Prendere o dare il maiale

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Prendere o dare il maiale
“PRENDERE O DARE IL MAIALE”. UN MODO DI DIRE ALLA LUCE
DI TRADIZIONI ANTICHE
ALBERTO BORGHINI
Quantomeno in una certa area del Piemonte ben attestato risulta un
modo di dire del tipo “prendere o dare il maiale”, per alludere o
indicare situazioni di sconfitta/rifiuto nonché di distacco amorosi:
“prendere il maiale” è subire il rifiuto/sconfitta ovvero l’essere
lasciati; “dare il maiale” è, all’inverso, sottrarsi o rifiutarsi ad una
situazione o proposta amorose etc.. Si registrano, d’altronde, ‘pratiche
di scherzo’, più o meno ritualizzate, poste in atto in momenti più o
meno ‘cruciali’, le cui correlazioni con il modo di dire appaiono
dirette e immediate.
Vediamo alcune delle attestazioni raccolte:
“Quando uno (o una) veniva lasciato e l’altro si sposava, gli portavano
la porà (1) oppure gli disegnavano il crin (maiale). Lo disegnavano
sui muri, si disegnava perché quando qualcuno veniva lasciato si
diceva ‘o r’ha pijà ‘r crin’ (ha preso il maiale). Chi si prendeva il
maiale rimaneva mortificato. Non a tutti i matrimoni si faceva” (San
Matteo, fraz. di Cisterna d’Asti). (2)
Le situazioni si fanno talora un po’ più articolate, ma semanticamente
il nucleo di fondo resta lo stesso. Nel caso che segue si tratta della
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‘vendetta’ di un uomo che era stato lasciato, ma che si sposa prima
dell’ex-fidanzata:
“Se uno o una lasciava qualcuna o qualcuno, si diceva ‘o r’ha daje ‘r
crin’ (le ha dato il maiale). Io ‘parlavo’ (ero fidanzato) a una ragazza,
sono andato un po’ di sere a trovarla. Sua mamma si era informata su
di me e forse le avevano detto che qui era un posto brutto, così
abbiamo smesso di vederci. Io mi sono sposato prima di lei, così io e
mio cognato, abbiamo disegnato un maiale su un foglio e siamo andati
a metterlo nel paese in cui abitava. Ho attaccato il cartello sulla chiesa
del paese perché così lei lo vedeva mentre andava in chiesa. Sul
cartello c’era scritto: ‘Cara Maria, ti t’hai dame tut el tò amor e mi
l’hai lassate l’ass da fior’, (Cara Maria, tu mi hai dato tutto il tuo
amore ed io ti ho lasciato l’asso di fiori), sotto il maiale. Abbiamo
fatto una striscia di calce dalla chiesa alla casa dell’ex fidanzata”
(Bricco Scaglia, fraz. di Cisterna d’Asti). (3)
Sulla base della sua indagine sul campo, aggiunge Tiziana Mo: (4)
“Il detto pijé o dé ‘r crin (prendere o dare il maiale) era usato anche
per segnalare un semplice rifiuto, ad esempio durante le feste, quando
il ragazzo chiedeva ad una ragazza di ballare e questa rifiutava”.
Donde anche la ritualità carnevalesca dell’ “ancanté (canté) ‘r crin”
(“incanto/canto del maiale”), con il coinvolgimento non certo
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marginale dei giovani della leva (i c.d. coscritti) (5). Ecco quel che si
verifica a Montà d’Alba il martedì grasso:
“I coscritti cantavano tutti gli insuccessi delle persone durante l’anno.
Uno iniziava dicendo: ‘I-i é ‘n crin, an crin gròss – se era una cosa di
poco conto, il maiale era piccolo, se era grossa, il maiale era grosso –
vàire ch’a var? (c’è un maiale, un maiale grosso, quanto vale?). ‘I-i é
‘n crin ch’o r’ha pijà – nome del maschio – da – nome della femmina,
o viceversa -, vàire ch’a var?’ (c’è un maiale che … ha preso da …,
quanto vale?) e qualcuno diceva un prezzo. Lui rispondeva: ‘Nò, a r’é
tròp pòch, nò, o r’é ‘ncora pì gròss!’ (no, è troppo poco, no, è ancora
più grosso!). Venivano citati tutti quelli che erano stati lasciati. Questo
lo ricordo perché lo hanno ripetuto dopo la guerra, giravano a piedi
per tutto il paese”. (6)
Segnalando consimili pratiche per i “villaggi tra Alba e Bra”,
scriveva, a suo tempo, riferendosi appunto a Montà d’Alba, il
folklorista cuneese Euclide Milano: (7)
“A Montà d’Alba questo spettacolo si ha in pieno giorno, pure
l’ultimo di Carnevale: alcuni buontemponi, all’uopo mascherati, si
raccolgono sulla piazza maggiore o sul punto più alto del paese
tenendo fra le mani certi libracci, sui quali han disegnato (…) delle
figure di porci alla rinfusa: una gran folla si raccoglie intorno ad
ascoltare, ed essi fingono di leggere sui loro codici la storia di quelle
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ragazze tuttora disponibili che hanno già dato il porco a questo o a
quel giovane del paese (che l’hanno cioè rifiutato) od hanno avuto
vicende d’amore poco pulite”.
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Ma perché proprio il ‘maiale’ risulta così predisposto – diciamo – ad
indicare uno stato di non sussistenza (nonché di cessazione) di un
rapporto amoroso?
Rispetto ad una siffatta linea di senso – rispetto, dunque, al modo di
dire in oggetto e alle pratiche con esso correlate – ritengo che la
tradizione antica possa in una qualche misura venirci in aiuto.
Avanzerei dunque un’ipotesi che mi pare ‘semplice’ e ‘diretta’. Se
plausibile, tale ipotesi permetterebbe di identificare – quantomeno di
supporre – un sostrato diacronicamente attivo e piuttosto ‘profondo’,
in rapporto al quale la specifica funzione del sèma ‘maiale’ quale
abbiamo sopra rilevato (non sussistenza o non-più sussistenza del
rapporto amoroso nelle sue varie ed articolate realizzazioni),
troverebbe delle ‘ragioni’; in rapporto al quale il modo di dire nonchè
le pratiche e le ritualità correlate troverebbero un contesto piuttosto
preciso (mi pare) di raffronto e di riferimento, dotato altresì di uno
spessore culturologico (di una continuità semantico-simbolica, di una
invarianza significante), quale è proprio(-a) delle paradigmaticità della
lingua/langue.
Se in quel che chiamerei sistema (piemontese) delle beffe il ‘maiale’
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sta a indicare una condizione – per così esprimermi - di ‘mancanza
amorosa’ (di rifiuto, di abbandono, ad ogni buon conto di non
sussistenza ovvero di cessazione del rapporto amoroso, o anche – par
di capire – di una relazione amorosa ‘seria’), potrebbe essere
pertinente ricordare come in ambito antico termini quale gr. choiros
nonché lat. porcus fossero impiegati per designare i genitali di una
vergine (8): di una donna in quanto, per definizione, ancora esclusa
dal – al di qua del – rapporto amoroso.
Del tutto esplicito, al proposito, il seguente passo di Varrone (De re
rustica II 4, 9-10), relativo – fra l’altro – proprio ad un rituale di
nozze:
“(…) et quod nuptiarum initio antiqui reges ac sublimes viri in Etruria
in coniunctione nuptiali nova nupta et novus maritus primum porcum
immolant. Prisci quoque Latini, etiam Graeci in Italia idem factitasse
videntur. Nam et nostrae mulieres, maxime nutrices, naturam qua
feminae sunt in virginibus appellant porcum, et Graecae choeron,
significantes esse dignum insigne nuptiarum”.
Da un lato, nella femmina, il sesso virginale è chiamato porcus
(corrispondente al gr. choiros); e a questo termine/immagine fanno
soprattutto ricorso le nutrici (maxime nutrices (…) in virginibus),
presumibilmente così riferendosi – nel loro ‘linguaggio affettivo’ alla natura delle bambine loro affidate.
Dall’altro lato, proprio l’inizio del rituale di nozze è segnato per
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l’appunto dal sacrificio, ad opera della nova nupta e del novus
maritus, di un porcus: il riferimento sarà al sesso della sposa, ma al
sesso ancora vergine della sposa al momento delle nozze.
A sua volta esplicito, in questo passo dell’onirocritica di Artemidoro,
il nesso oppositivo che viene ad istituirsi fra elemento ‘maiale’ ed
attività amorosa (V 80):
“Una donna sognò che il suo amante le donava una testa di maiale
(choireian (…) kephalen). Prese a odiare l’amante, e lo abbandonò;
infatti il maiale non è favorito da Afrodite (anaphroditos)”. (9)
La donna che entra in rapporto con la “testa di maiale” – che riceve
dall’amante la testa di maiale – verrà a situarsi simbolicamente,
tramite l’immagine del maiale, tramite il maiale in quanto
‘significante’, in una posizione per certi versi simile a quella di una
vergine: nel senso che anche la donna senza più l’amante si trova,
almeno in quel momento, esclusa dall’attività amorosa.
Per quanto concerne – ancora – gli effetti di estraneità che il ‘maiale’
suscita nei confronti dell’attività amorosa, possiamo segnalare come,
in epoca assai più tarda, nel Cod. Florentinus 86, 14, risalente al
quindicesimo secolo, per far sì che un uomo non desiderasse una
donna né una donna un uomo, si prescrivesse – fra l’altro – di far
ricorso a latte di scrofa. (10)
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Venendo di nuovo al Piemonte, non si potrà non rilevare il fatto che il
‘maiale’ interviene a sottolineare – a denunciare pubblicamente – il
fallimento di una proposta o di una situazione amorosa: il non attuarsi
o l’interrompersi di una relazione amorosa.
Il ‘maiale’ del modo di dire “prendere o dare il maiale” nonché delle
pratiche con esso correlabili varrà cioè in quanto immagine
significante di una assenza/interruzione del (di un) rapporto amoroso;
sancisce (e denuncia) un fallimento amoroso.
In tal modo il ‘maiale’ piemontese, nonostante le ‘differenze’, non fa
che porsi – mi pare – lungo una linea di continuità rispetto a valori e
ad effetti di senso che risalgono assai indietro nel tempo; e che
sembrano d’altronde trovare una qualche corrispondenza in altre zone
dell’Italia. (11)
Si può insomma presumere che anche per il modo di dire e per le
‘pratiche’ piemontesi cui abbiamo sopra accennato il punto di
partenza (poi ‘dimenticato’) sia costituito dall’elemento ‘maiale’ in
quanto segno – ‘immagine’ e ‘rappresentante’ - della verginità
femminile, ovverosia del sesso femminile nella sua condizione di
verginità. (12)
Con un ulteriore ma in fin dei conti ovvio spostamento/allargamento
del senso, il ‘maiale’ indicherà l’interrompersi di una relazione
amorosa; indicherà un abbandono amoroso (Artemidoro).
E’ il filone lungo il quale parrebbero trovare un loro adeguato terreno
di inscrizione nonché una loro ‘logica’ (zone di congruenza
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simbolico-significante intendo) anche modi di dire quali “dare o
prendere il maiale”, con le pratiche e le ritualità correlate.
Rispetto alle pur significative dinamiche di espansione situazionale (o
sociologico-situazionale) non sarà difficile, insomma, individuare quel
che chiamerei ‘sostrato di invarianza’, dotato in quanto tale
(nomogeneticamente) di ‘capacità/efficacia di variazione’: ciò in cui
farei consistere la nozione di stabilità paradigmatica – anche
diacronicamente, almeno entro certi limiti – di un sèma; stabilità in
quanto funzione, o, meglio, in quanto – appunto - funzione di
variabilità (funzione per le variabilità stesse).
Note
(1)Segatura cioè.
(2)Informatrice Maria Elena Cauda, nata nel 1915, in T. Mo, Le
parole della memoria. Il calendario rituale contadino tra Roero e
Astigiano, introd. di P. Grimaldi, Torino, Omega 2005, p. 102.
(3)Informatore Domenico Povero, nato nel 1914, in Mo, Le parole…,
cit., p. 102.
(4)Le parole…, cit., p. 103 (con riferimento ad una testimonianza di
Bartolomeo Vaudano, nato nel 1945, di Cisterna d’Asti.
(5)Sui coscritti piemontesi, in una prospettiva generale, si consulti G.
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L. Bravo, Coscritti in Piemonte, ora in Bravo, La complessità della
tradizione. Festa, museo e ricerca antropologica, a cura di L. Bonato
e P. Grimaldi, introd. di P. Grimaldi, Milano, Angeli 2005, pp. 51
sgg.; Bravo, Feste, masche, contadini. Racconto storico-etnografico
sul Basso Piemonte, Roma, Carocci 2005, cap. 2, Giovani e coscritti,
pp. 20 sgg..
(6)Informatore Franco Almondo, nato nel 1930, di Montà d’Alba
(prov. Cuneo), in Mo, Le parole…, cit., p. 137.
(7)Dalla culla alla bara. Usi battesimali, iniziali, funerei della
provincia di Cuneo, rist. Borgo S. Dalmazzo, Istituto Grafico Bertello
1973, p. 97, in Mo, Le parole…, cit., p. 137.
(8)Cfr. il mio A proposito dello zodiaco petroniano, in “Aufidus”, 2,
1987, pp. 63 sgg., in part. par. 1 Super virginem steriliculam, pp. 6375 (a questo lavoro rinvio anche per un più ampio spettro di
considerazioni).
(9)Il libro dei sogni, trad. a cura di D. Del Corno, Milano, Adelphi
1975, p. 292.
(10)Cfr. di nuovo il mio A proposito… , cit., in part. p. 75.
(11)Cfr. il mio “Porcella” in Garfagnana. Una ‘spiegazione’
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dall’antichità, in “L’EcoApuano”, 9, 3, 1998, p. 23.
(12)Cfr. Petr. Satyr. XXXV 3 super virginem steriliculam ; e la mia
analisi in A proposito…, cit..
Alberto Borghini
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