forever - Club degli Editori

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forever - Club degli Editori
BROSSURA CON ALETTE
“Il lupo levò il capo e ululò.
Fu un gemito lungo, lamentoso,
triste e distinto. Dopo un istante
schiusi la bocca e ululai anch’io.
Insieme, le nostre voci erano più forti.
Gli altri lupi si premettero contro
di noi, prima uggiolando, poi ululando.
Non esisteva luogo
nel bosco in cui quel richiamo
non potesse giungere.”
MAGGIE STIEFVATER
maggiestiefvater.com
MAGGIE STIEFVATER
∫
Maggie Stiefvater ha trent’anni e vive in
Virginia insieme al marito e ai due figli,
due cani e un gatto. Pittrice e illustratrice, da anni scrive con successo libri per
giovani adulti a sfondo fantasy. La trilogia dei lupi di Mercy Falls ha conquistato migliaia di lettori in tutto il mondo.
∫
“Brillante e potente.”
Publishers Weekly
forever
dopo Shiver e Deeper,
l’ultimo episodio della saga dei lupi
di Mercy Falls.
forever
SEI dAVVERo
chI cREdI
dI ESSERE?
813964
r o manzo
In copertina:
Elaborazione da immagini
© Dreamstime e © Istockphoto
cl_FOREVER_813964_ES
È arrivata una nuova primavera a Mercy
Falls. Grace, che per sopravvivere ha dovuto cedere al suo animo di lupo, continua a mutare forma. Sam, saldo nella sua
pelle di umano, la cerca. Perché la ama e
conosce il dolore delle metamorfosi.
Quando nel bosco viene ritrovato il cadavere di una ragazza la situazione precipita: il branco è in pericolo, Grace è in
pericolo, e Sam deve tentare di salvarli,
deve salvare Grace, a qualunque costo…
BROSSURA CON ALETTE
“Il lupo levò il capo e ululò.
Fu un gemito lungo, lamentoso,
triste e distinto. Dopo un istante
schiusi la bocca e ululai anch’io.
Insieme, le nostre voci erano più forti.
Gli altri lupi si premettero contro
di noi, prima uggiolando, poi ululando.
Non esisteva luogo
nel bosco in cui quel richiamo
non potesse giungere.”
MAGGIE STIEFVATER
maggiestiefvater.com
MAGGIE STIEFVATER
∫
Maggie Stiefvater ha trent’anni e vive in
Virginia insieme al marito e ai due figli,
due cani e un gatto. Pittrice e illustratrice, da anni scrive con successo libri per
giovani adulti a sfondo fantasy. La trilogia dei lupi di Mercy Falls ha conquistato migliaia di lettori in tutto il mondo.
∫
“Brillante e potente.”
Publishers Weekly
forever
dopo Shiver e Deeper,
l’ultimo episodio della saga dei lupi
di Mercy Falls.
forever
SEI dAVVERo
chI cREdI
dI ESSERE?
813964
r o manzo
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È arrivata una nuova primavera a Mercy
Falls. Grace, che per sopravvivere ha dovuto cedere al suo animo di lupo, continua a mutare forma. Sam, saldo nella sua
pelle di umano, la cerca. Perché la ama e
conosce il dolore delle metamorfosi.
Quando nel bosco viene ritrovato il cadavere di una ragazza la situazione precipita: il branco è in pericolo, Grace è in
pericolo, e Sam deve tentare di salvarli,
deve salvare Grace, a qualunque costo…
BROSSURA CON ALETTE
“Il lupo levò il capo e ululò.
Fu un gemito lungo, lamentoso,
triste e distinto. Dopo un istante
schiusi la bocca e ululai anch’io.
Insieme, le nostre voci erano più forti.
Gli altri lupi si premettero contro
di noi, prima uggiolando, poi ululando.
Non esisteva luogo
nel bosco in cui quel richiamo
non potesse giungere.”
MAGGIE STIEFVATER
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Maggie Stiefvater ha trent’anni e vive in
Virginia insieme al marito e ai due figli,
due cani e un gatto. Pittrice e illustratrice, da anni scrive con successo libri per
giovani adulti a sfondo fantasy. La trilogia dei lupi di Mercy Falls ha conquistato migliaia di lettori in tutto il mondo.
∫
“Brillante e potente.”
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forever
dopo Shiver e Deeper,
l’ultimo episodio della saga dei lupi
di Mercy Falls.
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È arrivata una nuova primavera a Mercy
Falls. Grace, che per sopravvivere ha dovuto cedere al suo animo di lupo, continua a mutare forma. Sam, saldo nella sua
pelle di umano, la cerca. Perché la ama e
conosce il dolore delle metamorfosi.
Quando nel bosco viene ritrovato il cadavere di una ragazza la situazione precipita: il branco è in pericolo, Grace è in
pericolo, e Sam deve tentare di salvarli,
deve salvare Grace, a qualunque costo…
BROSSURA CON ALETTE
“Il lupo levò il capo e ululò.
Fu un gemito lungo, lamentoso,
triste e distinto. Dopo un istante
schiusi la bocca e ululai anch’io.
Insieme, le nostre voci erano più forti.
Gli altri lupi si premettero contro
di noi, prima uggiolando, poi ululando.
Non esisteva luogo
nel bosco in cui quel richiamo
non potesse giungere.”
MAGGIE STIEFVATER
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Maggie Stiefvater ha trent’anni e vive in
Virginia insieme al marito e ai due figli,
due cani e un gatto. Pittrice e illustratrice, da anni scrive con successo libri per
giovani adulti a sfondo fantasy. La trilogia dei lupi di Mercy Falls ha conquistato migliaia di lettori in tutto il mondo.
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“Brillante e potente.”
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È arrivata una nuova primavera a Mercy
Falls. Grace, che per sopravvivere ha dovuto cedere al suo animo di lupo, continua a mutare forma. Sam, saldo nella sua
pelle di umano, la cerca. Perché la ama e
conosce il dolore delle metamorfosi.
Quando nel bosco viene ritrovato il cadavere di una ragazza la situazione precipita: il branco è in pericolo, Grace è in
pericolo, e Sam deve tentare di salvarli,
deve salvare Grace, a qualunque costo…
Capitolo uno
• grace •
E così, sono un licantropo e una ladra.
Avevo ripreso fattezze umane al limitare di Boundary Wood,
ma non avevo idea di quale margine fosse – il bosco era sconfinato, si estendeva per miglia e miglia. Distanze che un lupo
copriva in un nonnulla. Non una ragazza. Era una giornata tiepida e tersa, una giornata magnifica per gli standard del Minnesota. A meno di non essere nudi e smarriti, ovviamente.
Ero dolorante. Avevo la sensazione che le mie ossa fossero
state modellate come serpenti di plastilina, che fossero tornate
ossa e poi di nuovo duttili. Avevo prurito dappertutto, in particolare alle caviglie, ai gomiti e alle ginocchia. Mi fischiava un
orecchio. Mi sentivo confusa e svanita. Avevo una strana sensazione di déjà vu.
Ad accrescere il disagio c’era la consapevolezza di non essere
solo nuda e smarrita nel bosco, ma di trovarmi nuda in prossimità di una zona abitata. Con le mosche che mi ronzavano attorno svogliatamente, mi alzai in piedi e diedi un’occhiata in
giro. Al di là degli alberi s’intravedeva il retro di una fila di villi11
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ni. Ai miei piedi c’era un sacchetto dell’immondizia lacero, il
cui contenuto giaceva sparpagliato a terra. A quanto pareva, i
rifiuti erano stati la mia colazione. Non avevo voglia di pensarci.
A dirla tutta, non avevo voglia di pensare a nulla. I pensieri
iniziavano a riaffiorare a singhiozzo, li mettevo a fuoco quasi
fossero sogni per metà dimenticati. E mentre i pensieri tornavano alla mente ricordai di aver già sperimentato quell’attimo,
lo stordimento che seguiva il riscoprirmi umana. In decine di
ambienti differenti. Poco alla volta mi sovvenne che non era la
prima volta che mi trasformavo quell’anno. E avevo scordato
tutto quel che c’era stato nel mezzo. Be’, quasi tutto.
Serrai le palpebre. Potevo vedere il suo viso, gli occhi gialli,
i capelli scuri. Ricordavo come la sua mano accogliesse la mia.
Ricordavo di essermi seduta accanto a lui in un’auto che mi
pareva non esistesse più.
Eppure non sapevo richiamare alla mente il suo nome. Come avevo potuto dimenticarne il nome?
In lontananza, i pneumatici di un’auto percorrevano il quartiere. Il veicolo si allontanò e anche il rumore svanì, un promemoria di quanto vicino fosse il mondo reale.
Riaprii gli occhi. Non riuscivo a pensare a lui. Non volevo.
Sarebbe tornato. Lui e il resto. Dovevo concentrarmi sul luogo
in cui mi trovavo, sul momento che stavo vivendo.
Avevo due alternative. La prima consisteva nel rifugiarmi
nel tiepido bosco primaverile con la speranza di ritornare lupo
quanto prima. Ma c’era un problema: al momento mi sentivo in
tutto e per tutto umana. Perciò non restava che la seconda opzione, ossia affidarmi alla compassione delle persone che vivevano nel villino azzurro di fronte a me. Dopotutto, dovevo aver
già approfittato del loro bidone dell’immondizia e, a giudicare
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dal suo aspetto, anche di quello dei vicini. Certo, anche
quell’ipotesi comportava dei rischi. D’accordo, mi sentivo
umana, ma chi poteva dire quanto sarebbe durata? Ero nuda e
venivo dal bosco. Come lo avrei spiegato senza correre il rischio di finire in ospedale o al commissariato?
Sam.
Il nome riemerse di colpo, portando con sé migliaia di altre
cose: poesie sussurrate timidamente all’orecchio, mani che
stringevano la chitarra, la sagoma dell’ombra che gli si formava
sotto la clavicola, il modo in cui lisciava con le dita le pagine del
libro mentre leggeva. Il colore delle pareti della libreria, il suono della sua voce mormorata sul mio cuscino, la lista di buoni
propositi che ciascuno di noi aveva stilato. E il resto: Rachel,
Isabel, Olivia. Tom Culpeper che gettava un lupo morto ai piedi miei, di Sam e di Cole.
I miei genitori. Oh, Dio. Rammentai il litigio in cucina riguardo a Sam mentre il lupo dentro di me tentava di prendere
il sopravvento. Rammentai di aver riempito lo zaino di vestiti
ed essere fuggita a casa di Beck. Rammentai la sensazione di
soffocare con il mio stesso sangue...
Grace Brisbane.
Mentre ero lupo avevo dimenticato ogni cosa. E mi sarebbe
successo lo stesso ogni volta.
Facevo fatica a stare in piedi, così mi accovacciai e cinsi le
gambe nude con le braccia. Un ragno marrone mi zampettò
sulle dita dei piedi prima che avessi il tempo di reagire. Sopra
di me, gli uccelli seguitavano a cantare. Caldi sprazzi di chiarore, lì dove i raggi del sole penetravano senza incontrare ostacoli, davano vita a spettacoli di luce sul fondo del bosco. Una tiepida brezza primaverile mormorava tra le foglie nuove, verdi
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dei rami. Attorno a me gli alberi sospiravano. In mia assenza la
natura si era evoluta come se nulla fosse, e ora ero lì, in una situazione tanto assurda da sembrare irreale, senza sapere più a
quale mondo appartenessi, né cosa fare.
Poi un venticello mite che profumava impercettibilmente di
biscotti al formaggio mi scompigliò i capelli e mi suggerì una
possibilità. In un villino di mattoni rossi qualcuno, incoraggiato dal bel tempo, aveva steso del bucato ad asciugare. Gli abiti
gonfiati dal vento catturarono la mia attenzione. Una fila di opportunità appese con cura. Chiunque vivesse in quella casa aveva un paio di taglie più di me, ma mi parve che uno dei vestiti
avesse un laccetto attorno alla vita. Poteva funzionare. Anche
se questo significava rubare gli abiti a un’altra persona.
Avevo compiuto parecchie azioni capaci di suscitare la disapprovazione di un bel po’ di gente, ma tra queste non rientrava il
furto. Non così. Il vestito buono di qualcuno che con ogni probabilità lo aveva steso ad asciugare dopo averlo lavato a mano.
E assieme al vestito c’erano biancheria intima, calzini e federe, e ciò significava che forse la famiglia era così povera da non
potersi permettere un’asciugatrice. Ero davvero pronta ad arraffare l’abito della domenica di un altro essere umano pur di
tornare a Mercy Falls? Era questo il genere di persona che ero
diventata?
L’avrei restituito. Una volta raggiunto il mio scopo.
Strisciai lungo il limitare del bosco alla ricerca di una visuale
migliore sulla preda; mi sentivo pallida ed esposta. Il profumo
di biscotti al formaggio – ciò che doveva avermi attirata mentre
ero lupo – suggeriva che in casa ci fosse qualcuno. Chi avrebbe
mai potuto ignorare quel genere di odore? Ora che lo avevo
fiutato era arduo pensare ad altro. Mi costrinsi a dedicarmi alla
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questione più imminente. Chi aveva preparato i biscotti in quel
momento stava forse guardando fuori? Oppure i vicini? Con
un po’ di astuzia sarei riuscita a non farmi vedere.
Il cortile posteriore della mia sfortunata vittima era il tipico
retro delle abitazioni a ridosso di Boundary Wood, disseminato
delle solite cose: tutori metallici a spirale per i pomodori, un
barbecue costruito a mano, antenne di televisori i cui cavi non
portavano da nessuna parte. Un tagliaerba per metà coperto da
una tela cerata. Una piscina per bambini di plastica crepata e
ricolma di sabbia dall’aria puzzolente, nonché un’intera famiglia di sedie da giardino foderate di plastica a girasoli. Un mucchio di roba, ma nulla di utile per coprirsi.
Erano stati sbadati quanto bastava perché un lupo rubasse
loro l’immondizia dai gradini sul retro. C’era da sperare che
fossero abbastanza sbadati da lasciare che una studentessa delle
superiori rubasse qualche vestito dal bucato steso ad asciugare.
Inspirai a fondo e per un solo, glorioso istante desiderai di
dovermi misurare con qualcosa di semplice, come risolvere una
verifica a sorpresa di matematica oppure strappare un cerotto
da una gamba non depilata, poi sfrecciai nel cortiletto. Da
qualche parte un cane si mise ad abbaiare furiosamente. Afferrai una manciata di vestiti.
Finì tutto prima ancora che me ne rendessi conto. Mi ritrovai nel bosco con l’abito rubato appallottolato tra le mani e il
respiro affannato, nascosta tra quelli che parevano arbusti di
sommacco velenoso.
All’interno del villino qualcuno gridò all’indirizzo del cane:
«Zitto, se non vuoi finire fuori con l’immondizia!»
Attesi che il cuore rallentasse. Poi, con un misto di senso di
colpa e trionfo, infilai il vestito dalla testa. Era blu, a fiori, e a
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dirla tutta era un po’ troppo leggero per la stagione e ancora
umidiccio. Dovetti stringerlo per bene attorno alla vita perché
mi andasse dignitosamente. Ero quasi presentabile.
Quindici minuti più tardi avevo preso in prestito anche un
paio di zoccoli dai gradini sul retro di un altro villino lì nei paraggi (dovevano averli lasciati fuori perché il tacco di una delle
calzature era sporco di cacca) e me ne andavo a zonzo con l’aria
indifferente, come se abitassi lì. Servendomi dei sensi lupeschi
e lasciando che mi guidassero proprio come Sam mi aveva insegnato tempo addietro, fui in grado di creare nella mia mente
un’immagine dei dintorni molto più dettagliata di quanto non
riuscissi a fare con lo sguardo. Malgrado tutte le informazioni
di cui disponevo, però, non avevo idea di dove mi trovassi. Solo
di una cosa ero certa: non ero affatto vicino a Mercy Falls.
Ma avevo una sorta di piano. Andarmene dal quartiere prima che qualcuno vedesse allontanarsi il proprio vestito e i propri zoccoli. Dovevo trovare un negozio o un punto di riferimento grazie al quale orientarmi, il tutto prima che gli zoccoli
mi facessero venire le vesciche. Dopodiché avrei dovuto trovare un modo per tornare da Sam.
Non era il migliore dei piani, ma era tutto ciò che avevo.
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Capitolo due
• isabel •
Erano i martedì a scandire il corso del tempo.
Tre martedì alla chiusura estiva della scuola.
Sette martedì dalla scomparsa di Grace dall’ospedale.
Cinquantanove martedì al diploma, dopo il quale avrei potuto levare le tende da Mercy Falls, Minnesota.
Sei martedì dall’ultima volta che avevo visto Cole St. Clair.
A casa Culpeper i martedì erano il giorno peggiore della settimana. Giorno di bisticci. Be’, in casa nostra ogni giorno era
buono per bisticciare, ma sui martedì si poteva scommettere a
occhi chiusi. A quasi un anno di distanza dalla morte di mio
fratello Jack, dopo una maratona di urla della durata di due ore
che si era estesa per tre piani e una minaccia di divorzio da parte di mia madre, mio padre aveva ripreso a seguire con noi una
terapia familiare. Questo significava che ogni mercoledì era
identico al precedente: mia madre metteva il profumo, mio padre spegneva una volta tanto il telefono, e io mi sedevo sul sedile posteriore del gigantesco SUV blu di papà tentando di fingere che, lì dietro, il tanfo di lupo morto fosse ormai svanito.
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Di mercoledì davamo tutti il meglio di noi. Le ore immediatamente successive alla terapia – cena fuori a St. Paul, un po’ di
shopping o un film per famiglie – erano belle e perfette. Dopodiché, di ora in ora, iniziavamo a distaccarci da quel quadretto
idilliaco fino a giungere al martedì successivo, quando erano
previste esplosioni e scazzottate.
Di solito di martedì cercavo di svignarmela.
Quel particolare martedì fui vittima della mia stessa indecisione. Una volta tornata a casa da scuola non riuscii a decidere se
chiamare Taylor o Madison per uscire. La settimana prima ero
uscita con entrambe e certi loro amici; avevo speso duecento dollari per comprare un paio di scarpe per mia madre e cento per
una maglietta per me, inoltre avevo permesso ai ragazzi di scialacquare un terzo di quella cifra per dei gelati che non avevamo
mangiato. Spese che già sul momento mi erano sembrate insensate – ma che, visto il mio utilizzo disinvolto della carta di credito,
erano quantomeno servite a scioccare Madison – e che continuavano a sembrarmi insensate adesso, mentre le scarpe giacevano
abbandonate ai piedi del letto di mia madre, la maglietta mi stava
in modo strano, e io stentavo a ricordare i nomi dei ragazzi; tutto
ciò che ricordavo era che il nome di uno di loro iniziava per J.
A quel punto non restava che dedicarmi all’altro mio passatempo preferito: montare sul SUV, parcheggiare in una qualsiasi stradina ricoperta di erbacce ad ascoltare musica e svuotare
la mente mentre fingevo di essere altrove. Di regola era un
buon modo per ingannare il tempo e mi permetteva di rincasare quando il litigio si era ormai esaurito, subito prima che mia
madre andasse a letto. Ironia della sorte, quando vivevo in California e non avevo bisogno di uscire di casa, avevo un milione
di scuse in più per farlo.
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Mi sarebbe piaciuto chiamare Grace per una passeggiata in
centro, oppure per starmene sul divano mentre lei studiava.
Chissà se sarebbe mai più stato possibile.
Impiegai così tanto per valutare le opzioni che finii per perdere ogni opportunità di fuga. Ero nell’ingresso – tra le mani
un cellulare che non attendeva altro che i miei ordini – quando
mio padre trotterellò giù dalle scale e mia madre si affacciò dalla porta del soggiorno. Ero intrappolata tra due fronti meteorologici. Non mi restava che prepararmi alla catastrofe imminente e sperare che lo gnomo da giardino non venisse spazzato via.
Mi tenni forte.
Mio padre mi diede un buffetto sulla testa. «Ehi, zucchina.»
Zucchina?
Socchiusi gli occhi mentre mi passava accanto, energico e
possente, un gigante nel suo castello. Ebbi l’impressione di essere tornata indietro di un anno.
Papà si fermò accanto a mia madre, sotto l’arco della porta.
Mi aspettavo che si scambiassero delle frecciatine. Invece si
diedero un bacio.
«Cosa ne avete fatto dei miei genitori?» chiesi.
«Ah!» esclamò mio padre con un tono che avrei definito
gioviale. «Ti sarei grato se prima dell’arrivo di Marshall indossassi qualcosa che ti copra tutta la pancia. A meno che tu non
stia andando di sopra a studiare.»
Mamma mi lanciò un’occhiata che significava: Te l’avevo
detto, anche se, in realtà, quando mi aveva vista tornare da
scuola, non aveva detto nulla.
«Intendi Marshall il membro del Congresso?» domandai.
Mio padre aveva diversi amici del college che adesso occupavano posti di rilievo, ma da quando Jack era morto aveva smesso
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