Pianissimo - Pampuglie
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Pianissimo - Pampuglie
CAMILLO SBARBARO PIANISSIMO 1914 Taci, anima stanca di godere e di soffrire – all’uno, all’altro vai rassegnata – Ascolto e mi giunge una tua voce. Non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d’ira o di rivolta e neppure di tedio. Ammutolita giaci col corpo in una disperata indifferenza. Non ci stupiremmo, non è vero, mia anima, se adesso il cuore s’arrestasse, se sospeso ci fosse il fiato… Invece camminiamo. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne e tutto è quello che è – quello che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso ********** A volte mentre vado solo al sole e gli aspetti del mondo accolgo e il cuore quasi m’opprime l’amorosa ressa, ombra il sole ecco farsi e l’ombra, gelo. Un cieco mi par d’essere che va lungo la sponda d’un immenso fiume. Scorrono sotto l’acque maestose; ma non le vede lui: il poco sole lui si prende beato. E se gli giunge a tratti mormorar d’acque, lo crede ronzìo d’orecchi illusi. Perché a me par vivendo questa mia povera vita, un altro rasentarne come nel sonno; e che quel sonno sia la mia vita presente. Un vago smarrimento allor mi coglie uno sgomento pueril. Mi siedo dove sono, sul ciglio della strada, miro il misero mio angusto mondo e carezzo con man che trema l’erba. ****************Mi desto dal penoso sonno solo nel cuor della notte. Tace intorno la casa come vuota e laggiù brilla silenzioso coi suoi lumi un porto. Ma sì freddi e remoti son quei lumi e sì alto il silenzio nella casa che mi levo sui gomiti in ascolto. Improvviso terrore mi sospende il fiato e allarga nella notte gli occhi: separata dal resto della casa separata dal resto della terra è la mia vita ed io son solo al mondo. Poi il ricordo delle trite vie e dei nomi e dei volti consueti emerge come spiaggia da marea e di me sorridono mi riadagio. Ma svanita col sonno la paura, un gelo in fondo all’anima rimane: io tra gli uomini vado curioso di lor ma come estraneo; ed alcuno non ho nelle cui mani metter le mani e col quale di me dimenticarmi. Tal che se l’acqua e gli alberi non fossero e l’amica presenza delle cose che accompagna il mio vivere quaggiù, penso che morirei di solitudine… Ma gli occhi restan crudelmente asciutti. ************** Esco dalla lussuria. M’incammino per lastrici sonori nella notte. Non ho rimorso o turbamento. Sono pacificato – immensamente. Pure qualche cosa è cambiato in me, qualcosa fuori di me. Ché la città mi pare fatta paurosamente sorda e vuota: una città di pietra che nessuno abiti, dove la Necessità sola conduca i traini e suoni l’ore. A queste vie che echeggiano deserte, a queste case mute sono simile. Partecipo alla loro indifferenza, alla loro immobilità. Mi pare d’esser sordo ed opaco come loro d’esser fatto di pietra come loro. I cari volti cotidiani sono impalliditi nella lontananza, estenuati quasi a ricordi. Tra me ed essi s’è frapposto il mio Peccato come immobile macigno. E mi dicesser che mio padre è morto, sento bene che adesso non potrei piangere… Sono confinato fuori della vita, una machina io pure che obbedisce, come il traino e la strada necessario. Ma non riesco a dolermene. Cammino per lastrici sonori nella notte. ************ Non, Vita, perché sei nella notte la rapida fiammata e non per questi aspetti della terra e il cielo in cui m’oblio – per le sue rose che non sono ancora schiuse e si sfanno; per il Desiderio che nella mano ratta lascia cenere; per l’odio che ciascuno porta a sé del giorno avanti; per la sordità di tutto ai sogni che ci metton ali; per non potere vivere che l’attimo al modo della pecora che bruca andando questo e quello ciuffo d’erba e non vede non sa fuori di esso; per la tristezza ultima d’Amore; il rimorso che sta in fondo ad ogni esistenza; d’averla spesa invano, come la feccia in fondo del bicchiere; per la felicità grande di piangere, il non sapere e l’infinito buio… – per tutto questo amaro t’amo, Vita. ************** Padre, se anche tu non fossi il mio padre, per te stesso egualmente t’amerei. Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno che la prima viola sull’opposto muro scopristi dalla tua finestra e ce ne desti la novella allegro. E subito la scala tolta in spalla di casa uscisti e l’appoggiavi al muro. Noi piccoli dai vetri si guardava. E di quell’altra volta mi ricordo che la sorella, bambinetta ancora, per la casa inseguivi minacciando. Ma raggiuntala che strillava forte dalla paura, ti mancava il cuore: t’eri visto rincorrere la tua piccola figlia , tutta spaventata, tu vacillando l’attiravi al petto e con una carezza la ricoveravi tra le tue braccia come per difenderla da quel cattivo ch’eri tu di prima. Padre, se anche tu non fossi il mio padre… ************* A volte, mentre vado per le strade della città tumultuosa solo, mi dimentico il mio destino, d’essere uomo tra gli altri e, come smemorato, anzi tratto fuor di me stesso, guardo la gente con aperti estranei occhi. M’occupa allora un puerile, un vago senso di sofferenza e d’ansietà come per mano che m’opprima il cuore. Fronti calve di vecchi, inconsapevoli occhi di bimbi, facce consuete di nati a faticare e riprodursi, facce volpine stupide beate, facce ambigue di preti, pitturate facce di prostitute entro il cervello mi s’imprimono dolorosamente. E conosco l’inganno per cui vivono, il dolore che mise quella piega sul loro labbro, le speranze sempre deluse, e l’inutilità della lor vita amara e il lor destino ultimo, il buio. Ché ciascuno di essi porta in sé la condanna d’esistere; ma va solo assorto nell’attimo che passa, distratto dal suo vizio prediletto. Provo un disagio simile a chi veda inseguire farfalle lungo l’orlo d’un precipizio… ************ Lacrime, sotto sguardi curiosi non mi sgorgate a un tratto mentre parlo di vane cose ( mi sovviene a un tratto il mio andare sotto cieli bui non avendo una mano che m’ incuori; e l’inutilità di ciò che dico e di ciò che faccio mi fa peso il cuore). Mentre guardo mio padre ginocchioni non mi scorrete giù rapide e calde. M’osserva il padre con i poveri occhi senza battere ciglio e scopre nuovo l’irrequieto che tenea per mano e che gli crebbe accanto sconosciuto. Ma nell’angolo buio d’una stanza o nella solitudine d’un bosco ah dolcezza di piangere non visto! Al sostegno che capita m’affido abbandonatamene come fossi per mancare e tra lacrime dirotte mi brilla il viso di riconoscenza. Allora sotto la bontà dei cieli io sono ignudo come quando nacqui. Dietro il sottile schermo delle lacrime allora sono solamente io. **************** Padre che muori tutti i giorni un poco e ti scema la mente e più non vedi con allargati occhi che i tuoi figli e di te non t’accorgi e non rimpiangi – se penso la fortezza con la quale hai vissuto; il disprezzo c’hai portato a tutto ciò che è piccolo e meschino; sotto la rude scorza il tuo candido cuore di fanciullo; il bene c’hai voluto a tua madre, a tua sorella ingrata, a nostra madre morta; tutta la vita tua sacrificata e poi ti guardo come ora sei, io mi torco in silenzio le mani. Contro l’indifferenza della vita vedo inutile anch’essa la virtù e provo forte come non ho mai il senso della nostra solitudine. Io voglio confessarmi a tutti, padre, che ridi se mi vedi e tremi quando d’una qualche premura ti fo segno, di quanto fui codardo verso te. Benché il rimorso mi si alleggerisca, che più giusto sarebbe mi pesasse sul cuore, inconfessato… Io giovinetto imberbe ti guardai con ira, padre, per la tua vecchiezza… Stizza contro te vecchio mi prendeva… Padre che ci hai tenuto sui ginocchi nella stanza che s’oscurava, in faccia alla finestra, e contavamo i lumi di cui si punteggiava la collina facendo a gara a chi vedeva primo – perdono non ti chiedo con le lacrime che mi sarebbe troppo dolce piangere ma con quelle più amare che non piango. Una cosa soltanto mi conforta di poterti guardare a ciglio asciutto: il ricordo che piccolo, al pensiero che come gli altri uomini dovevi morire pure tu, il nostro padre, solo e zitto nel mio letto la notte io di sbigottimento lacrimavo. Di quello che i miei occhi ora non piangono quell’ infantile pianto mi consola, padre, perché mi par d’aver lasciato tutta la fanciullezza in quelle lacrime. ************** Il mio cuore si gonfia per te, Terra, come la zolla a primavera. Io torno. I miei occhi sono nuovi. Tutto quello che vedo è come per la prima volta; e gli aspetti più umili e consunti, tutto m’ intenerisce e mi dà gioia. In te mi lavo come dentro un’acqua dove si scordi tutto di se stesso. La mia miseria lascio dietro a me. come la biscia la sua vecchia pelle. Terra, tu sei per me piena di grazia. Finché vicino a te mi sentirò così bambino, fin che la mia pena in te si scioglierà come la nuvola nel sole, io non maledirò d’essere nato. Io mi sono seduto qui per terra con le due mani aperte sopra l’erba, guardandomi amorosamente intorno. E mentre così guardo mi si bagna di calde dolci lagrime la faccia. ************* Taci, anima mia. Sono questi i giorni tetri che per inerzia si dura, i giorni che nessuna attesa illude. Come l’albero ignudo a mezzo inverno che s’attedia nell’ombra della corte, non m’aspetto di mettere più foglie e dubito d’averle messe mai. Nella folla che m’urta andando solo, mi pare d’esser da me stesso assente. E m’accalco ad udire dov’è ressa, sosto dalle vetrine abbarbagliato e mi volgo a frusciare d’ogni gonna. Per la voce d’un cantastorie cieco per l’improvviso lampo d’una nuca mi sgocciolan dagli occhi sciocche lagrime m’accendon negli occhi cupidigie. Ché tutta la mia vita è nei miei occhi: ogni cosa che passa la commuove come debole vento un’acqua morta. Non sono che uno specchio rassegnato. In me stesso non guardo perché nulla vi troverei… E, venuta la sera, nel mio letto mi stendo lungo come in una bara. ****************** Piccolo quando un canto d’ubriachi giungevami all’orecchio nella notte d’impeto su dai libri mi levavo. Come tratto di me, la chiusa stanza dall’aria della notte spalancavo e mi sporgevo fuor della finestra a bere il canto come un vino forte. Con che occhi voltandomi guardavo la camera e la casa dove già tutti i lumi erano spenti! Più d’una volta sulla fredda ardesia al vento che passava nei capelli alla pioggia che mi sferzava il viso versai delle lacrime insensate. Adesso quell’inganno anche è caduto. Ora so come arida è la bocca che canta spalancata verso il cielo. Pur se ancora mi desta nella notte quel canto d’ubriachi per la via ad ascoltar mi levo con mozzato in gola il fiato e corro ancora a mettere la faccia nel vento che i capelli mi scompigli. Rinnovare vorrei l’amara ebrezza e quel sottile brivido pel corpo; il ben perduto cui non credo più piangere come allora… Ma non m’escono che stente stolte lacrime oramai. ***************** Io che come un sonnambulo cammino vedendoti dinanzi a me trasalgo. Tu mi cammini innanzi lenta come una regina. Regolo il mio passo, io subito destato dal mio sonno, sulla sapiente musica del tuo. E possibilità d’amore e gloria mi s’affacciano al cuore e me lo colmano. Pei riccioletti folli d’una nuca per l’ala d’un cappello io posso ancora alleggerirmi nella mia tristezza. Io sono ancora giovane, inesperto, il cuore pronto a tutte le follie. Una luce si fa nel dormiveglia. Tutto è sospeso come in un’attesa. Non penso più. Sono contento e muto. Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo. *************** Tra umidi guanciali non mi spenga silenziosa qualche malattia come debole fiamma poco vento! Pellegrinando ritornare ai luoghi dove s’andò da piccoli col padre; chinarmi a toccar l’erba come si tocca il capo d’un bambino e sapere che è l’ultima volta; prender congedo dalla dolce terra, dolce così non mi sarà mai parsa… Poi mettere alla vita il suo sigillo. ************ Io t’aspetto allo svolto d’ogni via, Perdizione, ti cerco dentro gli occhi d’ogni donna che passa… Sosto dai baracconi nelle fiere a guardare la donna del serpente, la fanciulla che vola… Oh la gioia di dar tutto per nulla! di tenere in conto d’una paglia questa vita che è il solo nostro bene! Quella che tutti ebbero, che ride facile, che d’un muovere dell’anca dentro tutto il mio mondo mi dissolva, io prego che la strada m’attraversi. Io come il mendicante che a dispregio l’unico soldo che possiede getta per lei la vita getterei, per meno. ********** Nel mio povero sangue qualche volta fermentano gli oscuri desideri. Vado per la città solo la notte e l’odore dei fondaci al ricordo vince dell’erba sotto il sole. Persiane silenziose illuminate! finestra buia aperta sulla notte! negli atrii di pietra voce d’acqua! tra le bestie squartate lumicino alla madonna! ombre umane informi dietro i vetri nebbiosi dei caffè! Mi ritrovo nel vecchio del crocicchio che suona ritto gli occhi vaghi al cielo. Voluttà d’esser solo ad ascoltarmi! udire nella mia notte per ore avvicinarsi e dileguare i passi! Rasento le miriadi degli esseri sigillati in se stessi come tombe. E batto a porte sconosciute, salgo scale consunte da generazioni. La femmina che aspetta sulla porta l’ubriaco che rece contro il muro guardo con occhi di fraternità. E improvvisamente ecco trasalgo nell’andito malcerto in capo a cui occhi di sangue paiono i fanali le mie nari che fiutano il Delitto. Mi cresce dentro l’ansia di morire senza avere il godibile goduto senza avere il soffribile sofferto. La volontà mi prende di gettare come in un ingombro inutile il mio nome. con a compagna la Perdizione a cuor leggero andarmene pel mondo. ************** A volte sulla sponda della vita preso da un improvviso scoramento mi siedo; e dove vado mi domando, perché cammino… E penso la mia morte e mi vedo già steso nella bara troppo stretta fantoccio inanimato. Quant’albe nasceranno ancora al mondo dopo di noi! Di ciò che abbiam sofferto, di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore non rimarrà il più piccolo ricordo. S’incalzan le generazioni quali acque di fiume… Una mortale pesantezza il cuore m’opprime. Inerte già mi sembra essere come qualche antichissima rovina e guardare succedersi le ore, gli uomini mutare i passi, i cieli all’alba colorirsi, scolorirsi a sera… Magra dagli occhi lustri, dai pomelli accesi, la mia anima torbida che cerca chi le somigli trova te che sull’uscio aspetti gli uomini. Tu sei la mia sorella di quest’ora. Accompagnarti in qualche osteria di bassoporto e guardarti mangiare avidamente. E coricarmi senza desiderio nel tuo letto… Cadavere vicino ad un cadavere, bere dalla tua vista l’amarezza come la spugna secca beve l’acqua. Toccare le tue mani i tuoi capelli che pure a te qualcuno avrà raccolto in un piccolo ciuffo sulla testa; e sentirmi scostato dai tuoi occhi ostili, poveretta; e tormentarti domandandoti il nome di tua madre… Nessuna gioia vale questo amaro: poterti fare piangere, poter pianger con te… ****************** Talora nell’arsura cittadina un canto di cicala mi sorprende. E subito mi colma la visione di campagne prostrate nella luce; e stupisco che ancora al mondo sian alberi ed acque, tutte le cose ingenue della terra che bastavano un giorno a consolarmi… Con questo stupor sciocco l’ubriaco riceve in viso l’aria della notte. Ma poi che sento l’anima aderire ad ogni pietra della città sorda com’albero con tutte le radici, sorrido a me smarritamente e come in uno sforzo d’ali e gomiti alzo… *************** Lettera dall’osteria In istato di grazia, amico Volta, di notte da una bettola ti scrivo. Stato di grazia: ché non so più grande bene, di contemplare tra la nebbia del vino i paesaggi di cui rozz’arte ornò all’intorno i muri, e l’ostessa baffuta o la ridente ragazzotta che reca la terrina. Attaccare discorso con chi capita vicino; a chi sorride sorridere; voler a tutti bene; scantonato dal tempo e dallo Spazio, guardare il mondo come un padreterno. E uscire dalla bettola leggero come la mongolfiera che s’invola; sentir come tappeti di velluto i lastricati sotto il piede incerto; e voglia di cantare a squarciagola. Per il mondo cambiato mi piloto, nave che sbanda, al consueto porto. Fuggir di gatti innanzi al passo sordo. Rettangolo di luce prepotente, nel vicolo che fruscia di fantasmi. Acre odore, allo svolto, di cloruro. In questo mi rifaccio, amico Volta. Poi che dato non m’è d’amare alcuno, m’aggrappo come naufrago alle cose. Quante volte guardai come uno scampo i bastimenti ch’escono dal porto! New York, Calcutta, Londra: nomi immensi. Perdermi là sognavo, essere un altro, dimenticarmi sino del mio nome. Anche questa illusione ora è caduta; la mia vigliaccheria mi pesa al piede come palla di piombo al galeotto. E dunque così tragga la mia vita, oggetto di pietà per voi, di riso agli altri; e mi basta riscuotere il consenso dei magnanimi amici, gli ubriachi.. Finché giorno verrà, spero, ch’io esca di qui con passo fermo e m’incammini a qualche piazza vuota, a qualche buia acqua di fiume… Amico, so che Venere ti tiene ora in balìa. Felice te! ti corre il sangue nelle vene più gagliardo, ti si chiude la gola a volte a sosta come per morte il battere del cuore. Ma se tempo verrà – né venga mai – che del fuoco la cenere sol resti, e tu allora a cercar vieni l’amico. Lo troverai nella taverna che ha ai vetri stinte tendinette rosse e scritto per insegna : AL GOTO GROSSO. Io non ti chiederò di te di lei. Spingerò verso te colmo il bicchiere perché in silenzio con l’amico beva l'oblio. estate 1913 PARTE DODICESIMA CAPITOLO X CD219 [Versi a Dina] L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925) La poesia, § 7 1 Camillo Sbarbaro «Ora che sei venuta» In questa poesia l’intesa d’amore è finalmente raggiunta; i turbamenti e le ansie della giovinezza si placano in un rapporto sentimentale vissuto con la serenità di un’età non più giovanile. Il tono pacato, privo delle ruvidezze *espressionistiche dei testi di Pianissimo, testimonia del raggiunto equilibrio esistenziale di Sbarbaro, dell’appagamento tardivo dei suoi desideri; e tuttavia è impossibile comprendere l’intensità di questi versi senza porli in rapporto con quelli della prima raccolta: la ricerca d’amore – e di trasgressione – in essi compiuta trova infatti nei Versi a Dina un felice punto d’arrivo. da C. Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, a cura di G. Lagorio e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1985. 5 10 15 metrica Tre strofe composte, rispettivamente, da 7, 3 e 11 versi, con prevalenza di endecasillabi (quinari sono i vv. 3 e 12 e un settenario è il v. 1). 1-7 Ora che sei venuta, [ora] che sei entrata nella mia vita con passo di danza [–] simile a (quasi) [un] soffio di vento (folata) [che entra] in una stanza chiusa – mi mancano le parole e la voce per (a) festeggiarti, [o] bene [: amore] tanto atteso [: desiderato], e ormai (già) mi basta stare in silenzio accanto a te (tacerti vicino = tacere vicino a te). Il vuoto di parole che l’emozione crea nel poeta al sopraggiungere di un amore a lungo desiderato si riempie della presenza fisica della donna. Accanto a lei le parole non sono più necessarie. Con passo di danza: quasi ballando, con grazia e leggerezza. Quasi folata...chiusa: l’amore, raggiunto in età adulta, porta nella vita del poeta un rinnovamento simile a un’improvvisa ventata di aria fresca che entra in una stanza chiusa da tanto tempo. 8-10 Allo stesso modo (così) il verso (pigolìo) [degli uccelli] che stordisce (assorda) [: riempie di suono] il bosco al nascere dell’alba tace (ammutolisce) quando sul- Ora che sei venuta, che con passo di danza sei entrata nella mia vita quasi folata in una stanza chiusa – a festeggiarti,bene tanto atteso, le parole mi mancano e la voce e tacerti vicino già mi basta. Il pigolìo così che assorda il bosco al nascere dell’alba,ammutolisce quando sull’orizzonte balza il sole. Ma te la mia inquietudine cercava quando ragazzo nella notte d’estate mi facevo alla finestra come soffocato: che non sapevo,m’affannava il cuore. E tutte tue sono le parole che,come l’acqua all’orlo che trabocca, alla bocca venivano da sole, l’ore deserte,quando s’avanzavan puerilmente le mie labbra d’uomo da sé,per desiderio di baciare... l’orizzonte sorge (balza) il sole. La *similitudine paragona le parole del poeta al canto degli uccelli e l’arrivo della donna al sorgere del sole: le parole e il canto egualmente rivelano il bisogno del sole e dell’amore, annunciandoli, e tacciono al loro arrivo. L’*analogia tra le due dimensioni è sottolineata dall’uso del verbo “ammutolire”, che rimanda al v. 6, e del verbo “balzare”, più adatto al passo di danza della donna che al sorgere del sole. 11-21 Ma la mia ansia (inquietudine) cercava te quando [da] ragazzo mi avvicinavo (facevo) alla finestra nella notte d’estate quasi (come) senza respiro (soffocato): qualcosa che (che) non sapevo mi appesantiva (m’affannava) il cuore. E le parole che venivano da sole alla bocca, simili a (come) l’acqua che esce fuori (trabocca) da un bordo (all’orlo), sono tutte tue [: dedicate a te], [e a te sono dedicate] le ore solitarie (deserte), in cui (quando) le mie labbra d’uomo si protendevano (s’avanzavan) da sole (da sé) ingenuamente (puerilmente) per [il] desiderio di baciare... Questi versi esprimono con intensità la condizione irrequieta e ansiosa dell’adolescenza (cfr. ragazzo e puerilmente), in cui il desi- Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura derio erotico non è ancora in grado di confrontarsi con l’alterità. Il poeta offre alla donna amata da adulto i turbamenti di se stesso giovane e la dichiara inconsapevole destinataria di tutte le parole (le poesie) che allora affioravano in lui incontenibili. Mi facevo…soffocato: il vb. “fare” è qui usato nella forma rifl. e significa ‘muoversi verso una data direzione’. Come cerca l’aria colui che si sente soffocare, così il poeta cercava ristoro ai propri turbamenti adolescenziali nella frescura estiva notturna. Si noti il collegamento tra il v. 4 e i vv. 13-14: nella chiusa e soffocante stanza delI’adolescenza giunge infine una folata d’aria fresca vivificante; la donna, con la sua vitalità, è in grado di rinnovare la vita del poeta. Che non sapevo...cuore: il poeta è oppresso da qualcosa che neanche lui riesce a definire (le prime ansie amorose). Il vb.“affannare”, trans., benché riferito al cuore, rientra nell’ambito semantico individuato poco sopra. Quando…da sé: si noti come il contrasto tra l’avv. “puerilmente” (= in modo infantile) e il *sintagma labbra d’uomo esprima il contrasto proprio dell’adolescenza, in bilico tra sentimenti ancora infantili e pulsioni già adulte. [G. B. PALUMBO EDITORE] PARTE DODICESIMA CAPITOLO X L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925) La poesia, § 7 CD219 2 Camillo Sbarbaro ~ «Ora che sei venuta» esercizi Analizzare e interpretare 1 Indica come il poeta rielabori modernamente il tema tradizionale dell’ineffabilità dell’esperienza amorosa. 2 Confronta questa figura di donna con quella di «Io che come un sonnambulo cammino» (CD217). Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura [G. B. PALUMBO EDITORE] PARTE DODICESIMA CAPITOLO X CD218 [Pianissimo] L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925) La poesia, § 7 1 Camillo Sbarbaro «Esco dalla lussuria» In questa poesia s’intrecciano alcuni temi fondamentali della *poetica sbarbariana: l’amore ridotto a «lussuria», a vizio; la visione allucinata della città, il complesso rapporto con il padre; l’estraneità rispetto a se stesso e alla vita. Uscendo da una casa di prostituzione, il poeta attraversa le strade cittadine, deserte e spettrali, meditando sul «peccato» commesso: il cedimento alla passione erotica gli appare come una trasgressione alla legge morale rappresentata dal padre. Chiuso in un’indifferenza alla vita simile a quella delle strade che attraversa e delle case che ha intorno, egli non riesce a turbarsi neppure all’ipotesi dell’imminente morte del padre. Esco dalla lussuria da C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di L. Polato, Il Saggiatore, Milano 1983. 5 10 15 20 metrica Una strofa di trentatré versi seguita da una di tre, da un verso isolato e da un distico finale; la misura dell’endecasillabo è costantemente rispettata, benché divisa spesso in due parti, in presenza di versi a scalino. 1-8 Esco da [un] postribolo (dalla lussuria). M’incammino lungo le (pei = per i) strade (lastrici) che risuonano (sonori) nella notte [: al rumore dei passi]. Non ho rimorso né (e) turbamento [: per il piacere provato]. Sono soltanto (solo) immensamente tranquillo. [Ep]pure qualche cosa è cambiata dentro (in) me, qualcosa [è cambiata] fuori di me. Il poeta torna in strada dopo aver soddisfatto in un postribolo i propri desideri sessuali. Apparentemente sereno, egli avverte in realtà il peso della trasgressione commessa. Lussuria: ‘eccesso di sensualità degradata a vizio’; secondo la morale cattolica, è uno dei sette peccati capitali. Qui la voce indica il luogo in cui la lussuria viene praticata e cioè il postribolo (casa di prostituzione). L’espressione esco M’incammino pei lastrici sonori nella notte. Non ho rimorso e turbamento.Sono solo tranquillo immensamente. Pure qualche cosa è cambiato in me,qualcosa fuori di me. Ché la città mi pare sia fatta immensamente vasta e vuota, una città di pietra che nessuno abiti,dove la Necessità sola conduca i carri e suoni l’ore. A queste vie simmetriche e deserte a queste case mute sono simile. Partecipo alla loro indifferenza, alla loro immobilità. Mi pare d’esser sordo ed opaco come loro, d’esser fatto di pietra come loro. dalla lussuria non definisce però soltanto il gesto concreto del poeta di uscire dal postribolo, ma anche il suo desiderio profondo di purificarsi, di espiare il senso di colpa. Lastrici sonori: il lastrico è la pavimentazione a blocchi di pietra di una strada. Di notte, in assenza di rumori, i passi solitari del poeta fanno risuonare la strada. 9-20 Perché (ché) mi pare [che] la città sia diventata (fatta) immensamente grande (vasta) e vuota [: deserta], una città [fatta] di pietra che nessuno abiti, [una città] in cui (dove) soltanto (solo) la Necessità conduca i carri e suoni [: al campanile] le ore [che passano]. [Io] sono simile a queste vie simmetriche e deserte [e] a queste case silenziose (mute). Anch’io provo la (partecipo alla) loro immobilità. Mi pare di essere sordo e oscuro (opaco) [: insensibile] come loro [: le vie e le case], [mi pare] di essere fatto di pietra come loro. Il poeta descrive in questi versi la realtà esterna a sé (cfr. fuori di me, v. 8), per poi indagare, a partire dal v. 21, la propria condizione interiore (cfr. in me, v. 7). La città gli appa- Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura re un’immensa distesa disabitata, fatta di vie rigorosamente ordinate (simmetriche) ma deserte e di case vuote: un luogo in cui un principio inesorabile (la Necessità) muove i carri e il tempo, e nella cui immobile indifferenza il poeta s’identifica. In questi versi l’aridità di Sbarbaro trova alcune tra le sue definizioni più esplicite e lucide: il poeta è simile alle vie deserte, alle case mute, e ne condivide l’indifferenza e l’immobilità di pietra. Suoni l’ore: si allude ai rintocchi delle campane (o degli orologi). Vie simmetriche...case mute: immagine efficace a indicare la città come luogo della morte dell’io e della disintegrazione del rapporto uomo-natura: la disposizione ordinata delle vie secondo la logica geometrica appare fine a se stessa (le vie sono infatti deserte) e perciò insensata; le case, simbolo tradizionale dei valori familiari e dell’identità, appaiono mute, ossia silenziose come fossero anch’esse deserte, disabitate. La città fantasma è quella in cui si consuma l’esperienza di vita alienata del poeta e dell’uomo moderno. [G. B. PALUMBO EDITORE] PARTE DODICESIMA CAPITOLO X L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925) La poesia, § 7 CD218 2 Camillo Sbarbaro ~ «Esco dalla lussuria» 25 30 35 Ché il mio padre e la mia sorella sono lontani,come morti da tanti anni, come sepolti già nella memoria. Il nome dell’amico è un nome vano. Tra me e loro s’è interposto il mio peccato come immobile macigno. E se sapessi che il mio padre è morto, al qual pensando mi piangeva il cuore di essere lontano ora che i giorni della vita comune son contati, se mi dicesser che il mio padre è morto, sento bene che adesso non potrei piangere. Son come posto fuori della vita, una macchina io stesso che obbedisce, come il carro e la strada necessario. Ma non riesco a dolermene. Cammino pei lastrici sonori nella notte. 21-26 Perché (ché) mio padre e mia sorella sono lontani come [se fossero] morti da tanti anni, come [se fossero] già [stati] sepolti nella memoria. Il nome dell’amico è un nome insignificante (vano). Tra me e loro [: la famiglia, gli amici] si è messo in mezzo (interposto) il mio peccato, come [se fosse una] grossa pietra (macigno) immobile. Dalla descrizione della città, attraverso l’identificazione con essa, il poeta passa alla sfera degli affetti privati e del suo problematico rapporto con essi. La coscienza del peccato commesso si pone come un ostacolo insormontabile che divide il poeta dagli altri: padre e sorella sembrano figure irraggiungibili (lontani) appartenenti a un mondo passato di purezza, ormai sprofondato nella memoria, ed è negata la possibilità stessa dell’amicizia. Ché: si noti la correlazione tra questo ché e quello del v.9: entrambi introducono alle definizioni del turbamento annunciato al v.7.Il mio...la mia: il “nido” familiare si incarna nelle persone del padre e della sorella che qui compaiono come un’alternativa ormai irraggiungibile di intimità al gelido e spettrale anonimato cittadino. L’aggiunta dell’art. determ. prima dell’agg. possessivo relativo ai gradi di parentela è scorretto in ital., ma è in uso nel parlato di alcune regioni, in particolare nel toscano. Il mio peccato: l’abbandono al piacere dei sensi. 27-33 E se venissi a sapere (se sapessi) che è morto mio padre, pensando al quale mi dispiaceva (mi piangeva il cuore) di essere lontano [: da lui] ora che i giorni della vita [da vivere in] comune [: insieme] sono limitati (contati), se mi dicessero che mio padre è morto, sento bene [: sono sicuro] che adesso non potrei piangere. 34-39 Sono come posto fuori della vita, [come se fossi] io stes- so una macchina che obbedisce [: ai comandi], [come se fossi anch’io] necessitato (necessario) [: determinato dall’esterno, senza volontà] come il carro e la strada. Ma non riesco a dispiacermene (dolermene = dolermi di ciò).Cammino lungo le (pei = per i) strade (lastrici) che risuonano (sonori) nella notte. L’esistenza del poeta, estromessa dal flusso naturale della vita, si consuma in un’insensatezza che è immobilità psicologica, ovvero impossibilità di attuare mutamenti, di compiere scelte. Il poeta è necessario (cioè necessitato, mosso da meccanismi esterni incontrollabili) (cfr. nota ai vv. 9-20) come un oggetto inanimato (il carro e la strada), degradato dall’alienazione alla passività della macchina. Ma non riesco a dolermene: la vicenda di Sbarbaro è tutta in questo verso, il cui isolamento tipografico rimanda a quello esistenziale del poeta. guida alla lettura Metrica e sintassi: il ritmo del pensiero La sintassi di questo testo è perlopiù lineare, come avviene di norma in Sbarbaro. Tutti i versi, inoltre, sono riconducibili alla misura canonica dell’*endecasillabo. Da questi due ingredienti dovrebbe derivare un effetto di musicalità molto pronunciato. Sbarbaro lo evita ricorrendo a vari espedienti: frequenti *enjambements (vv. 2, 4, 6, 7, 9, 11, 12, 18, 21, 25, 28, 29, 32, 38), versi brevi e brevissimi (vv. 1, 2, 6, 8, 9, 18, 33, 38), periodi a tratti a loro volta brevi (vv. 18, 37-39). In questo modo, invece dell’aspetto lirico e musicale, a essere messo in risalto è l’aspetto narrativo e ragionativo del testo, con la definizione di un originale ritmo del pensiero, cioè di un ritmo adatto a seguire i trasalimenti delle associazioni mentali del soggetto. I temi espressionistici della città, del vagabondaggio e del sonnambulismo Anche in questo componimento è possibile registrare la presenza di tre tipici temi espressionistici: 1) la città, rappresentata in termini allucinati e onirici (cfr. soprattutto i vv. 9-17), con un riferimento alla simmetria (v. 14) che si ricollega a numerose manifestazioni della pittura espressionista; 2) il vagabondaggio del soggetto (il tema del cammi- nare ritorna ad apertura e a chiusura del testo, incorniciando le riflessioni in esso contenute); 3) il sonnambulismo (annunciato dall’indifferenza e dalla scarsa reattività dell’io ai vv. 14-20 e ripreso ai vv. 3436, in cui viene detto esplicitamente che il poeta si muove in stato di incoscienza). Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura [G. B. PALUMBO EDITORE] PARTE DODICESIMA CAPITOLO X L’età dell’imperialismo: le avanguardie (1903-1925) La poesia, § 7 CD218 3 Camillo Sbarbaro ~ «Esco dalla lussuria» guida alla lettura Il peccato, il senso di colpa e la figura paterna: un’interpretazione psicanalitica Accanto al tema del camminare, un altro tema ha particolare rilievo: quello dell’indifferenza. Essa è proclamata fin dall’inizio: «Non ho rimorso e turbamento. Sono / solo tranquillo immensamente» (vv. 4-5); ed è ripresa nella conclusione: «Ma non riesco a dolermene» (v. 37).Tuttavia, molti indizi suggeriscono che queste affermazioni corrispondono solo in parte alla verità. Intanto, si noti il brusco passaggio dal v. 5 al v. 6: in quel «Pure» (enfatizzato dalla collocazione a scalino), che incrina la tranquilla assenza di rimorso e di turbamento enunciata al v. 4, si annida la percezione profonda del senso di colpa. In quest’ottica, la negazione che precede («Non ho rimorso ecc...») suona quasi come una *negazione freudiana, cioè una falsa negazione (in realtà, il poeta prova rimorso). D’altra parte, l’apparizione della figura paterna, a partire dal v. 21, denuncia in modo chiarissimo la rilevanza del rapporto fra tra- sgressione e senso di colpa: la figura paterna rappresenta infatti l’imperativo morale, cioè il principio repressivo e la legge da cui dipende il senso di colpa stesso. La presenza, accanto al padre, della sorella (v. 21) rappresenta un simbolo di purezza e di innocenza che chiarisce la natura del senso di colpa: esso dipende dal cedimento alla «lussuria», posto infatti, come dato fondamentale, ad apertura del testo. Se però il desiderio sessuale equivale a una trasgressione della legge morale paterna, la sua realizzazione non può che comportare senso di colpa e bisogno di espiazione. In quest’ottica, l’indifferenza e l’aridità sbarbariane sono interpretabili, più che come una mancanza di stimoli vitali, come una loro repressione preventiva per sfuggire al senso di colpa e, nel contempo, come un segno della depressione a esso comunque successiva. Paesaggio cittadino e paesaggio interiore Fin dai primi versi Sbarbaro istituisce un rapporto di identificazione tra città e io. Si veda, ad esempio, la replicazione dell’avverbio «immensamente» ai vv. 5 e 10. Come vasta e vuota è la città, così è l’io del poeta; e ancora: come «di pietra» (v. 11), cioè inerte,“sorda e opaca”, è la città, così “pietrificato” («di pietra», v. 20) è l’io. Questa “mineralizzazione” dell’io conduce ad una condizione di estraneità insensata e necessitata (cfr. v. 36), immodificabile: un essere «fuori dalla vita» che per molti aspetti richiama il «silenzio di cosa» di Serafino Gubbio. esercizi Analizzare e interpretare 1 Quale cambiamento registra il poeta ai versi 7-8? 5 Come può essere interpretata la sua aridità? 2 Che aspetto assume la città ai suoi occhi? 6 3 Quale analogia esiste tra l’io e la città? Confronta il testo con la poesia precedente e chiarisci quali motivi hanno in comune. 4 Che legame c’è tra il motivo della lussuria e l’immagine del padre? Perché il poeta avverte la trasgressione sessuale come «peccato»? Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese Manuale di letteratura [G. B. PALUMBO EDITORE] NOT. SOC. LICH. ITAL., 17: 83-88 (2004) Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo l’intervista del giornalista Ferdinando Camon a Camillo Sbarbaro1 tratta da: “Il mestiere di poeta”. Garzanti (1982) CAMILLO SBARBARO “Non mi dia dell'illustre: ho la coscienza, esatta credo, dei miei limiti; la frase per mero accidente incappai nella fama di letterato, s'anche scherzosa, risponde al vero": l'umiltà di Sbarbaro, e la sua solitudine, per certi aspetti polemica e sdegnosa, mi risultava già dalle sue lettere. Da alcuni manoscritti avevo potuto farmi un'idea di come nascono nella sua mente quelle rapide intuizioni, morali estetiche critiche poetiche, che formano i Fuochi fatui: ciascun pensiero è seguito da un sì o da un no o da un punto interrogativo; gli appunti più recenti sono inseriti su strisce sottili di carta, incollate negli spazi bianchi. Sono spunti suscitati da qualche notizia o, più spesso, da qualche immagine attuale, ma attinti da un fondo costante di amara saggezza: tipico esempio mi pare quella noticina col lapis, sul silenzio di Pio XII, della quale si parla qui sotto, nel colloquio. Ho seguito una per una le correzioni e i pentimenti apportati da Sbarbaro sulle bozze: e ovunque mi pare di vedere la progressiva acquisizione della forma definitiva, insostituibile. Per esempio, in queste successive modifiche e sostituzioni, segnate a matita: “Restare giovane è la memoria che via via si spoglia da sé dell'ombra, non ritiene che punti di luce: i colori di un'alba, una fiammata di papaveri Giovane è chi scorda il resto. ” “Restar giovane è la memoria che via via si spoglia da sé dell'ombra, non ritiene che attimi di luce: i colori di un'alba, una fiammata di papaveri. Restar giovane è scordare.” Il dialogo che segue è il risultato di un lungo scambio epistolare; le risposte del poeta sono state ordinate (ma, naturalmente, immutate) in successione logica. 1 Alla figura di Camillo Sbarbaro (1888-1967), poeta e lichenologo ligure, il NOTIZIARIO ha dedicato altri spazi sui seguenti volumi: - 3, suppl. 1 (1990): 75-78 - Modenesi P., Le collezioni lichenologiche del Museo G. Doria di Genova (GDOR); - 6 (1993): 83-87 - Cormagi C., I licheni tra scienza e poesia. Omaggio a Camillo Sbarbaro; - 7 (1994): 9-11 - Valcuvia Passadore M., Alcune lettere di Camillo Sbarbaro conservate presso l’Istituto Botanico di Pavia. 83 A casa del poeta capito quindi solo per vederlo, finalmente. Con la stazioncina ferroviaria microscopica, rivestita di legno, senza orario dei treni, senza toilettes, con l'orto al fianco, il bigliettaio che viene a servirti col piatto di minestra in mano, e con le fitte case nuove, colorate, i bar, le locande, i ristoranti, il night, i sottopassaggi, Spotorno ha i due aspetti che si riscontrano ormai dovunque nei paesi di riviera e di montagna. La via di Sbarbaro è strettissima (un'auto non ci passa), scavata tra le case e i muri dei giardini, abitata da un popolo di gatti che quando arrivi si spostano di pochi passi; pigri strisciando ventre a terra. Lo studio di Sbarbaro non ha libri. Ci trovo una sola opera, questa: Foliicolous Lichens I, a revision of the taxonomy of the obligately foliicolous, Lichenised fungi by Rolf Santesson - Uppsala 1952. Ci sono naturalmente, i licheni, delizia e arma di Sbarbaro: arma, perché quando vuoi disfarti di un ospite noioso non ha — dice lui — che da fargli vedere minuziosamente la sua raccolta. Che è molto ridotta ormai. Tra le altre specie, il poeta mi fa vedere qualche esemplare di Apegrapha (a forma di virgolette come scrittura cuneiforme, sul tallo grigio; ma visto alla lente, il tutto sembra un altopiano con le cime arsicce e nerastre), di Ramalina reticulata della California, esili fili che d'un tratto si scindono in sottilissime reticelle. Sulla busta che contiene la Xanthoria parietina Sbarbaro ha scritto: "Rutilante di fatto, se non di nome." Camon Le sue prose e le sue poesie m'han dato l'immagine di lei come di un camminatore. E oggi come vive? Sbarbaro Sì, camminare è stato sempre il mio modo migliore di vivere. La Liguria litoranea l'ho percorsa e la conosco passo per passo dalla Spezia a Ventimiglia.. Solo da un anno (pare, per artrosi totale della spina dorsale) il camminare m'è diventato difficoltoso. Più che camminare, ormai mi sposto: pochi penosi passi al mattino per "fare la spesa". Abito con mia sorella (minore di me d'un anno) in questa casetta tra caseggiati (che finora ci lasciano un po' di vista sul paese e sul mare); una casetta che non è facile scovare; priva, non per povertà ma per elezione, d'ogni risorsa moderna: nè telefono nè radio nè televisione e nemmeno elettrodomestici. Scrivere o tentare di scrivere è la mia occupazione; lo è meno il leggere, a causa della vista. Non leggo quasi che libri di storia vissuta (i retroscena delle due guerre). Sono da sempre abbonato a Il Mondo. Dalla capitolazione della Germania, per alcuni anni non comprai più quotidiani; ora ricompro La Stampa. A cominciare dal '60 subii, ad anni alterni, delle depressioni nervose la cui esatta definizione è: tremenda pri-vazione d'ogni consenso con la vita. Camon Lei è così parco di notizie autobiografiche e di interviste! Non ha fiducia nella possibilità di uno scambio critico di idee? Sbarbaro Di interviste ne accettai una (Tempo settimanale) e non ebbi a rallegrarmene. Altre due, prive d'un minimo di serietà, mi vennero fatte di 84 sorpresa (su Gente e sulla Nazione, questa col tono di promuovere una colletta). Autobiografia è tutto quello che ho scritto; esauriente, mi pare, anzi abbondante di particolari superflui. Non saprei proprio che cosa aggiungerviCamon Lei ha scritto molto sui licheni. Che cos'è che l'ha attratto ad essi fin dall'inizio? Sbarbaro I licheni m'interessano come forma negletta — povera? — di vita. Sì, anche sui licheni scrissi sin troppo, sempre cercando una spiegazione a questo hobby: nessuna conoscenza specifica, solo curiosità, piacere visivo, simpatia: la stessa che mi fa avvicinare tutto quello che non è vistoso (persone, paesaggi) per gli altri senza importanza, misero. C'è nella terza edizione (Ricciardi) dei Fuochi fatui un ultimo scritto sui licheni, una specie di epicedio.2 Ma il mio interesse per essi è forse chiarito meglio dal primo scritto sull'argomento (Trucioli, Mondadori), specie dalle frasi: “preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita... L'albero vive d'una vita tanto più piena e armoniosa della nostra, che dargli un nome è limitarlo; mentre gli inconspicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli ad esistere.” Ritengo questa la causa intima della mia passione (estetica, non scientifica) per i licheni, durata quarant'anni e ormai caduta. Lo scorso anno, approssimandosi la terza depressione, regalai venti pacchi di licheni al Museo Civico di St. Nat. di Genova. Dell'erbario, non conservai che qualche campione a ricordo. Camon È stato affermato che lei anticipa ed esprime il rapporto di alienazione con gli altri e col mondo. Le pare che la sua alienazione si configuri un po' — o molto — diversa dalle altre degli autori contemporanei? 2 Ne riportiano qualche passo per comodità di chi legge (nota dell’autore – n.d.r.): “Ancorato ai licheni mi ha forse che non si sa che cosa siano, ma quel che più in essi mi commuove è la prepotenza di vita. Diversi di forma, di colore, di portamento e, per la scienza, di specie ( e quindi di genere, di famiglia, di tribù…), si pigiano in tanti sullo stesso pezzetto di corteccia o di pietra da essere costretti a scavalcarsi a invadersi a vicenda. …Misterioso poi come faccia il seme (visibile a forte ingrandimento e misurabile a millesimi di millimetro) a attecchire su rocce refrattarie a ogni altra vegetazione:…approda giusto sulla superficie più accetta alla specie, per mandar quindi in avanscoperta filiformi manine ad assaggiar intorno, col compito di predisporre il letto (o matrice) al lichene che ci si insedierà; e che, inerme come lo si figura, morde sia il granito, il basalto e, quando occorrerà difendere dalle intemperie la futura prole, li buca. Grazie al lichene non è luogo dove mi senta solo, visto che non è luogo arido e desolato che non sia per me vivo di presenze: un vivaio che tripudia al caldo dei tropici come nel gelo polare e neanche sfrattato dall’uomo perisce, ma emigra e, poco discosto, riprende a prosperare. …E fortuna d’essermi senza volere trovato quasi solo usufruttuario d’un territorio senza confini, in u mondo spezzettato ormai in tante proprietà private, dove non è più palmo che non sia chiuso da cancelli, cinto da filo spinato, ringhioso di cani da guardia; desideroso io solo di qualcosa che nessuno mi disputa, nessuno anzi vede (e se chi passa chiede, alla spiegazione sorride incredulo e commiserante).” 85 A me pare di sì: mi pare cioè che la sua alienazione si configuri non come "sentire gli altri come nemici" o come "incomunicabilità", ma come indecisione e bisogno di solitudine, che può portare fino all'appartarsi e all'estraniarsi (al limite, alla totale rinuncia o pura passività). Sbarbaro Ignoro il significato preciso di "alienazione". Certo non "sento gli altri come nemici"; e sono (eccetto nelle crisi depressive) sin troppo comunicativo. Se nei rapporti con la gente non vado molto oltre, è che prevedo, temo la delusione. In questo borgo dove vivo dal '51, conosco tutti, m'interesso ai casi di tutti, e tutti, pare, mi vogliono bene; non approfondisco però, lascio che i rapporti rimangano superficiali, di convivenza, perché l'esperienza m'insegna che è saggio fermarsi all'apparenza, accontentarsene. Camon Mi pare altresì che lei non scopra cause negative nelle cose, ma semplicemente rifiuti come non necessaria la ricerca delle cause prime. Sbaglio? Sbarbaro Non so se capisco la domanda e se quindi rispondo a tono. Se capisco: "la ricerca delle cause prime" non è che "la rifiuti come non necessaria", ma che la credo inutile, vana. Almeno per me. Camon Queste espressioni che iniziano i Trucioli: “Ormai somiglio a una vite che vidi un dì con stupore. Cresceva su un muro di casa nascendo da un lastrico. Trapiantata, sarebbe intristita. Così l'anima ha messo radice nella pietra della città e altrove non saprebbe più vivere...", mi ripropongono il problema di quale sia il tipo della sua alienazione o estraniazione. Dunque: estraniazione sì, ma nello stesso tempo bisogno degli altri, della città? o per città s'intende un agglomerato sordo e opaco, senza corrispondenza in noi, senza anima? Sbarbaro L'inizio dei Trucioli si riattacca (e anzi ripete e illustra) all'ultima poesia di Pianissimo. Aspirazione e insieme impossibilità di liberarmi dal fascino morboso della città. ”... E come / in uno sforzo d'ali i gomiti alzo.” La città era un vischio, ma il suo spettacolo m'era necessario, mi cibava di sensazioni, (Anche questo, fu proprio di un periodo.) Camon Un problema su cui da tempo ho meditato senza soluzione: la sua ironia come modo di rivolgersi agli altri. La sua visione del mondo non dovrebbe anche (o invece) generare una terrena pietà? Ossia: da quale costatazione nasce la sua ironia: forse degli altri come stupidamente, e colpevolmente, attaccati alla vita? Sbarbaro Anch'io sono stupidamente attaccato alla vita; l'ironia non poteva quindi (mi pare) nascere da questo. Non mi è chiaro di quale ironia si tratti; quella degli Ammaestramenti a Polidoro? 86 Camon Non solo. Penso a un certo tono diffuso, verso chi ostinatamente si illude e spera. Sbarbaro I motivi da cui nasce questa ironia verso gli altri (o meglio: distacco) mi sembrano quelli accennati in Addio a Pierangelo (p. 187 ultima edizione Mondadori): “Dagli uomini lo divideva il loro darsi daffare per cose di niun conto, l'obbedienza di macchine alla necessità, la stupidità dalla fronte di toro; ma soprattutto la maschera che la convivenza impone loro e che snatura l'ingenuità della loro indole al modo che la sporcizia in cui si rivolta rende irriconoscibile la larva.” Camon E mi pare che ci sia dell'acredine in quelle sue trasformazioni in grottesco: la femmina lenta in larva molliccia, la bocca dell'altra in mignatta, la inagra in atroce cavalletta. Sbarbaro Questo è un sentimento diverso. Il motivo fondamentale per cui "(il mio) occhio restò duro per l'uomo" (poesia Voze) resta quello qui indicato: più che ironia, è inimicizia, incomprensione, distacco. Nell'esempio che ora lei mi cita, la malevolenza verso le femmine che finiscono di circolare mentre gli uomini ricominciano la loro giornata di fatica, è espressione di sgomento, di incubo; la malevolenza è per le sfruttatrici. Comunque, qualcosa di contingente a quell'alba. Camon Leggo su Elsinore (n. 13, 1965): “Col bisogno di questa rima logica e sintattica che compensava la rinuncia a quella fonica screditata, mi spiego il procedere a singhiozzo, a piccoli sussulti, della mia prosa, la sua andatura esitante.” Bisogno dunque del periodo conchiuso. Ma non potrebbe essere anche amore per i! frammento, cioè rifiuto di organizzare la realtà? limitarne il contatto a un rapido corto circuito? Sbarbaro frammento. Amore per il frammento sì, certo, anzi del frammento nel Camon Ho letto, nel manoscritto medito dei suoi ultimi Fuochi fatui: “Riepilogando: forse che poteva Pio XII, suo Vicario in terra, rompere il silenzio di Dio?” Si può vedere qui l'indiretta confessione di un'origine metafisica del suo isolamento? Sbarbaro Non credo: il mio isolamento non ha, certo, motivo metafisico, è costituzionale. Camon Lei ha certe descrizioni particolareggiate di vie petrose, inanimate, di squallide mura echeggiano, strade incassate fra case: scrivendole, aveva presente qualche quartiere? Sbarbaro Tutti I miei paesaggi sono petrosi, ma nascono dal didentro. In essi mi riconosco, mi specchio cioè (per esempio Verezzi), con sollievo. 87 Camon Perché l'estraneità diventa conforto nei versi: “Un'impressione strana m'accompagna / sempre in ogni mio passo e mi conforta: / mi pare di passar come per caso / da questo mondo”? In altri poeti, la estraneità porta alla follia e alla disperazione. Sbarbaro Se è vero che "passo di qui per caso", il male è transitorio; nè un prima nè un dopo; è questo che mi conforta, È un'interpretazione di cui però non sono sicuro. Può darsi che quando li scrissi, quei versi avessero un significato vagamente metafisico, ma non posso più dire. Non ricomparvero più nei successivi rifacimenti. Camon Da quale critico si giudica particolarmente ben capito, e per quali intuizioni? Sbarbaro Da Squarotti, forse perché le sue interpretazioni mi sono chiare, anche se non sempre le condivido. Ma siccome non conservo critiche, una volta scoree (nè libri), non sono in grado di dire quali "intuizioni critiche" mi siano parse esatte. 88