- Guaraldi.LAB

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ISBN 978-88-6927-103-8
€ 12,90
Roberto Barbolini
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Racconti perversi
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Roberto Barbolini è tra gli scrittori italiani più
riconosciuti. Tra i suoi libri ricordiamo Piccola
città bastardo posto (1998) e L’uovo di Colombo
(2014), editi da Mondadori e Ricette di famiglia
(Garzanti, 2011). Ha introdotto i Romanzi e
racconti di Dashiell Hammett per l’edizione de
“I Meridiani” Mondadori. Giornalista, ha lavorato a il Giornale di Indro Montanelli e a Panorama.
Attualmente collabora con QN - Quotidiano Nazionale.
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Roberto Barbolini
Guaraldi
Guaraldi
Il Divino Marchese, paladino di ogni lussuria,
vaga per la pianura Padana, annoiato, cercando di
realizzare l’estremo vizio; Sherlock Holmes risolve
“uno dei più singolari” casi della sua “mirabolante
carriera d’investigatore” confrontandosi con l’eccentrico scrittore (e mirabile passseggiatore) Robert Walser; un gruppo di spiantati via Facebook
rievoca l’era di Woodstock e di Jimi Hendrix e
i preti vanno in giro con la pistola, azzannano i
pitbull e sembrano sbucare da un violentissimo
hard boiled. La vera perversione di Roberto Barbolini, in queste cinque rotonde storie perverse, è
stilistica: con superba capacità passa dal racconto
storico allo sketch frugale, dal gergo telematico al
dettato ottocentesco. Invitando allo stesso tavolo
Sade e Conan Doyle, Raymond Chandler e Giovannino Guareschi, Pier Vittorio Tondelli, Petrarca e i Pink Floyd. Più che una raccolta di racconti,
questo è un abbecedario per capire la vertiginosa
possibilità del narrare.
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I Nazirei
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© 2015 by Guaraldi S.r.l.
Sede legale e redazione: via Novella 15, 47922 Rimini
Tel. 0541.742974/742497 - Fax 0541.742305
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Racconti perversi
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Una storia libertina
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È francese, viaggia in incognito, si ferma una notte sola.
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Modena, dove poi mi recai a dormire, è una città grande e bella.
La strada principale, nel gusto di quella di Parma, è lunga, larga e
ornata di belle costruzioni.
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Domani partirà per Firenze. Neanche il tempo di disfare i bagagli e già s’è messo in caccia assieme a La Jeunesse.
«Voglio provare emozioni, si tratta di scuotere la massa dei nostri nervi con lo choc più violento che sia possibile…».
La Jeunesse, il cui vero nome è Carteron, detto Martin Quiros,
annuisce rassegnato. Anche stasera dovrà procurare al suo padrone un po’ di divertimento.
Fa caldo, il caldo brodoso di fine luglio. Le donne passeggiano
scollate sotto i portici. Il francese le guarda voglioso e annoiato
allo stesso tempo. Detesta il Medioevo, così si lascia alle spalle
il vecchio duomo con le sue inutili giostre di paladini, i mostri
faceti sulle gargolle, la facciata romanica dove campeggiano le
storie bibliche del peccato originale con la cacciata dal Paradiso Terrestre e l’uccisione di Abele da parte di Caino. Svolta a
sinistra del corso principale e, percorrendo la futura via Farini,
arriva quasi davanti al palazzo ducale: un esempio di barocco
alla Bernini cacciato a forza in una piazza troppo angusta per
contenerlo. Ma tutto sommato lo trova charmant.
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È abbastanza spazioso e l’architettura mi sembra bella. Di fronte
all’ala destra vi è la statua del principe su un piedistallo di marmo: è fatta con una pietra estremamente bianca.
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Sulla sinistra, poco prima che le livide occhiaie del portico inquadrino il palazzo, c’è la salumeria più antica della città che
la famiglia Giusti, stando all’insegna, si tramanda dal 1605.
Dal suo metro e sessantotto scarso, ma ben proporzionato, il
francesino ammicca a La Jeunesse: «Che ne diresti di un bel
maialino vivo?».
Già s’immagina il lattonzolo in abito da suora, col soggolo e il
velo: un prete spretato gli sta impartendo una benedizione blasfema con tanto di crocefisso mentre lui – Alphonse o Aldonze che
dir si voglia – frusta la sgualdrina di turno prima di sodomizzarla
con un grosso dildo e poi anche di persona. Ma la fantasia porcofila dura troppo poco: beati i tempi in cui la blasfemia, l’empietà,
la masturbazione nel calice riuscivano ancora ad eccitarlo.
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Se non vi è più alcun Dio, a cosa serve insultarne il nome? A cosa,
mai, insozzare e deridere le sacre verità?
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Lo riprende la noia.
La Jeunesse osserva preoccupato il viso pallido del suo padrone. Ha paura che ripiombi in quel genere di disperazione che
va sotto il nome di mal d’amore. Proprio lui: il cinico, l’ateo,
il vizioso, neanche due anni fa ha rischiato di andare all’altro
mondo per una suorina gattamorta: la bella canonichessa sorella di sua moglie.
Un fuoco di paglia? Senza dubbio. E tuttavia un fuoco divorante, una cotta da perderci la testa. E l’inizio della sua rovina.
Quand on lira ceci je n’existerai plus, mon cher amour…
Ha tentato il suicidio come uno sbarbatello qualsiasi, alla faccia
della sua filosofia. Qual è mai il giovanotto che non fa qualche
sciocchezza?
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Ormai ha trentacinque anni, ma non sembra rendersene conto.
Per dieci giorni è rimasto tra la vita e la morte, invocando il
nome di Anne-Prospère. Se ne vergogna ancora, mentre l’immagine del porcellino vestito da suora assume improvvisamente
le fattezze di lei. Allora scoppia a ridere ma d’un riso verde che
lo agghiaccia dentro.
Alle soglie del ghetto, davanti alla chiesa di San Giorgio posta a
monito degli ebrei per incitarli alla conversione, gli riesplode la
voglia di andare a puttane in quella città sconosciuta. E non poi
così charmant, a mano a mano che il crepuscolo estivo allunga
le sue ombre.
La sera aumenta la sua voglia di giocare. Non gli interessa fare
la bella vita, giocare è qualcosa di diverso. Chissà se ha ancora
nella tabacchiera qualche pastiglia di Richelieu, quelle compresse a base di cantaride che tre anni fa, a Marsiglia, l’hanno
messo nei guai con quattro puttanelle nel bordello di Mariette.
Ricorda ancora i loro nomi: Marianne, Rose, Marianette. E
Marguerite, certo. Quella con la voglia di fragola sulla natica sinistra. È stata lei a incastrarlo deponendo davanti al magistrato;
come se i suoi problemi d’intestino, anziché alla scarsa igiene e
alle schifezze che mangiava, fossero dovuti ai confetti miracolosi con i quali il maresciallo di Richelieu suppliva alle défaillances
della sua vecchia spada arrugginita.
Povera Marguerite, povero oggetto inutile, vali meno della tua
voglia di fragola, meno d’uno schiocco della frusta che ti disegna sulla pelle il destino del tuo torturatore per gioco. Dovrai
pure ammetterlo: Alphonse, o Aldonze che dir si voglia, assomiglia al bambino che strappa le ali alla farfalla per vedere come
funziona il meccanismo. Niente di personale nelle ferite che ti
infligge e da cui sgorga il tuo bel sangue color rubino. Per lui,
capisci?, sei soltanto un giocattolo. E nessuno si sognerebbe
mai di punire un bambino perché maltratta il suo orsacchiotto
di peluche.
Invece lo condannano a morte come sodomita e avvelenatore.
Per le sue droghe di Marsiglia, figurarsi: quattro pasticche di
Richelieu; più qualche innocua frustatina e un paio di giulive
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siringhe somministrate a sgualdrine consenzienti. Chiaro che si
tratta d’una congiura. Dietro c’è il mostro, la furia, la iena, l’arpia; in una parola, la Presidentessa sua suocera. A scatenarne
l’odio non è certo la perversione di Alphonse (o forse Aldonze),
sulla quale è da sempre disposta a chiudere un occhio o più
spesso a spalancarli, vogliosa, tutti e due.
Ciò che Madame de Montreuil non sopporta, dal punto di vista delle convenzioni sociali, è la relazione semi-incestuosa del
genero con Anne-Prospère. Ciò che in cuor suo odia davvero
è l’amore.
Quando Aldonze (o Alphonse) viene decapitato sulla pubblica piazza di Aix, quando il suo servo e complice Latour viene
appeso alla forca finché morte non giunga, entrambi sono già
lontani da Parigi. Il boia deve accontentarsi di due manichini.
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Je jure au mon amant de n’être jamais qu’à lui, de ne jamais ni me
marier, ni me donner à d’autres…
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Quanto tempo è passato da quando Anne-Prospère ha scritto
queste parole appassionate firmando la lettera col sangue, il suo
preziosissimo sangue di canonichessa in fiore?
Alphonse (o Aldonze) sospira ripensando alla loro fuga in Italia
di tre anni prima. A Venezia, sotto falso nome, la spacciava per
sua moglie. Visitavano chiese piene di splendidi quadri. Odore
d’incenso. D’incesto, anche.
Sospira di nuovo. Sente che sta per avere un’erezione e, come
spesso gli accade in questi casi, si mette a pensare alla bella Laura dai capei d’oro a l’aura sparsi: un’altra passione incestuosa non meno squassante di quella per la canonichessa. Perché
Laura de Noves, la Laura amata dal Petrarca, morta di peste
ad Avignone nel 1348, apparteneva per nozze alla sua famiglia
e la fantasia di possederla fisicamente gli procura la corroborante impressione di invertire il flusso delle generazioni, come
un salmone che risalga la corrente non per riprodursi, ma per
distruggere e cancellarsi.
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Laura mi fa girare la testa, ne sono preso come un ragazzo. Leggo
di lei tutto il giorno e poi, di notte, la sogno.
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Così scriverà alla moglie dalla prigione: segno d’una passione
che perdura nel tempo, o almeno di un’assidua fedeltà alle proprie manie. Tutto si può dire di lui, tranne che sia uno spirito
volubile.
L’eccitazione, però, gli dura poco. L’incesto mentale cede subito il posto alla malinconia.
Per fortuna, La Jeunesse sa bene che cosa occorre fare in questi
casi: basta portarlo al bordello più vicino. All’albergo s’è già
fatto indicare la strada. Imboccano frettolosi una traversa dalle
parti del ghetto, dove c’è la casa di piacere più rinomata della
città.
«Conte di Mazan! Xe propio elo? Cossa falo chì, in ‘sta zità de
merda, con licensa parlando?».
No: non è Giacomo Casanova, letterato e puttaniere; è un certo
Ongaro che Alphonse (o Aldonze) sotto falso nome ha conosciuto a Venezia.
Dannato scocciatore. Un amico di quel misterioso Goudar, avventuriero e agente segreto, che proprio a Casanova ha soffiato
la bella Sara, l’ha sposata e adesso s’avvale delle sue grazie per
scoprire altarini e ottenere favori.
Vado a puttane, vorrebbe rispondere all’intruso; perché non ci
vai anche tu e mi lasci in pace?
«Che piacere rivederla, M’sieur Ongarò. Qual buon vento?»
flauta invece col suo tono più compito, rinfoderando la cantaride e le fruste.
Chiacchierano del più e del meno. In due passi si ritrovano
davanti alla futura Accademia militare, il palazzo barocco che
rispecchia le smodate ambizioni del duca, decisamente fuori
scala rispetto alla città che governa.
È bene, mia cara contessa, vedere l’arsenale e la sala di storia naturale del principe. Tutto è in miniatura, ma tenuto con una cura
e una proprietà che non ho mai visto da nessun’altra parte.
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Aldonze (Alphonse?) fissa sconsolato la statua bianca in mezzo
alla piazza e con tutto il cuore, il suo freddo cuore di libertino,
vorrebbe essere già alla pagina successiva.
Da Modena mi recai a Bologna. Poiché non mi fermai affatto in
questa città, non ve la potrei descrivere, signora contessa.
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Ah, se soltanto fosse già domani… Ma la vita, a differenza dei
romanzi, odia le ellissi. Per spostarsi da un punto all’altro della
propria esistenza si è costretti a percorrere tutti i punti intermedi. Nascono intoppi, inghippi, rallentamenti. Ad Alphonse – o
Aldonze: il certificato di battesimo, ormai scolorito dal tempo,
non scioglie il dubbio – sembra una congiura.
Non più tardi di stamattina, per entrare negli Stati di Modena venendo in carrozza da Parma, ha dovuto passare quattro
uffici doganali, pagando il dazio ogni volta. E adesso questo
noiosissimo attaccabottoni veneziano si frappone tra lui e la
notte. Quasi quasi avrebbe preferito Casanova, anche se lo
giudica un mediocre seduttore e un libero pensatore da quattro soldi. Forse il signor Ongaro, così untuoso e insinuante,
è una spia dei suoi nemici, un emissario della Presidentessa:
a sua suocera non è certo bastata un’impiccagione in effigie.
Quella strega lo vuole morto. Presto i sicari sbucheranno dai
quattro lati della piazza, non lasciandogli scampo nella fuga:
per Donatien-Aldonze (o Alphonse) François de Sade, inculator di femmine e ostinato philosophe, non esiste la promessa
di un domani.
Point de lendemain.
Non se ne andrà mai più da questa città, palude senza scampo,
che un inganno dei sensi gli ha fatto considerare a colpo d’occhio grande e bella.
Improvvisamente la vita gli appare preziosissima. Preziosissimo
quell’amore per effetto del quale era stato disposto a gettarla:
ci vorrebbe una tecnica non ancora inventata, la fotografia, per
rendere l’immagine di Anne-Prospère che gli si staglia nitida
davanti agli occhi con tutti i colori e le promesse della vita.
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Filano sempre d’amore e d’accordo. Dopo Venezia visitano qualche altra città italiana; finché, di punto in bianco, la canonichessa
lo abbandona e, senza neanche fare i bagagli, se ne ritorna in
Francia.
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L’ha perduta per un capriccio: forse lei gli avrebbe perdonato
l’infedeltà commessa (tradimento è una parola troppo grossa),
se solo Donatien non si fosse tirato dietro la bella maîtresse italiana facendola passare per la cognata, come prima aveva finto
che la dolce canonichessa fosse sua moglie, della quale è invece
la sorella.
Sì, d’accordo, in tutto questo c’è un po’ di perversione, ma in
fondo il marchese de Sade vuole soltanto provare emozioni.
Fare nuove esperienze, non si dice così?
Invece lei non lo perdona.
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Que la mort ne m’a-t-elle enlevée à ce fatal instant!
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Il convento: ecco, signore, la mia scelta definitiva. Non è una
decisione improvvisa, dovuta al dolore per il vostro tradimento,
ma un progetto meditato, il solo che mi possa far sopportare la
vita. Vi prego perciò di non contrastarlo. Là, nella solitudine del
chiostro, trascorrerò in pace il resto dei miei giorni, ignorata dal
mondo. Lavorerò senza posa per cancellare dal mio cuore chi gli
fu troppo caro.
Le parole dell’addio sono ancora quelle dell’amore, ma in una
grafia minuta, regolare, che sembra confutarle, suggerendo al
perito calligrafo l’idea d’un cuore freddo da ramarro. O da
badessa. Come se Dio in persona, invece dell’amico Inferno,
avesse eletto Anne-Prospère a propria emissaria per vendicarsi dell’odiato philosophe che non ha mai creduto nella sua
esistenza.
Donatien-Aldonze (o forse Alphonse) immagina di essere Petrarca la mattina del 6 aprile, Anno Domini 1327, nella chiesa
di Santa Chiara in Avignone: quando ai suoi occhi inebriati di
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poeta appare per la prima volta Laura, al culmine della sua giovinezza in fiore. Gli sembra che quello sguardo, quella giovinezza appartengano a lui.
Chi ha mai detto che l’amore non s’impara sui libri?
Questo incontro, mille volte risognato, Petrarca l’ha appreso
dai suoi stessi versi; Laura de Noves, che a Hugues de Sade il
Vecchio, secondo di quel nome, scodellò undici figli prima di
morire di peste, vivrà per sempre nelle parole del poeta.
Sade sogna la sua opera futura come quella d’un Petrarca del
male: un’immensa architettura d’oscenità, vizio, ateismo, perversione. Una cattedrale di parole per cancellare, non per celebrare, il nome dell’odiosamata Anne-Prospère. Meglio: per
impiccarla in effigie, come il boia di Aix ha fatto con lui e il suo
servo Latour.
Chiamerà in soccorso l’Inferno. Sì: l’Inferno, per trovare nel paese delle chimere quello che si potrebbe sapere senza difficoltà
solo frugando nella storia dell’uomo in questa età del ferro.
Un giorno – ne è certo – si dirà sadista come oggi si dice petrarchista.
Questa nuova fantasia lo eccita oltre misura, ma l’oscena realtà
non molla la presa.
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Come mai mi parli di Venezia? Io a Venezia non ci sono mai stato,
è l’unica città d’Italia che non conosco affatto.
Vorrebbe prendere per il collo il lurido spione, strozzarlo con le
proprie mani improntate di vizio prima che possa dare l’allarme
ai suoi sgherri. Poi, al bordello come niente fosse. E addio signor Ongarò, schiavo vostro. Non sarebbe difficile farlo sparire
nel naviglio che, al lato estremo della città, lambisce la facciata
posteriore del palazzo principesco con le sue acque moribonde,
immemori delle piene del Po e del mare di Chioggia.
Invece, da vero masochista, finge distrattamente d’ascoltarlo e
continua a pensare alla cognata.
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«El vegna con mi, sior conte: ghe garantisso che no sel pentirà:
se magna e se beve, se zoga a zechineta e poi ghe xe du’ o tre
putele de tredese o quatordese ani, bele come melagrane in fior,
con el morbin soto la vesta».
Dietro l’aria distratta del conte di Mazan, il marchese de Sade
suo gemello già strepita e lotta per uscire. Fruste, clisteri, sederi; sangue, sudore, sperma; lacrime, suppliche, repliche; tremiti,
gemiti, vomiti; sodomia, blasfemia, blenorragia…
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Niente da fare: oggi il dérèglement de tous les sens non gli riesce proprio, sarà colpa del caldo sciropposo che intorpidisce
e snerva. Mentre entra al bordello con lo spione veneziano,
Donatien-Alphonse (o Aldonze) François, marchese de Sade e
signore di Mazan, sempre scortato dal fido Carteron detto La
Jeunesse ma conosciuto anche come Martin Quiros, non ammetterebbe mai di essere ancora innamorato.
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Cogito interruptus
Due sadisti reggiani
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Reggio è una città abbastanza simpatica e ariosa. La strada che
l’attraversa è lunga, larga e piuttosto ben costruita. In questa città
si vedono belle chiese. La principessa ereditaria di Modena, separata dal marito, vi tiene la sua corte.
Corrado Costa, poeta e sadista, faceva l’avvocato a Reggio Emilia. Nel suo studio di via Guido da Castello passavano nani,
subrettine, brigatisti, avanguardisti. Qualche anno prima di
morire gli era venuta una strana malattia del sangue che lo
costringeva a grattare via l’intonaco dai muri e a mangiarselo,
meglio se colorato. Che c’è di male? Anche i seguaci dei santi Cosma e Damiano grattavano i muri dipinti per sbafarsi a
scopo terapeutico le sacre immagini dei due martiri cristiani.
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E guarivano dalle scrofole o dal caghetto. Invece a Corrado la
cura dell’intonaco non faceva nessun effetto, anzi continuava a
deperire, finché una medichessa trovò il rimedio giusto facendolo innamorare.
Il mio amico era un tipo ospitale. Nel suo feudo di famiglia a
Mulino di Bazzano – baluardo degli antichi Stati estensi sulla
riva sinistra dell’Enza, all’estremo confine col ducato di Parma – complottavano i poeti Adriano Spatola e Giulia Niccolai,
che negli anni Settanta del secolo scorso facevano la rivista Tam
Tam. Poco lontano, a Vetto d’Enza, il professor Anceschi trascorreva l’estate con sua moglie. In quegli anni, grigi più dei
Piombi da cui in gioventù era evaso Casanova, il professore era
il guru dei poeti d’avanguardia. Una volta Corrado gliene combinò una grossa. Erano i tempi di Radio Alice e degli indiani
metropolitani. A Bologna, dove il professor Anceschi insegnava
estetica all’università, scoppiavano azioni di guerriglia urbana.
Barricate, molotov, auto incendiate, negozi saccheggiati – e le
immancabili cariche della polizia. Ogni tanto ci scappava il
morto. Su una rivista underground uscì un disegno di Corrado:
raffigurava il professor Anceschi con l’indice alzato, trasformato nella canna fumante d’una P 38.
Poco prima, Corrado aveva pubblicato dalla Cooperativa scrittori La sadisfazione letteraria, dove Madame de Saint-Ange,
protagonista della Filosofia nel boudoir, disserta tra un coito e
l’altro col Divin Marchese sui supremi oltraggi della letteratura:
Oh, amico mio, sorvoliamo… sorvoliamo su tutto ciò che concerne il piatto meccanismo della riproduzione, per soffermarci principalmente e unicamente sui piaceri libertini il cui spirito non è
assolutamente riproduttivo.
Sorella mia, io sono giovane, libertino, empio, capace di ogni depravazione, ma ho sempre un cuore!
Amico mio, fottimi, ma non parlare!
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Mais reprenons mon histoire.
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Il passaggio di Sade a Reggio Emilia, per quanto brevissimo,
ha gettato un seme nel tempo: proprio lui, che per bocca di
Madame de Saint-Ange asserisce di odiare la riproduzione, ha
generato a distanza di due secoli questo figlio bizzarro di nome
Corrado: non il solo. Nulla se non l’influsso del Divin Marchese
può infatti aver spinto in quegli stessi anni un ragazzo di Correggio, si chiamava Pier Vittorio Tondelli, a discutere con un
altro reggiano, il professor Paolo Bagni dell’Alma Mater bolognese, una tesi in estetica sui libertini francesi del Settecento.
E a intitolare poi Altri libertini la sua prima raccolta di racconti, cui toccò l’onore d’un processo per oscenità. Mancò solo, a
Pier, la gloria corrusca di un’impiccagione in effigie.
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«Aaaaaaaaaaaauh! (uah!)… Aaaaaaaaaaaauh! Ah, finalmente!».
Donatien molla per un attimo il cappio che stringe il collo della ragazza per permetterle di tirare il fiato. Lei tossisce, il viso
cianotico piano piano si tinge di rosso. Lacrime di spavento le
irrigano gli occhi. Questo è il momento di sodomizzarla. Prima
di stasera Donatien non l’ha mai fatto in una drogheria, fra l’odore delle spezie e della tela di sacco, dopo essersi fatto servire
il cioccolatte e averlo versato, bollente, sulle carni nude della servetta. Ora lecca minuziosamente il brodo indiano via dai
seni e dalle chiappe, mentre La Jeunesse applica i suoi magici
cataplasmi alle ustioni sul corpo della ragazza. Neppure questo
basta però a eccitare il suo padrone.
Forse l’hanno drogato col cioccolatte; sì, dev’essere senz’altro così. La Presidentessa lo vuole impotente; ha sguinzagliato
i suoi nemici per l’Europa con l’unico scopo di infliggergli
questa umiliazione suprema, per confutare la sua filosofia libertina.
Farmi condurre in prigione vivo o morto. Tali erano gli ordini
della vostra infernale madre.
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Il solo pensiero dell’infame Presidentessa lo riempie di rabbia.
Donatien afferra la frusta. Una garrula staffilata si abbatte con
uno schiocco sulla schiena inerme di Ongaro, perso tra le cosce accoglienti della maîtresse. Lo spione veneziano caccia uno
strillo da maiale scannato e per reazione morde un capezzolo
alla bella maîalessa, che si mette a ululare come lupa in calore.
Ecco: la frusta sibila ancora nell’aria; un uragano di staffilate
esplode sulle natiche ardenti della servetta, quelle belle natiche minorenni color del cioccolatte che il cataplasma di Martin
Quiros ha lenito solo per prepararle a nuove torture. Allora non
stupitevi se anche la ragazzina si mette a gridare all’unisono con
tutti gli altri in un’orgia vocale di dolore e d’amore, di gioia e
di foja, mentre la frusta croia di Donatien, sibilante diapason di
cuoio, continua a dare il “la” a quel sonoro paradiso d’uragani.
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Daignez le branler, je vous prie, pendant que je suce ce cul divin.
Ah, come gode la bricconcella!
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Qu’elle serait délicieuse à enculer la petite friponne dans cet instant!
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Macché partouze: è un tremoto, un temporale, un giudizio universale che, arrivato all’acme, esplode in un orgasmo cosmico in
grado di sconvolgere i moti dei pianeti fino a trascinare la Terra
fuori dalla sua orbita, infischiandosene dell’intersezione tra la
sfera celeste e il piano dell’eclittica.
Je suis Donatien, je ne regrette riiieeeenn!!!
Un gigantesco cartello luminoso con questa scritta appare al
centro della volta stellata mentre il grido muto di Donatien – un
grido tutto cerebrale, da autentico philosophe – si propaga per
incommensurabili eoni di tempo attraverso miliardi di galassie
popolate di nane nere e giganti rosse per arrivare, incorruttibile
ma corruttore, fino a lambire dei traviati come noi.
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No: non stupitevi se – scavalcando la barriera dei secoli – il
grido libertino di quell’empio impunito s’è trasformato nell’urlo lancinante d’una chitarra hendrixiana. Così almeno viene
percepito dal distorsore mentale d’un certo Mappo Fender, un
punk assassino strafatto di coca che all’altezza della drogheria-caffetteria Giusti, proprio a due passi dalla chiesa di San
Giorgio, ha appena infilato un punteruolo da ghiaccio nel collo
sottile e venato d’azzurro della sua ragazza.
Con storie come questa i giornali vanno a nozze. Soprattutto
d’estate, quando non si sa come riempire le pagine di cronaca
perché la gente è in vacanza e in città non succede mai un cazzo.
Già vedo il titolo: Minorenne sgozzata da un drogato. Il direttore della gazzetta locale ringrazia il Cielo mentre prepara il suo
commento da pubblicare nell’edizione straordinaria. Titolo di
lavoro: Un gesto d’incomprensibile SADISMO.
Incomprensibile lo è anche per Mappo. Invano s’affanna a
spergiurare che non è colpa sua: lui, alla sua Mara, le voleva un
bene dell’anima. A ordinargli di sgozzarla è stato quel signore
in parrucca e redingote…
Come, non l’avete visto? Se ne stava lì in disparte, tranquillamente seduto sui gradini della chiesa, continuando a fissare la
scena col suo sorrisino glaciale. Un tipo non tanto alto, di faccia somigliava un po’ a Johnny Depp nei panni di Coso, come
si chiama quel debosciato? Una specie di Sid Vicious dei suoi
tempi. Dannazione, Mappo ce l’ha sulla punta della lingua…
Quel film lui e Mara l’hanno visto assieme, come potrebbe mai
dimenticarlo? No, macché Casanova di Fellini, come stoltamente suggerisce l’agente Caccamo rifilandogli un papagno, giusto
per aiutarlo a ricordare. In effetti ricorda: il film si chiamava Il
Libertino. Ma il pervertito? insiste Caccamo, ammollandogli un
altro sgrullone da cinefilo. Niente. Che cazzo importa? È quello
là il mostro sanguinario che devono arrestare; è quella specie di
frocetto in maschera il vero responsabile della gran macelleria.
Sui gradini della chiesa però non c’è nessuno. Evidentemente il
gentiluomo ha approfittato della confusione per filarsela all’inglese: lo fanno anche i francesi, in caso d’emergenza.
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«Dovete credermi, perdìo, l’ho visto coi mei occhi!» si sgola
Mappo mentre i pulotti lo stanno ammanettando. Ma quelli
continuano a suonarlo come un tamburo pensando che abbia le
traveggole e forse hanno ragione.
Sarà colpa della coca. O dell’emozione: in fondo è la prima volta che uccide l’oggetto del suo amore. Ed è anche la prima volta
che prende tante botte. Finché Mappo molla di colpo e scoppia
a piangere. Ma anche nel delirio delle lacrime continua a incolpare il francesino fantasma. No, non riesce proprio a spiegare
come mai ha provato l’impulso irresistibile di obbedirgli. Anche perché, a ripensarci, quel demonio in giustacuore e jabot di
pizzo non somigliava affatto a Johnny Depp.
Ma cosa importa, ormai? Mara è morta per sempre. Il suo corpo
giace sul selciato, coperto da un lenzuolo che si tinge di rosso.
«Eppure l’amavo» singhiozza Mappo, mentre un paio di questurini lo sbatacchiano un altro po’, tanto per tenersi in allenamento, e dalle tasche gli esce una giarrettiera appiccicosa di
sperma.
«E questa, eh, da dove viene?».
Lo sbatacchiano ancora, sempre più rudemente, tanto che a furia di sbatacchiarlo qualcosa gli ritorna in mente. Sì, sarebbe
pronto a giurarlo: mentre infilava il punteruolo nella carotide di
Mara gli è sembrato di sentire un grugnito disperato sprizzarle
fuori col primo fiotto di sangue.
Come quando si sgozza un maiale.
HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE
Donatien ha suggellato la porta della drogheria con il pretenzioso reggicalze della maîtresse: una nuvola di pizzo adorna d’un
piccolo gioiello a forma di lucchetto. Nessun fantasma può attraversare una porta sbarrata da una giarrettiera. Eppure quel
grugnito di bestia sgozzata con cui Mara ha esalato l’anima continua a perseguitare Donatien dal futuro, tormentando i suoi
sensi inutilmente esasperati dalle droghe e dalle fruste. Anche
quest’orgia s’è ormai inutilmente consumata. Nulla distingue,
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