Epica letture liceo classico - Convitto Nazionale Cicognini di Prato

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Epica letture liceo classico - Convitto Nazionale Cicognini di Prato
 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE «il giusto modo di leggere ... è sempre vedere cosa accade,
ma .. accade sempre di più di quanto riusciamo a cogliere sul momento,
accade più di quanto salta all’occhio»
(Flannery O’ Connor)
LETTURE DA ILIADE E ENEIDE 1a Liceo Classico 4a Ginnasio Liceo Classico c/o Convitto Cicognini a.s. 2011/12 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Vivere all’altezza dei propri ideali Ci hanno spalancato il loro cuore, personaggi come Ettore, Achille e Andromaca: attraverso le loro parole hanno lasciato che li potessimo esplorare nel profondo. In particolar modo Ettore. Egli muore per la patria, sa che non può restare con Andromaca: anche se l’ama, si sente in dovere di seguire ciò per cui ha sempre combattuto, pur avendo davanti la donna accanto alla quale vorrebbe vivere tutta la sua vita. Ettore certamente decide di avere un rapporto vero con la vita, con il reale, con ciò che gli si è presentato davanti, seppure il prezzo è un dolore molto grande. Egli non si trattiene dall’immaginare la moglie schiava, piangente: è impressionante la forza e la sincerità di Ettore quando le dice che in futuro su di lei incomberà una grande necessità e sentirà sempre come un nuovo dolore la mancanza di quell’uomo che non ha saputo tenerla lontana dalla schiavitù. Eppure Ettore ha un profondo senso di un imponderabile destino, che però non riesce a diminuire il suo impeto. Colpisce come mai sia esitante, in nessun momento, su ciò che lo attende, e mai di fronte alle parole della moglie amata cede. Si percepisce un cuore pieno di desiderio di vivere all’altezza dei propri ideali, che si sentono vivi dentro di lui, pur essendo questi a portarlo alla morte. È sconvolgente, leggendo il poema omerico, accorgersi di come tremila anni fa il cuore dell’uomo si ponesse di fronte alla realtà della vita in modo così profondo e umano. Dalla semplice descrizione che fa Omero dei sorrisi, degli sguardi e dei gesti tra i due l’immagine arriva immediata, proprio perché sento come già mia questa immutabilità dei sentimenti umani tra l’uomo di oggi e l’uomo antico. L’amore di Andromaca per il marito, il dolore nell’essere costretta a lasciarlo andare, il sorriso che i genitori si scambiano di fronte al figlio spaventato dal pennacchio dell’elmo, sono tutti elementi che caricano le scene di immensa umanità; in particolar modo il distacco tra i due. Ettore riprende l’elmo e velocemente si volge indietro, Andromaca con Astianatte, seguita dalla balia, torna verso casa. È inesprimibile il dolore dell’uomo e della donna in quel momento, eppure continuano a camminare nelle opposte direzioni, l’uno e l’altra, e pur voltandosi indietro piangenti, non si fermano, continuano diretti verso quel destino di morte che entrambi attende. Il cuore è stretto tra le mani. I personaggi omerici, in particolar modo Achille ed Ettore, sentono come irrinunciabili i loro ideali, i desideri, le loro esigenze. Questo loro evidente non accontentarsi di qualcos’altro che non siano i loro ideali non porta la loro umanità a venir meno. È come se combattessero per tenerla sempre e fino alla fine salda nel loro cuore. Ciò è forse reso evidente dal presentimento della fine, dalla loro serena accettazione del destino di morte che li attende. Pur sapendo di dover precocemente morire continuano a combattere con immutata determinazione. Tengono al primo posto l’ideale e il desiderio nel cuore: mai verrà meno la loro più profonda e vera umanità. Qui, i due eroi sono differenti dagli altri: per esempio, nel combattimento finale tra Achille e Ettore, quando Deifobo, guerriero e fratello di quest’ultimo, dopo essere sceso in campo di battaglia al suo fianco e avergli promesso di combattere con lui, lo abbandona, mentre l’altro è intento a scagliare la lancia contro Achille, essendo ormai stato preso dalla paura della morte. I due, hanno questo grande cuore, l’uno più violento e vendicativo, l’altro più dolce, buono, ma sempre guerresco, colmo di desideri, che mai in loro verranno a mancare, mai, fino alla fine. Ilaria
1 liceo classico 2011/12 2 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Il cuore e l’ideale Il cuore: ci può spingere ovunque, è in grado di portarci a fare cose che mai avremmo fatto; è ciò che rende l’uomo tale, che lo porta ad amare e a sacrificarsi. L’uomo senza gli impulsi del cuore non sarebbe niente, perché non sentirebbe urgere dentro di sé il desiderio instancabile di giustizia, di verità e di amore, tutti sentimenti che viaggiano nei secoli e che hanno toccato gli uomini di ogni tempo spingendoli a fare scelte spesso inspiegabili. Perché è così: a volte il cuore porta l’uomo oltre i meccanismi della mente... è lì che avvengono le scelte più significative che rendono l’uomo all’altezza del suo animo. Studiando l’Iliade ho potuto toccare con mano questa tematica che mi ha portato ad immedesimarmi nelle scelte e nell’animo di questi uomini pronti a sacrificarsi per gli ideali a cui erano legati e a spingersi oltre gli schemi della logica comune. Un esempio lampante è il dialogo fra i due innamorati Ettore e Andromaca che dovranno dirsi per sempre addio perdendo così il loro amore e tutto ciò che possedevano. Per Andromaca Ettore era padre, marito, fratello e con il suo abbandono Andromaca deve dire addio a tutto ciò che possedeva e deve affrontare la crescita del figlio senza un uomo accanto a lei. Il dialogo tra i due è veramente struggente perché fa capire che ci sono cose che portano l’animo a dover dire di colpo addio a tutto quello che sta più a cuore. Il sacrificio può risultare difficile, ma uomini come Ettore insegnano che l’uomo è in grado di capire i rischi a cui va incontro e ad affrontarli sapendo che davanti alle scelte del cuore bisogna prendere una posizione, anche se risulta difficile. Ma ciò è realmente possibile e questo sentimento si può notare nel personaggio di Socrate, un uomo che per difendere i propri ideali ha accettato di morire. Insomma la storia è piena di questi uomini che, non essendo di pietra, vengono sospinti dal cuore, come dice Julian Carron: «Sentire urgere dentro di sé le esigenze di felicità, di bellezza, di giustizia, di amore, di verità, sentirle vibrare, ribollire in ogni fibra del nostro essere è inevitabile, tranne che uno sia una pietra. Prenderle sul serio è una decisione, la decisione più grande della vita. Dalle conseguenze imprevedibili. Solo per audaci. Solo per gente viva, libera, capace di volersi veramente bene. Per gente che vuole vivere all’altezza dell’ideale a cui il cuore spinge senza sosta. Trovare compagni al destino così è una grazia». In queste parole si percepiscono i battiti del cuore bramoso di portare a compimento gli ideali dell’animo. Ognuno di noi è sospinto da questo e abbiamo visto come nei secoli non sia cambiato e come gli uomini si siano comportati davanti agli impulsi del cuore. Ora tocca a noi capire dove ci spinge il cuore. Margherita
1 liceo classico 2011/12 3 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Achille tra kléos e nóstos Le urla rimbombavano ormai fra quelle sorde mura da dieci lunghi anni: grida soffocate di donne sgomente che disperavano, fiotti di sangue schizzati fuori dal corpo di mariti valorosi, caduti davanti ai loro occhi, corrosi ormai solamente da dolore e morte; lamenti di figli orfani di padri audaci che combatterono per onore e gloria; lacrime vane, gemiti, l’urlo nero di una madre in croce, i singhiozzi di amici e conoscenti, stretti in unico presagio di morte mentre accolgono la salma di un soldato che prima era tutto e ora... niente: adesso giace coperto di polvere e sudore sul campo di battaglia, in attesa di essere dignitosamente sepolto. Fuori dalle mura risuonava il grido degli opliti, l’echeggiare di cento frecce che trafiggevano i petti, il sibilo che fa la lama di una spada mentre taglia la gola di un uomo; e ancora colpi di scudo, lance, il rimbombo degli elmi sul terreno, un braccio mozzato, l’altro che tenta di aggrapparsi alla vita mentre viene finito alle spalle dall’ombra della morte. Siamo nel IX libro dell’Iliade. La morte circonda la tenda di Achille e mentre l’eroe si diletta suonando la κιθάρα in presenza del fedele compagno Patroclo, giungono tre messaggeri mandati dallo stesso Agamennone per esortare l’eroe a rientrare nel campo di battaglia. Motivo: tutta la Grecia ha bisogno di lui. Seppur infatti Agamennone si fosse dimostrato inizialmente contrario a richiamare Achille in battaglia, venne persuaso da Diomede e Nestore, dopo che già Tersite aveva provveduto a rimproverare il comandante. Giunti i tre messaggeri Aiace, Fenice e Odisseo alla tenda di Achille, dopo il banchetto imbandito da Patroclo, presentano all’eroe la proposta di Agamennone: il suo ritorno in guerra con la promessa della restituzione di Briseide e di altri ricchissimi doni. Achille si mostra subito ostile alla proposta, dichiarando l’avversione per il comandante e citando le due sorti che gli vengono prospettate da sua madre Teti: una vita breve e una morte in battaglia che gli darà gloria immortale o una lunga vita nella sua terra patria, lontano dall’immortale κλέος militare. Si tratta di un episodio assai interessante: anche se Achille rimane per tutta la durata del poema un personaggio sostanzialmente statico, ha avuto anche lui ripensamenti sul destino di gloria atteso da ogni guerriero omerico. È una grande novità che per la prima volta l’eroe sembri preferire il valore della vita privata di ogni singolo uomo rispetto al valore esteriore del Γῆρας , fondamento della società omerica e del κλέος. Achille infatti dice che si possono rubare buoi, pecore pingui ma non si può riconquistare la vita di un uomo una volta che essa ha esaltato la ψυχή , il soffio vitale della «siepe dei denti»: la bocca, facendo trasparire l’idea in cui niente, neppure le ricchezze che «dicono Troia abbia ammassato» sembri valere quanto la vita. Eppure proprio il contrasto fra la tranquillità familiare della tenda di Achille in cui egli suona vicino a Patroclo e l’esterno in cui è in corso un’acre battaglia, permette di capire che l’idea del ritorno si presenta come una prospettiva di «vana speranza»: in fondo l’eroe sa che non lascerà mai Troia. Una delle ragioni per cui ho scelto questo episodio è proprio per la sua modernità: anche l’uomo omerico (ad esempio Achille) possedeva le nostre stesse preoccupazioni: la precarietà del destino, l’importanza delle scelte in grado di poter cambiare le sorti degli eventi, il libero arbitrio di ogni uomo e l’agire di propria iniziativa. Anche ad Achille, a cui non importa sempre delle sorti della guerra, sa che ciò che ci accomuna tutti è il senso di morte. Allo stesso modo nell’Eneide il corpo del re Priamo giace «irriconoscibile» sulle rive di una spiaggia: «breve è per tutti il tempo della vita», diceva il padre Giove rimproverando l’Eacide che piangeva la triste sorte di Pallante. Steven
1 liceo classico 2011/12 4 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Il duello tra Achille e Ettore «Come la stella procede tra gli astri nel cuore della notte, Espero, l’astro più bello che è in cielo. Così veniva luce dalla punta aguzza dell’asta, che Achille agitava nella sua destra, volendo la morte di Ettore divino, guardando la bella pelle dove cedesse maggiormente». Ci troviamo in uno dei momenti più intensi dell’Iliade, il duello fra Ettore e Achille, il momento che, in un certo senso, già preannuncia la caduta della città di Troia, con la morte del suo più audace difensore. Ecco che, finalmente, i più grandi eroi dei diversi schieramenti si trovano l’uno difronte all’altro in un confronto che non è volto a dimostrare la grandezza o la superiorità di uno dei due nel combattere, ma molto di più a sottolineare le differenze fra i due, lasciando al lettore la possibilità di sciogliere l’enigma che avvolge le loro personalità. Achille, con l’aiuto di Atena, colpisce Ettore alla gola e sul vinto si vanta ricordandogli il momento in cui, scioccamente, aveva ucciso Patroclo credendo di farla franca. Ribadisce che, proprio per questo atto, verrà divorato dai cani e dagli uccelli e non gli sarà concessa la sepoltura sperata. All’udire tali parole Ettore prega Achille, invano, di risparmiargli questa triste fine, ma si rende presto conto di non poter in alcun modo persuadere o commuovere il cuore del Pelide. Arresosi al suo destino infelice, Ettore fa un’ammonizione al suo vincitore ricordandogli che l’ira degli dei non perdona e, preso dalla morte, lascia che la sua anima scenda nell’Ade. È questo uno dei passi più significativi dell’Iliade. Ecco che tutta l’ira di Achille si riversa sul nemico, l’ira che per molto tempo si è accumulata nel suo cuore; e insieme la lontananza dalla patria per combattere una guerra che non sente sua, come invece la sente Ettore che difende Troia; il rancore per l’affronto inflitto a lui da Agamennone; il suo cuore diviso fra la gloria e il ritorno in patria; ed infine la disperazione per l’uccisione di Patroclo, l’unico che come un padre aveva alleviato il suo dolore. Questo è ciò che spinge Achille, rivolto al nemico sconfitto, a pronunciare crudeli parole, sopprimendo quella pietà e compassione da cui è preso nel dialogo con il re Priamo nella sua tenda. Ettore invece è il grande eroe disposto a tutto pur di salvare la propria città, anche alla morte. Ha una famiglia che ama moltissimo: una madre, un padre, una moglie e un figlio, i quali è costretto ad abbandonare per andare in guerra. Ettore ha molto timore del suo avversario e tenta di scendere a patti con Achille, promettendo, in caso di vittoria, la restituzione del corpo del vinto. Il duello fra gli eroi è il momento in cui i diversi caratteri si scontrano ancor più delle loro armi. Tuttavia, nonostante la loro diversità, c’è una cosa che li accomuna, un sentimento incredibilmente forte che li porta allo scontro: l’attrattiva della guerra (quella «bellezza» di cui parla anche Baricco). Nessun desiderio di ritorno, nessuna paura, né affetto per i parenti hanno strappato Achille e Ettore dall’accecante bellezza della guerra; ed è proprio per l’incessante ardore di combattere, di distinguersi tra gli eroi, che divampa nei cuori dei due, che moriranno gloriosamente tra le sue fiamme lasciando che il loro ricordo rimanga impresso nella memoria dei posteri. Lavinia
1 liceo classico 2011/12 5 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Un’altra Bellezza «Quel che forse suggerisce l’Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce mortale del fuoco. Non c’è paura, o orrore di sé, che sia riuscito a tenerli lontani dalle fiamme: perché in esse sempre hanno trovato l’unico riscatto possibile dalla penombra della vita. Per questo, oggi, il compito di un vero pacifismo dovrebbe essere non tanto demonizzare all’eccesso la guerra, quanto capire che solo quando saremo capaci di un’altra bellezza potremo fare a meno di quella che la guerra da sempre ci offre. Costruire un’altra bellezza è forse l’unica strada verso una pace vera. [...] Riusciremo, prima o poi, a portar via Achille da quella micidiale guerra. E non saranno la paura né l’orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche, diversa, bellezza, più accecante della sua, e infinitamente più mite.» (A. Baricco, Postfazione a Iliade) Come può la morte essere tutto ciò che riscatta fin nel profondo la vita dell’uomo? Abbiamo conosciuto ed esplorato in lungo e in largo il cuore del grande eroe Achille e visto come uomo dell’antichità possa trovare nella morte gloriosa la realizzazione e il senso più vero del proprio io. La nostalgia e l’amore per la propria madre e il proprio padre avevano aperto nel cuore del guerriero un varco: la possibilità di tornare a casa e di vivere una vita lunga e felice insieme alla famiglia si presenta come desiderio immenso per Achille, il quale sembra per un breve momento vinto da questa prospettiva. Ma anche in questo momento Achille in cuor suo sa che non rinuncerà così facilmente alla “sua” guerra, a ciò che per lui è momento di gloria, di verità, di eternità di tutta una vita. La bellezza della guerra, di ogni suo particolare, induce l’uomo a ritenerla unico modo, nell’esperienza umana, per esistere veramente, per realizzare a pieno e percepire compiuto il costante desiderio di vita dell’uomo. Il ritorno a casa implicherebbe una vita nell’oscurità, la quale non gli permetterebbe di sentirsi pienamente affermato. Ed è proprio questo che per l’eroe omerico è inaccettabile: la penombra della vita. Ma un uomo può trovare il riscatto della proprio vita solo con la morte? È questa la domanda di cui si fa carico lo scrittore Alessandro Baricco. Cosa vince veramente la bellezza della guerra? Non può essere tutto qui: ci deve necessariamente essere un’altra bellezza, più accecante di questa, che riuscirà un giorno a portare via Achille da quel campo di battaglia. Una bellezza che risveglierà e ridonerà vigore alle bellezze più vere dell’esistenza umana. Il problema quindi non è eliminare la guerra, ma l’idea di essa come unico momento di verità eterna nella vita dell’uomo. La guerra infatti, dice Baricco spostando l’analisi all’attualità, non sarà mai cancellata poiché ciò implicherebbe l’eliminazione totale del male, ma per la natura umana non è possibile. Sarà necessario, per trovare qualcosa di più grande e vero, rischiare la penombra della propria vita senza rifarsi necessariamente alla guerra. L’uomo dovrà dare un senso al proprio io e a ciò che vive senza doversi porre sotto la luce della morte. Dovrà prendersi sulle spalle la propria vita, la propria esperienza, senza dover uccidere quella di altri uomini. Ma l’uomo di oggi, come quello omerico, in questa sua esistenziale necessità di riscattarsi dalla penombra, di cosa ha realmente bisogno? Egli necessiterà di un’altra bellezza, superiore a questa e pura, che possa reggere l’uomo saldamente e portare una pace che non sia un semplice mettersi d’accordo per convenienza, come anche oggi spesso accade tra stati e stati per evitare la guerra, ma una pace reale e solida. Alessandro Baricco conclude forse in modo drammatico affermando che si tratta di un’impresa utopica poiché: «presuppone una vertiginosa fiducia nell’uomo». Ilaria
1 liceo classico 2011/12 6 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE L’ ultimo incontro Andromaca e Didone sono due personaggi fondamentali per la storia, di rilievo, e che ci permettono di entrare a sbirciare, almeno per qualche minuto, nel mondo delle donne dell’antichità, fatto di sentimenti profondi, amore, passione, solitudine, struggimento, affetto, dolore. Un mondo a parte rispetto a quello degli uomini, che erano sempre in guerra a darsi battaglia, a dover dimostrare il proprio valore, mascolino e guerrigliero, sempre pronti a morire per l’onore e per la patria. Ma forse non tutti sanno che... anche le donne, pur sembrando così fragili, combattevano ogni giorno. Il loro campo di battaglia era la casa, dove non c’erano né accampamenti, né lance pronte a ferirle; ma c’erano numerosi figli che dovevano essere nutriti, fatti crescere sani e forti, c’era la casa da portare avanti e gli ormai anziani genitori da accudire. Anche le donne lottavano ogni giorno, in silenzio, senza farsi notare, e senza che nessuno riconoscesse loro alcun merito. Andromaca, rappresenta un punto di svolta nell’ Iliade, poema che racconta di guerre, uccisioni, massacri. In mezzo a tutto questo sangue c’è una pausa, in cui è lei la protagonista. La donna, appena vede il marito, gli corre incontro piena e trepidante di gioia, contenta che sia ritornato sano e salvo da lei. Questa è l’unica scena familiare in questo poema, dove per la prima volta il lettore può assistere all’incontro fra marito e moglie, due persone che si amano, ma che sanno che non potranno mai più incontrarsi. È presente il figlio dell’eroe, così piccolo e ingenuo, simbolo di nuova speranza, ma anche di una nuova generazione che dovrà portare sulle spalle gli stessi doveri e fare gli stessi onori. Andromaca sta combattendo, lottando con i propri sentimenti. Per lei Ettore rappresenta tutta la sua vita: «tu sei per me il padre e la nobile madre» gli dice; sa che quello è il loro ultimo incontro, eppure cerca in tutti i modi di convincerlo a restare, di dissuaderlo dalla guerra; prima giocando la carta della compassione, sottolineando il fatto che non ha più una famiglia, tutti i suoi parenti sono morti e che con la morte dello sposo sia lei che il figlioletto vivranno una vita mesta e infelice; e poi, come ultima speranza, gli chiede di rimanere in città a difendere le mura. Ma il marito ha dei doveri, le spiega lui, deve per forza andare a combattere, anche contro la sua volontà; e Andromaca, forse per le sue dolci parole, forse per la gentilezza con cui la tratta, forse perché ogni suo gesto trasuda affetto, forse per la sua imponente volontà, si fa trascinare dalle emozioni dell’eroe e lo lascia andare. Non riesce a contenere lo spirito furente di Ettore ed è consapevole che, se anche fosse riuscita a trattenerlo, l’uomo se ne sarebbe pentito per tutta la vita, credendosi incapace di proteggere i suoi cari e la sua patria. Lasciarlo andare è stato un gesto d’amore che ha fatto per la felicità del marito. E l’ ultimo incontro tra i due sposi si conclude con un sorriso di lei affogato nelle lacrime, perché è fiera del proprio marito, ma sa che quella fierezza svanirà nel nulla. Il rapporto tra Enea e Didone è molto diverso. Per Didone è un colpo di fulmine. Lei, che aveva dovuto assistere alla morte del marito per mano del fratello e aveva dovuto patire immense pene, quando trova un uomo anche più sfortunato di lei, così coraggioso, non resiste. Se lo porta in giro per il palazzo e chiede ogni volta di risentire quella storia così travagliata e dolorosa che affligge lo straniero e che, in qualche modo, riesce ad avvicinarla un po’ al suo cuore, a farla entrare, per un attimo, nel suo mondo: «e ancora una volta pende dalle labbra del narratore». Ma a sua volta è tormentata (la notte non riesce a dormire) dalle innumerevoli domande che le pone il cuore. Lei, in quanto vedova, deve rimanere fedele al marito morto e pregare ogni giorno davanti alla sua tomba; d’altra parte è stufa di questo e non riesce a resistere alla ventata d’aria 7 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE fresca di novità che ha portato lo straniero troiano. Alla partenza nascosta di Enea, lei, che viene a sapere ugualmente della fuga perché «chi mai ingannerebbe un’amante?», lo raggiunge e furente di rabbia lo accusa di non esserle riconoscente e di non avere pietà di lei. Il colloquio tra i due è pieno di tristezza, odio e migliaia di sogni e speranze infrante. Lei, che addirittura credeva quasi in un matrimonio, in un’unione duratura con il suo amato, si sente rispondere che nessun giuramento o cerimonia è stata fatta e che il compito di lui è quello di partire, pur non volendo. Didone non si arrende e prova, anche lei, a giocare la carta della compassione, ribadendo di aver sacrificato tutto per lui: il pudore, la reputazione e come se non bastasse ora tutti i popoli confinanti vogliono attaccare Cartagine: e «tu fuggi me?». Infine chiede almeno di poter avere un figlio, simile all’amato. In questo modo, quando lo vedrà giocare per il palazzo, si ricorderà di lui e non si sentirà sola. Ma neanche queste meste parole sembrano toccare il cuore di Enea. Al contrario di Ettore e Andromaca, infatti, Didone non è aiutata a sostenere il suo dolore dall’eroe; né è tanto meno rassicurata. Non riceve affetto, né gesti pieni d’amore. La persona su cui aveva fatto affidamento, a cui si era appoggiata, a cui aveva dato tutta la mia vita, l’abbandona, la lascia in balia dei suo sentimenti con poche parole e un mero addio: «basta inasprire me e te col pianto; io l’Italia non di mia volontà cerco». Così quest’incontro tragico finisce con una maledizione e con le grida di dolore della regina a cui ormai non è rimasto più niente, neanche il cuore già consumato dal dolore. Claudia
4 ginnasio 2011/12 8 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Andromaca e Didone: omnia vicit amor Spesso la vita ci pone davanti a scelte difficili e dolorose, dalle quali non possiamo scappare, oggi come duemila anni fa. Andromaca e Didone sono fra le più famose donne della letteratura classica, messe alla prova da un destino crudele. La prima è la moglie dello «splendido Ettore», il più valoroso dei Troiani, che decide di lasciare lei e il piccolo Astianatte per andare in guerra, conscio di non tornare più a casa. In un ultimo struggente incontro con lo sposo Andromaca prova a trattenerlo, dicendo che è tutto per lei e che senza di lui al suo fianco non le resterebbe che morire. In questo colloquio affiora la personalità della donna che si vede portar via l’uomo che ama, il suo «sposo fiorente». Ci aspetteremmo forse una Andromaca che sbraita, si dimena, si prostra ai piedi di Ettore per supplicarlo; invece lo prega una sola volta di restare, rimanendo poi in silenzio per tutto il tempo. Si dimostra così una donna forte, che racchiude tutto il suo dolore in un silenzio straziante, «sorridendo tra le lacrime» e sapendo che il destino suo e del figlio è appeso a un filo. Cosa può fare allora se non rivolgere un ultimo sguardo all’uomo che ama per poi lasciarlo andare? Non è facile per nessuno dei due dirsi addio, ma Ettore ha «davvero troppa vergogna dei Troiani e delle Troiane dai lunghi pepli», non può restare lontano dalla guerra e Andromaca non può far altro che accettare la sua scelta e tornare alla vita di sempre, obbedendo al destino. L’altra donna vittima di un destino crudele è Didone, regina di Cartagine. La sua storia si configura diversamente rispetto a quella di Andromaca. Infatti Didone era vedova di Sicheo e incontra Enea dopo che egli era approdato naufrago alla sua reggia. A lei sono bastate poche parole per innamorarsi perdutamente e rimanere in balia di una passione travolgente, quello che noi oggi chiameremmo “colpo di fulmine”. Didone inizialmente ha nel cuore due sentimenti contrapposti. Da un lato vorrebbe rimanere fedele alla memoria del marito, dall’altro vorrebbe lasciarsi andare all’amore appena nato per Enea. Come dice anche lo stesso Virgilio, omnia vincit amor: così finisce per abbandonarsi a questo amore, subito apparso come pazzia, furor. Anche in questo caso non c’è il “lieto fine”; infatti Didone si accorge che Enea sta preparando la partenza e si reca da lui a chiedere spiegazioni. Anche lei, come Andromaca, tenta di trattenere l’uomo che ama in uno straziante dialogo. Didone perde la fierezza e l’orgoglio di regina supplicando Enea, il quale rimane impassibile e non abbandona il suo proposito. Egli è un eroe pius, non può sottrarsi al suo destino: deve portare a termine il suo compito di fondare Roma. Didone non riesce ad accettare la sua decisione e si chiede: «Che aspetto a morire?», meditando il suicidio. Si trova così in una sorta di odi et amo maledicendo colui che in realtà ama e finisce per uccidersi con la sua spada. Eleonora
1 liceo classico 2011/12 9 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Haec finis Priami Siamo nel II libro dell’Eneide, nel tragico momento in cui il nemico è ormai penetrato all’interno della reggia di Priamo. È Enea, alla corte di Didone, che ripercorre i momenti drammatici della morte del vecchio re. Priamo, avendo visto la sua Troia cadere e invasa la sua reggia, decide di mettersi sulle spalle, ormai vecchie e tremanti, le armi che da tempo erano dismesse. È come se questa immagine della debolezza fisica di Priamo sottolineasse le stretto legame tra Troia e il suo re, entrambi giunti alla fine rovinosamente. Questo gesto, quasi estremo, di indossare le armi e prepararsi a combattere nonostante la sua età, sottolineano il valore e la grandezza di questo re, pronto a morire per la sua città e per il suo popolo. Priamo adesso sta combattendo contro un nemico che non può più vincere: il tempo. Il suo gesto, seppur nobile, è inutile. Lo confermano anche le parole della moglie Ecuba, la quale lo invita dolcemente a riporre le armi e a sedersi intorno all’altare con lei e le figlie. Solo gli dei, in un momento così drammatico, possono salvarli. Neppure se a difendere Troia ci fosse Ettore, il più valoroso dei guerrieri, le cose potrebbero cambiare. Il vecchio Priamo allora si lascia spogliare delle inutili armi dalla moglie e si siede anche lui ai piedi dell’altare, senza speranza, senza più forza, negli occhi l’immagine della sua amata Troia in fiamme. Ad interrompere l’apparente quiete del momento vediamo e sentiamo arrivare Polite uno dei figli di Priamo ferito e inseguito dal feroce Pirro. Priamo assiste, impotente, alla crudele uccisione del figlio. Anche se la fine è vicina e la morte lo attende nec voci iraeque pepercit e inveisce contro Pirro. Parole inutili, che non scalfiscono il duro animo del Greco, il quale senza alcuna pietà uccide anche Priamo, affondando la balenante spada nel suo fianco. Haec finis Priami: sono queste le uniche parole che usa Virgilio. Con la morte di Priamo, cuore di Troia, è come se morisse anche la stessa Troia. Muoiono insieme il re e la sua patria. Ciò che mi ha colpito nel leggere questo episodio dell’Eneide è stata l’ultima immagine quella di un corpo che giace sulla spiaggia, staccato dalla testa. Virgilio lo descrive come tronco sine nomine, irriconoscibile per la mancanza della testa, ma anche per la mancanza della sepoltura. La gloria ottenuta in vita non può evitare questa fine misera e nel momento della morte ci troviamo ad essere tutti uguali. Non conta se sei stato un re o uno schiavo: la morte è una sorte che accomuna tutti gli uomini. Non si può fuggire da essa, ma ci possiamo preparare ad accoglierla con onore. Priamo avrebbe potuto cercare una via di fuga o supplicare Pirro affinché non lo uccidesse, eppure non lo ha fatto. Anche se vecchio e tremante si è dimostrato un grande re fino alla fine. Ed è proprio dopo aver ammirato Priamo per il suo valore e il suo coraggio che mi trovo spiazzata di fronte a una fine così cruda. Mi sorge allora un interrogativo: «la grandezza della storia può giustificare tanto dolore?». Eleonora
1 liceo classico 2011/12 10 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE La morte di Turno «Così dicendo gli affonda furioso il ferro in pieno petto. A quello le membra si sciolgono nel gelo, e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre». Questa è l’ultima, celebre immagine con cui Virgilio decide di chiudere un’opera volta a celebrare la grandezza di Roma, di Augusto e a commemorare, piena di pietas, i vinti. Viene dunque da chiedersi: perché? Non sarebbe stato più opportuno concludere il poema con uno scioglimento, con una riconciliazione come avviene nell’Iliade o nell’Odissea? Per cercare una risposta è bene ripercorrere i momenti antecedenti alla morte di Turno. Sappiamo sin dall’inizio del duello che si tratta di un combattimento impari e di esito già stabilito dal fato che, per mezzo di una Dira con le sembianze di un gufo, manifesta a Turno la propria decisione: «a lui uno strano torpore infiacchì di spavento le membra, i capelli si drizzarono per l’orrore e la voce s’arrestò nella gola». Turno pertanto affronta il duello con la consapevolezza di dover rinunciare alla propria giovinezza, costretto dall’etica del guerriero e dall’inevitabilità del destino; ciò nonostante non fugge, ma affronta il nemico con tutte le sue forze. In questa scena si nota inoltre l’aspetto più umano di Turno nel momento in cui chiede al nemico di aver salva la vita; il re rutulo infatti prega Enea di frenare il suo odio (ulterius ne tende odiis), e ancora, forse per un’improvvisa ripresa d’orgoglio o magari nell’estremo tentativo di impietosire Enea, implora il figlio d’Anchise di restituire il corpo ai suoi cari per la sepoltura. Dall’altra parte vediamo un Enea vivo di uno strano furore, che riversa la sua ira inesorabile sul nemico: se in un primo momento prova compassione per l’avversario rassegnato e supplice, viene subito richiamato a compiere la vendetta da quel balteo che ora indossa Turno, ma che un tempo apparteneva al giovane Pallante, e in un estremo gesto d’ira trapassa con la spada il petto del re dei Rutuli. Ad un primo sguardo potrebbe sembrare una dissonanza rispetto all’immagine di eroe pius che caratterizza Enea in tutto il poema; si potrebbe quasi pensare ad un ribaltamento della personalità dei due eroi (Turno infatti suscita quasi compassione, mentre Enea si mostra irremovibile); tuttavia non è Enea che scaglia il colpo finale, ma Pallante che, attraverso l’amico, vendica la propria morte: ecco che il gesto più feroce e crudo dell’intero poema diviene la massima espressione della pietas dell’eroe troiano. Che Virgilio concluda l’opera con l’immagine del sacrificio e del dolore e non della grandezza di Roma fa capire quanto forte il poeta senta questa domanda che affligge da sempre la storia: vale davvero la pena? Davide
1 liceo classico 2011/12 11 LEGGERE È VEDERE COSA ACCADE Eneide, opera incompiuta? A proposito dell’incompiutezza dell’Eneide, è soprattutto Antonio La Penna a sottolineare con particolare forza quanto gli ultimi tre versi del poema virgiliano (che descrivono come l’anima di Turno, ucciso da Enea, scende nell’Ade «sdegnata contro il suo destino») contraddicano non solo la natura del pius Enea (dipinto, sin dall’inizio, sempre positivamente, come saggio, riflessivo, fedele agli dei, mai al di fuori del fas ed estraneo a gesti inconsulti come sarà l’uccisione di Turno), ma l’intento stesso del poema, la celebrazione di Augusto in primis e della grandezza di Roma poi. La morte di Turno è conseguenza diretta di quella di Pallante. È il grande guerriero rutulo, infatti, che uccide il giovane ma valoroso figlio di Evandro e gli strappa di dosso il balteo che sarà, in seguito, fatale per lui. Infatti, vedendoglielo addosso, Enea non sa trattenere la rabbia e lo uccide, pronunciando quelle ormai famose parole pregne di rancore: Pallas te hoc volnere, Pallas / immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit. È questo un momento particolarmente impressionante, che si lega benissimo, certo, all’episodio della morte di Pallante, ma anche a quello della tragica fine di Priamo, avvenuta per mano del degener Neottolemo. Pallante e Priamo: due personaggi completamente diversi, ma entrambi vittime di una morte al limite (se non oltre il limite) del nefas e con un destino già segnato da tempo: è Priamo che indossa l’armatura sulle spalle tremanti per la vecchiaia e cinge l’«inutile» ferro; è Pallante che comincia il duello contro Turno con la precisa coscienza che è uno scontro impari; e ancora, è Priamo che viene ucciso sull’altare dall’empio Neottolemo, dopo aver assistito all’uccisione del figlio; è Pallante che perde la vita giovanissimo durante il primo giorno sul campo di battaglia. Turno, Pallante, Priamo. Una corona triangolare di vittime (o strumenti?) della Storia che ne sottintendono altre, tutte le altre: Polite, Eurialo, Niso, Camilla, la stessa Didone. Le morti di tutti costoro sono funzionali al compimento di quello che dovrà venire poi, al compimento della Storia, appunto. La domanda di La Penna e, implicitamente, di Virgilio, è: può la Storia, in questo caso la futura grandezza di Roma, giustificare tutte queste morti, di Priamo, di Pallante, di Turno, di ogni uomo valoroso caduto in guerra e non solo? Per La Penna evidentemente no; per Virgilio non lo sappiamo (non riusciamo a coglierlo) con precisione. Certo, questi fondamentali ultimi versi dell’Eneide possono essere veramente la chiave per arrivare a scoprire il suo pensiero, o meglio, per capire le sue domande. Leonardo
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