Denunce di fatti illegali: i doveri dei dipendenti
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Denunce di fatti illegali: i doveri dei dipendenti
Il Denaro, 20 maggio 2013 Denunce di fatti illegali: i doveri dei dipendenti di Riccardo Imperiali e Rosario Imperiali E’ molto difficile modificare quelle percezioni che si insinuano nei nostri comportamenti usuali come un tessuto valoriale. Esse non risiedono nel campo razionale, in quanto spesso sono prive di argomentazioni logiche, bensì agiscono nell’area dell’istintività emotiva, offrendoci il senso circolare proprio dell’emotività: “così va fatto perché è così che si fa”. Qualcosa di analogo accade in relazione alla denuncia di fatti illeciti. Molti organismi internazionali hanno sottolineato l’importanza della denuncia come efficace strumento di contrasto al crimine; in particolare, come impedimento dei comportamenti corruttivi, per rompere quella cortina di silenzio dovuta alla natura collusiva che è a fondamento dell’accordo criminoso tra corruttore e corrotto. L’Ocse ed il Gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione (Greco) hanno segnalato all’Italia il ruolo essenziale svolto dalle segnalazioni di condotte illecite. Viene comunemente evidenziata da tali organismi la necessità di disciplinare normativamente questo fenomeno, in modo che le denunce possano realizzarsi in una cornice di garanzie in favore di tutti i soggetti coinvolti. L’osservazione principale è quella per cui il contesto di garanzie costruito dalla norma è fattore di sviluppo della cultura della legalità e dell’etica e favorisce la percezione soggettiva della connotazione civica della denuncia anti-crimine, in contrasto con la sua deteriore sensazione delatoria. Il fenomeno della denuncia del dipendente, “sollecitata” o “non sollecitata” dal proprio imprenditore/ datore di lavoro, attualmente, non trova una specifica disciplina in Italia, fatta eccezione per la disposizione non esaustiva contenuta nella legge contro la corruzione nella Pa, riferita però ai soli dipendenti dello Stato ed all’ambito pubblico. Al momento, la denuncia “non sollecitata” (cd. “unauthorized whistleblowing”), vale a dire quella effettuata dal dipendente alle autorità, avente ad oggetto comportamenti riferibili alla propria azienda anche per il tramite di azioni del personale di quest’ultima, rischia di scontrarsi con l’obbligo di fedeltà che lega il lavoratore al proprio datore di lavoro. La giurisprudenza non è uniforme nell’affrontare questo profilo, talvolta ritenendo che l’obbligo di fedeltà non possa tradursi in una omertosa copertura di presunti illeciti aziendali sanzionati dal legislatore (come nel caso di abusi edilizi, reati ambientali o fenomeni di evasione fiscale); altre volte lo stesso giudice è stato di parere opposto. Con la diffusione dei codici etici aziendali, strumento di corredo del modello organizzativo anticrimine realizzato dalle imprese per evitare la responsabilità amministrativa derivante dal decreto 231, la denuncia in buona fede del lavoratore per fatti di cui sia venuto a conoscenza, presuntivi di reato o di cd. “quasi reato”, vincola il dipendente. L’omissione è addirittura sanzionata in via disciplinare. Questi casi sono noti come whistleblowing. Un altro settore in cui lo strumento della denuncia ha intrapreso maggiori passi evolutivi è quello del contrasto a fenomeni di infiltrazione mafiosa o della criminalità organizzata. In queste circostanze, infatti, la denuncia “dal basso” del whistleblower è prodromica alla denuncia “esterna” ad opera dell’azienda, spesso imposta da accordi generali cui l’azienda aderisce spontaneamente. Sono questi i casi degli accordi stipulati, da un lato, da autorità pubbliche (Ministero dell’Interno e sue unità territoriali di governo, cioè prefetture e questure) e, dall’altro, dalle parti sociali (associazioni di imprese o singole imprese e sindacati). Tali convenzioni, che tradizionalmente assumono il nome di protocolli di legalità, prevedono l’obbligo di denuncia da parte dell’azienda che ha subito intimidazioni mafiose o criminali. Le denunce aziendali antimafia hanno vissuto un processo evolutivo in una duplice direzione: in ambito associativo e nel contesto normativo. Nel primo caso, è noto l’intervento di Confindustria che nel gennaio 2010 ha predisposto modelli comportamentali a cui ogni associato deve attenersi, ivi incluso l’obbligo di denuncia a carico dell’azienda che subisce estorsioni mafiose o altro reato riconducibile ad organizzazioni criminali. Nel secondo caso, la condotta omissiva di coloro che, essendo stati vittime dei reati di concussione per costrizione o estorsione aggravata dal metodo mafioso, omettono di denunciare il fatto all’autorità giudiziaria, salvo il caso del giustificato motivo, rileva sia come misura ostativa dell’aggiudicazione di contratti pubblici sia come situazione indiziante del tentativo di infiltrazione, indizio la cui valutazione trova la sua naturale estrinsecazione nell’informazione antimafia di carattere interdittivo, disciplinata dal codice antimafia.