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Istorie fiorentine), mentre solo in qualche caso (per
es., Franco Gaeta) sono state considerate un testo
letterario. Un’edizione fondata sull’autografo, come
affermato dai curatori Guido Mazzoni e Mario Casella, è quella pubblicata nel 1929 (pp. 729-30), ma
l’edizione manca di apparato. Il testo critico certo è
perciò quello dell’edizione curata da Alessandro
Montevecchi e Carlo Varotti (in Opere storiche, t. 1,
2010, pp. 69-76).
Bibliografia: Edizioni critiche: N. Machiavelli, Opere, a
spese di G. Cambiagi, 6 tt., Firenze 1782-1783; N. Machiavelli,
Tutte le opere storiche e letterarie, a cura di G. Mazzoni, M. Casella, Firenze 1929; N. Machiavelli, Il teatro e tutti gli scritti letterari, a cura di F. Gaeta, Milano 1965.
Per gli studi critici si vedano: I. Pitti, Vita di Antonio Giacomini Tebalducci, a cura di C. Monzani, «Archivio storico italiano»,
1853, pp. 73-270; O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò
Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2 voll., TorinoRoma 1883-1911; A. Gerber, Niccolò Machiavelli, die Handschriften, Ausgaben und Übersetzungen seiner Werke im 16. und 17.
Jahrhundert, 3 voll., Gotha 1912-1913 (rist. anast. Torino 1962);
R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze
19787; P. Ghiglieri, La grafia del Machiavelli studiata negli autografi, Firenze 1969.
Alessandro Montevecchi
necessità → fortuna.
Nelli, Bartolomea de’. – Figlia di Stefano de’
Nelli (Alessandro, per Tommasini 1883, pp. 77-78),
vedova di Niccolò Benizzi, sposò nel 1458 Bernardo
Machiavelli. Dal matrimonio nacquero quattro figli:
Primavera (n. 1465), Margherita (n. 1468), Niccolò
(n. 1469) e Totto (n. 1475). L’anno di nascita di Bartolomea, secondo i dati catastali del 1470 (Ridolfi
1954, 19787, p. 425 nota 9), dovrebbe essere il 1441.
È più volte citata nel Libro di ricordi del marito, per
gli acquisti di stoffe e suppellettili per la casa, ma anche a proposito di un episodio scabroso, avvenuto il
17 novembre 1475, che coinvolgeva la domestica di
casa, ritenuta incinta dalla stessa Bartolomea (B. Machiavelli, Libro di ricordi, a cura di C. Olschki, 1954,
rist. anast. 2007, pp. 15 e segg). Come testimonia
anche il loro coinvolgimento in questa occasione, furono buoni e piuttosto intensi i rapporti tra Bernardo e i fratelli della moglie, Carlo e Giovanni. Ritorna in tutti i grandi biografi di M. la notizia che
Bartolomea avesse composto alcune laudi sacre in
onore della Vergine Maria (Ridolfi 1954, 19787, pp. 6,
425 nota 11; Tommasini 1883, p. 78; Villari 19123,
pp. 298-99), secondo quanto scriveva nel 1753 un
erede della sua famiglia d’origine, Giovan Battista
Clemente Nelli, nella dedica di un volumetto scritto
dal padre (Discorsi di architettura del senatore Giovan
Batista Nelli con la vita del medesimo dedicata all’illustriss. signore Bindo Simone Peruzzi e due ragionamenti sopra le cupole di Alessandro Cecchini architetto): questi versi, comunque perduti, si conservavano
nella libreria di casa Nelli ed erano dedicati da Bartolomea proprio al figlio Niccolò «il quale si vede che
fece poco profitto degl’insegnamenti della madre, e
non fu imitatore della sua pietà» (p. 8). Scrive Pasquale Villari (19123, p. 299) che sulla sua morte, avvenuta l’11 ottobre 1496, non vi è neanche un rigo
lasciato dal figlio Niccolò.
Bibliografia: O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò
Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 1° vol., TorinoRoma 1883 (rist. anast. Bologna 1994); P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 1° vol., Milano 19123; R. Ridolfi, Vita di
Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; F. Pezzarossa,
Machiavelli Bernardo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 67° vol., Roma 2007, ad vocem.
Silvia Moretti
nemico. – Fino al primo Cinquecento la questione del n. non aveva mai avuto uno spazio significativo nella riflessione politica, per quanto la narrazione delle inimicizie incrociate avesse occupato
largamente le cronache cittadine. L’amicizia infatti,
e non l’inimicizia, sembrava cruciale nel pensiero
politico, e la centralità dell’una aveva distolto dal riflettere particolarmente sull’altra. Nel discorso politico-morale dominante nelle repubbliche comunali,
l’amicizia è infatti più importante della stessa giustizia, perché è il fondamento della concordia senza la
quale la giustizia non è neanche pensabile. Questa
posizione di matrice aristotelica e ciceroniana fonda
anche la posizione irenica di Agostino (→) e di Tommaso d’Aquino, che fanno della pace l’origine della
felicità dell’uomo e per i quali la «societas amicorum»
è un requisito della felicità nella vita presente (Summa theologica, la IIae, q. 4, a. 8 e la IIa IIae, q. 114 et
q. 116). Ma è proprio questa concezione che va in
frantumi nel primo Cinquecento. Un re di Francia,
Luigi XII, può, nel luglio del 1510, chiedere a M.,
inviato della Repubblica fiorentina: «io voglio sapere
chi è mio amico o mio inimico» (M. ai Dieci, 18 luglio
1510, LCSG, 6° t., p. 431). Il contrario dell’amicizia, l’inimicizia, conquista in tali parole uno statuto
paritario e diventa componente irrinunciabile di un
vero e proprio ‘sapere’, decisivo in un’era di guerra
permanente. Il n. porta in sé un pericolo e una minaccia incombenti sulla salvaguardia dell’individuo
e, soprattutto, dello Stato. Non è più, come nella
lunga tradizione del De amicitia ciceroniano, legato
alla solitudine, alla lusinga o alla tirannide, le tre forme di alterazione delle relazioni sociali equilibrate.
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La divisione che in precedenza – per es. nelle cronache cittadine – era solo deplorata e condannata, deve
ormai essere ‘pensata’: ed è qui che la riflessione di
M. acquisisce tutta la sua importanza.
Amici e nemici: la costruzione di una coppia instabile nella scrittura di cancelleria. La presenza del
campo semantico dell’inimicizia negli scritti di cancelleria è imponente. Nei sette volumi dell’Edizione
nazionale, la parola n. compare più di 600 volte sotto le tre forme correnti (nemico, nimico, inimico) o
tramite le parole dello stesso campo semantico (inimicizia ecc.), il più delle volte al plurale o con un
singolare preceduto da un articolo definito che vale
per un plurale («il nemico»). Nel carteggio, quell’inimicizia è prima di tutto collettiva e non individuale:
nell’«arte dello stato» repubblicana il n. individuale
spunta raramente e interessa solo quando si ragiona
di principi nuovi, come Cesare Borgia, o quando si
scrive sui «grandi uomini». Per gli stessi motivi, l’inimicizia è pubblica prima di essere privata. Inoltre,
essa viene espressa in modo alquanto semplice: nel
caso del n., M. non propone mai una definizione assoluta, e, contrariamente a un procedimento frequente nella sua scrittura quando si intenda circoscrivere un significato complesso, poche volte ricorre
a dittologie sinonimiche descrittive. M. lascia da
parte le approssimazioni per difetto: il n. si definisce dai suoi ‘atti’ e non ha bisogno di altro per qualificarsi come tale, mentre l’amicizia si esprime
spesso con semplici ‘parole’ (→ odio e amore); una
delle poche eccezioni è il n. giuridico che si ribella
contro la sovranità fiorentina e che viene tacciato di
«nimico e ribelle». La categoria è talmente pregnante
che vale una metonimia: per es., tra il 1498 e 1508, i
pisani diventano il n. per eccellenza, ossessione di
tutta la politica estera fiorentina, e ci si riferisce
molto più spesso al «nimico» o ai «nimici» che non ai
«Pisani». Una volta identificato, il n. va trattato in
quanto tale: spesso nel carteggio ricorre senza ulteriore precisione (l’indicazione basta) il sintagma
«trattare da nemico».
In questa prima tappa della scrittura machiavelliana, il n. è innanzitutto esterno, è un hostis da combattere per difendere la patria, mentre gli amici sono
alleati – reali o potenziali, effettivi o auspicati. Si
tratta, per es., di fare sì che i destinatari delle lettere
ufficiali si comportino da «buon figlioli e fedeli amici
delli amici e inimici delli inimici nostri» (minuta non
datata e priva di destinatario, LCSG, 1° t., p. 323),
secondo una catena di determinazioni meccaniche e
incrociate di amicizie e inimicizie. Può valere la pena segnalare che i momenti di maggiore concettualizzazione della coppia amico/nemico sono nei testi
delle legazioni, come se l’esperienza diretta di punti
di vista non fiorentini aiutasse a mettere a fuoco la
logica binaria. Si pensa specialmente alle legazioni
in Francia e presso Cesare Borgia, per due motivi
simmetrici: nel primo caso, M. sa di essere mandato
presso «l’amico» storico della Repubblica, che, tuttavia, dal 1494 in poi, delude regolarmente i fiorentini
per lo scarso sostegno alla riconquista di Pisa; nel secondo caso, invece, il Valentino è un n. potenziale da
controllare, tentando di capire le sue intenzioni.
Durante la sua prima legazione in Francia, nel
1500, M. è colpito dalla spregiudicatezza e dalla venalità dei francesi: ben due volte segnala che essi sono stati alquanto recisi nel fargli notare che «o nimici
o amici che voglino essere, ad ogni modo [i fiorentini] li pagheranno», perché «non s’ha più a credere alle parole: e nel pagarli consisteva l’amicizia del Re, e
nel negarli la nimicizia» (M. ai Signori, 11 ott. 1500,
LCSG, 1° t., pp. 490 e 492; idea ripetuta nella lettera del 14 ott. 1500, p. 497). M. aveva d’altronde già
segnalato ai Dieci che «in questa risposta» consiste
«l’amicizia e inimicizia di questo Re»; e che in tale situazione non va pensato che «ci vaglino o ragioni o
argumenti, perché non sono intesi» (M. ai Signori, 3
sett. 1500, LCSG, 1° t., p. 454). Ora l’amicizia risulta largamente impenetrabile dalle «ragioni» del diritto come dagli «argumenti» della retorica, i due campi
che nutrono maggiormente la parola diplomatica.
Conta solo il rapporto di forza: Firenze è valutata
«pro nichilo», constata amaramente il Segretario nella
lettera ai Signori del 27 agosto 1500 (LCSG, 1° t., p.
443). L’esigenza del re è preponderante, a scapito di
ogni altra forma di razionalità, dal momento che i
francesi «sono accecati da la potenzia loro e da l’utile
presente e stimano solamente o chi è armato, o chi è
parato a dare» (p. 443). In tali situazioni spunta poi
sempre la minaccia di un rovesciamento delle alleanze e di una sostituzione dell’amicizia con l’inimicizia,
o viceversa, come avverte M.: «scrivendo alcuna cosa
in favore vostro e’ [il Re] faceva contro a’ Lucchesi,
Sanesi e altri inimici vostri, e’ quali non voleva per nimici non avendo ad avere per amici vostre Signorie»
(M. ai Signori, 4 nov. 1500, LCSG, 1° t., p. 507). Di
fronte ai fiorentini che propongono il discorso di
lunga durata dell’amicizia tradizionale fra regno di
Francia e Repubblica, il re e i suoi consiglieri, non
senza una certa brutalità, ribattono con un’analisi
strettamente congiunturale. Nel campo della politica estera non esistono n. storici o eterni: l’inimicizia
non è un dato stabile, bensì la componente di una situazione singolare e determinata, legata a una specifica «qualità dei tempi». È uno dei motivi per i quali i
trattati di pace tentano di stabilizzare per un po’ la
cartografia delle inimicizie con il dispositivo delle
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«nominazioni», secondo il quale ognuno dei principali contendenti ha la possibilità di «nominare» alcuni alleati suoi per includerli nel trattato, ma soprattutto per fare condividere dagli ex avversari una
cernita tra amici e n., seguendo una cascata di protezioni gerarchizzata in funzione delle forze in campo:
«ciascuna delle parti si è obbligata avere li amici per
amici e li nimici per inimici» (M. al capitano e commissario di Arezzo, Borgo San Sepolcro, ecc., 16
maggio 1501, LCSG, 2° t., p. 96). La legazione presso Cesare Borgia propone molteplici illustrazioni di
quella instabile bilancia tra amicizia e inimicizia. Il
Valentino in uno dei primi colloqui con M. esclama:
«e se non mi vorrete amico, mi proverrete inimico»
(M. ai Dieci, 26 giugno 1502, LCSG, 2° t., p. 240).
Oltre la fattualità dell’inimicizia nei tempi di guerra
(quel che si potrebbe chiamare l’evidenza del n.),
s’impone quindi una sua dinamica tramite la coppia
amico/nemico (per la conflittualità interna → parte).
«Assicurarsi del nemico»: sicurezza e rapporti di
forza. La necessità di ‘controllare’ l’inimicizia porta
a costruire il concetto, centrale in M., di «sicurtà».
La parola-chiave «assicurarsi» significa una politica
di potenza, riguardo ai n. accertati e a quelli possibili. Invece, con gli amici o con chi non è temibile, perché non può nuocere, il «beneficare» può sostituire o
completare l’«assicurarsi». La «sicurtà» diventa un
criterio decisivo del buon governo, secondo una definizione che parla chiaro:
uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi
che non ti possano o debbano offendere; questo si fa o
con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da
nuocerti, o con benificarli in modo che non sia ragionevole ch’eglino abbiano a desiderare di mutare fortuna (Discorsi II xxiii 8).
La «sicurtà» in tale prospettiva porta con sé la
«quiete»: tale stabile tranquillità si raggiunge con una
‘azione’ puntuale definita attraverso un verbo assai
frequente nella prosa di M., ossia «assicurare», che
esiste il più delle volte in forma riflessiva («assicurarsi del nemico»). La «sicurtà» machiavelliana non ha
niente a che fare con la serenità dell’anima di stampo
stoico, epicureo o scettico, non mira a una tranquillità interiore: quel che conta è la tranquillità pubblica
grazie a una «quiete» che non è neppure una pace perfetta, né la fine della guerra di tutti contro tutti o una
garanzia della libertà di ognuno. Quel che conta è infatti, più modestamente, l’«assicurarsi dei nemici» per
resistere ai tempi avversi. L’esistenza del n. esige di
identificare le forze contrapposte, e quindi il loro rapporto, mentre l’«assicurarsi» viene concepito come
una soluzione alla tensione naturale insita nell’agire
politico repubblicano. L’obiettivo da raggiungere è
descritto in una frase in cui ‘principe’ potrebbe essere sostituito da ‘Repubblica’: «un principe sicuro in
mezzo de’ suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di
giustizia il mondo [...] pieno di riverenza e di gloria
il principe, d’amore e sicurtà i popoli» (Discorsi I x
22-23). La «sicurtà» diventa allora anche la pietra di
paragone delle differenze e della rivalità tra i due
«umori» maggiori (il popolo e i grandi), poiché il popolo chiede solo sicurtà mentre i grandi desiderano
‘opprimere’ e dominare. Nel gioco degli «umori», la
«sicurtà» non è sempre e solo effetto di una forza coercitiva brutale, perché è anche suscettibile di essere
prodotta dalla legge e dagli ordini. Lo indica chiaramente un passo dei Discorsi nel quale il ritmo semantico dell’assicurarsi diventa quasi ossessivo:
Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si sodisfanno
facilmente, faccendo ordini e leggi dove insieme con la
potenza sua si comprenda la sicurtà universale. E
quando uno principe faccia questo, e che il popolo vegga che per accidente nessuno ei non rompa tali leggi,
comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento.
In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i
suoi popoli. E chi ordinò quello stato volle che quelli
re dell’armi e del danaio facessero a loro modo, ma che
d’ogni altra cosa non ne potessono altrimenti disporre
che le leggi si ordinassero. Quello principe adunque o
quella republica che non si assicura nel principio dello
stato suo, conviene che si assicuri nella prima occasione, come fecero i Romani (Discorsi I xvi 25-29).
Tale stabilità nella «sicurtà» pacifica e garantista
vale tuttavia soltanto se i buoni ordini portano a limitare gli eccessi dei desideri dei soggetti politici.
Ma se il popolo, spinto dall’«ambizione», non si soddisfa di tale forma di sicurezza e chiede di avere accesso agli «onori», i buoni ordini entrano in crisi e si
lascia la via aperta ai «desideri», senza più il vincolo
del bene comune. Un circolo vizioso «naturale» porta allora alla rovina dello Stato:
[...] la natura ha creati gli uomini in modo che possono
desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni
cosa; talché, essendo sempre maggiore il desiderio che
la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione
d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro,
perché disiderando gli uomini parte di avere più, parte
temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra, dalla quale nasce la rovina di
quella provincia e la esaltazione di quell’altra (Discorsi
I xxxvii 4-5).
S’identificano così due linee contrapposte: da una
parte, un collegamento quiete-sicurtà-amore-leggi;
dall’altra, una serie desiderio-mala contentezzaguerra-inimicizia; donde la massima che «gli uomini
si hanno o accarezzare o assicurarsi di loro» (Discorsi III vi 99). In fin dei conti, esistono due forme di
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«sicurtà»: quella che sorge dai buoni ordini, e quella
che consiste nell’assicurarsi dei nemici. Nel primo
caso, la sicurtà consente di superare e scartare l’inimicizia, per via della produttività dei buoni ordini, e
la rende inattuale; ma, nel secondo, l’esistenza dell’inimicizia trascina con sé un’ingiuzione a controllarla sicché essa diventi il fondamento paradossale
della sicurtà.
Utilità del nemico e tipologia delle inimicizie: la
costruzione di un sapere complesso. L’ambivalenza
della sicurezza porta allo sviluppo di un vero e proprio ‘sapere’ dell’inimicizia. Si tratta infatti di stabilire una tipologia evolutiva delle inimicizie, distinguendole in funzione degli effetti che producono.
L’assenza di n. può indebolire uno Stato, o addirittura contribuire alla decadenza della Repubblica:
[...] avendo i Romani domata l’Africa e l’Asia e ridotta
quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano divenuti
sicuri della libertà loro, né pareva loro avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza de’ nimici fece che il popolo romano, nel
dare il consolato non riguardava più la virtù, ma la grazia, tirando a quel grado quelli che meglio sapevano
intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nimici; dipoi, da quelli che avevano più
grazia ei discesono a darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine ne rimasero al tutto esclusi (Discorsi I xviii 17-18).
Un altro genere di produttività positiva dell’inimicizia si definisce quando l’esistenza del n. diventa una
prova o, più semplicemente, la dimostrazione strumentale della virtù del politico che vi si confronta:
Sanza dubio e’ principi diventano grandi quando superano le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro;
e però la fortuna, maxime quando vuol fare grande uno
principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che uno ereditario, gli fa nascere
de’ nemici, e fagli fare delle imprese contro, acciò che
quello abbi cagione di superarle, e – su per quella scala
che li hanno pòrta li inimici suoi – salire più alto. Però
molti iudicano che uno principe savio debbe, quando
e’ ne abbi la occasione, nutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne seguiti maggiore sua grandezza (Principe xx 15-16).
Così come i n. possono essere utili in quanto n., i
n. possono diventare amici (o viceversa). Di nuovo
risulta chiaro che l’inimiciza non è una qualità stabile e intemporale, bensì la costruzione di una situazione singolare, suscettibile quindi di evoluzione.
Quando non si può evitare di farsi dei n., bisogna
sapere discernere tra quelli più o meno pericolosi
perché l’inimicizia non è mai innocua:
Vero è che io giudico infelici quelli principi che per assicurare lo stato loro hanno a tenere vie straordinarie,
avendo per nimici la moltitudine; perché quello che ha
per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli si
assicura, ma chi ha per nimico l’universale non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa,tanto più debole
diventa il suo principato. Talché il maggiore rimedio
che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico (Discorsi
I xvi 13-14).
Distinguere tra le varie possibilità di inimicizie,
comprenderle e integrarle in una forma di sapere
politico non equivale né a estinguere le inimicizie né
a trascurare la loro effettività storica. L’alternativa
amico/nemico, di cui l’esperienza di cancelleria aveva mostrato e dimostrato, nei ‘fatti’, la pregnanza al
Segretario, va accettata e razionalizzata. Come indica
il cap. xxi del Principe: «È ancora stimato uno principe quando egli è vero amico e vero inimico, cioè
quando sanza alcuno respetto e’ si scuopre in favore
di alcuno contro a uno altro. El quale partito fia sempre più utile che stare neutrale» (§ 11).
L’orizzonte della riflessione sull’inimicizia coincide con il rigetto delle vie di mezzo e della neutralità (→). La paura del n. e il rischio dell’inimicizia non
devono portare a cancellarli e a negarli, ma a integrarli nel ragionare politico e nell’azione che ne scaturisce.
Bibliografia: J.C. Fraisse, Philia. La notion d’amitié dans la
philosophie antique. Essai sur un problème perdu et retrouvé, Paris
1974; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1°
vol., Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma 1999; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La politique de l’expérience. Savonarole,
Guicciardini et le républicanisme florentin, Alessandria 2002, pp.
55-73; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La connaissance de l’ennemi, in Id., La grammaire de la république. Langages de la politique
chez Francesco Guicciardini (1483-1540), Genève 2009, pp. 125-57;
G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2011; F.
Gros, Le principe sécurité, Paris 2012.
Ma, aggiunge M. nel medesimo capitolo del Principe, il passaggio di categoria, da n. ad amici, è una
delle possibilità che si offrono nell’evoluzione di un
regime, soprattutto se è nuovo:
quelli uomini che nel principio d’uno principato erono
stati inimici, che sono di qualità che a mantenersi abbino bisogno di appoggiarsi, sempre el principe con facilità grandissima se li potrà guadagnare: e loro maggiormente sono forzati a servirlo con fede, quanto
conoscono essere loro più necessario cancellare con le
opere quella opinione sinistra che si aveva di loro
(Principe xx 19).
Jean-Louis Fournel, Jean-Claude Zancarini
Nerli, Filippo de’. – Nato a Firenze da Benedetto e da Cassandra Martelli, nel quartiere di S. Spirito il 9 marzo del 1486 (Arrighi 2013), da antica e nobile famiglia, citata da Dante (Paradiso XV 115-17),
N. è esponente di spicco della più giovane generazione legata al potere dei Medici negli anni di passaggio
dalla Repubblica al principato (il nonno di Filippo,
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