Pianissimo - Pampuglie

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Pianissimo - Pampuglie
CAMILLO SBARBARO
PIANISSIMO
1914
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire – all’uno, all’altro vai
rassegnata –
Ascolto e mi giunge una tua voce.
Non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di rivolta
e neppure di tedio.
Ammutolita
giaci col corpo in una disperata
indifferenza.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se adesso
il cuore s’arrestasse, se sospeso
ci fosse il fiato…
Invece camminiamo.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne e tutto è quello
che è – quello che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso
**********
A volte mentre vado solo al sole
e gli aspetti del mondo accolgo e il cuore
quasi m’opprime l’amorosa ressa,
ombra il sole ecco farsi e l’ombra, gelo.
Un cieco mi par d’essere che va
lungo la sponda d’un immenso fiume.
Scorrono sotto l’acque maestose;
ma non le vede lui: il poco sole
lui si prende beato. E se gli giunge
a tratti mormorar d’acque, lo crede
ronzìo d’orecchi illusi.
Perché a me par vivendo questa mia
povera vita, un altro rasentarne
come nel sonno; e che quel sonno sia
la mia vita presente.
Un vago smarrimento allor mi coglie
uno sgomento pueril.
Mi siedo
dove sono, sul ciglio della strada,
miro il misero mio angusto mondo
e carezzo con man che trema l’erba.
****************Mi desto dal penoso sonno solo
nel cuor della notte.
Tace intorno
la casa come vuota e laggiù brilla
silenzioso coi suoi lumi un porto.
Ma sì freddi e remoti son quei lumi
e sì alto il silenzio nella casa
che mi levo sui gomiti in ascolto.
Improvviso terrore mi sospende
il fiato e allarga nella notte gli occhi:
separata dal resto della casa
separata dal resto della terra
è la mia vita ed io son solo al mondo.
Poi il ricordo delle trite vie
e dei nomi e dei volti consueti
emerge come spiaggia da marea
e di me sorridono mi riadagio.
Ma svanita col sonno la paura,
un gelo in fondo all’anima rimane:
io tra gli uomini vado
curioso di lor ma come estraneo;
ed alcuno non ho nelle cui mani
metter le mani
e col quale di me dimenticarmi.
Tal che se l’acqua e gli alberi non fossero
e l’amica presenza delle cose
che accompagna il mio vivere quaggiù,
penso che morirei di solitudine…
Ma gli occhi restan crudelmente asciutti.
**************
Esco dalla lussuria. M’incammino
per lastrici sonori nella notte.
Non ho rimorso o turbamento. Sono
pacificato – immensamente.
Pure
qualche cosa è cambiato in me, qualcosa
fuori di me.
Ché la città mi pare
fatta paurosamente sorda e vuota:
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i traini e suoni l’ore.
A queste vie che echeggiano deserte,
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità. Mi pare
d’esser sordo ed opaco come loro
d’esser fatto di pietra come loro.
I cari volti cotidiani sono
impalliditi nella lontananza,
estenuati quasi a ricordi.
Tra me ed essi s’è frapposto il mio
Peccato come immobile macigno.
E mi dicesser che mio padre è morto,
sento bene che adesso non potrei
piangere…
Sono confinato fuori della vita,
una machina io pure che obbedisce,
come il traino e la strada necessario.
Ma non riesco a dolermene.
Cammino
per lastrici sonori nella notte.
************
Non, Vita, perché sei nella notte
la rapida fiammata e non per questi
aspetti della terra e il cielo in cui
m’oblio –
per le sue rose che non sono ancora
schiuse e si sfanno; per il Desiderio
che nella mano ratta lascia cenere;
per l’odio che ciascuno porta a sé
del giorno avanti; per la sordità
di tutto ai sogni che ci metton ali;
per non potere vivere che l’attimo
al modo della pecora che bruca
andando questo e quello ciuffo d’erba
e non vede non sa fuori di esso;
per la tristezza ultima d’Amore;
il rimorso che sta in fondo ad ogni
esistenza; d’averla spesa invano,
come la feccia in fondo del bicchiere;
per la felicità grande di piangere,
il non sapere e l’infinito buio…
– per tutto questo amaro t’amo, Vita.
**************
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
E subito la scala tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiavi al muro.
Noi piccoli dai vetri si guardava.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella, bambinetta ancora,
per la casa inseguivi minacciando.
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura, ti mancava il cuore:
t’eri visto rincorrere la tua
piccola figlia , tutta spaventata,
tu vacillando l’attiravi al petto
e con una carezza la ricoveravi
tra le tue braccia come per difenderla
da quel cattivo ch’eri tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre…
*************
A volte, mentre vado per le strade
della città tumultuosa solo,
mi dimentico il mio destino, d’essere
uomo tra gli altri e, come smemorato,
anzi tratto fuor di me stesso, guardo
la gente con aperti estranei occhi.
M’occupa allora un puerile, un vago
senso di sofferenza e d’ansietà
come per mano che m’opprima il cuore.
Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e riprodursi,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
facce di prostitute entro il cervello
mi s’imprimono dolorosamente.
E conosco l’inganno per cui vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,
e l’inutilità della lor vita
amara e il lor destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di essi porta in sé
la condanna d’esistere; ma va
solo assorto nell’attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.
Provo un disagio simile a chi veda
inseguire farfalle lungo l’orlo
d’un precipizio…
************
Lacrime, sotto sguardi curiosi
non mi sgorgate a un tratto mentre parlo
di vane cose ( mi sovviene a un tratto
il mio andare sotto cieli bui
non avendo una mano che m’ incuori;
e l’inutilità di ciò che dico
e di ciò che faccio mi fa peso il cuore).
Mentre guardo mio padre ginocchioni
non mi scorrete giù rapide e calde.
M’osserva il padre con i poveri occhi
senza battere ciglio e scopre nuovo
l’irrequieto che tenea per mano
e che gli crebbe accanto sconosciuto.
Ma nell’angolo buio d’una stanza
o nella solitudine d’un bosco
ah dolcezza di piangere non visto!
Al sostegno che capita m’affido
abbandonatamene come fossi
per mancare e tra lacrime dirotte
mi brilla il viso di riconoscenza.
Allora sotto la bontà dei cieli
io sono ignudo come quando nacqui.
Dietro il sottile schermo delle lacrime
allora sono solamente io.
****************
Padre che muori tutti i giorni un poco
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e di te non t’accorgi e non rimpiangi –
se penso la fortezza con la quale
hai vissuto; il disprezzo c’hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino;
sotto la rude scorza
il tuo candido cuore di fanciullo;
il bene c’hai voluto a tua madre,
a tua sorella ingrata, a nostra madre
morta;
tutta la vita tua sacrificata
e poi ti guardo come ora sei,
io mi torco in silenzio le mani.
Contro l’indifferenza della vita
vedo inutile anch’essa la virtù
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d’una qualche premura ti fo segno,
di quanto fui codardo verso te.
Benché il rimorso mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
sul cuore, inconfessato…
Io giovinetto imberbe ti guardai
con ira, padre, per la tua vecchiezza…
Stizza contro te vecchio mi prendeva…
Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s’oscurava, in faccia
alla finestra, e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo –
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere
ma con quelle più amare che non piango.
Una cosa soltanto mi conforta
di poterti guardare a ciglio asciutto:
il ricordo che piccolo, al pensiero
che come gli altri uomini dovevi
morire pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lacrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell’ infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d’aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.
**************
Il mio cuore si gonfia per te, Terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi sono nuovi. Tutto quello
che vedo è come per la prima volta;
e gli aspetti più umili e consunti,
tutto m’ intenerisce e mi dà gioia.
In te mi lavo come dentro un’acqua
dove si scordi tutto di se stesso.
La mia miseria lascio dietro a me.
come la biscia la sua vecchia pelle.
Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finché vicino a te mi sentirò
così bambino, fin che la mia pena
in te si scioglierà come la nuvola
nel sole,
io non maledirò d’essere nato.
Io mi sono seduto qui per terra
con le due mani aperte sopra l’erba,
guardandomi amorosamente intorno.
E mentre così guardo mi si bagna
di calde dolci lagrime la faccia.
*************
Taci, anima mia. Sono questi i giorni
tetri che per inerzia si dura,
i giorni che nessuna attesa illude.
Come l’albero ignudo a mezzo inverno
che s’attedia nell’ombra della corte,
non m’aspetto di mettere più foglie
e dubito d’averle messe mai.
Nella folla che m’urta andando solo,
mi pare d’esser da me stesso assente.
E m’accalco ad udire dov’è ressa,
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volgo a frusciare d’ogni gonna.
Per la voce d’un cantastorie cieco
per l’improvviso lampo d’una nuca
mi sgocciolan dagli occhi sciocche lagrime
m’accendon negli occhi cupidigie.
Ché tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debole vento un’acqua morta.
Non sono che uno specchio rassegnato.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei…
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.
******************
Piccolo quando un canto d’ubriachi
giungevami all’orecchio nella notte
d’impeto su dai libri mi levavo.
Come tratto di me, la chiusa stanza
dall’aria della notte spalancavo
e mi sporgevo fuor della finestra
a bere il canto come un vino forte.
Con che occhi voltandomi guardavo
la camera e la casa
dove già tutti i lumi erano spenti!
Più d’una volta sulla fredda ardesia
al vento che passava nei capelli
alla pioggia che mi sferzava il viso
versai delle lacrime insensate.
Adesso quell’inganno anche è caduto.
Ora so come arida è la bocca
che canta spalancata verso il cielo.
Pur se ancora mi desta nella notte
quel canto d’ubriachi per la via
ad ascoltar mi levo con mozzato
in gola il fiato
e corro ancora a mettere la faccia
nel vento che i capelli mi scompigli.
Rinnovare vorrei l’amara ebrezza
e quel sottile brivido pel corpo;
il ben perduto cui non credo più
piangere come allora…
Ma non m’escono
che stente stolte lacrime oramai.
*****************
Io che come un sonnambulo cammino
vedendoti dinanzi a me trasalgo.
Tu mi cammini innanzi lenta come
una regina.
Regolo il mio passo,
io subito destato dal mio sonno,
sulla sapiente musica del tuo.
E possibilità d’amore e gloria
mi s’affacciano al cuore e me lo colmano.
Pei riccioletti folli d’una nuca
per l’ala d’un cappello io posso ancora
alleggerirmi nella mia tristezza.
Io sono ancora giovane, inesperto,
il cuore pronto a tutte le follie.
Una luce si fa nel dormiveglia.
Tutto è sospeso come in un’attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.
Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.
***************
Tra umidi guanciali non mi spenga
silenziosa qualche malattia
come debole fiamma poco vento!
Pellegrinando ritornare ai luoghi
dove s’andò da piccoli col padre;
chinarmi a toccar l’erba
come si tocca il capo d’un bambino
e sapere che è l’ultima volta;
prender congedo dalla dolce terra,
dolce così non mi sarà mai parsa…
Poi mettere alla vita il suo sigillo.
************
Io t’aspetto allo svolto d’ogni via,
Perdizione, ti cerco dentro gli occhi
d’ogni donna che passa…
Sosto dai baracconi nelle fiere
a guardare la donna del serpente,
la fanciulla che vola…
Oh la gioia di dar tutto per nulla!
di tenere in conto d’una paglia
questa vita che è il solo nostro bene!
Quella che tutti ebbero, che ride
facile, che d’un muovere dell’anca
dentro tutto il mio mondo mi dissolva,
io prego che la strada m’attraversi.
Io come il mendicante che a dispregio
l’unico soldo che possiede getta
per lei la vita getterei, per meno.
**********
Nel mio povero sangue qualche volta
fermentano gli oscuri desideri.
Vado per la città solo la notte
e l’odore dei fondaci al ricordo
vince dell’erba sotto il sole.
Persiane silenziose illuminate!
finestra buia aperta sulla notte!
negli atrii di pietra voce d’acqua!
tra le bestie squartate lumicino
alla madonna! ombre umane informi
dietro i vetri nebbiosi dei caffè!
Mi ritrovo nel vecchio del crocicchio
che suona ritto gli occhi vaghi al cielo.
Voluttà d’esser solo ad ascoltarmi!
udire nella mia notte per ore
avvicinarsi e dileguare i passi!
Rasento le miriadi degli esseri
sigillati in se stessi come tombe.
E batto a porte sconosciute, salgo
scale consunte da generazioni.
La femmina che aspetta sulla porta
l’ubriaco che rece contro il muro
guardo con occhi di fraternità.
E improvvisamente ecco trasalgo
nell’andito malcerto in capo a cui
occhi di sangue paiono i fanali
le mie nari che fiutano il Delitto.
Mi cresce dentro l’ansia di morire
senza avere il godibile goduto
senza avere il soffribile sofferto.
La volontà mi prende di gettare
come in un ingombro inutile il mio nome.
con a compagna la Perdizione
a cuor leggero andarmene pel mondo.
**************
A volte sulla sponda della vita
preso da un improvviso scoramento
mi siedo; e dove vado mi domando,
perché cammino…
E penso la mia morte
e mi vedo già steso nella bara
troppo stretta fantoccio inanimato.
Quant’albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi! Di ciò che abbiam sofferto,
di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo.
S’incalzan le generazioni quali
acque di fiume…
Una mortale pesantezza il cuore
m’opprime. Inerte già mi sembra essere
come qualche antichissima rovina
e guardare succedersi le ore,
gli uomini mutare i passi, i cieli
all’alba colorirsi, scolorirsi
a sera…
Magra dagli occhi lustri, dai pomelli
accesi,
la mia anima torbida che cerca
chi le somigli
trova te che sull’uscio aspetti gli uomini.
Tu sei la mia sorella di quest’ora.
Accompagnarti in qualche osteria
di bassoporto
e guardarti mangiare avidamente.
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto…
Cadavere vicino ad un cadavere,
bere dalla tua vista l’amarezza
come la spugna secca beve l’acqua.
Toccare le tue mani i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa;
e sentirmi scostato dai tuoi occhi
ostili, poveretta; e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre…
Nessuna gioia vale questo amaro:
poterti fare piangere, poter
pianger con te…
******************
Talora nell’arsura cittadina
un canto di cicala mi sorprende.
E subito mi colma la visione
di campagne prostrate nella luce;
e stupisco che ancora al mondo sian
alberi ed acque,
tutte le cose ingenue della terra
che bastavano un giorno a consolarmi…
Con questo stupor sciocco l’ubriaco
riceve in viso l’aria della notte.
Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me smarritamente e come
in uno sforzo d’ali e gomiti alzo…
***************
Lettera dall’osteria
In istato di grazia, amico Volta,
di notte da una bettola ti scrivo.
Stato di grazia: ché non so più grande
bene, di contemplare
tra la nebbia del vino i paesaggi
di cui rozz’arte ornò all’intorno i muri,
e l’ostessa baffuta o la ridente
ragazzotta che reca la terrina.
Attaccare discorso con chi capita
vicino; a chi sorride
sorridere; voler a tutti bene;
scantonato dal tempo e dallo Spazio,
guardare il mondo come un padreterno.
E uscire dalla bettola leggero
come la mongolfiera che s’invola;
sentir come tappeti di velluto
i lastricati sotto il piede incerto;
e voglia di cantare a squarciagola.
Per il mondo cambiato mi piloto,
nave che sbanda, al consueto porto.
Fuggir di gatti innanzi al passo sordo.
Rettangolo di luce prepotente,
nel vicolo che fruscia di fantasmi.
Acre odore, allo svolto, di cloruro.
In questo mi rifaccio, amico Volta.
Poi che dato non m’è d’amare alcuno,
m’aggrappo come naufrago alle cose.
Quante volte guardai come uno scampo
i bastimenti ch’escono dal porto!
New York, Calcutta, Londra: nomi immensi.
Perdermi là sognavo, essere un altro,
dimenticarmi sino del mio nome.
Anche questa illusione ora è caduta;
la mia vigliaccheria mi pesa al piede
come palla di piombo al galeotto.
E dunque così tragga la mia vita,
oggetto di pietà per voi, di riso
agli altri;
e mi basta riscuotere il consenso
dei magnanimi amici, gli ubriachi..
Finché giorno verrà, spero, ch’io esca
di qui con passo fermo e m’incammini
a qualche piazza vuota, a qualche buia
acqua di fiume…
Amico, so che Venere ti tiene
ora in balìa.
Felice te! ti corre
il sangue nelle vene più gagliardo,
ti si chiude la gola a volte a sosta
come per morte il battere del cuore.
Ma se tempo verrà – né venga mai –
che del fuoco la cenere sol resti,
e tu allora a cercar vieni l’amico.
Lo troverai nella taverna che ha
ai vetri stinte tendinette rosse
e scritto per insegna : AL GOTO GROSSO.
Io non ti chiederò di te di lei.
Spingerò verso te colmo il bicchiere
perché in silenzio con l’amico beva
l'oblio.
estate 1913
PARTE DODICESIMA
CAPITOLO X
CD219
[Versi a Dina]
L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925)
La poesia, § 7
1
Camillo Sbarbaro
«Ora che sei venuta»
In questa poesia l’intesa d’amore è finalmente raggiunta; i turbamenti e le ansie della giovinezza si placano in un rapporto sentimentale vissuto con la serenità di un’età non più giovanile.
Il tono pacato, privo delle ruvidezze *espressionistiche dei testi di Pianissimo, testimonia del raggiunto
equilibrio esistenziale di Sbarbaro, dell’appagamento tardivo dei suoi desideri; e tuttavia è impossibile
comprendere l’intensità di questi versi senza porli in rapporto con quelli della prima raccolta: la ricerca
d’amore – e di trasgressione – in essi compiuta trova infatti nei Versi a Dina un felice punto d’arrivo.
da C. Sbarbaro, L’opera in versi e in
prosa, a cura di G. Lagorio e V.
Scheiwiller, Garzanti, Milano 1985.
5
10
15
metrica Tre strofe composte, rispettivamente, da 7, 3 e 11
versi, con prevalenza di endecasillabi (quinari sono i
vv. 3 e 12 e un settenario è il v. 1).
1-7 Ora che sei venuta, [ora] che sei entrata nella mia vita con passo di danza [–] simile a (quasi) [un] soffio di
vento (folata) [che entra] in una stanza chiusa – mi
mancano le parole e la voce per (a) festeggiarti, [o] bene [: amore] tanto atteso [: desiderato], e ormai (già)
mi basta stare in silenzio accanto a te (tacerti vicino
= tacere vicino a te). Il vuoto di parole che l’emozione
crea nel poeta al sopraggiungere di un amore a lungo
desiderato si riempie della presenza fisica della donna.
Accanto a lei le parole non sono più necessarie. Con
passo di danza: quasi ballando, con grazia e leggerezza. Quasi folata...chiusa: l’amore, raggiunto in età adulta, porta nella vita del poeta un rinnovamento simile a
un’improvvisa ventata di aria fresca che entra in una
stanza chiusa da tanto tempo.
8-10 Allo stesso modo (così) il verso (pigolìo) [degli uccelli] che stordisce (assorda) [: riempie di suono] il bosco
al nascere dell’alba tace (ammutolisce) quando sul-
Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa –
a festeggiarti,bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta.
Il pigolìo così che assorda il bosco
al nascere dell’alba,ammutolisce
quando sull’orizzonte balza il sole.
Ma te la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nella notte d’estate mi facevo
alla finestra come soffocato:
che non sapevo,m’affannava il cuore.
E tutte tue sono le parole
che,come l’acqua all’orlo che trabocca,
alla bocca venivano da sole,
l’ore deserte,quando s’avanzavan
puerilmente le mie labbra d’uomo
da sé,per desiderio di baciare...
l’orizzonte sorge (balza) il sole. La *similitudine paragona le parole del poeta al canto degli uccelli e l’arrivo della donna al sorgere del sole: le parole e il canto
egualmente rivelano il bisogno del sole e dell’amore,
annunciandoli, e tacciono al loro arrivo. L’*analogia tra
le due dimensioni è sottolineata dall’uso del verbo “ammutolire”, che rimanda al v. 6, e del verbo “balzare”, più
adatto al passo di danza della donna che al sorgere del
sole.
11-21 Ma la mia ansia (inquietudine) cercava te quando
[da] ragazzo mi avvicinavo (facevo) alla finestra nella
notte d’estate quasi (come) senza respiro (soffocato):
qualcosa che (che) non sapevo mi appesantiva (m’affannava) il cuore. E le parole che venivano da sole alla
bocca, simili a (come) l’acqua che esce fuori (trabocca) da un bordo (all’orlo), sono tutte tue [: dedicate a
te], [e a te sono dedicate] le ore solitarie (deserte), in
cui (quando) le mie labbra d’uomo si protendevano (s’avanzavan) da sole (da sé) ingenuamente (puerilmente)
per [il] desiderio di baciare... Questi versi esprimono
con intensità la condizione irrequieta e ansiosa dell’adolescenza (cfr. ragazzo e puerilmente), in cui il desi-
Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura
derio erotico non è ancora in grado di confrontarsi con
l’alterità. Il poeta offre alla donna amata da adulto i turbamenti di se stesso giovane e la dichiara inconsapevole destinataria di tutte le parole (le poesie) che allora affioravano in lui incontenibili. Mi facevo…soffocato: il vb. “fare” è qui usato nella forma rifl. e significa
‘muoversi verso una data direzione’. Come cerca l’aria
colui che si sente soffocare, così il poeta cercava ristoro ai propri turbamenti adolescenziali nella frescura estiva notturna. Si noti il collegamento tra il v. 4 e i vv.
13-14: nella chiusa e soffocante stanza delI’adolescenza
giunge infine una folata d’aria fresca vivificante; la donna, con la sua vitalità, è in grado di rinnovare la vita del
poeta. Che non sapevo...cuore: il poeta è oppresso da
qualcosa che neanche lui riesce a definire (le prime ansie amorose). Il vb.“affannare”, trans., benché riferito al
cuore, rientra nell’ambito semantico individuato poco
sopra. Quando…da sé: si noti come il contrasto tra l’avv.
“puerilmente” (= in modo infantile) e il *sintagma labbra d’uomo esprima il contrasto proprio dell’adolescenza, in bilico tra sentimenti ancora infantili e pulsioni già adulte.
[G. B. PALUMBO EDITORE]
PARTE DODICESIMA
CAPITOLO X
L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925)
La poesia, § 7
CD219
2
Camillo Sbarbaro ~ «Ora che sei venuta»
esercizi
Analizzare e interpretare
1
Indica come il poeta rielabori modernamente il tema tradizionale dell’ineffabilità dell’esperienza amorosa.
2
Confronta questa figura di donna con quella di «Io che come un sonnambulo cammino» (CD217).
Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura
[G. B. PALUMBO EDITORE]
PARTE DODICESIMA
CAPITOLO X
CD218
[Pianissimo]
L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925)
La poesia, § 7
1
Camillo Sbarbaro
«Esco dalla lussuria»
In questa poesia s’intrecciano alcuni temi fondamentali della *poetica sbarbariana: l’amore ridotto a
«lussuria», a vizio; la visione allucinata della città, il complesso rapporto con il padre; l’estraneità rispetto
a se stesso e alla vita.
Uscendo da una casa di prostituzione, il poeta attraversa le strade cittadine, deserte e spettrali, meditando sul «peccato» commesso: il cedimento alla passione erotica gli appare come una trasgressione
alla legge morale rappresentata dal padre. Chiuso in un’indifferenza alla vita simile a quella delle strade che attraversa e delle case che ha intorno, egli non riesce a turbarsi neppure all’ipotesi dell’imminente morte del padre.
Esco dalla lussuria
da C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di
L. Polato, Il Saggiatore, Milano 1983.
5
10
15
20
metrica Una strofa di trentatré versi seguita da una di tre, da
un verso isolato e da un distico finale; la misura dell’endecasillabo è costantemente rispettata, benché
divisa spesso in due parti, in presenza di versi a scalino.
1-8 Esco da [un] postribolo (dalla lussuria). M’incammino
lungo le (pei = per i) strade (lastrici) che risuonano
(sonori) nella notte [: al rumore dei passi]. Non ho rimorso né (e) turbamento [: per il piacere provato]. Sono soltanto (solo) immensamente tranquillo. [Ep]pure
qualche cosa è cambiata dentro (in) me, qualcosa [è
cambiata] fuori di me. Il poeta torna in strada dopo
aver soddisfatto in un postribolo i propri desideri sessuali. Apparentemente sereno, egli avverte in realtà il
peso della trasgressione commessa. Lussuria: ‘eccesso di sensualità degradata a vizio’; secondo la morale
cattolica, è uno dei sette peccati capitali. Qui la voce
indica il luogo in cui la lussuria viene praticata e cioè
il postribolo (casa di prostituzione). L’espressione esco
M’incammino
pei lastrici sonori nella notte.
Non ho rimorso e turbamento.Sono
solo tranquillo immensamente.
Pure
qualche cosa è cambiato in me,qualcosa
fuori di me.
Ché la città mi pare
sia fatta immensamente vasta e vuota,
una città di pietra che nessuno
abiti,dove la Necessità
sola conduca i carri e suoni l’ore.
A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità.
Mi pare
d’esser sordo ed opaco come loro,
d’esser fatto di pietra come loro.
dalla lussuria non definisce però soltanto il gesto concreto del poeta di uscire dal postribolo, ma anche il
suo desiderio profondo di purificarsi, di espiare il senso di colpa. Lastrici sonori: il lastrico è la pavimentazione a blocchi di pietra di una strada. Di notte, in assenza di rumori, i passi solitari del poeta fanno risuonare la strada.
9-20 Perché (ché) mi pare [che] la città sia diventata (fatta) immensamente grande (vasta) e vuota [: deserta],
una città [fatta] di pietra che nessuno abiti, [una città]
in cui (dove) soltanto (solo) la Necessità conduca i carri e suoni [: al campanile] le ore [che passano]. [Io] sono simile a queste vie simmetriche e deserte [e] a queste case silenziose (mute). Anch’io provo la (partecipo
alla) loro immobilità. Mi pare di essere sordo e oscuro
(opaco) [: insensibile] come loro [: le vie e le case], [mi
pare] di essere fatto di pietra come loro. Il poeta descrive in questi versi la realtà esterna a sé (cfr. fuori di
me, v. 8), per poi indagare, a partire dal v. 21, la propria
condizione interiore (cfr. in me, v. 7). La città gli appa-
Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura
re un’immensa distesa disabitata, fatta di vie rigorosamente ordinate (simmetriche) ma deserte e di case
vuote: un luogo in cui un principio inesorabile (la Necessità) muove i carri e il tempo, e nella cui immobile
indifferenza il poeta s’identifica. In questi versi l’aridità
di Sbarbaro trova alcune tra le sue definizioni più esplicite e lucide: il poeta è simile alle vie deserte, alle case mute, e ne condivide l’indifferenza e l’immobilità di
pietra. Suoni l’ore: si allude ai rintocchi delle campane
(o degli orologi). Vie simmetriche...case mute: immagine efficace a indicare la città come luogo della morte dell’io e della disintegrazione del rapporto uomo-natura: la disposizione ordinata delle vie secondo la logica geometrica appare fine a se stessa (le vie sono infatti
deserte) e perciò insensata; le case, simbolo tradizionale dei valori familiari e dell’identità, appaiono mute,
ossia silenziose come fossero anch’esse deserte, disabitate. La città fantasma è quella in cui si consuma l’esperienza di vita alienata del poeta e dell’uomo moderno.
[G. B. PALUMBO EDITORE]
PARTE DODICESIMA
CAPITOLO X
L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925)
La poesia, § 7
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Camillo Sbarbaro ~ «Esco dalla lussuria»
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35
Ché il mio padre e la mia sorella sono
lontani,come morti da tanti anni,
come sepolti già nella memoria.
Il nome dell’amico è un nome vano.
Tra me e loro s’è interposto il mio
peccato come immobile macigno.
E se sapessi che il mio padre è morto,
al qual pensando mi piangeva il cuore
di essere lontano ora che i giorni
della vita comune son contati,
se mi dicesser che il mio padre è morto,
sento bene che adesso non potrei
piangere.
Son come posto fuori della vita,
una macchina io stesso che obbedisce,
come il carro e la strada necessario.
Ma non riesco a dolermene.
Cammino
pei lastrici sonori nella notte.
21-26 Perché (ché) mio padre e mia sorella sono lontani come
[se fossero] morti da tanti anni, come [se fossero] già [stati] sepolti nella memoria. Il nome dell’amico è un nome
insignificante (vano). Tra me e loro [: la famiglia, gli amici]
si è messo in mezzo (interposto) il mio peccato, come [se
fosse una] grossa pietra (macigno) immobile. Dalla descrizione della città, attraverso l’identificazione con essa, il
poeta passa alla sfera degli affetti privati e del suo problematico rapporto con essi. La coscienza del peccato
commesso si pone come un ostacolo insormontabile che
divide il poeta dagli altri: padre e sorella sembrano figure
irraggiungibili (lontani) appartenenti a un mondo passato
di purezza, ormai sprofondato nella memoria, ed è negata
la possibilità stessa dell’amicizia. Ché: si noti la correlazione tra questo ché e quello del v.9: entrambi introducono
alle definizioni del turbamento annunciato al v.7.Il mio...la
mia: il “nido” familiare si incarna nelle persone del padre
e della sorella che qui compaiono come un’alternativa ormai irraggiungibile di intimità al gelido e spettrale anonimato cittadino. L’aggiunta dell’art. determ. prima dell’agg.
possessivo relativo ai gradi di parentela è scorretto in ital.,
ma è in uso nel parlato di alcune regioni, in particolare nel
toscano. Il mio peccato: l’abbandono al piacere dei sensi.
27-33 E se venissi a sapere (se sapessi) che è morto mio padre, pensando al quale mi dispiaceva (mi piangeva il
cuore) di essere lontano [: da lui] ora che i giorni della vita [da vivere in] comune [: insieme] sono limitati (contati), se mi dicessero che mio padre è morto, sento bene [: sono sicuro] che adesso non potrei piangere.
34-39 Sono come posto fuori della vita, [come se fossi] io stes-
so una macchina che obbedisce [: ai comandi], [come se
fossi anch’io] necessitato (necessario) [: determinato dall’esterno, senza volontà] come il carro e la strada. Ma non
riesco a dispiacermene (dolermene = dolermi di ciò).Cammino lungo le (pei = per i) strade (lastrici) che risuonano
(sonori) nella notte. L’esistenza del poeta, estromessa dal
flusso naturale della vita, si consuma in un’insensatezza
che è immobilità psicologica, ovvero impossibilità di attuare mutamenti, di compiere scelte. Il poeta è necessario
(cioè necessitato, mosso da meccanismi esterni incontrollabili) (cfr. nota ai vv. 9-20) come un oggetto inanimato (il carro e la strada), degradato dall’alienazione alla
passività della macchina. Ma non riesco a dolermene: la
vicenda di Sbarbaro è tutta in questo verso, il cui isolamento tipografico rimanda a quello esistenziale del poeta.
guida alla lettura
Metrica e sintassi: il ritmo del pensiero
La sintassi di questo testo è perlopiù lineare, come avviene di norma in Sbarbaro. Tutti i versi, inoltre, sono riconducibili alla misura
canonica dell’*endecasillabo. Da questi due ingredienti dovrebbe
derivare un effetto di musicalità molto pronunciato. Sbarbaro lo evita ricorrendo a vari espedienti: frequenti *enjambements (vv. 2, 4, 6,
7, 9, 11, 12, 18, 21, 25, 28, 29, 32, 38), versi brevi e brevissimi
(vv. 1, 2, 6, 8, 9, 18, 33, 38), periodi a tratti a loro volta brevi (vv. 18, 37-39). In questo modo, invece dell’aspetto lirico e musicale, a essere messo in risalto è l’aspetto narrativo e ragionativo del testo,
con la definizione di un originale ritmo del pensiero, cioè di un ritmo
adatto a seguire i trasalimenti delle associazioni mentali del soggetto.
I temi espressionistici della città, del vagabondaggio e del sonnambulismo
Anche in questo componimento è possibile registrare la presenza di tre
tipici temi espressionistici: 1) la città, rappresentata in termini allucinati e onirici (cfr. soprattutto i vv. 9-17), con un riferimento alla simmetria (v. 14) che si ricollega a numerose manifestazioni della pittura
espressionista; 2) il vagabondaggio del soggetto (il tema del cammi-
nare ritorna ad apertura e a chiusura del testo, incorniciando le riflessioni in esso contenute); 3) il sonnambulismo (annunciato dall’indifferenza e dalla scarsa reattività dell’io ai vv. 14-20 e ripreso ai vv. 3436, in cui viene detto esplicitamente che il poeta si muove in stato di
incoscienza).
Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura
[G. B. PALUMBO EDITORE]
PARTE DODICESIMA
CAPITOLO X
L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925)
La poesia, § 7
CD218
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Camillo Sbarbaro ~ «Esco dalla lussuria»
guida alla lettura
Il peccato, il senso di colpa e la figura paterna: un’interpretazione psicanalitica
Accanto al tema del camminare, un altro tema ha particolare rilievo:
quello dell’indifferenza. Essa è proclamata fin dall’inizio: «Non ho rimorso e turbamento. Sono / solo tranquillo immensamente» (vv. 4-5);
ed è ripresa nella conclusione: «Ma non riesco a dolermene» (v. 37).Tuttavia, molti indizi suggeriscono che queste affermazioni corrispondono
solo in parte alla verità. Intanto, si noti il brusco passaggio dal v. 5 al v.
6: in quel «Pure» (enfatizzato dalla collocazione a scalino), che incrina
la tranquilla assenza di rimorso e di turbamento enunciata al v. 4, si annida la percezione profonda del senso di colpa. In quest’ottica, la negazione che precede («Non ho rimorso ecc...») suona quasi come una
*negazione freudiana, cioè una falsa negazione (in realtà, il poeta prova rimorso). D’altra parte, l’apparizione della figura paterna, a partire dal
v. 21, denuncia in modo chiarissimo la rilevanza del rapporto fra tra-
sgressione e senso di colpa: la figura paterna rappresenta infatti l’imperativo morale, cioè il principio repressivo e la legge da cui dipende il
senso di colpa stesso. La presenza, accanto al padre, della sorella (v.
21) rappresenta un simbolo di purezza e di innocenza che chiarisce la
natura del senso di colpa: esso dipende dal cedimento alla «lussuria»,
posto infatti, come dato fondamentale, ad apertura del testo.
Se però il desiderio sessuale equivale a una trasgressione della legge
morale paterna, la sua realizzazione non può che comportare senso di
colpa e bisogno di espiazione. In quest’ottica, l’indifferenza e l’aridità
sbarbariane sono interpretabili, più che come una mancanza di stimoli vitali, come una loro repressione preventiva per sfuggire al senso
di colpa e, nel contempo, come un segno della depressione a esso comunque successiva.
Paesaggio cittadino e paesaggio interiore
Fin dai primi versi Sbarbaro istituisce un rapporto di identificazione tra
città e io. Si veda, ad esempio, la replicazione dell’avverbio «immensamente» ai vv. 5 e 10. Come vasta e vuota è la città, così è l’io del poeta; e ancora: come «di pietra» (v. 11), cioè inerte,“sorda e opaca”, è la
città, così “pietrificato” («di pietra», v. 20) è l’io. Questa “mineralizzazione” dell’io conduce ad una condizione di estraneità insensata e necessitata (cfr. v. 36), immodificabile: un essere «fuori dalla vita» che
per molti aspetti richiama il «silenzio di cosa» di Serafino Gubbio.
esercizi
Analizzare e interpretare
1
Quale cambiamento registra il poeta ai versi 7-8?
5
Come può essere interpretata la sua aridità?
2
Che aspetto assume la città ai suoi occhi?
6
3
Quale analogia esiste tra l’io e la città?
Confronta il testo con la poesia precedente e chiarisci quali motivi hanno in comune.
4
Che legame c’è tra il motivo della lussuria e l’immagine del
padre? Perché il poeta avverte la trasgressione sessuale come «peccato»?
Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura
[G. B. PALUMBO EDITORE]
NOT. SOC. LICH. ITAL., 17: 83-88 (2004)
Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo l’intervista del
giornalista Ferdinando Camon a Camillo Sbarbaro1
tratta da: “Il mestiere di poeta”. Garzanti (1982)
CAMILLO SBARBARO
“Non mi dia dell'illustre: ho la coscienza, esatta credo, dei miei limiti; la
frase per mero accidente incappai nella fama di letterato, s'anche scherzosa,
risponde al vero": l'umiltà di Sbarbaro, e la sua solitudine, per certi aspetti
polemica e sdegnosa, mi risultava già dalle sue lettere. Da alcuni manoscritti
avevo potuto farmi un'idea di come nascono nella sua mente quelle rapide
intuizioni, morali estetiche critiche poetiche, che formano i Fuochi fatui:
ciascun pensiero è seguito da un sì o da un no o da un punto interrogativo; gli
appunti più recenti sono inseriti su strisce sottili di carta, incollate negli spazi
bianchi. Sono spunti suscitati da qualche notizia o, più spesso, da qualche
immagine attuale, ma attinti da un fondo costante di amara saggezza: tipico
esempio mi pare quella noticina col lapis, sul silenzio di Pio XII, della quale si
parla qui sotto, nel colloquio. Ho seguito una per una le correzioni e i
pentimenti apportati da Sbarbaro sulle bozze: e ovunque mi pare di vedere la
progressiva acquisizione della forma definitiva, insostituibile. Per esempio, in
queste successive modifiche e sostituzioni, segnate a matita: “Restare giovane
è la memoria che via via si spoglia da sé dell'ombra, non ritiene che punti di
luce: i colori di un'alba, una fiammata di papaveri Giovane è chi scorda il
resto. ” “Restar giovane è la memoria che via via si spoglia da sé dell'ombra,
non ritiene che attimi di luce: i colori di un'alba, una fiammata di papaveri.
Restar giovane è scordare.”
Il dialogo che segue è il risultato di un lungo scambio epistolare; le risposte
del poeta sono state ordinate (ma, naturalmente, immutate) in successione
logica.
1
Alla figura di Camillo Sbarbaro (1888-1967), poeta e lichenologo ligure, il NOTIZIARIO ha
dedicato altri spazi sui seguenti volumi:
- 3, suppl. 1 (1990): 75-78 - Modenesi P., Le collezioni lichenologiche del Museo G. Doria di
Genova (GDOR);
- 6 (1993): 83-87 - Cormagi C., I licheni tra scienza e poesia. Omaggio a Camillo Sbarbaro;
- 7 (1994): 9-11 - Valcuvia Passadore M., Alcune lettere di Camillo Sbarbaro conservate presso
l’Istituto Botanico di Pavia.
83
A casa del poeta capito quindi solo per vederlo, finalmente.
Con la stazioncina ferroviaria microscopica, rivestita di legno, senza orario
dei treni, senza toilettes, con l'orto al fianco, il bigliettaio che viene a servirti
col piatto di minestra in mano, e con le fitte case nuove, colorate, i bar, le
locande, i ristoranti, il night, i sottopassaggi, Spotorno ha i due aspetti che si
riscontrano ormai dovunque nei paesi di riviera e di montagna. La via di
Sbarbaro è strettissima (un'auto non ci passa), scavata tra le case e i muri dei
giardini, abitata da un popolo di gatti che quando arrivi si spostano di pochi
passi; pigri strisciando ventre a terra. Lo studio di Sbarbaro non ha libri. Ci
trovo una sola opera, questa: Foliicolous Lichens I, a revision of the taxonomy
of the obligately foliicolous, Lichenised fungi by Rolf Santesson - Uppsala
1952. Ci sono naturalmente, i licheni, delizia e arma di Sbarbaro: arma,
perché quando vuoi disfarti di un ospite noioso non ha — dice lui — che da
fargli vedere minuziosamente la sua raccolta. Che è molto ridotta ormai. Tra le
altre specie, il poeta mi fa vedere qualche esemplare di Apegrapha (a forma di
virgolette come scrittura cuneiforme, sul tallo grigio; ma visto alla lente, il
tutto sembra un altopiano con le cime arsicce e nerastre), di Ramalina
reticulata della California, esili fili che d'un tratto si scindono in sottilissime
reticelle. Sulla busta che contiene la Xanthoria parietina Sbarbaro ha scritto:
"Rutilante di fatto, se non di nome."
Camon Le sue prose e le sue poesie m'han dato l'immagine di lei come di
un camminatore. E oggi come vive?
Sbarbaro Sì, camminare è stato sempre il mio modo migliore di vivere. La
Liguria litoranea l'ho percorsa e la conosco passo per passo dalla Spezia a
Ventimiglia.. Solo da un anno (pare, per artrosi totale della spina dorsale) il
camminare m'è diventato difficoltoso. Più che camminare, ormai mi sposto:
pochi penosi passi al mattino per "fare la spesa". Abito con mia sorella (minore di me d'un anno) in questa casetta tra caseggiati (che finora ci lasciano un
po' di vista sul paese e sul mare); una casetta che non è facile scovare; priva,
non per povertà ma per elezione, d'ogni risorsa moderna: nè telefono nè radio
nè televisione e nemmeno elettrodomestici. Scrivere o tentare di scrivere è la
mia occupazione; lo è meno il leggere, a causa della vista. Non leggo quasi
che libri di storia vissuta (i retroscena delle due guerre). Sono da sempre
abbonato a Il Mondo. Dalla capitolazione della Germania, per alcuni anni non
comprai più quotidiani; ora ricompro La Stampa. A cominciare dal '60 subii,
ad anni alterni, delle depressioni nervose la cui esatta definizione è: tremenda
pri-vazione d'ogni consenso con la vita.
Camon Lei è così parco di notizie autobiografiche e di interviste! Non ha
fiducia nella possibilità di uno scambio critico di idee?
Sbarbaro Di interviste ne accettai una (Tempo settimanale) e non ebbi a
rallegrarmene. Altre due, prive d'un minimo di serietà, mi vennero fatte di
84
sorpresa (su Gente e sulla Nazione, questa col tono di promuovere una
colletta). Autobiografia è tutto quello che ho scritto; esauriente, mi pare, anzi
abbondante di particolari superflui. Non saprei proprio che cosa aggiungerviCamon Lei ha scritto molto sui licheni. Che cos'è che l'ha attratto ad essi
fin dall'inizio?
Sbarbaro I licheni m'interessano come forma negletta — povera? — di vita.
Sì, anche sui licheni scrissi sin troppo, sempre cercando una spiegazione a
questo hobby: nessuna conoscenza specifica, solo curiosità, piacere visivo,
simpatia: la stessa che mi fa avvicinare tutto quello che non è vistoso
(persone, paesaggi) per gli altri senza importanza, misero. C'è nella terza
edizione (Ricciardi) dei Fuochi fatui un ultimo scritto sui licheni, una specie
di epicedio.2 Ma il mio interesse per essi è forse chiarito meglio dal primo
scritto sull'argomento (Trucioli, Mondadori), specie dalle frasi: “preso a mano
dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate
di vita... L'albero vive d'una vita tanto più piena e armoniosa della nostra, che
dargli un nome è limitarlo; mentre gli inconspicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli ad esistere.” Ritengo questa la causa
intima della mia passione (estetica, non scientifica) per i licheni, durata
quarant'anni e ormai caduta. Lo scorso anno, approssimandosi la terza
depressione, regalai venti pacchi di licheni al Museo Civico di St. Nat. di
Genova. Dell'erbario, non conservai che qualche campione a ricordo.
Camon
È stato affermato che lei anticipa ed esprime il rapporto di
alienazione con gli altri e col mondo. Le pare che la sua alienazione si
configuri un po' — o molto — diversa dalle altre degli autori contemporanei?
2
Ne riportiano qualche passo per comodità di chi legge (nota dell’autore – n.d.r.): “Ancorato
ai licheni mi ha forse che non si sa che cosa siano, ma quel che più in essi mi commuove è la
prepotenza di vita. Diversi di forma, di colore, di portamento e, per la scienza, di specie ( e
quindi di genere, di famiglia, di tribù…), si pigiano in tanti sullo stesso pezzetto di corteccia o
di pietra da essere costretti a scavalcarsi a invadersi a vicenda. …Misterioso poi come faccia il
seme (visibile a forte ingrandimento e misurabile a millesimi di millimetro) a attecchire su
rocce refrattarie a ogni altra vegetazione:…approda giusto sulla superficie più accetta alla
specie, per mandar quindi in avanscoperta filiformi manine ad assaggiar intorno, col compito di
predisporre il letto (o matrice) al lichene che ci si insedierà; e che, inerme come lo si figura,
morde sia il granito, il basalto e, quando occorrerà difendere dalle intemperie la futura prole, li
buca. Grazie al lichene non è luogo dove mi senta solo, visto che non è luogo arido e desolato
che non sia per me vivo di presenze: un vivaio che tripudia al caldo dei tropici come nel gelo
polare e neanche sfrattato dall’uomo perisce, ma emigra e, poco discosto, riprende a prosperare.
…E fortuna d’essermi senza volere trovato quasi solo usufruttuario d’un territorio senza confini,
in u mondo spezzettato ormai in tante proprietà private, dove non è più palmo che non sia
chiuso da cancelli, cinto da filo spinato, ringhioso di cani da guardia; desideroso io solo di
qualcosa che nessuno mi disputa, nessuno anzi vede (e se chi passa chiede, alla spiegazione
sorride incredulo e commiserante).”
85
A me pare di sì: mi pare cioè che la sua alienazione si configuri non come
"sentire gli altri come nemici" o come "incomunicabilità", ma come
indecisione e bisogno di solitudine, che può portare fino all'appartarsi e
all'estraniarsi (al limite, alla totale rinuncia o pura passività).
Sbarbaro Ignoro il significato preciso di "alienazione". Certo non "sento
gli altri come nemici"; e sono (eccetto nelle crisi depressive) sin troppo
comunicativo. Se nei rapporti con la gente non vado molto oltre, è che
prevedo, temo la delusione. In questo borgo dove vivo dal '51, conosco tutti,
m'interesso ai casi di tutti, e tutti, pare, mi vogliono bene; non approfondisco
però, lascio che i rapporti rimangano superficiali, di convivenza, perché
l'esperienza m'insegna che è saggio fermarsi all'apparenza, accontentarsene.
Camon Mi pare altresì che lei non scopra cause negative nelle cose, ma
semplicemente rifiuti come non necessaria la ricerca delle cause prime.
Sbaglio?
Sbarbaro Non so se capisco la domanda e se quindi rispondo a tono. Se
capisco: "la ricerca delle cause prime" non è che "la rifiuti come non
necessaria", ma che la credo inutile, vana. Almeno per me.
Camon Queste espressioni che iniziano i Trucioli: “Ormai somiglio a una
vite che vidi un dì con stupore. Cresceva su un muro di casa nascendo da un
lastrico. Trapiantata, sarebbe intristita. Così l'anima ha messo radice nella
pietra della città e altrove non saprebbe più vivere...", mi ripropongono il
problema di quale sia il tipo della sua alienazione o estraniazione. Dunque:
estraniazione sì, ma nello stesso tempo bisogno degli altri, della città? o per
città s'intende un agglomerato sordo e opaco, senza corrispondenza in noi,
senza anima?
Sbarbaro
L'inizio dei Trucioli si riattacca (e anzi ripete e illustra)
all'ultima poesia di Pianissimo. Aspirazione e insieme impossibilità di
liberarmi dal fascino morboso della città. ”... E come / in uno sforzo d'ali i
gomiti alzo.” La città era un vischio, ma il suo spettacolo m'era necessario, mi
cibava di sensazioni, (Anche questo, fu proprio di un periodo.)
Camon Un problema su cui da tempo ho meditato senza soluzione: la sua
ironia come modo di rivolgersi agli altri. La sua visione del mondo non
dovrebbe anche (o invece) generare una terrena pietà? Ossia: da quale
costatazione nasce la sua ironia: forse degli altri come stupidamente, e
colpevolmente, attaccati alla vita?
Sbarbaro
Anch'io sono stupidamente attaccato alla vita; l'ironia non
poteva quindi (mi pare) nascere da questo. Non mi è chiaro di quale ironia si
tratti; quella degli Ammaestramenti a Polidoro?
86
Camon Non solo. Penso a un certo tono diffuso, verso chi ostinatamente si
illude e spera.
Sbarbaro I motivi da cui nasce questa ironia verso gli altri (o meglio:
distacco) mi sembrano quelli accennati in Addio a Pierangelo (p. 187 ultima
edizione Mondadori): “Dagli uomini lo divideva il loro darsi daffare per cose
di niun conto, l'obbedienza di macchine alla necessità, la stupidità dalla fronte
di toro; ma soprattutto la maschera che la convivenza impone loro e che
snatura l'ingenuità della loro indole al modo che la sporcizia in cui si rivolta
rende irriconoscibile la larva.”
Camon E mi pare che ci sia dell'acredine in quelle sue trasformazioni in
grottesco: la femmina lenta in larva molliccia, la bocca dell'altra in mignatta,
la inagra in atroce cavalletta.
Sbarbaro Questo è un sentimento diverso. Il motivo fondamentale per cui
"(il mio) occhio restò duro per l'uomo" (poesia Voze) resta quello qui indicato:
più che ironia, è inimicizia, incomprensione, distacco. Nell'esempio che ora
lei mi cita, la malevolenza verso le femmine che finiscono di circolare mentre
gli uomini ricominciano la loro giornata di fatica, è espressione di sgomento,
di incubo; la malevolenza è per le sfruttatrici. Comunque, qualcosa di
contingente a quell'alba.
Camon Leggo su Elsinore (n. 13, 1965): “Col bisogno di questa rima
logica e sintattica che compensava la rinuncia a quella fonica screditata, mi
spiego il procedere a singhiozzo, a piccoli sussulti, della mia prosa, la sua
andatura esitante.” Bisogno dunque del periodo conchiuso. Ma non potrebbe
essere anche amore per i! frammento, cioè rifiuto di organizzare la realtà?
limitarne il contatto a un rapido corto circuito?
Sbarbaro
frammento.
Amore per il frammento sì, certo, anzi del frammento nel
Camon Ho letto, nel manoscritto medito dei suoi ultimi Fuochi fatui:
“Riepilogando: forse che poteva Pio XII, suo Vicario in terra, rompere il
silenzio di Dio?” Si può vedere qui l'indiretta confessione di un'origine
metafisica del suo isolamento?
Sbarbaro Non credo: il mio isolamento non ha, certo, motivo metafisico, è
costituzionale.
Camon Lei ha certe descrizioni particolareggiate di vie petrose, inanimate,
di squallide mura echeggiano, strade incassate fra case: scrivendole, aveva
presente qualche quartiere?
Sbarbaro Tutti I miei paesaggi sono petrosi, ma nascono dal didentro. In
essi mi riconosco, mi specchio cioè (per esempio Verezzi), con sollievo.
87
Camon Perché l'estraneità diventa conforto nei versi: “Un'impressione
strana m'accompagna / sempre in ogni mio passo e mi conforta: / mi pare di
passar come per caso / da questo mondo”? In altri poeti, la estraneità porta alla
follia e alla disperazione.
Sbarbaro Se è vero che "passo di qui per caso", il male è transitorio; nè un
prima nè un dopo; è questo che mi conforta, È un'interpretazione di cui però
non sono sicuro. Può darsi che quando li scrissi, quei versi avessero un
significato vagamente metafisico, ma non posso più dire. Non ricomparvero
più nei successivi rifacimenti.
Camon Da quale critico si giudica particolarmente ben capito, e per quali
intuizioni?
Sbarbaro Da Squarotti, forse perché le sue interpretazioni mi sono chiare,
anche se non sempre le condivido. Ma siccome non conservo critiche, una
volta scoree (nè libri), non sono in grado di dire quali "intuizioni critiche" mi
siano parse esatte.
88