alla fine, il risultato superò ogni aspettativa: del cucciolo inzuppato,
infreddolito e maleodorante non c'era più traccia; al suo posto c'era una
massa gonfia di peli lunghi e brillanti che risplendeva sotto la luce del
neon.
Hilda lo sollevò per osservarlo e, contenta, esclamò:
«Sei perfetto! Non immaginavo che una volta rimesso a nuovo saresti
stato così carino. Vediamo... Ti chiamerò Hols. Sì, suona bene. Hols.»
Un lampo saettò negli occhi gialli del cucciolo, occhi obliqui e sottili,
così diversi da quelli di ogni cane. Il suo pelo era folto, la coda grossa e
voluminosa, il muso più allungato del normale e le orecchie dritte e
aguzze.
«Devo riconoscere che come cane sei abbastanza strano.» commentò
rigirandolo da tutte le parti. «Ma mi piaci così come sei.»
Sorrise felice e l'abbracciò, stampandogli un bacio in mezzo al muso.
Siamo entrambi soli, amico mio; ci faremo compagnia.
Lo lasciò libero di girare per casa, mentre si dirigeva in cucina per
preparargli una ciotola con l'acqua e un piatto con alcuni pezzi di carne
avanzati a pranzo. Hols mangiò con avidità e lei lo guardò con affetto,
ripromettendosi di comprargli un guinzaglio e un collare.
Per la prima volta dopo tanti anni, Hilda riuscì a dimenticare il
passato che l'ossessionava e fu contenta di essere ancora viva.
Ancora viva.
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Erano trascorsi ben cinque anni, eppure, all'improvviso, le parve solo
un sogno, una cosa irreale e si ritrovò a chiedersi se veramente fosse
stata lei a compiere quel gesto.
Il suo sguardo si posò sui polsi: benché sottili, le due cicatrici c'erano
e ci sarebbero rimaste per sempre.
Chiuse gli occhi rabbrividendo e in quell'istante suonarono alla porta.
Si riscosse dal passato e andò ad aprire, con Hols che le scodinzolava
attorno felice e con la pancia piena.
La sorridente faccia di LA fece capolino e Hilda non ebbe la
possibilità di aprir bocca ché subito la ragazza esclamò ridendo:
«Ehi! Lo sai che ti sto aspettando già da un'ora? Ti eri dimenticata che
dovevi salire da me? Allora? Ehi! Non dirmi che c'è un uomo in casa! Ho
interrotto qualcosa?» domandò insinuante, squadrandola da capo a piedi.
«Ma no, sei ancora vestita. Allora? Mi fai entrare?»
Quell'inatteso fiume di domande e constatazioni lasciò Hilda un
attimo attonita, mentre la faceva entrare e richiudeva la porta alle proprie
spalle. Quindi scoppiò a ridere e mormorò:
«Oh, no! Niente uomini. Ero uscita per fare due passi.»
«Oh, santo cielo!» sospirò LA. «Ed io che speravo di trovarti in dolce
compagnia! Ho la vaga impressione che tu sia affetta da una grave,
addirittura cronica fobia. Allora?»
Hilda sorrise, intuendo la muta domanda dell'altra e lasciò scivolare lo
sguardo ai propri piedi. LA chinò la testa e vide Hols rannicchiato dietro
le gambe dell'amica.
«Oh, cielo! Che amore!» esclamò chinandosi e prendendolo in braccio.
«Dio, è dolcissimo! Dove diamine l'hai trovato?»
«L'ho trovato ora che sono uscita. Qualcuno deve averlo abbandonato e
così ho deciso di portarlo a casa. Mi faceva tenerezza.»
«Pensi di tenerlo?»
«Sì. Gli ho già trovato un nome: Hols. Ti piace?»
Si diressero in cucina e Hilda si diede da fare per preparare il caffè,
mentre LA giocherellava con il cucciolo.
«Sì, mi piace. Direi che è perfetto.» rispose. «Alan l'ha visto?»
«Veramente no.» ammise Hilda in un sussurro, posando la caffettiera sul
fuoco.
I grandi occhi nocciola di LA puntarono sull'amica, tuttavia non disse
niente: il silenzio parlò per lei. In quegli anni aveva imparato a conoscere
i due fratelli e già immaginava la reazione che avrebbe avuto Alan.
Brutta faccenda, pensò tristemente.
Sentì Hilda sospirare e il suo sguardo si fece compassionevole.
«Bene!» esclamò con allegria, posando Hols a terra. «Dall'odore si
direbbe che il caffè stia venendo buono. Penso io alle tazzine, tu prendi
lo zucchero.»
Hilda la sbirciò mentre si muoveva per la cucina e sorrise. Sei una
cara amica, pensò.
«Perfetto.» commentò LA sedendosi. «Ora ci gustiamo il caffè, quindi ci
buttiamo nel ripasso, ok?»
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«Ok.»
Per tutto il pomeriggio LA ascoltò le risposte che Hilda dava alle sue
domande, fornendole maggiori spiegazioni, facendole ampliare o
restringere vari concetti, dandole consigli e assicurandola che avrebbe
superato l'esame con il massimo dei voti.
Una volta sola, Hilda fece mangiare Hols e si preparò all'arrivo di
Alan.
~
«Cristo, Hilda! Siamo quasi ridotti alla fame e tu mi porti un animale in
casa! Perdio! Non abbiamo soldi e tu mi sobbarchi della responsabilità di
sfamare un'altra bocca! Che cazzo ti dice la testa? Eh? Cristo! Cristo!»
Con stizza Alan passò una mano tra i capelli e continuò a imprecare
e bestemmiare con veemenza.
Da più di un'ora non faceva che urlare e camminare avanti e indietro,
agitando le mani e strabuzzando gli occhi per l'ira. Era bastato che lei
accennasse a Hols che subito l'aveva guardata da prima allibito, poi con
maggior furore fin quando non era esploso. Lei l'aveva lasciato sfogare,
niente affatto intimorita dalla sua ira, seduta al tavolo della cucina con la
testa reclinata in avanti, lasciando credere al fratello di avere timore di lui.
Sì, aveva imparato che era meglio non dar prova che la sua violenza la
lasciava del tutto indifferente.
Alan la costrinse a guardarlo, afferrandole con durezza il volto e lei
assunse un'espressione prostrata e intimorita.
«Non abbiamo soldi, Cristo! Mi spieghi come cazzo intendi nutrirlo?»
Hilda non rispose, ma continuò a guardarlo con attenzione. Ormai
doveva arrendersi all'evidenza: Alan aveva problemi, seri problemi. Da
troppo tempo perdeva la calma per un nonnulla e giorno dopo giorno
peggiorava, proprio come le aveva fatto notare LA.
«Alan sta male. Non credo sia solo esaurimento nervoso. Non lo vedi
anche tu? Sembra quasi che stia impazzendo. A volte mette paura.» le
aveva detto un giorno.
«Sei tu la pazza!» aveva risposto con veemenza. «Alan sta benissimo; è
solo stressato perché ha dovuto studiare molto, bisogna capirlo. Vedrai
che si rimetterà presto.»
LA l'aveva guardata con compassione, quindi aveva scosso la testa
mormorando:
«Lo difendi solo perché è tuo fratello. Ma te ne accorgerai presto.»
Oh, come avevi ragione! Ed io che non ho voluto crederti!
«Non guardarmi con quell'aria da scema! Rispondi quando ti parlo,
perdio!»
Il ragazzo la scosse con violenza, facendola tornare bruscamente al
presente.
«Alan, ti prego...» gemette per il dolore.
Lui la lasciò andare e rimase a fissarla con gli occhi iniettati di sangue
e il fiato corto. Lentamente, a testa bassa, Hilda si ricompose e passò
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una mano sulla fronte. Alzò il volto e studiò il fratello: il suo viso era
sconvolto e tirato dall'ira ed era palese lo sforzo che faceva per
dominarsi.
Per un lungo momento tutto tacque e all'improvviso, così come era
esploso, Alan si calmò. Inspirò a fondo e bofonchiò qualcosa di
inintelligibile, fissando cupo la sorella. Per una frazione di secondo parve
che volesse scusarsi, ma altro non fece che sedersi, continuando un
sommesso e incomprensibile monologo.
Hilda continuò a sbirciarlo con circospezione, cercando di intuire cosa
gli stesse passando per la testa. Per un attimo rivide il piccolo Alan che
le faceva le carezze e i complimenti; rivide un bambino dolce e
premuroso che le voleva bene. Ma tornò subito con i piedi per terra,
pensando con amarezza che quell'Alan era morto. Per sempre.
«Allora? Potresti anche farmelo vedere, ti pare?» l’esortò.
Quel tono di voce dolce l'impensierì. Solo un minuto prima stava
urlando e bestemmiando come un forsennato e ora sembrava un
cherubino innocente.
Sforzandosi di sorridere corse in camera e appena Hols la sentì
entrare balzò giù dal letto e le andò vicino scodinzolando felice. Lei lo
prese in braccio, ripromettendosi di non lasciarlo toccare da Alan:
sarebbe stato capace di spezzargli il collo.
Sospirando tornò in cucina, tenendo Hols stretto al seno. Si fece
forza e sorridendo disse:
«Eccolo qui. Ti piace?»
Alan fissò il cucciolo, alzandosi in piedi a rilento. Hols, a sua volta,
puntò i propri occhi gialli in quelli neri del ragazzo e questi sussultò.
«Sei forse impazzita sul serio, perdio?» urlò Alan all'improvviso.
Additò il cucciolo e guardando con un barlume di follia la sorella sibilò
minaccioso:
«Io me ne vado, ma tra un'ora, quando ritornerò, non voglio più trovare
questo lupo in casa! Guai a te se lo vedrò ancora: butterò fuori a calci in
culo te e lui! Sono stato chiaro?»
Fece una smorfia al genuino stupore di Hilda e si avviò verso la porta,
ruggendo con rabbia:
«Sbarazzatene!»
Hilda rimase sbigottita a osservare Hols tra le sue braccia, riuscendo
solo a ripetersi: oddio, un lupo... un lupo...
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Hilda uscì dall'edificio e osservò il sole alto nel cielo estivo. In
lontananza, sotto un albero, LA l'attendeva parlando con alcune amiche
e appena la vide le corse incontro sorridendo fiduciosa. Tutta eccitata le
prese le mani e chiese a bruciapelo:
«Allora? Com'è andata? Su, forza: quanto? Non farmi penare così!
Allora?»
Hilda la guardò tristemente, quindi chinò la testa in segno di sconfitta
ed LA impallidì, perdendo tutta l'euforia. La fissò incredula e mormorò:
«Non è possibile. Sapevi tutto.»
Hilda alzò le spalle, come se si fosse rassegnata per quell'esame
andato a male, ma LA non si diede per vinta.
«Non è possibile!» ripeté con foga. «Il professore che ti ha esaminato è
solo uno stronzo pezzo di merda! Santo cielo! Dimmi chi è e ci andrò io a
parlare! Voglio proprio sapere con quale assurdo criterio ti ha valutato!
Deve essere proprio un pez...»
Si bloccò quando vide l'amica scuotere la testa e scoppiare a ridere.
«Sei decisamente matta!» esclamò Hilda senza riuscire a trattenere le
risate. «Mi ha concesso pure la lode!»
LA la scrutò con cautela, quindi le diede una spinta e scoppiò a ridere.
«Mi hai fatto prendere un bello spavento! Che scema a cascarci! Dovevo
immaginarlo!»
Ridendo e scherzando si avviarono verso casa, noncuranti della
gente che si girava a guardarle con curiosità. Il sole risplendeva sui loro
capelli, dando vita a uno spensierato gioco di colori iridescenti, dove il
rosso si fondeva a striature bionde e il nero a striature azzurre,
provocando un contrasto di mirabile bellezza.
Da quando era arrivato Hols, Hilda aveva ritrovato il sorriso e la
voglia di vivere di un tempo e lo spettro scuro del passato aveva iniziato
a dissolversi lentamente, lasciandola libera di godere la tanto agognata
serenità. Tuttavia non era stato facile far capitolare Alan. Era stato
irremovibile fin dall'inizio: non voleva il lupo in casa. Era stata LA a fargli
cambiare idea, trattandolo ora con dolcezza ora con rabbia,
cantandogliene quattro e alzando la voce quando lui alzava la sua. Alla
fine Hilda aveva ottenuto l'autorizzazione a tenere Hols.
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Da due mesi LA stentava a riconoscere la sua amica. Era serena e
felice come mai l'aveva vista e ciò le procurava grande gioia. A stento
riusciva a paragonarla alla ragazzina che aveva conosciuto cinque anni
prima: della vecchia Hilda era rimasto poco o niente.
All’epoca aveva solo quindici anni e frequentava ancora il liceo,
quando aveva pregato Alan di portarla con sé agli alloggi universitari. LA
vi si era trasferita una settimana prima e, come Alan, era iscritta al primo
anno di corso. Spinta dalla curiosità, sapendo che tra gli studenti c'era
una quindicenne, era scesa per dar loro il benvenuto ed era rimasta
incantata a fissare Alan. Non aveva mai visto un ragazzo così bello in
tutta la sua vita: perfetto, era stato il suo unico pensiero.
«Io... Io sono Leigh Ami Fawkes, per gli amici solo LA, e... Be’, volevo
dare a te e a tua sorella il benvenuto.»
Si era ritrovata a balbettare come una scolaretta alla prima cotta,
senza riuscire a staccare gli occhi da lui e il suo viso era diventato
purpureo.
«Salve. Io sono Alan Wild.» si era presentato, osservandola con palese
ammirazione.
Erano rimasti a guardarsi sulla soglia della porta, senza parlare e
sorridendosi un po' imbarazzati, Poi, come se si fosse ricordato solo in
quel momento, Alan aveva chiamato la sorella ed LA aveva allungato il
collo per sbirciare oltre la spalla del ragazzo. Aveva scrutato quella
figura sottile, emaciata e tremendamente pallida avanzare come un
fantasma e appena se l'era ritrovata di fronte l'unica cosa che era
riuscita a percepire era stata l'invidia. Ma come quegli occhi grigi,
trasparenti, si erano posati su di lei, il cuore le si era stretto in una morsa
dolorosa. In quei due cristalli aveva letto solitudine e paura con
un'intensità tale da lasciarla perplessa. Hilda aveva teso la mano, senza
che un'ombra di sorriso le increspasse le labbra, totalmente abulica. Era
rimasta impassibile, con lo sguardo spento fisso nel vuoto e quando LA
si era decisa a stringerle la mano, aveva sentito quella di Hilda gelida e
aveva notato il nastrino di raso intorno al polso. Si era chiesta cosa
potesse significare e i suoi occhi si erano repentinamente posati sull'altro
braccio, dove stava, seminascosto dal maglione, il secondo nastrino.
Nei giorni successivi LA era rimasta a lungo con il pensiero fisso su
Hilda, sentendo di dover fare qualcosa per aiutarla e ogni volta che le si
era presentata l'occasione, era andata a trovarla. All'inizio era stata
accolta con freddezza, poi, lentamente, era riuscita e far breccia nel
cuore di quella quindicenne diffidente.
Col tempo la sua tenacia si era rivelata l'arma migliore: lei e Hilda
erano diventate amiche e si vedevano tutti i giorni, ora per studiare, ora
per fare la spesa. Non aveva mai fatto domande sul suo passato e
sapeva che di questo Hilda le era riconoscente.
Una massa pelosa e argentata le saltò addosso e tornò bruscamente
al presente.
«Gesù!» esclamò ridendo. «Buono, buono, Hols. Fa' la cuccia, da
bravo.»
21
«È meglio che ti lasci fare le feste o non ti darà pace. Sei l'unica alla
quale si sia affezionato.» disse Hilda andando a prendere il guinzaglio.
LA accarezzò Hols e si lasciò leccare, pensando vagamente che
stava prendendo la forma del lupo adulto.
Cresceva sano, robusto, con il pelo argentato sempre lucido e
spazzolato e ogni mese Hilda lo infilava in vasca per fargli il bagno. Era
stata dura abituarlo all'acqua, ma infine ci aveva preso confidenza e il
lupo si divertiva a sguazzare in mezzo alle bolle di sapone. Adorava la
sua padrona e le trottava sempre al fianco, ringhiando contro chiunque
le si avvicinasse. La sola persona che gli riusciva difficile da sopportare
era Alan, che si comportava come se lui neppure esistesse.
«Ecco qui il tuo guinzaglio, Hols.» annunciò Hilda sorridendo. «Ora
andiamo a fare una bella camminata.»
Mentre si chinava per legarglielo al collo, LA le si avvicinò e titubante
chiese:
«Come va la questione finanziaria?»
Per una frazione di secondo le mani di Hilda si bloccarono e si
domandò cosa ne potesse sapere dei loro problemi. Si voltò a guardarla
e con noncuranza chiese:
«Perché questa domanda?»
«Così. Circa una settimana fa è venuto un ragazzo che cercava te e tuo
fratello, però Alan era fuori e tu stavi in facoltà e lui si è rivolto a me,
dicendo...»
Con uno scatto felino Hilda balzò in piedi e l'afferrò per le spalle,
pallida come un cadavere e domandò:
«Ti ha detto chi era?»
LA la fissò a occhi sgranati, non riuscendo a comprendere la sua
foga e balbettò:
«Ah... Veramente no.»
«Ti ricordi com'era? Potresti descriverlo?»
Era evidente che attendesse la visita di qualcuno che le stava
particolarmente a cuore ed LA si chiese chi fosse il fortunato. Comunque
sia, si concentrò sul ragazzo e iniziò a dire:
«Dunque: era abbastanza alto, magro...»
«I suoi occhi?» l'interruppe con ansia.
«I suoi occhi?»
Hilda sospirò e spiegò:
«I suoi occhi erano grigi come i miei?»
«Mi pare... No, no. Non erano grigi.»
«Sei sicura?»
«Certo. Erano scuri, me lo ricordo bene.»
Hilda scosse appena la testa, rifiutando di crederci: doveva essere
lui! Doveva! Ma alla fine fu costretta a registrare la delusione amara e
abbozzando un pallido sorriso tornò a occuparsi di Hols, lasciando l'altra
confusa e attonita.
«Allora? Mi stavi parlando di un ragazzo: cosa voleva?» domandò
all'improvviso, come se niente fosse accaduto.
22
«Io... Ecco, mi ha detto... Non ricordo molto bene, ma ha accennato alle
vostre finanze. Comunque, sarebbe tornato uno di questi giorni.» spiegò
LA frastornata da quel comportamento insolito.
Hilda sorrise con indifferenza, aggiustandosi una ciocca di capelli:
non era la persona che lei avrebbe desiderato fosse, quindi non le
premeva conoscerne l’identità.
«Bene. Se tornerà vedremo di chi si tratta.» rispose con sufficienza.
«Che ne diresti di pranzare insieme?»
LA la studiò a lungo, cercando di leggere qualcosa su quel volto, ma
Hilda era tornata a essere quella di sempre e accettò l'invito sorridendo,
dimenticando volutamente quanto era accaduto.
~
Alan osservò la sorella che se ne stava seduta sul divano, con le
gambe raccolte e un'espressione indifferente dipinta sul volto. I lunghi
capelli neri le ricoprivano le spalle come un manto brillante, mentre i suoi
occhi lo fissavano con una freddezza che lui non le aveva mai visto
prima. La mano accarezzava Hols distrattamente, accucciato sul divano
accanto a lei, apparentemente addormentato.
«Mettiti qualcosa di carino e truccati un po', sei pallida come un
cadavere.» le disse con rabbia appena celata. «E cerca di sorridere ogni
tanto, cazzo! Ricordati che è il figlio del mio datore di lavoro e voglio che
tu gli piaccia e gli faccia una buona impressione.» l'ammonì
severamente.
Hilda continuò ad accarezzare Hols senza scomporsi, osservando il
fratello con disprezzo. Alan sbirciò l'orologio al polso e continuò sullo
stesso tono irritato:
«Sbrigati. Tra mezz'ora dobbiamo essere pronti.»
Con una smorfia il ragazzo si diresse in camera sua e lei si alzò dal
divano, stiracchiando le gambe. Che bastardo! imprecò. Era riuscito a
organizzare tutto nei minimi particolari: una cena in un ristorante
elegante, loro tre soli e infine un salto in un noto night, per concludere la
serata alla grande. Che bastardo! si ripeté per la centesima volta. Con
quale coraggio le aveva chiesto di fare una cosa simile? Far colpo sul
figlio del suo datore di lavoro! Assurdo! Non si sarebbe mai venduta!
Irritata si portò davanti allo specchio e si osservò: indossava vecchi
jeans con un maglione largo e scarpe da ginnastica. Perfetto! Basterà
solo una spazzolata ai capelli e sarò pronta. Già: così conciata farò
decisamente colpo!
Da più di un mese Alan lavorava in una fabbrica come operaio e per
una coincidenza del destino era riuscito ad allacciare rapporti di amicizia
con Alex, il figlio del proprietario. A un tipo come lui era sembrato più che
naturale usare quel ragazzo e sua sorella per poter aspirare a ricoprire
una carica più prestigiosa all'interno della fabbrica. Già da qualche
tempo pensava di farli incontrare e di far nascere tra loro qualcosa che
andasse oltre la semplice amicizia, in modo che Hilda potesse
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intercedere per lui; purtroppo non era mai riuscito a trovare il momento
giusto per far apparire la cosa abbastanza naturale. A forza di
rimuginarci sopra, era giunto il giorno del suo ventiquattresimo
compleanno; e allora, perché non invitare Hilda e Alex a cena fuori per
festeggiare? Era l'occasione che aveva atteso a lungo e non poteva
assolutamente lasciarsela sfuggire. Quella mattina ne aveva parlato ad
Alex e questi aveva accettato di buon grado; quella sera, invece, sua
sorella era rimasta senza parole.
Sospirando Hilda osservò Hols e subito sorrise. Gli si avvicinò e
l'abbracciò e il lupo le leccò il volto, contento di tutte quelle attenzioni. Se
non avessi te, amico mio! pensò. Stasera ti devo lasciare e non hai idea
di quanto mi costi. Il signor Wild ha già deciso le parti che ognuno di noi
dovrà recitare. Povera me! Che cosa ho fatto di male?
Accarezzò il lupo ancora un po', con dolcezza, quindi si alzò per
andargli a preparare qualcosa da mangiare e in quel momento Alan
rientrò nella stanza. Guardò la sorella e Hols con cattiveria, annunciando
con freddezza:
«Devo salire un attimo da Sandy, ma torno subito. Fatti trovare pronta,
hai capito?»
«Sì.» mormorò abbassando la testa.
Lui la studiò un attimo con disapprovazione, quindi se ne andò
sbattendosi la porta alle spalle. Hilda sorrise, constatando che aveva
indossato il più bel vestito che aveva e si era profumato quel tanto da
lasciare l'odore sospeso per l'aria per svariati minuti.
Si girò verso Hols e con una luce divertita negli occhi propose:
«Ehi, piccolo! Ti va di fare una lunga camminata?»
Il lupo drizzò le orecchie e la fissò inclinando la testa di lato, quindi
balzò giù dal divano e si diresse verso la porta scodinzolando felice.
Hilda lasciò vagare lo sguardo per la casa e si mise a ridere.
«Sì, Alan! Avrai proprio una bella sorpresa!»
Afferrò al volo le chiavi e senza pensarci oltre uscì preceduta da Hols.
Il sole era già tramontato e i lampioni avevano preso il suo posto
illuminando i marciapiedi quasi deserti e una città malinconica, dove
risuonavano sempre più fiocamente i clamori di un'estate appena
terminata. Un freddo venticello autunnale la fece rabbrividire e si
rammaricò di non aver preso, nella fretta, un giaccone per ripararsi.
Per un po' camminò senza meta, cercando di immaginare la faccia di
Alan appena fosse rientrato in casa. Le sarebbe piaciuto essere una
mosca per assistere: si sarebbe infuriato come al solito e avrebbe
dovuto trovare una scusa plausibile per Alex, in modo da non cadere nel
ridicolo. Come sei cinico, fratello! Non l'avrei mai immaginato. E osi
arrogarti il diritto di biasimare Siegfried? Ma se sei peggiore di lui!
Proprio una bella e fortunata famiglia la nostra!
In quel momento ripensò ai propri genitori, ma le immagini che la
mente le presentava erano offuscate, come avvolte da una cortina di
nebbia e le vennero le lacrime agli occhi: stavano diventando un ricordo
lontano come Siegfried.
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Passò una mano tra i capelli e si morse le labbra. Fece cenno a Hols
e si mise a correre più veloce che poteva, per soffocare le lacrime che
minacciavano di scendere. Corse fino allo stremo delle forze, sentendo il
cuore batterle furioso sotto lo sforzo e provando una sensazione di gelo
nei polmoni per l'aria fredda che inalava.
Solo quando inciampò e cadde, rimanendo distesa a terra, rossa in
volto, col respiro corto e priva di forze, si rese conto di essersi lasciata la
città alle spalle per entrare nel quartiere estremo, dove nessuna persona
perbene e sana di mente avrebbe mai messo piede: il quartiere della
delinquenza. Rimase per un po' distesa, aspettando di recuperare le
energie perse nella corsa, sentendo sotto di sé l'asfalto umido e duro.
Poi, adagio, si portò seduta e si guardò intorno. Rabbrividì per il freddo e
si rannicchiò accanto a Hols.
I pochi lampioni che ancora funzionavano illuminavano una serie di
case fatiscenti, circondate da animali selvatici, mendicanti, ubriachi,
drogati. Era quello il quartiere dimenticato dalle autorità, dove su strade
e marciapiedi si ammucchiavano sporcizia, siringhe e dove sui muri
campeggiavano frasi scurrili a caratteri cubitali e dove disegni ancora più
osceni brillavano di mille colori. Era il quartiere dimenticato da tutti, ma
che tutti sapevano che esisteva e che evitavano come la peste, dove la
delinquenza aveva trovato terreno fertile per impiantare le proprie radici,
dove aveva vinto e vi dimorava con autorità.
Hilda strisciò fino al muro dietro di sé e vi si appoggiò con la schiena,
portando le ginocchia sotto il mento. Hols le si accucciò ai piedi e si
appisolò. Così raggomitolata, poté osservare quello che succedeva
attorno a sé passando per una barbona del posto e, di conseguenza,
senza dare nell'occhio.
Di tanto in tanto la relativa quiete della notte era lacerata da
improvvisi e violenti litigi, accompagnati da urla e bestemmie, rumori di
piatti infranti e sedie che venivano scaraventate a terra, da schiaffi e
pianti, da tonfi cupi e altri rumori indefinibili. Qua e là echeggiavano
rombi di motociclette, clangori metallici, grida soffocate, cani che
ringhiavano e abbaiavano, puttane che ridevano volgari e insulti che
seguivano le loro lubriche risate.
Un ubriaco passò accanto a Hilda senza neppure vederla, cantando
e ruttando con indecenza. Lei lo guardò allontanarsi barcollando sulle
gambe, recitando versi strampalati e incomprensibili, agitando le braccia
nel vuoto, fino a fermarsi a un lampione spento, dove si appoggiò e
vomitò tutto, pure la sua anima.
A quella vista Hilda sgranò gli occhi inorridita, poi li chiuse voltando la
testa dall'altra parte, nauseata. Circondò lo stomaco con le braccia e
iniziò a canticchiare sottovoce una canzone, per allontanare quella
sensazione orribile. Oh, Dio! Dio, dove sono finita? Che posto è mai
questo?
Il sommesso ringhiare di Hols le fece riaprire gli occhi e sobbalzò
all'inattesa apparizione: una bambina vestita di stracci, col volto sporco e
i capelli unti e immondi le tendeva una mano in cerca di un obolo,
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mentre sull'altro braccio teneva un bimbo avvolto in una coperta lacera e
lercia. Hilda deglutì più volte, fissando quegli immensi occhi tristi e
atterriti insieme, che risaltavano in un viso scarno e sussurrò con voce
roca:
«Mi dispiace. Non ho niente.»
La bambina la guardò ancora un attimo, quindi si allontanò senza
pronunciare una sola parola. Hilda la seguì con lo sguardo e si sentì
male. Non occorreva guardare al terzo mondo per rendersi conto di
quanta miseria esistesse: bastava volgere lo sguardo in quel quartiere
dimenticato da Dio.
Un rumore di tacchi le fece girare la testa dalla parte opposta: una
puttanella si stava avvicinando, la minigonna vertiginosa, la maglietta
aderente con uno scollo mozzafiato, la borsetta che dondolava
distrattamente nella mano, l'andatura provocante e volgare, le calze a
rete e le scarpe dal tacco a spillo. Il volto era ricoperto da un trucco
pesante, i capelli arruffati e una canna in bocca. Le si piantò davanti a
gambe larghe, le mani sui fianchi e senza badare al sommesso ringhiare
di Hols esordì con tono di voce grosso e volgare:
«Fila via, cocco di mamma, ché devo lavorare. Con te tra i coglioni non
si ferma nessuno.»
Hilda rimase a fissarla a bocca aperta, senza fiato: poteva avere sì e
no tredici anni! Era solo una bambina!
«Ehi, ma che cazzo! Sei sordo? Ti ho detto di alzare il culo, stronzo!»
A quel tono di voce iroso, Hols iniziò a ringhiare più forte e si alzò
sulle zampe, puntandola con astio. Hilda lo accarezzò per farlo stare
buono e si alzò a sua volta, rimanendo appoggiata al muro.
«Me ne vado, non temere.» mormorò sconvolta.
L'altra sgranò gli occhi per la sorpresa: era una donna e, a giudicare
dagli abiti, proveniva dalla città. La osservò a lungo pensierosa,
cercando di infrangere il velo dell'oscurità, terminando di fumare lo
spinello, chiedendosi se stesse sognando o cosa. L'aveva già vista da
qualche altra parte, era certa, ma non ricordava. Poi, all'improvviso,
abbozzò un sorriso e fece per dire qualcosa, quando il buon senso
prevalse e alzando un braccio sussurrò:
«Sparisci prima che quelli scoprono che sei una donna: faresti la mia
stessa fine. Va'!»
Hilda sbirciò oltre la testa della ragazzina e vide due uomini
appoggiati a una macchina che parlavano tra loro. Devono essere i suoi
protettori, pensò. Di nuovo posò gli occhi su quella donna-bambina,
guardandola a lungo e prima di allontanarsi mormorò:
«Grazie.»
Mise le mani nelle tasche dei jeans e a testa china si incamminò
lungo il marciapiede, con Hols che le trottava accanto, mentre la
ragazzina la seguiva con lo sguardo, eccitata suo malgrado dalla
sorprendente notizia che avrebbe portato ai Wölfe e un sorriso le piegò
le labbra color ciliegia.
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Hilda camminò a lungo, senza meta, con il freddo che si insinuava fin
dentro le ossa. Perché non tornare al tepore di casa? Non era posto per
lei, quello e, forse, Alan non l'avrebbe trattata poi tanto male. Alzò la
testa e guardò la luna che giocava a nascondersi dietro le nubi grigie. La
contemplò a lungo, quindi sospirando, si rivolse a Hols:
«Andiamo, torniamo a casa.»
~
«Ehi, sveglia, dormigliona!»
Hilda si rigirò nel letto, borbottando qualcosa di confuso e tornò a
dormire. Alan alzò le serrande e la luce del sole invase la stanza,
infastidendo la ragazza, che si lamentò prima di svegliarsi del tutto.
Balzò a sedere sul letto e fissò a lungo il fratello, mentre la mente
insonnolita ricominciava a lavorare.
Ricordò tutto quello che aveva fatto e visto la sera precedente,
rientrando a casa a notte inoltrata. Aveva trovato suo fratello che già
dormiva e si era domandata cosa fosse accaduto durante la propria
assenza. Si era messa a letto, pensando che il giorno dopo Alan
sarebbe andato a svegliarla, assalendola come una belva inferocita.
Aveva già immaginato tutto: suo fratello furioso, isterico o solamente un
po' irritato, ma mai lontanamente le era apparso gentile e premuroso.
E lo guardò sbigottita mentre avanzava con un vassoio in mano che
conteneva la colazione. Sto ancora sognando, pensò stropicciandosi gli
occhi. Eppure quando li riaprì stava ancora davanti a lei, sorridente
come una Pasqua e col vassoio in mano.
«Be’? Perché quello sguardo incredulo? Solo perché ho pensato che ieri
sera non hai mangiato e ora ti porto la colazione? Via! Mi credi un
mostro!» esclamò con forzata allegria.
Hilda lo fissò trasecolando: non era possibile! Non era assolutamente
possibile un simile comportamento da parte sua, non dopo la serata
appena trascorsa! E lei conosceva suo fratello. O, almeno, questo era
quanto aveva creduto fino a quel momento.
L'osservò mentre versava il tè nella tazza e lo zuccherava; mentre
spalmava di burro il pane e lo ricopriva con la marmellata.
«Tieni; per ora mangia questo. Poi ci sono biscotti e tè.»
Hilda prese la fetta di pane, senza staccare gli occhi da lui un solo
istante. Sei tu, Alan? si domandò scettica. Sei proprio tu, con tutte
queste premure? Non posso crederci. Cos'è successo, dunque, ieri
sera?
«Che espressione!» la beffeggiò lui sorridendo. «Parrebbe che tu non mi
riconosca più!»
Infatti non ti riconosco più, pensò. Riuscì ad abbozzare un pallido
sorriso e addentò il pane. Fece colazione in religioso silenzio, sotto lo
sguardo vigile di Alan, non riuscendo a capirci nulla. E più rimuginava su
quanto era successo, più si convinceva che il comportamento di Alan era
assurdo. Assurdo a dir poco: incredibile, soprattutto imprevedibile!
27
Dal canto suo, il ragazzo era un fascio di nervi. In quel momento gli
conveniva mostrarsi gentile e affabile con lei e dimenticare l'arrabbiatura
della sera prima, visto quanto era accaduto quella mattina: la visita
improvvisa di suo cugino che lo informava del ritorno di Siegfried. E
questo, Hilda, non doveva assolutamente saperlo.
La ragazza lanciò un'occhiata a Hols, accucciato tranquillo ai piedi
del letto, poi fissò il vassoio poggiato sulle proprie gambe e terminò di
bere il tè. Rimase ancora un attimo in silenzio, quindi si rivolse al fratello
per la prima volta:
«Alan... Per quanto riguarda ieri sera, io non...»
«Non devi assolutamente preoccuparti.» l'interruppe alzando una mano.
«Ammetto di aver sbagliato e ti giuro che non si ripeterà più una cosa
simile. Dimentichiamo, vuoi?»
Hilda lo guardò mentre le sorrideva amabile e non credette ai propri
occhi. È impossibile, continuò a ripetersi. Cosa può averlo indotto a
cambiare così repentinamente? Con quello che gli ho combinato ieri,
avrebbe dovuto essere, come minimo, furibondo. Tutto ciò non mi
convince. Deve esserci qualcosa sotto. Ma cosa?
Con noncuranza domandò:
«Che ore sono?»
«Le dieci e venti. Devi essere rientrata tardi per aver dormito così a
lungo.» le fece notare.
Lei non gli rispose: si limitò a osservarlo mentre prendeva il vassoio e
si dirigeva verso la cucina.
«Vado a lavare questa roba, tu vestiti. A proposito.» disse voltandosi a
guardarla. «Sai che oggi abbiamo ospiti?»
«Ospiti?»
«Già. Viene a trovarci Max. L'ho invitato a pranzo.»
A quel nome la ragazza fissò Alan diventando cinerea. Non può
essere! urlò la sua mente. Non può essere vero! Deglutì per sciogliere il
nodo che le si era formato in gola e balbettò:
«E come mai? Voglio dire... Sono passati cinque anni dall'ultima volta
che l'abbiamo visto.»
«Tu; io ho mantenuto i contatti. Sai, è stato lui a trovarmi questo posto di
lavoro, ma quando è venuto tu non c'eri e, siccome mi aveva chiesto di
te, l'ho invitato a pranzo.»
Hilda sentì la rabbia crescere a dismisura dentro di sé e odiò a morte
il fratello per aver invitato Max. Come aveva potuto, suo cugino, chiedere
di lei? Con quale coraggio aveva accettato l'invito di Alan? Un sudore
freddo le ricoprì il corpo e strinse i pugni per non urlare.
«Non mi sembri molto entusiasta. Ho fatto male?» s’informò Alan con
tono di voce preoccupato.
«Come? Oh, no. Solo che... È una sorpresa.»
«Lo sapevo che avresti reagito così: era proprio la sorpresa che speravo
di farti.»
Il sorriso che accompagnò quelle parole la lasciò perplessa.
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Rimasta sola, scese dal letto e si infilò la vestaglia, con la mente
piena di domande e dubbi. Passeggiò avanti e indietro per la stanza,
meditando a lungo sulla strana piega che avevano preso gli avvenimenti,
senza riuscire a trovare risposte logiche a tutti i quesiti. Calma! s'impose
con fermezza. Cerchiamo di ragionare. In tutta questa storia c'è
qualcosa che non quadra, che sfugge a ogni comprensione. Prima di
tutto Alan: anziché furioso, si presenta affabile e premuroso e, come se
niente fosse, mi avverte che Max viene a pranzo. Ma Alan non sa di Max.
Nessuno lo sa.
Aggrottò le sopracciglia e sedette sul letto, senza accorgersi dello
sguardo curioso con il quale Hols seguiva ogni suo movimento.
LA mi aveva parlato di un ragazzo, rifletté. Quindi si trattava di Max.
Bene. Un mistero è risolto. Però non posso credere che mio cugino
abbia chiesto di me! È impossibile! Scosse la testa e i capelli le
ricaddero sul volto pensieroso e tirato. Deve esserci un nesso. Se non è
stato Max a chiedere di me, come Alan vuol farmi credere, allora il
motivo per cui viene è un altro.
Distrattamente osservò i raggi del sole che filtravano attraverso i vetri
della finestra, formando sul pavimento tanti piccoli spettri di luce. Che
Max abbia qualcosa a che vedere col comportamento gentile di Alan? E
in che modo, se così è?
All'improvviso impallidì e si sentì venir meno. Portò una mano alla
fronte e inspirò a fondo, cercando di dominare il tremito che l'aveva
assalita. No, non può averglielo detto. Alan l'ammazzerebbe.
Si girò di scatto e abbatté i pugni sul cuscino, facendo sobbalzare
Hols. Maledetto bastardo! imprecò con furia. Mi ci sono voluti cinque
anni per attenuare il dolore e la vergogna e ora mi riporti in casa quel
mostro! Maledetto Alan! Accidenti a te! Per tutti questi anni ho vissuto
nei ricordi più atroci, imparando a nascondere i miei sentimenti,
piangendo disperata per non potermi confidare con nessuno! Cinque
anni! E ora devo nuovamente rivedere quel mostro! Accidenti a te, Alan!
Non te lo perdonerò mai! Mai!
Nascose il volto nel cuscino e, come in un incubo, rivide tutta la
scena.
Era una domenica mattina e tutti erano usciti per fare una
scampagnata, approfittando dell'ultimo sole estivo. Solo lei era rimasta in
casa, sempre nella speranza che Siegfried tornasse all'improvviso. Quel
giorno, invece, era tornato solo suo cugino. Se all'inizio il suo sguardo
strano l'aveva lasciata perplessa, le sue improvvise carezze, dopo,
l'avevano allarmata. Intuendo chiaramente le sue intenzioni, aveva
cercato di sfuggirgli, dimenandosi come una forsennata, col solo risultato
di venire presa a schiaffi e pugni. Aveva lottato come una tigre,
graffiando, tirando calci, nella tenue speranza che lui desistesse; tuttavia
l'espediente era riuscito solo a infiammare maggiormente il suo desiderio
violento. Con gli occhi accecati dalle lacrime aveva visto Max
sghignazzare divertito mentre le strappava i vestiti di dosso, continuando
a picchiarla per farla star zitta. Terrore e disperazione le avevano scosso
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il corpo in tremiti convulsi e le tempie le pulsavano frenetiche, facendole
credere che il cervello sarebbe scoppiato da un minuto all'altro. Il cuore
le batteva impazzito e tutte le sue membra erano diventate all'improvviso
di gelatina, insensibili e di una pesantezza unica. Max aveva continuato
a baciarla, a toccarla ovunque, a schiaffeggiarla, godendo alla vista di lei
terrorizzata. All'improvviso l'aveva spinta sul letto, premendole sopra con
tutto il corpo e in quell'istante la mente di Hilda si era chiusa a tutto per
non impazzire. Aveva continuato a dimenarsi come un automa,
graffiando il corpo mezzo nudo che la schiacciava, mentre lui la teneva
per i capelli e continuava ad alternare baci a schiaffi, sadismo a
gentilezza. Il suo cervello aveva registrato meccanicamente gli insulti e
le beffe, fin quando un dolore atroce non l'aveva scossa per tutto il corpo
e aveva urlato stringendo gli occhi pieni di lacrime.
Max l'aveva presa con brutalità, senza curarsi del fatto che per lei
fosse la prima volta e quella scoperta l'aveva eccitato maggiormente,
lasciandolo libero di sfogare i suoi istinti bestiali, appagando un
ossessivo desiderio che lo tormentava da anni.
Quando infine, sazio, l'aveva lasciata, ancora sconvolta e sotto shock,
Hilda si era ritrovata a fare quello che la mente le dettava in quel
momento: quasi in trance, aveva afferrato un coltello e aveva reciso le
vene dei polsi, rimanendo poi a fissare il sangue che fuoriusciva in
abbondanza. Di quanto era avvenuto in seguito aveva solo un vago
ricordo, ma sapeva che Max stesso l'aveva condotta al pronto soccorso
con una scusa plausibile e la stessa scusa aveva sciorinato agli altri al
loro rientro. Ma a lei poco importava di quanto le accadeva intorno:
sapeva solo di essere ancora viva, quando avrebbe desiderato morire.
Due mesi dopo quella disgraziata domenica si era trasferita con Alan
agli alloggi universitari.
Quanto ti odio, Max! Non ti perdonerò mai! Si morse le labbra a
sangue e scese dal letto. Con gesti nervosi si vestì, mentre gli occhi grigi
mandavano scintille e il volto tradiva la furia omicida che la divorava.
Qualsiasi cosa ti porta qui, pensò, sappi che voglio vendetta. E prima o
poi l'otterrò!
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