Consuetudini e leggi

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Consuetudini e leggi
Consuetudini e leggi
La seconda tappa della nostra investigazione ha come oggetto l’assetto istituzionale del
matrimonio così come risulta documentato nell'Antico Testamento.
Nel capitolo precedente abbiamo esaminato i racconti delle origini, che ci hanno messi in
contatto con una “teologia” del matrimonio. Le origini, come abbiamo detto, sono guardate come
evento fondativo: il matrimonio originario è il matrimonio come deve essere. Ora volgiamo lo
sguardo al matrimonio storico, al concreto fenomeno matrimoniale come si dà a conoscere
attraverso le disposizioni legislative e le narrazioni che in vario modo vi fanno cenno.
In materia di disposizioni legislative la nostra fonte principale è il Pentateuco, il libro che per
ragioni di ordine pratico è stato diviso in cinque parti, comunemente indicate con nomi ricalcati dal
greco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Tale partizione convenzionale non deve far
dimenticare che letterariamente si tratta di un solo libro,1 non di cinque. Il Pentateuco contiene sia
materiale narrativo che legislativo, in proporzioni più o meno eguali. Quello legislativo si presenta
sia disperso (norme isolate all'interno di sezioni narrative) che raggruppato in insiemi più o meno
vasti. Alcuni di questi insiemi hanno ricevuto nomi di comodo: decalogo (Es 20,2-17; Dt 5,6-21);
libro dell'alleanza (in tedesco Bundesbuch, da cui la sigla B), che indica Es 20,22-23,33; legge di
santità (in tedesco Heiligkeitgesetz, da cui la sigla H), che si trova nel libro del Levitico (Lv 17-26);
codice deuteronomico (sigla D), che corrisponde a Dt 12-26. Sull’epoca di composizione di queste
raccolte non vi è attualmente consenso tra gli studiosi. La questione non è importante per la nostra
ricerca, dato che non ci proponiamo di ricostruire l'evoluzione storica del diritto matrimoniale
dell'antico Israele, ma più semplicemente di cogliere alcune linee di fondo. È la fisionomia generale
dell'istituto matrimoniale ai tempi dell'Antico Testamento quella che ci interessa afferrare nei suoi
tratti essenziali.
1 Lo stesso vale per i libri di Samuele, dei Re e delle Cronache, divisi in due per ragioni pratiche, ma letterariamente
un’opera unica. Pure Esdra e Neemia non sono due libri distinti, ma uno solo diviso in due, designati con diversi nomi. I
due libri dei Maccabei invece sono due opere interamente distinte dal punto di vista letterario.
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Per l'intelligenza delle leggi contenute nel Pentateuco è di capitale importanza tenere conto
della loro natura, che possiamo definire paradigmatica. La vita sociale dell'antico Israele era infatti
regolata da un insieme di norme non scritte, conosciute e tramandate a memoria, che serviva di
riferimento ed era largamente sufficiente alla vita della società. Le leggi scritte suppongono questo
diritto consuetudinario, rispetto al quale si collocano come delle esemplificazioni paradigmatiche;
esse trattano cioè casi esemplari, tali da fornire ai giudici elementi su cui regolarsi. In mancanza
infatti di un codice in cui ogni situazione è prevista e regolata, ci si orienta secondo l'analogia.
Il principale problema interpretativo riguardo a questo genere di leggi è proprio la conoscenza
del diritto consuetudinario cui fanno riferimento. Se non è scritto, come si può conoscerlo? Un aiuto
ci viene dalle raccolte di leggi di altri popoli del Vicino Oriente antico, soprattutto mesopotamici.2
La comparazione tra queste e la legislazione biblica apre non raramente utili piste di comprensione.
Un altro strumento utile sono le narrazioni, contenute nel Pentateuco e in altri libri dell'Antico
Testamento, là dove testimoniano di usanze e costumi giuridici.
Nessuna delle collezioni legislative contenute nei libri di Mosé offre una raccolta organizzata
di norme relative al matrimonio.3 Dobbiamo dunque per forza attingere ad elementi sparsi. Non
possiamo ovviamente esimerci dal tenere conto della documentazione extrabiblica, non abbondante,
ma comunque utile. Menzioniamo anzittutto i papiri di Elefantina, l'isola del Nilo dove c'era una
colonia militare giudaica, di cui ci sono giunti documenti del secolo V a.C., tra i quali tre contratti
di matrimonio.4 Ai primi decenni del II secolo d.C. risale l'archivio di Babatha,5 rinvenuto in una
grotta del deserto di Giuda, comprendente anche contratti di matrimonio.
2 Molto utile è la raccolta curata da C. SAPORETTI, Le leggi della Mesopotamia, Firenze 1984 (Studi e manuali di
archeologia 2). La città fenicia di Ugarit non ci ha lasciato raccolte di leggi, ma elementi di diritto matrimoniale si
possono ricavare dai poemi trovati nella sua biblioteca: vedi A. VAN SELMS , Marriage and Family Life in Ugaritic
Literature, Londra 1954.
3 Fa eccezione la sezione Dt 22,13-29, la cui composizione è studiata da C. EDENBURG , «Ideology and Social Context
of the Deuteronomic Women's Sex Laws (Dt 22:13-29)», Journal of Biblical Literature 128 (2009), 43-60.
4 Mi sono servito della versione francese annotata di P. GRELOT, Documents araméens d'Egypte, Parigi 1972.
5 Un'edizione italiana è in preparazione a cura di C. MARTONE.
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Un importante punto di riferimento per il nostro studio è la tesi dottorale di A. TOSATO,6 che
fa ampio uso delle fonti mesopotamiche, che analizza e compara con un acume e una sensibilità
giuridica che destano ammirazione. Il suo libro, recentemente ristampato, fornisce a tutt'oggi la
migliore analisi giuridica complessiva dell'istituto matrimoniale dell'antico Israele. 7
Espositivamente tratteremo anzittutto dell'ordinamento di base del matrimonio israelitico.
Tratteremo in seguito di adulterio, divorzio, ed impedimenti matrimoniali. All'interno di ogni
paragrafo esamineremo prima le disposizioni legislative e poi i materiali narrativi.
6 Il matrimonio israelitico. Una teoria generale, Roma 1982 (Analecta Biblica 100). Per matrimonio israelitico
TOSATO intende il matrimonio come era configurato nell'epoca monarchica, altrimenti detta epoca del primo Tempio.
TOSATO intendeva studiare anche il matrimonio giudaico, ossia il matrimonio nell'epoca del secondo Tempio, quando
Israele non godeva più dell'indipendenza politica, ma solo di un'autonomia interna, governata delle famiglie sacerdotali.
La morte gli ha impedito di realizzare questo progetto: un abbozzo è tracciato nella prima parte del suo articolo
«L'istituto famigliare dell'antico Israele e della Chiesa primitiva », Anthropotes 13 (1997), 109-174.
7 Roma 2002. Segnalo anche alcuni studi successivi: «The Law of Leviticus 18:18: A Reexamination», Catholic
Biblical Quarterly 46 (1984) 199-214; «Il trasferimento dei beni nel matrimonio israelitico». Bibbia e Oriente 27
(1985), 129-148; «Sul consenso dei figli e delle figlie di famiglia nel matrimonio israelitico», Studia et Documenta
Historiae et Iuris 36 (1986), 283-318. Abbiamo già avuto occasione nel precedente capitolo di citare «On Genesis
2:24», Catholic Biblical Quarterly 52 (1990), 389-409.
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Sponsali e nozze
In ebraico biblico non esiste un termine che corrisponda all'italiano “matrimonio”. Non esiste
neppure un termine specifico per dire “marito” o “moglie”, per i quali sono comunemente usati ’îš e
’iššāh, “uomo” e “donna”. Una donna diventa moglie di un uomo (’ēšet ’îš, cfr. Lv 20,10 e Pr 6,26)
nel momento in cui una persona che ne ha diritto (capofamiglia, padrone o padrona) gliela dà in
matrimonio. L'uomo diventa marito di una donna quando la prende in moglie.
Giova rilevare che mai nell'Antico Testamento si parla di uomo dato o preso come marito.8
Nell'Israele biblico, e in tutta l'area mediorientale di quell'epoca, una donna non sposa un uomo, ma
è sposata da un uomo. Il linguaggio è indicativo della realtà delle cose. Non per nulla nel racconto
del paradiso terrestre abbiamo letto che il Signore condusse Eva ad Adamo, non lui a lei. In questa
società e cultura il matrimonio non è un istituto egualitario.
Per indicare l'azione di sposare una donna, l'ebraico biblico dispone di un verbo specifico: ’rś.
Esso designa l'atto mediante il quale un uomo acquisisce il diritto di prendere in moglie una certa
donna. Con questo atto, che in mancanza di termini più appropriati possiamo chiamare “sponsali”,
l'uomo si impegna a prenderla in casa come moglie e si assicura che non sarà data a nessun altro
richiedente. Il vincolo matrimoniale è costituito da questo atto, non dalla coabitazione che seguirà.
Dell'intervallo di tempo che separa sponsali e coabitazione9 è testimone la norma del codice
deuteronomico relativa al guerriero sposato non ancora convivente:
Chi è l'uomo che ha sposato (’ēraś) una donna ma non l'ha ancora presa (leqāḥāh)? Vada e torni a casa sua,
perché non capiti che muoia in battaglia e un altro uomo la prenda. (Dt 20,7)
La Bibbia CEI traduce: “che si sia fidanzato con una donna e non l'abbia ancora sposata”. In
italiano il termine “fidanzamento” designa però la relazione tra due che progettano di sposarsi,
relazione che non è giuridicamente vincolante e si può interrompere in ogni momento. ’rś designa
invece una promessa impegnativa, che pone in essere lo stato matrimoniale.
8 Di una donna si dice che “diventa” moglie, mentre solo una volta (Rt 1,11) si dice di un uomo che “diventa” marito.
9 Il romanzo di Tobia, scritto in epoca ellenistica, ci presenta due sposi che vanno a dormire insieme la notte stessa in
cui lei è stata concessa a lui in matrimonio (cfr. Tb 7,9-8,1). Questa è però una presentazione letteraria.
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Il caso contemplato in Dt 20,7 è quello di un giovane che ha legato a sé giuridicamente una
ragazza ma non l'ha ancora “presa”, ricevuta in casa sua: la legge lo esenta dall'andare in battaglia.
La stessa esenzione è concessa, per il periodo di un anno, a colui che ha appena preso in casa la
moglie:
Quando uno prenderà (yiqqaḥ) una moglie nuova,10 non andrà in guerra e non si passerà da lui per alcun
motivo;11 sarà libero di stare a casa sua per un anno e farà lieta la moglie che ha preso (lāqaḥ). (Dt 24,5)
Un anno è valutato come tempo sufficiente per “fare lieta” la moglie, il che significa con tutta
probabilità metterla incinta e farle fare un bambino.12 Non è giusto esporre al rischio di perdere la
vita in battaglia un giovane che non ha ancora preso in casa la moglie, oppure l'ha presa da poco e
non avuto ancora un figlio. Oltrettutto non combatterebbe al meglio delle sue capacità, pensando a
ciò che rischia di perdere. La guerra è per uomini sposati e con figli.
In connessione con ’rś si incontra una volta il verbo mhr, di difficile traduzione in italiano. Il
passo si trova nel libro dell'alleanza:
[15] Se uno seduce una vergine che non è stata ancora sposata (’ōrāśāh) e giace con lei, dovrà versare il mōhar
per lei per farla sua moglie. [16] Se suo padre rifiuta di dargliela, dovrà pagare quanto il mōhar delle vergini.
(Es 22,15-16)
Il verbo tradotto con “sedurre” indica un'azione persuasiva nei confronti di una persona che
non vorrebbe fare una data cosa:13 non un vero e proprio stupro, ma un'azione che gli si avvicina.14
Per “vergine” non si intende una virgo intacta, ma semplicemente una ragazza in età da marito. La
Bibbia CEI traduce: “non ancora fidanzata”; il senso è: “legata da promessa matrimoniale”.
10 Si intende da poco tempo, come la casa nuova di Dt 20,5.
11 Si intendono forse corvées, che il re poteva imporre per utilità pubbliche. Vedi J. SCHIPPER, «Deuteronomy 24:5
and King Asa's Foot Disease in 1 Kings 15:23b», Journal of Biblical Literature 128 (2009), 643-648.
12 La gioia principale di una donna è diventare madre. Certo una moglie è anche allietata dalla presenza del marito
accanto a lei; il contesto mi pare però favorire la gioia della maternità.
13 Come la moglie di Sansone che riuscì a farsi dire la soluzione all'indovinello (cfr. Gdc 14,15).
14 Si consideri che le ragazze erano generalmente date in matrimonio appena erano in grado di fare bambini. Si tratta
dunque di persuasione nei confronti di una minorenne.
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La Bibbia CEI traduce mōhar come “prezzo nuziale”. Pure questo termine non è felice, in
quanto la moglie non era propriamente comperata. Il mōhar era una somma che colui che chiedeva
in moglie una donna offriva a lei come attestazione della sua volontà di averla come moglie. Lo si
può considerare un controvalore: attesta quanto vale per il richiedente la donna di cui vuole fare sua
moglie. Es 22,16 menziona il mōhar delle vergini, sicuramente maggiore di quello delle divorziate15
o delle vedove. L'uomo che si è fatto la ragazza senza averla prima chiesta e ottenuta in matrimonio
è obbligato a versare il mōhar che spetta alle vergini, anche nel caso che il padre di lei rifiuti di
dargli la figlia. In questo caso la somma versata viene a costituire un risarcimento. 16
Di mōhar si parla nel libro della Genesi, dove si racconta di Sichem che rapisce una figlia di
Giacobbe, poi se ne innamora e la vuole sposare, dichiarandosi disposto a versare un mōhar più alto
del normale (cfr. Gen 34,12), giustificato dal fatto che ha commesso un abuso, prendendo la ragazza
senza averla debitamente chiesta e ottenuta in matrimonio.
In casi particolari, il mōhar può consistere in una prestazione. Giacobbe, che essendo profugo
non dispone di ricchezze, lavora sette anni per ottenere Rachele come moglie; ingannato17 da
Labano che al posto di Rachele gli dà Lea, ne lavora altri sette. Quando finalmente parte per tornare
alla sua terra di origine, le due mogli recriminano contro il padre: “ci ha vendute e ha mangiato il
nostro denaro” (Gen 31,15). Lea e Rachele si sentono defraudate perché Labano si è tenuto per sé il
frutto del lavoro di Giacobbe, che spettava invece a loro in quanto era un mōhar. 18 Questo infatti,
una volta versato, è proprietà della donna per cui è stato versato, e rimane a lei19 anche dopo il
matrimonio. TOSATO ha perfettamente ragione di sostenere che il matrimonio israelitico non è una
compravendita.
15 In un contratto matrimoniale trovato ad Elefantina il mōhar per una vergine è fissato in dieci sicli, in cinque per una
divorziata. Vedi TOSATO , Matrimonio israelitico, cit., 102 nota 84.
16 Infatti Es 22,15-16 è parte di un insieme di norme relative al risarcimento di danni di vario genere procurati a un'altra
persona.
17 Come lui aveva ingannato suo padre, facendosi passare per suo fratello Esaù (cfr. Gen 27,18-29).
18 Il termine non è usato, ma il contesto non lascia dubbi in proposito.
19 Anche se il marito lo amministra, come tutti i beni della moglie. L'amministrazione non lo rende però affatto
proprietario.
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Altro caso di mōhar non consistente in denaro è quello di Davide, che per avere in moglie una
figlia di Saul uccide duecento Filistei, portando come prova i loro prepuzi (cfr. 1 Sm 18,27).
Quando poi deve fuggire, Saul dà la figlia ad un altro; dopo la morte di Saul, Davide la rivuole
indietro: “l'ho sposata (’ēraśtî) con duecento prepuzi di Filistei” (2 Sm 3,14). L'accettazione del
mōhar funge da accettazione della domanda di matrimonio: da quel momento la donna per cui è
stato versato è giuridicamente sposata a colui che lo ha versato. La traduzione “prezzo nuziale” è
pertanto fuorviante: non è un prezzo e non è nuziale. È meglio dire: “offerta sponsale”; offerta che
una volta accettata conferisce diritti all'offerente.
Sul caso della vergine sedotta si pronuncia pure la legge deuteronomica:
e
[28] Se un uomo troverà una ragazza vergine non sposata (m ’ōrāśāh), la prenderà e giacerà con lei, e saranno
trovati, [29] l'uomo che è giaciuto con lei darà al padre della ragazza cinquanta monete d'argento. Diventerà sua
moglie perché ha abusato di lei, e non potrà divorziare da lei per tutta la vita. (Dt 22,28-29)
Rispetto alla norma che abbiamo trovato nel libro dell'alleanza, viene qui specificata la cifra
che deve essere versata20 e si aggiunge la perdita del diritto di divorzio. La legge vuole chiaramente
impedire che il seduttore colto sul fatto se la possa cavare a buon mercato, sposando la ragazza di
cui ha abusato e poi liberandosene mediante divorzio.
Avere rapporti sessuali con una ragazza prima di averla regolarmente chiesta e ottenuta in
matrimonio è considerata un'offesa molto grave. Si legga a questo proposito la storia di Sichem e
Dina, la figlia di Giacobbe da lui rapita e poi chiesta in moglie. Giacobbe accetta il matrimonio
riparatore, ma non i fratelli di Dina, Simeone e Levi, che organizzano una spedizione punitiva e
ammazzano Sichem, suo padre e tutti i maschi della famiglia, e si portano via le donne come
bottino. Ai rimproveri del padre rispondono: “è come una prostituta che si tratta nostra sorella?”
(Gen 34,31). I fratelli di Dina non sono disposti a lasciare vivo chi l'ha presa per il suo piacere,
disprezzando lei e la famiglia di cui fa parte. La prostituta non conta niente, non dà ad un uomo
altro che un momento di piacere; donna di tutti e di nessuno, se fa un figlio non si sa chi ne è il
padre. La figlia di famiglia è invece un bene prezioso: la si sposa per avere da lei figli ed eredi.
20
È evidente che si tratta del mōhar, anche se il termine non viene usato. Non si dice che il padre possa rifiutare la
figlia a colui che ne ha abusato, ma lo si può considerare sottinteso.
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Un altro esempio di vendetta per avere usato di una donna senza averla chiesta e ottenuta in
matrimonio ci è offerto dalla storia di Amnon e Tamar, figlio e figlia di Davide (avuti da due mogli
diverse). Amnon concepisce una passione folle per la sorellastra, l'attira a casa sua con un inganno e
la costringe a giacere con lui, ignorando le sue suppliche di essere prima chiesta in moglie (cfr. 2
Sm 13,13). Dopo di che il suo amore si cambia in detestazione e la sbatte fuori di casa; Davide si
adira molto per questo fatto (cfr. 2 Sm 13,21), ma non obbliga Amnon a sposare Tamar: grave
mancanza da parte di un padre, che mostra di non avere cara una figlia. A fare giustizia pensa allora
Assalonne, fratello di Tamar, che lascia passare due anni, poi attira con un inganno Amnon a casa
sua e lo fa ammazzare dai suoi servi (cfr. 2 Sm 13,29). Come nel caso di Sichem e Dina, è il fratello
che vendica la sorella, non il padre la figlia.
L'istituto degli sponsali, di cui il mōhar è parte integrante, fa comprendere il valore che era
allora attribuito alla donna. Non ci si sposava perché ci si era innamorati, ma per fare una famiglia,
o, in linguaggio più biblico, per costruire una casa (cfr. Sal 127,1).
Per la donna essere sposata era un onore, non esserlo un disonore. È illuminante in proposito
questo passo di Isaia:
In quel giorno sette donne afferreranno un uomo solo, dicendo: mangeremo il nostro pane, vestiremo il nostro
mantello, purché sia pronunciato su di noi il tuo nome, togli il nostro disonore. (Is 4,1)
Il profeta preannuncia ad Israele un tempo di grande sventura, in cui nel popolo saranno
rimasti in vita pochissimi uomini, tanto che pur di avere marito le donne rinunceranno al loro diritto
di essere da lui mantenute (provvedute di cibo e vestiario). A ciò si rassegnano pur di portare il
nome di un uomo, ossia essere chiamata: “moglie di”. Questo è ciò che per una donna conta più di
tutto nel matrimonio, l'onore che questa condizione assicura nella società.
Ricordiamo anche la storia della figlia di Iefte, che accettò di essere immolata per soddisfare il
voto di suo padre, chiedendogli però due mesi di tempo per piangere insieme con le sue amiche per
la sventura di dover morire ancora vergine (cfr. Gdc 11,37), senza avere avuto marito e fatto figli.21
Qui del matrimonio più che l'onore è messa in rilievo la felicità che rappresenta per la donna.
21
Il libro dei Giudici ci informa che le ragazze di Israele usavano trovarsi quattro giorni all'anno per fare lamento sulla
figlia di Iefte (cfr. Gdc 11,40).
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Il fatto che la donna fosse data in matrimonio dal padre o da chi fungeva da capofamiglia non
significa che fosse considerata un oggetto. È un bene prezioso, come abbiamo detto, ma ciò non
significa un oggetto. Certo la domanda di matrimonio era rivolta al capofamiglia, non direttamente
alla donna. 22 Non sappiamo se il suo consenso fosse sempre chiesto, come nel caso di Rebecca, alla
quale la madre e il fratello domandano se vuole andare in matrimonio ad Isacco (cfr. Gen 24,58).
Ciò era probabilmente lasciato alla discrezione del capofamiglia. 23
Il contratto matrimoniale prevedeva pure quella che possiamo chiamare dote, ossia i beni che
il padre consegnava alla figlia che dava in moglie. Tali beni potevano consistere in denaro, gioielli,
abiti, proprietà fondiarie, o schiave.24 I contratti matrimoniali israelitici giunti fino a noi li elencano
dettagliatamente. Giova ricordare che di essi era proprietaria la moglie, non il marito, e restavano a
lei in caso di divorzio25 o vedovanza. Con il matrimonio una donna acquisiva quindi un patrimonio,
costituito da ciò che le dava il marito (il mōhar) e ciò che le dava il padre (la dote). L'autonomia
patrimoniale era manifestamente una difesa e una garanzia per la donna sposata.
Agli sponsali seguivano, a tempo debito, 26 le nozze. Con questo termine, che non ha un esatto
corrispondente in ebraico biblico, designamo la festa che celebrava l'inizio della coabitazione tra
sposo e sposa. Festoso era già il corteo che si formava quando la sposa27 era condotta a casa dello
sposo: nel primo libro dei Maccabei leggiamo di uno sposo che va incontro alla sposa con famigliari
ed amici, al suono di strumenti musicali (cfr. 1 Mac 9,39). A casa dello sposo era costume tenere un
banchetto (in ebraico mišteh, termine che evoca le bevute), che si teneva per sette sere28 di seguito
(cfr. Gen 29,27-28; Gdc 14,12.17), cui erano invitati parenti ed amici.
22
Eccettuato il caso della vedova. Quando Davide vuole sposare Avigail, manda dei messaggeri direttamente a lei, che
accetta la sua proposta (cfr. 1 Sm 25,39-42).
23
Nel libro di Tobia Raguel concede la figlia in matrimonio senza consultare né la moglie né la figlia stessa, la quale
non fa obiezioni (cfr. Tb 7,9-14).
24
Rebecca è condotta ad Isacco con la sua nutrice e le sue ancelle (cfr. Gen 24,59.61), Lea e Rachele seguono
Giacobbe con una schiava ciascuna (cfr. Gen 29,24.29).
25 Almeno
26 Il
di divorzio senza colpa.
tempo necessario per mandare ad effetto gli accordi patrimoniali presi durante gli sponsali.
27 Splendidamente vestita
28 Quattordici
ed ingioiellata: cfr. Is 49,18; 61,10; Ger 2,32.
nel caso delle nozze di Tobia e Sara (cfr. Tb 8,20 e 10,8), durata da considerare del tutto eccezionale.
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Le nozze erano infatti un evento gioioso non solo per gli sposi. Il matrimonio non era sentito
come fatto privato di una coppia, ma come evento di speranza per tutta la comunità. L'inizio della
coabitazione del marito e della moglie29 preludeva a prossime nascite, continuità di vita per la
famiglia e per tutto il gruppo sociale di cui la famiglia faceva parte, e in prospettiva più ampia per
l'intera nazione.
Non consta che in occasione delle nozze fossero recitate preghiere, o fosse compiuta alcuna
cerimonia religiosa. Da ciò non si deve trarre la conseguenza che il matrimonio fosse vissuto in
modo non religioso. La religione dell'Antico Testamento non è infatti unicamente né principalmente
rituale o cultuale. La gioia stessa era sentita come un modo per rendere grazie a Dio per i suoi doni.
29
Dall'inizio della coabitazione il marito è detto ba‘al, signore, la moglie be‘ulat ba‘al (cfr. Gen 20,3 e Dt 22,22), o
semplicemente be‘ûlāh (cfr. Is 54,1), signoreggiata. Va tenuto presente che ba‘al non implica solo autorità, ma anche
protezione.
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La moglie di stato servile
Ciò che abbiamo detto nel paragrafo precedente vale per la figlia di famiglia, ossia la ragazza
giuridicamente libera. Diverso è il caso delle ragazze in stato di servitù o schiavitù,30 per le quali
non si versa alcun mōhar. Il loro statuto non libero non impedisce tuttavia che divengano mogli,
anche se di secondo rango rispetto alle libere.
Su questo secondo tipo di matrimonio ci informa il libro dell'alleanza, là dove tratta dell'uomo
e della donna che cadono in servitù. Vediamo prima la normativa riguardante i servi:
[2] Quando acquisterai un servo ebreo, servirà per sei anni: il settimo anno andrà via libero gratuitamente. [3] Se
sarà venuto solo, andrà via solo; se ammogliato, sua moglie andrà via con lui. [4] Se il suo padrone gli darà una
moglie e gli genererà figli o figlie, la moglie e i figli rimarranno al padrone, e lui andrà via solo. [5] Se il servo
dirà: amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli, non voglio andare via libero, [6] il suo padrone lo farà
accostare a Dio,31 lo farà accostare alla porta o allo stipite, il suo padrone gli bucherà l'orecchio con un
punteruolo e lui lo servirà per sempre. (Es 21,2-6)
La statuizione generale è la cessazione della servitù dopo sei anni, giudicati sufficienti ad
estinguere il debito. Se vuole però il servo può rinunciare al suo diritto di tornare libero e farsi servo
perpetuo. La legge glielo consente in un caso preciso, quello che abbia preso in moglie una serva o
schiava del suo padrone, che non gli è consentito di portare via con sé al settimo anno, come
neppure i figli avuti da lei, che restano al padrone come la loro madre. Ben triste alternativa: o la
libertà o la famiglia. Nessuna alternativa invece per la moglie che gli ha dato il padrone: rimane in
ogni caso in stato servile, sia che il marito la lasci per tornare libero sia che rimanga con lei. Solo la
moglie che non appartiene al padrone riacquista la libertà insieme col marito al termine dei sei anni
di servitù.
Vediamo ora la normativa relativa alle serve:
30 La lingua ebraica usa gli stessi termini per indicare due condizioni giuridicamente non identiche. In servitù si cade
per debiti, in schiavitù a seguito di una guerra perduta. Gli sconfitti erano infatti per diritto schiavi dei vincitori; ne
consegue che gli schiavi erano normalmente stranieri.
31 Si intendono forse divinità domestiche come quelle che Labano rimprovera Giacobbe di avergli portato via (cfr. Gen
31,30).
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[7] Quando un uomo venderà sua figlia come serva, non andrà via come vanno via i servi.32 [8] Se non sarà
gradita al suo padrone che l'aveva destinata33 a sé34, la lascerà riscattare: non la venderà a un popolo straniero 35
agendo slealmente verso di lei. [9] Se la destinerà a suo figlio, la tratterà secondo il diritto delle figlie.36 [10] Se
ne prenderà un'altra, non le37 diminuirà né il cibo né l'abbigliamento né i rapporti coniugali.38 [11] Se non farà
per lei queste tre cose, 39 lei andrà via gratuitamente, senza denaro. (Es 21,7-11)
La statuizione generale è l'opposto della precedente: la ragazza data in servitù rimane a
perpetuità in questo stato. Perché questa disparità tra servi e serve?40 La spiegazione più logica è
che le serve fossero normalmente date in moglie, condizione in linea di principio permanente. 41
32 Vale a dire alla fine di sei anni di servitù.
33 Il verbo ebraico y‘d designa l'azione di prendere accordi con una persona, o decisioni riguardo a una persona. In
questo contesto è intesa un accordo matrimoniale: il creditore aveva preso la figlia del debitore con l'impegno di farne
sua moglie.
34 Secondo la lezione marginale, il cosiddetto qere, mentre la lezione interna, il cosiddetto ketib, è “non l'aveva
destinata”. Sulle ragioni per preferire il qere, vedi la mia tesi dottorale Tradizioni orali di lettura e testo ebraico della
Bibbia, Friburgo 1989 (Studia Friburgensia n.s. 72), 77-83. A favore del ketib si è pronunciato A. SCHENKER,
«Affranchissement d'une esclave selon Ex 21,7-11», Biblica 69 (1988), 547-556.
35 Così la Settanta e i Targumim, ad eccezione del Neofiti. L'ebraico nokrî può essere inteso sia come straniero in senso
etnico che come estraneo alla famiglia.
36 Sono intese le figlie sotto la giurisdizione del padre, quindi in stato di libertà.
37 Alla prima.
38 In ebraico ‘ōnah, termine che compare solo qui nella Bibbia ebraica. Tanto la Settanta quanto il Targum l'hanno
inteso nel senso dei rapporti coniugali; così anche E. LEVINE, «On Ex 21:10. ‘onah and Biblical Marriage», Zeitschrift
für altorientalische und biblische Rechtsgeschichte 5 (1999), 133-164. Un'altra interpretazione (“her needs”) è proposta
da J. PARADISE, «What Did Laban Demand of Jacob? A New Reading of Genesis 31:50 and Exodus 21:10». in
Tehillah le-Mosheh. Biblical and Judaic Studies in Honor of M. Greenberg, edd. M. COGAN e altri, Winona Lake 1997,
91-98.
39 I tre obblighi elencati al v. 10, oppure le tre prescrizioni contenute nella pericope: consentire il riscatto, trattare
secondo il diritto delle figlie, non diminuire le sue spettanze.
40 La legge deuteronomica prevede invece la liberazione al settimo anno sia per i servi che per le serve (cfr. Dt 15,12),
facendo pure obbligo al padrone di dare al servo che ritorna libero un dono (dal gregge, dall'aia e dal torchio).
41 Vedi C. PRESSLER, «Wives and Daughters, Bond and Free: Views of Women in the Slave Laws of Ex 21:2-11»,
Gender and Law in the Hebrew Bible and the Ancient Near East, edd. V.H. MATTHEWS e altri, Sheffield 1998 (Journal
for the Study of the Old Testament. Supplement Series 262), 158.
72
La serva può riacquistare la libertà solo se, anziché ad un servo (caso previsto da Es 2,4), è
data in moglie ad un uomo libero. Ciò avviene in tre casi: se il padrone-marito non la gradisce e,
non avendo facoltà di rivenderla, consente al suo riscatto; se la dà in moglie a uno dei suoi figli;42 se
lede i diritti di lei in fatto di cibo, vestiti e rapporti sessuali.
La pratica di dare in servitù un figlio o una figlia a saldo di un debito è attestata pure dal
Codice di Hammurabi (§ 117), che però menziona anche la moglie come persona che poteva essere
data in servitù (per una durata massima di tre anni). Nel libro dell'alleanza, e nella legislazione
biblica in generale, la possibilità di dare in servitù la moglie per pagare i propri debiti non è
menzionata. 43
Nel codice deuteronomico incontriamo una norma che tratta del matrimonio con la prigioniera
di guerra:
[10] Quando uscirai in guerra contro il tuo nemico e il Signore tuo Dio lo metterà in tuo potere e farai
prigionieri, [11] se vedrai tra i prigionieri una donna di bell'aspetto, te ne innamorerai e vorrai prenderla in
moglie, [12] la farai entrare dentro la tua casa. Si raderà la testa, si taglierà le unghie, [13] si toglierà le vesti di
prigioniera, siederà in casa tua e piangerà suo padre e sua madre per un mese. Dopo di ciò potrai andare da lei e
possederla, e sarà per te una moglie. [14] Se non ti sarà gradita, la lascerai andare via: non potrai venderla per
denaro. Non dovrai trarne guadagno dopo averla umiliata.44 (Dt 21,10-14)
Qui non si tratta di una ragazza venduta per i debiti di suo padre, ma catturata dopo una guerra
vinta, una schiava dunque, non una serva. La legge consente all'Israelita di prenderla come moglie,
prescrivendo di concederle un mese di tempo per piangere suo padre e sua madre che non vedrà mai
più. Nel caso che il padrone-marito non sia contento di lei, gli è vietato di rivenderla: deve lasciarla
andare via libera. È già una umiliazione per lei il fatto di essere ripudiata, volerci anche guadagnare
sopra è troppo.
42
Secondo il diritto delle figlie. Sui suoi contenuti vedi T OSATO , Matrimonio israelitico, cit., 130-140. Il diritto
delle figlie è menzionato in un contratto matrimoniale su coccio, rinvenuto nel 1993 nella città edomita di Maresha, che
porta la data del 176 a.C. Vedi H. ESHEL - A. KLONER, «An Aramaic Ostracon of an Edomite Marriage Contract from
Maresha, dated 176 B.C.E.», Israel Exploration Journal 46 (1996), 1-22.
43 Il fatto che non sia menzionata non permette certo di escludere che esistesse anche in Israele.
44
Il verbo ebraico indica una violenza esercitata su una persona più debole, non lo stupro: cfr. E. VAN WOLDE, «Does
‘innâ Denote Rape? A Semantic Analysis of a Controversial Word», Vetus Testamentum 52 (2002), 528-544.
73
Nel libro dell'alleanza abbiamo visto che una serva può andare via libera se il padrone non
mantiene verso di lei gli obblighi di un marito; nel codice deuteronomico vediamo che una schiava
può andare via libera se il padrone divorzia da lei. Il fatto di essere presa in moglie conferisce
pertanto ad una donna, serva o schiava che sia, dei diritti che le consentono in determinati casi di
riacquistare la libertà.
Di matrimoni con schiave ci parla il libro della Genesi, dove non si tratta però di schiave del
marito, bensì della sua prima moglie. Vediamo ad esempio Hagar, schiava egiziana di Saray, che la
sua padrona, non riuscendo ad avere figli, dà in moglie ad Abram per essere costruita (= avere figli)
attraverso di lei (cfr. Gen 16,1-3). I figli di una serva o di una schiava sono proprietà del padrone
(cfr. Es 21,4) o padrona di lei.45 Rimasta incinta, Hagar tratta con disprezzo Saray,46 che se ne
lamenta col marito. La risposta di Abram è istruttiva: “la tua schiava è in tuo potere, agisci con lei
come è bene ai tuoi occhi” (Gen 16,6). Anche dopo essere divenuta moglie di Abram, Hagar resta
schiava di Saray; il matrimonio non ha modificato il suo stato servile. Quando Saray la umilia,
Hagar fugge, non dal marito, ma dalla sua padrona, e l'angelo del Signore che le parla nel deserto le
dice di tornare non al marito, ma alla sua padrona (cfr. Gen 16,8-9). Hagar torna effettivamente da
Saray, accettando di dipendere da lei come schiava. Quando però Saray (chiamata ora Sara) ha
finalmente un figlio suo, chiede ad Abram (chiamato ora Abraham) di mandare via Hagar ed
Ismaele, il figlio che gli ha generato (cfr. Gen 21,10), poiché non vuole che l'eredità di Abraham sia
divisa tra il figlio della schiava e il figlio della libera.47 Ciò che spinge Sara a chiedere al marito di
cacciare Hagar e Ismaele è l'interesse del suo proprio figlio, Isacco, per il quale desidera che sia il
solo ad ereditare dal padre. Hagar è quindi spedita fuori di casa insieme col figlio, ambedue ora
giuridicamente liberi, ma privi della protezione di un marito e di un padre.48 Hagar è la prima
divorziata di cui parla la Bibbia; divorziata a causa del figlio che la prima moglie vuole escludere
dall'eredità paterna.
45
Così pure per i figli di Bilha e Zilpa, schiave rispettivamente di Rachele e di Lea (cfr. Gen 30,3-13). Delle dodici
tribù di Israele quattro (Dan, Naftali, Gad e Asher) discendono dai figli che Giacobbe ebbe dalle mogli schiave.
46 Il
47
caso è trattato anche nel codice di Hammurabi (§ 146), che si preoccupa di difendere i diritti della padrona.
Il codice di Lipit Ishtar (§ 30) dispone che un uomo affranchi la schiava e il figlio avuto da lei, perché non divida
l'eredità col figlio che ha avuto dalla moglie libera. La richiesta di Sara è dunque conforme al diritto vigente.
48
Giova ricordare che Ismaele era ancora molto giovane. Abramo lo ebbe all'età di ottantaquattro anni, mentre ebbe
Isacco all'età di cento anni. La cacciata di Hagar avviene dopo la festa dello svezzamento di Isacco, pochi anni dopo.
74
Possiamo considerare in questo contesto anche la storia della concubina del Levita raccontata
nel libro dei Giudici. Concubina è la traduzione italiana consueta49 della parola ebraica pilegeš, che
in Gen 35,22 qualifica Bilha, la schiava di Rachele che la sua padrona diede in moglie a Giacobbe
per essere, come Sara, “costruita” attraverso di lei (cfr. Gen 30,3). Questo parallelo ci autorizza a
ritenere che pilegeš indichi la moglie in stato servile. La traduzione “concubina” è in realtà
fuorviante, dato che questa parola nell'uso italiano corrente indica una donna con cui un uomo va
regolarmente a letto senza essere a lei legato in matrimonio. Ce ne serviremo egualmente in
mancanza di termini più appropriati, avvertendo però che la concubina di cui si parla nella Bibbia è
una moglie, sia pure di secondo rango.
La storia narrata in Gdc 19 ha come oggetto il crimine commesso dagli abitanti della città di
Givea nei confronti di un viaggiatore cui è stata offerta ospitalità per la notte. Per la nostra ricerca è
di particolare interesse l'antefatto della vicenda, ossia il ritorno della concubina a casa di suo padre e
la venuta del marito per riportarla a casa. Il ritorno della concubina dal padre può essere stato
volontario oppure obbligato. Il testo ebraico dice che lei “commise prostituzione”, ossia adulterio;50
in questo caso è logico pensare che sia stato il marito a mandarla via. L'apparato della Biblia
Hebraica Stuttgartensia a Gdc 19,2 suggerisce però la possibilità che in questo versetto il verbo znh
abbia il senso “andare in collera”,51 attestato dalla più antica versione greca del libro dei Giudici. In
questo caso si può pensare che la concubina abbia lasciato il marito ritenendosi lesa nei suoi diritti.
In ogni caso quattro mesi dopo il marito si reca da lei e parla “al suo cuore”,52 convincendola a
tornare a casa con lui. È una storia di crisi e riconciliazione coniugale, dopo la rottura avvenuta per
colpa di lei o di lui, secondo la lettura che si dà di Gdc 19,2.
49 Prima
50
ancora latina, dato che si incontra regolarmente nella Vulgata.
Poco credito merita l'interpretazione di P. T. REIS , che ritiene che la concubina esercitasse la prostituzione a profitto
del marito: cfr. «The Levite's Concubine: New Light on a Dark Story», Scandinavian Journal of the Old Testament 20
(2006), 125-146.
51
znh designa in senso stretto la pratica della prostituzione, e in senso lato ogni forma di promiscuità sessuale. Alcuni
lessici riconoscono gli omografi znh I e znh II.
52
Parlare al cuore significa parlare per apportare conforto. Vedi Gen 34,3, dove Sichem conforta Dina, la ragazza da lui
presa con la forza, promettendo di sposarla; e Os 2,16, dove un marito conforta la moglie adultera rimasta sola e
abbandonata, promettendo di riprenderla con sé.
75
Il seguito della storia è tragico. Nel viaggio di ritorno a casa il Levita e la sua concubina
devono pernottare nella città beniaminita di Givea, dove sono accolti solo da un Efraimita. Di notte
alcuni delinquenti della città bussano alla porta chiedendo di conoscere53 l'ospite. Il padrone di casa
cerca di farli desistere da tale proposito, offrendo in cambio sua figlia ancora vergine.54 Poiché i
violenti non desistono, il Levita consegna loro la sua concubina ed essi ne abusano per tutta la notte.
Il mattino seguente il Levita la trova morta davanti alla porta, la carica sull'asino, la porta a casa e
comunica il fatto a tutto Israele chiedendo vendetta (cfr. Gdc 19,14-30). Segue una guerra tra
Beniamino e le altre tribù, che termina con la sconfitta dei Beniaminiti, che rischiano addirittura di
scomparire come tribù. Non si può certamente dire una storia edificante, e ci si domanda perché è
raccontata.55 Il narratore non pare affatto scandalizzato, al contrario del lettore contemporaneo della
Bibbia, all'idea di un uomo che offre la moglie come oggetto sessuale al proprio posto. Il marito di
questa storia non dà la vita per sua moglie,56 ma la vendica dopo morta.
Possiamo anche ricordare le dieci concubine che Davide lascia a Gerusalemme quando deve
fuggire davanti ad Assalonne, mentre si porta dietro le mogli (cfr. 2 Sm 15,16). Appena arrivato a
Gerusalemme Assalonne si unirà pubblicamente con le concubine (cfr. 2 Sm 16,22), per dimostrare
che tutto ciò che era stato di suo padre apparteneva ora a lui.57 Tornato a Gerusalemme dopo la
sconfitta e morte di Assalonne, Davide fece rinchiudere le concubine che suo figlio aveva preso,
mantenendole ma senza avere più rapporti sessuali con loro, obbligandole a vivere come vedove il
cui marito è ancora vivo (cfr. 2 Sm 20,3).
53 Probabilmente
54
in senso sessuale. Tuttavia in Gdc 20,5 il Levita dichiara che gli abitanti di Givea volevano ucciderlo.
Così fa anche Lot a Sodoma in una situazione analoga (cfr. Gen 19,4-8). Una figlia vergine è un bene prezioso, ma
ancora più preziosa è la vita della persona cui si è dato ospitalità.
55
Poiché il re Shaul era di Givea, la storia di Gdc 19-20 viene a gettare una luce negativa sulla sua figura e preannuncia
la sua triste fine.
56
Probabilmente non la sua unica moglie, trattandosi di una concubina. Notiamo per inciso che Abramo, temendo per
la sua vita, non si perita di concedere Sara in moglie al Faraone (cfr. Gen 12,10-16), e in seguito al re di Gerar (cfr. Gen
20,9-13). Lo stesso è disposto a fare Isacco con Rebecca, per la stessa ragione (cfr. Gen 26,6-9). Tutti questi racconti
danno per scontato che la moglie non valga per il marito quanto la sua propria vita.
57
Prendere la concubina del re morto equivale ad accampare il diritto di succedergli: per questo Ishbaal si insospettisce
di Avner (vedi 2 Sm 3,7) e Salomone fa uccidere Adonia (cfr. 1 Re 2,22-24).
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