Istituto di Psicologia Scolastica

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Istituto di Psicologia Scolastica
PSICOLOGIA SCOLASTICA
VOLUME 9, NUMERO 1 - gennaio/giugno 2010
FIRERA & LIUZZO
PUBLISHING
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© 2010 - Firera & Liuzzo Group
Via Boezio, 6 - 00193 Roma
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ISSN: 1721-9795
Firera & Liuzzo Group è un membro di
INDICE
Editoriale........................................................................................................................... 5
Maria Francesca Freda
RICERCHE
La costruzione dell’identità narrativa nelle transizioni
biografiche normative e non normative: analisi della struttura temporale............... 15
Luigia Simona Sica, Jens Brockmeier, Laura Aleni Sestito
Declinazioni del senso civico nella scuola.
Uno studio esplorativo tra gli adolescenti..................................................................... 39
Terri Mannarini, Alessia Rochira, Stefania Trippetti
Videogiochi a contenuto violento ed aggressività.
Un modello semiotico della loro relazione.................................................................... 53
Sergio Salvatore, Roberto Quarta, Ruggero Ruggieri
ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
Inclusione e partecipazione attiva all’università.......................................................... 81
Nunzia Rainone, Maria Francesca Freda, Paolo Valerio
INTERSEZIONI
Mediazione familiare e prevenzione del disagio scolastico ....................................... 101
Michela Ravarini
RECENSIONI............................................................................................................... 121
Editoriale
La storia di Lisbona (2000-2010): aprire il dialogo con l’Europa
Maria Francesca Freda*
* Dipartimento di Scienze Relazionali " G. Iacono" - Università degli Studi di Napoli Federico II
Ogni studente suona il suo strumento,
non c’è niente da fare.
La cosa difficile
è conoscere bene i nostri musicisti
e trovare l’armonia. Una buona classe
non è un reggimento che marcia al
passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia.
(Daniel Pennac, Diario di scuola)
La storia di Lisbona trae la sua origine nel 1993, a Maastricht, in cui viene ratificato il cosiddetto Piano Delors. E’ il Piano Delors che sancisce ufficialmente
in Europa la necessità di sostenere lo sviluppo di una società in cui sia possibile
imparare a imparare lungo il corso della vita, l’istituzione di una life-long learning
society. Nel 1995 viene pubblicato il Libro Bianco di Cressone, Flynn “Insegnare ad
apprendere. Verso una società conoscitiva”, è a questo volume e ai progetti europei
in campo educativo che viene affidato il compito di diffondere, sviluppare e integrare per gli stati membri una cultura dell’apprendimento e della formazione continua.
Il principio ispiratore ed insieme l’obiettivo ultimo di questo processo di “modernizzazione” del sistema dell’istruzione e della formazione scolastica e professionale
è giungere ad un’economia fondata sulla conoscenza; tale obiettivo si traduce nella
realizzazione di un mercato interno efficace ed efficiente, fondato sulla competitività
e il dinamismo delle piccole e medie imprese, sull’investimento nelle risorse umane
e, in generale, sulla creazione di uno stato sociale attivo e partecipato. Per realizzare
questi compiti è indispensabile adattare i sistemi di istruzione e formazione alla società della conoscenza, garantire più posti di lavoro e di migliore qualità, modernizzare la protezione civile e favorire l’integrazione sociale.
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L’evoluzione della società e del mercato del lavoro provoca maggiore incertezza
per tutti, ma per alcuni rischia di determinare situazioni intollerabili di esclusione. Per
evitare ogni forma di emarginazione, è indispensabile che gli individui continuino a
investire nella formazione per tutta la vita, al fine di incrementare il proprio capitale
umano attraverso uno sforzo continuo di adattamento, raccogliendo e rinnovando le
conoscenze e le competenze acquisite in varie sedi. Per facilitare tale impegno, il compito dei sistemi educativi è quello di aprire a tutti i cittadini l’accesso a una cultura generale vasta e approfondita, moltiplicare i contesti formativi e offrire a ciascuno l’occasione di beneficiare di tutte le opportunità di accesso al sapere e allo sviluppo delle
competenze che gli sono necessarie per fronteggiare e governare il cambiamento.
Per far fronte ai nuovi scenari, infatti, l’individuo ha bisogno non solo di mappe
cognitive ampie e flessibili, ma anche di strumenti per far evolvere queste mappe,
ampliarle e riorganizzarle continuamente lungo tutto l’arco dell’esistenza. Il concetto stesso di competenza porta in sé la rottura con l’insegnamento tradizionale, analitico, sequenziale, rigidamente suddiviso per discipline, in favore di una dimensione
olistica e globale dell’apprendimento. Il Libro Bianco introduce ad una visione della
società in cui le persone devono essere in grado di comprendere situazioni complesse
che evolvono in modo imprevedibile, la funzione primaria dei sistemi educativi è
quella di rivalutare e incrementare la cultura generale, ovvero promuovere nei giovani e negli adulti lo sviluppo delle capacità di cogliere il significato delle cose, di capire e di creare, che costituisce anche il primo fattore di adattamento all’economia e
all’occupazione e un passaggio obbligato verso l’acquisizione di nuove competenze
tecniche. L’orientamento a privilegiare le competenze piuttosto che i saperi entra definitivamente nel quadro di riferimento europeo, anche se il concetto di competenza
non presenta una definizione univoca nei diversi sistemi educativi e fra i vari paesi.
La formazione deve offrire simultaneamente le mappe per orientarsi e la bussola
che consenta a ciascuno di trovare la propria rotta per muoversi nel contesto sociale
ed economico in cui egli vive e dove è chiamato a esercitare le proprie competenze
di cittadino e di lavoratore.
È a partire da queste premesse che nel 2000 si avvia un percorso condiviso e
negoziato portato avanti dai paesi membri dell’Unione Europea che, nel corso di
dieci anni, si pone l’obiettivo di elaborare una strategia complessiva, detta Strategia di Lisbona, di intervento per lo sviluppo dei sistemi di istruzione e formazione
dell’Unione Europea.
Il primo step di questo lungo percorso è il Consiglio di Lisbona del 23-24 marzo 2000 che assume lo sviluppo dei sistemi di istruzione e formazione lungo tutto
l’arco della vita (Long Life Learning) quale asse strategico per sostenere in Europa
una crescita economica sostenibile con nuovi e più qualificati posti di lavoro e una
maggiore coesione sociale.
Il successivo Consiglio di Stoccolma del 2001 ha poi declinato tali finalità in tre
sotto obiettivi strategici:
• migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi di istruzione e di formazione degli
stati membri dell’Unione Europea;
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EDITORIALE
• agevolare l’accesso di tutti ai sistemi dell’istruzione e della formazione;
• aprire i sistemi di istruzione e formazione al resto del mondo.
Tali obiettivi, nel Consiglio Europeo di Barcellona del 2002, sono stati ulteriormente declinati in azioni specifiche.
In relazione all’obiettivo (a): migliorare l’istruzione e la formazione per insegnanti e formatori, sviluppare le competenze per la società della conoscenza, garantire l’accesso alle tic per tutti, attrarre più studenti agli studi scientifici e tecnici,
sfruttare al meglio le risorse.
In relazione, invece, all’obiettivo (b): creare un ambiente aperto per l’apprendimento; rendere l’apprendimento più attraente, sostenere la cittadinanza attiva, le pari
opportunità e la coesione sociale.
In relazione, infine, all’obiettivo (c): rafforzare i legami con il mondo del lavoro
e della ricerca e con la società in generale, sviluppare lo spirito imprenditoriale, migliorare l’apprendimento delle lingue straniere, aumentare la mobilità e gli scambi,
rafforzare la cooperazione europea.
Costruire un’Europa basata sulla conoscenza e assicurare un mercato del lavoro
europeo aperto a tutti sono due sfide fondamentali per i sistemi di istruzione e formazione professionale europei su cui si giocano le possibilità di promuovere processi
di cittadinanza attiva, di integrazione sociale e di realizzazione personale, necessari
allo sviluppo di una società civile.
Nel 2003, allo scopo di verificare i progressi compiuti in relazione ai 13 obiettivi
fissati, sono stati individuati 5 benchmark o parametri di riferimento:
• Abbandoni scolastici: entro il 2010, nell’UE si dovrebbe pervenire ad una percentuale media non superiore al 10% di abbandoni scolastici prematuri;
• Matematica, scienze e tecnologie: il totale dei laureati in matematica, scienze
e tecnologie nell’Unione europea dovrebbe aumentare almeno del 15% entro il
2010 e al contempo dovrebbe diminuire lo squilibrio tra i sessi;
• Completamento del ciclo di istruzione secondaria superiore: entro il 2010, almeno l’85% della popolazione ventiduenne dell’Unione europea dovrebbe avere
completato un ciclo di istruzione secondaria superiore;
• Competenze di base: entro il 2010, la percentuale dei quindicenni con scarse capacità di lettura dovrebbe diminuire nell’Unione europea almeno del 20% rispetto al 2000;
• Apprendimento lungo tutto l’arco della vita: entro il 2010, il livello medio di
partecipazione all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita dovrebbe attestarsi
nell’Unione europea almeno al 12,5% della popolazione adulta in età lavorativa
(fascia di età compresa tra 25 e 64 anni).
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Nel 2003, si avvia un processo di monitoraggio dei risultati e dell’efficacia delle misure introdotte dai paesi membri che nel marzo del 2004
porta all’individuazione di alcune precise “leve” su cui basare l'azione
futura, per rispettare i tempi e gli obiettivi di Lisbona:
• concentrare le riforme e gli investimenti nei settori-chiave;
• fare dell'apprendimento lungo tutto l'arco della vita una realtà concreta;
• costruire l'Europa dell'istruzione e della formazione.
Una delle finalità fondamentali delle politiche formative del Consiglio
d’Europa è stata quella di garantire l’accesso di tutti al sistema di istruzione e di potenziare la qualità dell’offerta formativa. Si tratta infatti
di un vero e proprio diritto a partecipare ai processi formativi mirato
a garantire il rispetto dei diritti umani, il rispetto della legalità e una
cittadina attiva e partecipata. La parola d’ordine, quindi, è partecipazione. Abbracciare, tuttavia, il concetto di partecipazione in maniera
acritica lo renderebbe ideologico piuttosto che funzionale agli obbietti
preposti dall’UE. Con partecipazione, infatti, si intende la possibilità
per il soggetto in formazione di poter e dover prendere posizione su
tutte le questioni che lo riguardano e che, nello specifico, riguardano il
suo percorso formativo per incrementare, tra l’altro, le proprie competenze decisionali e di auto-orientamento. Il successo formativo risulta
quindi strettamente connesso all’individuazione e al raggiungimento di
mete comuni, fissate per tutti i soggetti connesse al raggiungimento di
mete personali, differenziate sulla base di abilità, inclinazioni, talenti, propensioni individuali e competenze che, come vedremo, vengono
ritenute fulcro centrale su cui far leva per sviluppare una società della
conoscenza e per arginare i fenomeni di dispersione ai diversi cicli e
livelli del processo formativo.
Nel contesto delle strategie enunciate a Lisbona, una delle direttrici
principali fissate dall’Unione europea punta sull’acquisizione, a fianco
delle competenze tradizionali, di nuove competenze di base, che devono essere integrate in modo efficace nei programmi scolastici e messe
a disposizione di tutti attraverso un ampliamento dei contesti formativi.
L’acquisizione delle competenze di base non solo è la chiave per accedere ad altre forme di apprendimento, bensì è fondamento per l’autorealizzazione, la cittadinanza attiva e l’occupabilità, esigenze legate agli
sviluppi della società della conoscenza. Le basi dell’apprendimento permanente devono essere acquisite da tutti i giovani al termine del periodo
obbligatorio di istruzione e formazione e servire come base per prose-
EDITORIALE
guire l’apprendimento nel quadro dell’educazione permanente. Il modello sociale europeo di coesione sociale intende consentire ai cittadini
un accesso più flessibile ai sistemi di istruzione e di formazione, formali
e non formali, facilitando i passaggi tra i diversi settori e convalidando
le competenze comunque acquisite. Siamo nell’anno 2006, quando viene approvato il documento “Raccomandazioni del parlamento europeo
e del consiglio del 18 dicembre 2006 relativa alle competenze chiave
per l’apprendimento permanente”. Le otto competenze costituiscono il
tracciato di un percorso che tutti i cittadini dell’Unione sono chiamati
a percorrere con l’istruzione e la formazione durante tutta la vita. La
premessa di tale documento recita: “Dato che la globalizzazione continua a porre l’Unione Europea di fronte a nuove sfide, ciascun cittadino
dovrà disporre di un’ampia gamma di competenze chiave per adattasi
in modo flessibile e in un mondo in rapido mutamento e caratterizzato
da forte interconnessione.”
Le otto competenze chiave sono una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini appropriate al contesto – come recita il testo europeo strumenti fondamentali ed ineludibili per la realizzazione e lo sviluppo
personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione. In
ordine, non di importanza, sono:
1) comunicazione in madrelingua;
2) comunicazione in lingue straniere;
3) competenza matematica e competenze di base in scienze e tecnologia;
4) competenza digitale;
5) imparare ad imparare;
6) competenze sociali e civiche;
7) spirito di iniziativa e imprenditorialità;
8) consapevolezza ed espressione culturale.
Come si può notare, si fa riferimento a competenze personali, interpersonali e
interculturali; esse riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle
persone di partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa
in società sempre più diversificate, anche risolvendo conflitti, ove necessario. La
competenza civica dota le persone degli strumenti per partecipare appieno alla vita
civile grazie alla conoscenza dei concetti e delle strutture socio-politiche e all’impegno verso una partecipazione attiva e democratica. Il senso di iniziativa e l’imprenditorialità rafforzano le capacità di tradurre le idee in azioni concrete. In questa
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competenza rientra la creatività, l’innovazione e l’assunzione dei rischi, come anche
la capacità di pianificare e gestire progetti per raggiungere obiettivi. Una competenza
che aiuta gli individui a sviluppare le proprie risorse nel contesto in cui operano ed è
un punto di partenza per acquisire abilità e competenze più specifiche che includano
una consapevolezza dei valori etici.
Su questa scia si muove anche la recente legislazione italiana in merito. Con la
legge 53/2003 il legislatore pone maggiore attenzione ai concetti di competenza e di
capacità.
Secondo il decreto legislativo le capacità sono le potenzialità latenti che, incontrandosi con i saperi dichiarativi e quelli procedurali nelle esperienze d’apprendimento, evolvono in competenze personali e situazionali.
Le capacità e le competenze appartengono alla sfera dell’essere della persona,
mentre le conoscenze e le abilità appartengono alla sfera dell’avere. Le competenze
personali non sono vuote, implicano sempre la padronanza di conoscenze e di abilità
disciplinari ed interdisciplinari. Si configurano anche come strutture mentali capaci
di trasferire la loro valenza in diversi campi, generando così anche altre conoscenze
e competenze. Infatti una specifica competenza disciplinare comporta l’acquisizione
di una forma mentis utilizzabile nelle più diverse situazioni. Inoltre contengono al
loro interno la consapevolezza di quello che si sa e si sa fare, di come e perché lo si
sa e lo si sa fare.
La competenza coinvolge l’insieme della persona: la parte intellettuale, quella
operativa, quella emotiva, quella sociale. È un saper fare, fondato su un sapere e
guidato da un saper come fare.
Queste includono competenze personali, interpersonali e riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo efficace e
costruttivo alla vita sociale e lavorativa, in particolare alla vita in società sempre più
diversificate, come anche a risolvere i conflitti ove ciò fosse necessario.
Le competenze chiave di Cittadinanza in Italia, così come espresse dal D.M. n.
139 del 22/08/2007 sono:
•
•
•
•
•
•
•
•
Imparare ad imparare
Progettare
Comunicare
Collaborare e partecipare
Agire in modo autonomo e responsabile
Risolvere problemi
Individuare collegamenti e relazioni
Acquisire e interpretare l’informazione
E’ proprio a partire dal 2007 che la Strategia di Lisbona rivolge una particolare
attenzione ai cosiddetti “gruppi a rischio” che, a causa di svantaggi educativi determinati da circostanze personali, sociali, culturali o economiche, hanno bisogno di
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RICERCHE
un sostegno particolare per realizzare le loro potenzialità educative. La categoria di
gruppo a rischio può essere declinata in vari modi, andando a costituire una sorta di
“parola ombrello” che racchiude molteplici tipologie di giovani svantaggiati, il cui
disagio può esprimersi in svariati modi e attraverso difficoltà presentate nella sfera
emotiva e/o cognitiva. Nel maggio 2007 si è svolta, ad Istanbul la 22.ma Sessione
della Conferenza Permanente dei Ministri dell’Educazione dei 46 Paesi del Consiglio d’Europa. L’argomento scelto per l’incontro “Costruire un’Europa più umana e
più inclusiva: il contributo delle politiche educative” è al centro delle preoccupazioni
e degli sforzi dei governi membri dell’UE, come risulta chiaramente dalle priorità
approvate dal vertice dei Capi di Stato e di Governo che si era tenuto a Varsavia nel
maggio 2005. Come espresso nel titolo stesso della Conferenza di Istanbul, l’attenzione principale è rivolta a identificare strategie efficaci per realizzare un’educazione
per tutti, e in questo senso inclusiva: l’apprendimento per tutta la vita va considerato
come un diritto fondamentale della persona umana e non semplicemente un bene di
consumo (Rainone, Freda, Valerio in questo volume).
Cosa resta da fare? Nel decennio che si apre sicuramente si continuerà a lavorare
su tali obiettivi, essi non sono stati raggiunti a pieno e sicuramente non in modo analogo nei diversi stati membri, molto è stato fatto in questi anni di direttive e di progetti, ma molto resta ancora da fare. La cooperazione europea nei settori dell'istruzione
e della formazione portata avanti nell’ultimo decennio ci permette oggi di guardare
ai processi di long life learning inclusivi e partecipativi quale principio fondamentale di orientamento delle ricerche e politiche in ambito di istruzione e formazione. E’
questo lo scenario con cui una rivista del settore ha il dovere di confrontarsi in senso
progettuale, di partecipazione e anche in senso dialettico e critico. E’ su questa scia
che si muovono alcuni dei contributi presentati in questo volume ed è un augurio per
il futuro. Prendere consapevolezza dello scenario per contribuire alla sua evoluzione…verso il 2020.
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RICERCHE
La costruzione dell’identità narrativa
nelle transizioni biografiche
normative e non normative: analisi
della struttura temporale
Luigia Simona Sica*, Jens Brockmeier**, Laura Aleni Sestito***
* Dipartimento di Psicologia, Università di Torino, e Dipartimento di Scienze Relazionali “G.
Iacono”, Università di Napoli “Federico II”
** University of Manitoba, University of Toronto, Canada e Free University Berlin, Germany
***Dipartimento di Scienze Relazionali “G. Iacono”, Università di Napoli “Federico II”
Introduzione
Lo studio intende confrontare, adottando un approccio di indagine di tipo qualitativo, le modalità ricostruttive della narrazione autobiografica in soggetti che hanno
affrontato transizioni di vita sia di tipo normativo (tardo-adolescenti che transitano
dalla scuola all’università/mondo del lavoro) che non-normativo (adulti che hanno
affrontato esperienze di ospedalizzazione psichiatrica), attraverso l’analisi dei modelli temporali della narrazione proposti recentemente in letteratura (Brockmeier,
1995a, 2000). La ricerca si inserisce, pertanto, nel filone degli studi della psicologia
culturale (Bruner, 1990, 2002; Smorti, 2003), che si focalizza sulla stretta relazione
tra esperienza, memoria e rielaborazione narrativa degli eventi di vita nei processi di
costruzione dell’identità personale.
Gli studi sull’identità, infatti, enfatizzano il ruolo della narrazione – intesa sia
come modalità ricostruttiva individuale della propria storia di vita (Bauer, McAdams, 2004), che come elemento centrale e sovrapponibile alla costruzione del sé
(Smorti, 2003) – nello sviluppo dell’individuo.
La possibilità di dare senso alla propria storia di vita attraverso la narrazione, il
colloquio, il dialogo consente, infatti, di riorganizzare la storia individuale dando
voce alla componente emotiva oltre che a quella cognitiva connesse alle esperienze
raccontate. In altri termini, il pensiero narrativo, utilizzato nella ricostruzione autobiografica, consente di inter-connettere quel che Bruner (1986) definiva scenario
dell’azione con lo scenario della coscienza, dando forma, in questo modo, alla complessa natura del processo di costruzione dell’identità che “tiene conto di tutti i livelli
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
di funzionamento mentale” (Erikson, 1968, p. 22).
Secondo recenti approcci in campo preventivo, inoltre, l’espressione narrativa
degli eventi di vita mostra di avere delle ricadute importanti nella gestione di situazioni traumatiche (Pennebaker, 2004; Pennebaker, Colder, Sharp, 1990; Pennebacker, Seagal, 1999). Più specificamente, sembra che la narrazione di sé possa
rappresentare una delle modalità attraverso le quali soggetti in transizione possono
conferire significato alle proprie esperienze di cambiamento (McAdams, 1996), ridefinendo, al tempo stesso, la propria identità (Sestito, Sica, in press).
Come si è sottolineato (Brockmeier, 2004), infatti, soltanto guardando indietro
nella storia di vita di ciascuno, a partire dal presente, è possibile rileggere gli episodi passati (inclusi quelli di cambiamento) come eventi dotati di senso per la storia personale. La dimensione temporale, dunque, diviene centrale nella costruzione
dell’identità narrativa e nel processo di attribuzione di significato all’intera storia di
vita.
L’organizzazione temporale dell’identità narrativa
La nascita di ogni storia – ivi compresa quella del sé – nasce da una organizzazione temporale degli eventi narrati, che attinge alla memoria episodica e semantica
oltre che autobiografica; ancor più, il senso stesso del proprio sé deriva fondamentalmente dalle memorie degli eventi passati (Klein, German, Cosmides, Gabriel, 2004)
che forniscono continuità all’esperienza di sé (Lorenzetti, Stame, 2004). La conoscenza autobiografica individuale, inoltre, necessita della possibilità di creare una
rappresentazione del sé come di un’entità coerente, unica ed integrata che riesca a
muoversi nel tempo e che, proprio attraverso la possibilità di spostarsi tra passato e
futuro, riesca a collocarsi e a trovare il proprio senso nel presente (Klein et. al, 2002;
Klein, Loftus, Kihlstrom, 2002; Tulving, 2002). E’ l’identità personale, infatti, che,
oltre a possedere un orientamento al passato, comprende nella sua strutturazione
anche un orientamento al futuro che consente, nel presente, di effettuare ricostruzioni, valutazioni e scelte. Si assume, dunque, che il sé (o l’identità personale) sia,
come proposto da Lichtwark-Aschoff et al., il risultato del processo di interazione
tra continuità e cambiamento nel corso del tempo e dello spazio, e che esso risulti
definito, in parte dalla consapevolezza e dall’auto-percezione del soggetto e, in parte, dagli ‘altri significativi’, dai loro feedback e dalle relazioni con essi intrecciate
(Lichtwark-Aschoff, van Geert, Bosma, Kunnen, 2008).
E’ per questo che l’identità individuale può essere interpretata anche come identità narrativa: cioè, come, con gioco di parole, una ‘storia’ sul sé che il sé costruisce
per se stesso (Bruner, 1997; Nelson, 1988, 1996) e per l’altro cui di volta in volta la
narra.
Per offrire un racconto, per comunicare un’esperienza, per rievocare un ricordo
e condividerlo con un pubblico più o meno vasto, la mente ed il linguaggio hanno
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RICERCHE
bisogno di organizzare pensieri e parole secondo degli ordini, seguendo delle impalcature strutturali, adombrando dei modelli organizzativi. Quali siano queste linee
e questi percorsi è questione, in letteratura, ancora aperta; di sicuro la possibilità
stessa, o l’intenzione, di rendere intellegibile un racconto necessita di una qualche
organizzazione che sia accessibile anche al pensiero dell’ascoltatore, che ricalchi le
sue modalità interpretative e che, in poche parole, possa corrispondere a codici condivisi. Per tale motivo non è possibile prescindere dal considerare modelli semiotici
all’interno dei quali individuo e contesto interagiscano e si conferiscano reciprocamente significato. Risulta, cioè, difficile pensare ad una mente individuale che riesca
ad organizzare una narrazione senza ricalcare in essa una modalità ed una memoria
culturale, collettiva, condivisa. Tale riverbero del culturale nell’individuale è stato
sottolineato e ricalcato da una lunga tradizione di studi (Vygotskij, 1962; Propp,
1928; Skowronskij, Walker, 2004), che confluiscono, non in ultimo, nella definizione di generi letterari e narrativi che codificano e riscrivono le esperienze secondo
modelli socialmente identificabili e perciò comprensibili (Eco, 1979). Ciò accade
anche per quella forma particolare di racconto, che è il racconto di sé, il racconto
autobiografico, in cui il ruolo del contesto e della cultura di appartenenza nei processi narrativi sembra assumere delle sfaccettature meno intuibili direttamente, ma
soltanto attraverso una lettura più approfondita del fenomeno. Anche la ricostruzione
autobiografica, invece, pur attenendo strettamente alla storia individuale del soggetto che la vive e poi narra, contiene in sé elementi di organizzazione e, potremmo dire,
di ‘forma’ derivati dalla cultura di riferimento. Se le esperienze rievocate in un’autobiografia, infatti, attengono strettamente ad episodi individuali, rappresentabili come
una sequenza di eventi collegati da nessi di causalità soggettiva e temporale (Smorti,
1997), il modo stesso di organizzare questi nessi e di creare tali sequenze risente
della cultura nella quale il soggetto è inserito, ricalca le modalità organizzative di
quella memoria collettiva (Freeman, 2004) nella quale il pensiero dell’individuo, o
meglio il suo ‘inconscio narrativo’ (Brockmeier, 2004; Mancuso, 2004), si è formato
come esito di un percorso di interiorizzazione del discorso interpersonale (Vygotskij,
1934).
Lungo il processo di ricostruzione autobiografica, inoltre, l’individuo fa continuo
ricorso alla propria memoria autobiografica (Neisser, 1978), a quel segmento, cioè,
della memoria individuale dove si depositano le tracce delle esperienze vissute e che
hanno rivestito significati particolari per l’individuo. E’ proprio la possibilità di far
ricorso a questo tipo di tracce mnestiche che consente all’individuo di dare senso e
significato alla propria storia di vita, passando da una verità storica (inaccessibile
dalla fine del compiersi dell’esperienza) ad una verità narrativa (Bruner, 1990; Spence, 1982) che fornisce specificità, oltre che continuità e coerenza, al racconto autobiografico. In altri termini, la possibilità di ricostruire la propria storia nel presente
selezionando episodi del passato soggettivamente significativi, consente all’individuo di ricostruire il significato della propria storia di vita e, in definitiva, di costruire
la propria identità narrativa, il sé nel tempo, all’interno di una specifica collocazione
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temporale e culturale.
Il concetto di ‘tempo’, dunque, riveste, a nostro avviso, un ruolo centrale nella
costruzione del racconto autobiografico, nonché nella costruzione delle identità individuali. Su un piano narrativo, la ricostruzione autobiografica organizza gli episodi
seguendo ordini temporali di vario tipo, su un piano identitario, la costruzione del
sé utilizza il passato (l’effetto-traccia delle esperienze vissute, Ford, Lerner, 1992)
come riferimento per interpretare il presente (il sé attuale) in vista di un sé futuro che
si nutre di aspettative e di timori (sé possibili, Markus, Nurius, 1986).
In ogni narrazione di sé, pertanto, confluiscono più livelli e ordini temporali che
non soltanto si integrano in base alle dimensioni di passato, presente e futuro, ma
che seguono anche ulteriori ordini temporali inerenti processi di riordinamento individuali, culturali e naturali (Brockmeier, 1995b). Nella ricostruzione autobiografica
narrativa, più precisamente, vanno a fondersi in particolare due ordini temporali:
quello personale e quello culturale (Brockmeier, 2002). Il risultato di tale sintesi
costituisce il ‘tempo autobiografico’, cioè la ricostruzione temporale della storia di
vita di ognuno, il suo corso e la sua direzione. Nel processo autobiografico, infatti,
non soltanto gli eventi non vengono raccontati nell’ordine in cui sono avvenuti naturalmente, ma vengono ricostruiti e riorganizzati in funzione della valutazione presente, o, come suggeriva Bruner, vengono ‘coniugati al congiuntivo’. Le dimensioni
temporali, in questo modo, seguono due movimenti: quello della narrazione vera e
propria degli eventi nel loro succedersi e quello della riorganizzazione narrativa.
Questo doppio movimento costituisce quella che è stata definita come teleologia
retrospettiva: ricostruire, cioè, la propria storia di vita a partire dal presente, o come
diceva Sartre (1938), “a partire dalla fine”. L’identità stessa, dunque, può essere vista
come una gestalt nel tempo: uno dei fattori che concorre alla formazione dell’identità
individuale è l’aspetto temporale della narrazione, che rimarca il suo rapporto interattivo e trasformativo con la memoria (Brockmeier, 2000).
Ne scaturisce che, attraverso la composizione scritta e orale dei ricordi, è possibile creare una storia con una duplice funzione: da una parte, legata alla possibilità di
fornire al sé, utilizzando modelli offerti dalla cultura di appartenenza, un filo di temporalità intorno al quale costruirsi, dall’altra, legata alla possibilità di rendere questa
‘storia del sé’ a sua volta leggibile, comprensibile, condivisibile con l’esterno. In tal
modo, la gestalt identitaria che se ne ricava fa emergere una trama, un ordine che
regola il tempo vissuto e il tempo narrato e che consente al presente di fondarsi sul
passato secondo dei canoni e delle categorie ereditate dalla cultura di appartenenza.
Le modalità narrative, pertanto, pur essendo scelte di volta in volta dal soggetto narrante, risultano anche vincolate da quegli elementi culturali che abbiamo detto essere
parte costituente dell’inconscio narrativo cui si faceva cenno in precedenza.
In particolare, sono stati individuati sei modelli temporali prevalenti attraverso
i quali si organizza l’identità narrativa: lineare, ciclico, circolare, a spirale, statico
e frammentario. Di questi sei modelli, quattro (lineare, circolare, ciclico, a spirale)
vengono definiti anche modelli evolutivi, poiché descrivono la vita come un proces18
RICERCHE
so, un movimento e, attraverso di essi, l’autobiografia può essere letta come un luogo
per un organizzazione del tempo e dell’esperienza di tipo evolutivo. In sintesi, questi
quattro modelli temporali costituiscono delle vere e proprie storie di cambiamento.
Gli altri due modelli (statico e frammentario) mancano di una traiettoria di sviluppo
e sembrano non contenere al loro interno dinamiche di cambiamento: sono, sostanzialmente, senza tempo (Brockmeier, 2002).
Violazione della canonicità, turning point e transizioni biografiche
E’ noto già dall’autobiografia letteraria, come si diceva, che nessuna storia può
essere raccontata, codificata e compresa se non a partire dalla sua fine. E’ il movimento a ritroso nella memoria, quindi, che consente di individuare episodi vissuti
come rilevanti per il sé. Fin dai primi anni di vita (Nelson, 1974), inoltre, la memoria
semantica si forma a partire da quegli episodi di rottura della canonicità, che marcano una discontinuità nell’esperienza soggettiva. Tali episodi di rottura si distinguono
da quegli eventi quotidiani che, ripetuti simili a sé stessi nel tempo, si trasformano
in script cognitivi ‘riassuntivi’ (canone/rottura del canone). Gli episodi non canonici
rappresentano spesso, per il loro portato di novità, dei turning point all’interno della
memoria, dei momenti che il soggetto percepisce nel presente come dei punti di
svolta del passato, intorno ai quali si è prodotto un cambiamento identitario consistente.
In questo senso, alcune esperienze traumatiche o improvvise possono essere considerate come dei turning point importanti e di impatto forte e indubitabile e costituiscono al contempo delle fasi di cambiamento e transizione per il soggetto stesso
(transizioni non-normative); altre esperienze costituiscono, invece, dei marcatori di
passaggio culturalmente scanditi e dei turning point in qualche modo attesi e che si
incastonano nel percorso evolutivo normativo (transizioni normative). In entrambi i
casi, si tratta di esperienze che inducono una nuova direzione alla vita, attraverso la
ristrutturazione delle routines quotidiane e trasformazioni della struttura dell’identità
personale (Rumbaut, 2005). Ogni transizione, infatti, insieme con gli elementi di rottura rispetto alla continuità, comporta anche diverse opportunità di sviluppo (Bauer,
Bonanno, 2001), attivando nel soggetto un’intensa attività di auto-riflessione (Bauer,
McAdams, 2004), motivata dalla ricerca di continuità per la propria storia e dal tentativo di dare senso (Cantor, Kihlstrom, 1987) alle novità che intervengono.
A tal proposito, la narrazione autobiografica può, con pertinenza, fornire elementi
utili a comprendere se e in che modo la transizione esterna sia divenuta occasione di
cambiamento interno e d’integrazione d’istanze diverse, poiché consente di evidenziare il modo in cui il soggetto sia stato indotto a ridefinire il proprio sé per interpretare il cambiamento. Recenti ricerche hanno suggerito, infatti, che l’interpretazione
soggettiva che l’individuo fornisce alle proprie esperienze di transizione biografica
influisce sullo sviluppo della personalità e sull’intero corso di vita (Brandstaedter,
19
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
Wentura, Rothermund, 1999; McAdams, Josselson, Lieblich, 2001). Bauer e McAdams (2004), ad esempio, hanno ipotizzato che chi interpreta la propria vita in termini di sviluppo e crescita personale raggiunge una maggiore soddisfazione non
soltanto nei momenti di transizione, ma, in generale, durante l’intero processo di
sviluppo della propria personalità.
Risulta, dunque, interessante indagare le modalità narrative, le strutture organizzative dell’autobiografia, il modo in cui il soggetto si aggira negli assi temporali
(analisi della struttura temporale della narrazione) per cogliere come esperienze di
transizione di tipo differente possano influire nella costruzione del sé e dell’identità
narrativa.
Obiettivo ed ipotesi
In questo studio, in particolare, si assume che sia le transizioni non-normative
(es.: lutti improvvisi, passaggio alla povertà o al disturbo psichico) che quelle normative (es.: passaggio scuola/lavoro, matrimonio, nascita di un figlio) possano attivare processi di ridefinizione del sé e si ipotizza che le prime possano attivare un
processo di ricostruzione autobiografica sostanzialmente orientato al passato per rintracciare le tracce della continuità rotta (Belau, Randerovic, 2002; Gabbard, 1994),
le seconde una riflessione sulla propria storia di vita, per rintracciare una continuità
al fine di pianificare il futuro (Parrello, Sica, 2006).
Ci si propone, pertanto, di esplorare le modalità di ricostruzione autobiografica,
attraverso l’analisi dei modelli temporali, in soggetti che abbiano attraversato transizioni biografiche normative e non normative. Si scelgono, nello specifico: come
transizione normativa, il passaggio dalla scuola al mondo del lavoro (è stato recentemente rilevato il valore di turning point di tale esperienza nell’organizzazione
del sé; Aleni Sestito, Sica, in corso di stampa); come transizione non-normativa il
passaggio dalla salute al disturbo psichico (è stato sottolineato come l’insorgenza di
una forma di disturbo psichico venga vissuta come elemento traumatizzante in grado
di cambiare l’assetto identitario; Crossley, 2000).
L’ipotesi è che la modalità di organizzazione dell’identità narrativa (cioè le
modalità narrative di ricostruzione autobiografica) utilizzino andamenti nel tempo
differenti a seconda del tipo di transizione attraversata. Ci si aspetta, infatti, che i
modelli del tempo autobiografico si differenzino in funzione della variabile transizione normativa/ non normativa. Nello specifico, ci attendiamo che le transizioni
normative possano stimolare prevalentemente narrazioni di sviluppo e, quindi, dare
luogo a strutture temporali che seguono modelli lineari, circolari, ciclici, a spirale.
Al contrario, ci aspettiamo che le transizioni non normative - nelle quali un evento
inatteso, spesso traumatico, interviene a rompere gli equilibri raggiunti, rompendo
anche la linea della continuità temporale - inducano il soggetto a produrre ricostruzioni narrative focalizzate sull’evento, sulla sua rievocazione e, perciò, caratterizzate
20
RICERCHE
da modelli in prevalenza statici e/o frammentari.
Metodo
Le ipotesi e i quesiti descritti sono stati indagati attraverso una metodologia di
tipo quali-quantitativo, ritenuta idonea per le sue caratteristiche strutturali e funzionali. Tale scelta è parsa obbligata non soltanto per la natura stessa dell’oggetto di
ricerca (esaminare i modelli temporali dell’organizzazione dell’identità narrativa),
ma anche dal momento che numerosi studi hanno sottolineato l’adeguatezza dell’utilizzo di strumenti qualitativi (interviste, storie, autobiografie) per cogliere i processi
di produzione di senso nello studio delle transizioni biografiche (Bauer, Bonanno,
2001; King, Miner, 2000). In dettaglio: la rilevazione dei dati si è avvalsa di uno
strumento qualitativo (intervista autobiografica), l’analisi dei rilievi emersi di una
procedura quali-quantitativa.
Partecipanti
Per poter effettuare il confronto tra il processo autobiografico attivato nella transizione normativa e quello attivato nella transizione non normativa, sono stati intervistati 2 adulti (1 maschio ed 1 femmina, età media 28 anni, che chiameremo
convenzionalmente M. e N.) che, essendo passati dallo stato di salute a quello di
malattia a causa dell’insorgenza di patologie di tipo psichiatrico, hanno vissuto una
transizione non-normativa (salute-malattia mentale) e 2 tardo adolescenti (2 maschi,
età media 19 anni, che chiameremo convenzionalmente A. e C.) che hanno vissuto
una transizione normativa, avendo terminato la scuola e intrapreso un’attività lavorativa1. Una breve descrizione della storia dei partecipanti è in tabella (Tab.1).
Tabella 1 - I partecipanti alla ricerca: abstract delle loro storie di vita
Transizione normativa scuola/lavoro
A.
È un ragazzo di diciannove anni ed è alle prime esperienze lavorative saltuarie. Da
bambino ha praticato sport agonistico, ha poi frequentato un liceo professionale e ricorda
quegli anni come periodo spensierato. Dice di aver vissuto il passaggio al lavoro come una
nuova fase della sua vita, una nuova tappa, resa necessaria, però, dalle precarie condizioni
economiche familiari.
cont...
21
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
C.
E’ un ragazzo di vent’anni, che ha vissuto per due volte l’esperienza della bocciatura
scolastica. Ad essa ha fatto seguito un cambio di residenza e, dopo la conclusione del
ciclo scolastico obbligatorio, l’inizio dell’attività lavorativa. Da un anno fa il ‘gommista’
presso un officina meccanica ed è economicamente indipendente dalla famiglia. Studia per
entrare nell’Arma dei Carabinieri, che costituisce il suo obiettivo futuro.
Transizione non normativa salute-disturbo psichico
M.
E’ un uomo di trent’anni. A partire da quattordici anni svolge disparati lavori, poi a ventuno
anni entra in fabbrica, ma a venticinque anni insorge il primo sintomo depressivo acuto,
che pone una prima sosta alla sua attività lavorativa. Successivamente ha un crollo psichico
più marcato, con un periodo di una settimana di ospedalizzazione. Da quel momento è
regolarmente sottoposto a cura psichiatrica.
N.
E’ una donna di ventinove anni. Ha una figlia adolescente. L’insorgenza del primo sintomo
depressivo acuto le impone uno stop nel suo percorso lavorativo. Si vede costretta ad
abbandonare il lavoro di autista di pullman, a causa delle cure cui viene sottoposta, cerca
un nuovo lavoro, ma l’insorgenza di nuovi sintomi e nuove ‘crisi’ le impongono un nuovo
stop e un nuovo cambio. L’intero suo percorso di vita, a partire dall’insorgenza del primo
disturbo psichico, è costellato da ‘crisi’, ricoveri psichiatrici e tentativi di reinserirsi nel
flusso normale della vita. Al momento dell’intervista vive con la figlia.
Strumento
All’interno di una prospettiva teorica che interpreta la narrazione come processo
di costruzione di senso attraverso il discorso sociale, abbiamo scelto di utilizzare
l’intervista autobiografica come strumento di indagine. A tal fine abbiamo fatto liberamente riferimento al modello proposto da McAdams (1995, 1997) ed all’approccio
di Lieblich, Masiach e Zilber (1998). Tali contributi ci sono parsi particolarmente
utili poiché focalizzano nello specifico l’approccio narrativo alla transizione (Mc
Adams, Josselson, Lieblich, 2001).
Nel formulare la nostra domanda generativa (cioè nel definire il lancio dell’intervista) siamo stati guidati dal duplice intento di comunicare all’intervistato l’oggetto
e gli obiettivi peculiari della nostra area di ricerca (e quindi della intervista proposta)
e al contempo di porre una domanda ampia ed aperta, tale da favorire il processo di
produzione di senso, all’interno della narrazione della storia di sé.
Le interviste autobiografiche, pertanto, sono state realizzate a partire da una domanda “generativa” molto ampia (“Racconta la tua storia a partire da dove vuoi…”),
volta a fare emergere liberamente il racconto autobiografico di ciascun soggetto, e
sono state condotte senza ulteriori stimolazioni strutturate. La partecipazione alla
22
RICERCHE
ricerca è stata volontaria ed anonima; le interviste sono state condotte da ricercatori
formati sull’argomento, in un setting protetto, senza interruzioni esterne. Le interviste sono state audio-registrate con il consenso dei partecipanti e successivamente
trascritte.
Procedura di analisi dei dati
Il corpus testuale derivante dalla trascrizione delle interviste è stato analizzato su
due livelli: 1) contenutistico-lessicale e 2) olistico-interpretativo o idiografico (Legewie, 1994).
1) Per esplorare il contenuto delle narrazioni, evidenziando specificità e differenze
nell’uso delle parole come forme lessicali2, in riferimento alla variabile considerata (transizione normativa/non normativa), è stata eseguita inizialmente un’analisi lessicale delle specificità3 (Lancia, 2004).
2) Per rintracciare a livello interpretativo i differenti modelli temporali utilizzati dai
soggetti nel processo di ricostruzione autobiografica, o le forme della narrazione
(Bruner 1986, 1990, 1991; Britton, Pellegrini, 1990; Sarbin, 1986) sono stati utilizzati congiuntamente indicatori linguistici (livello specifico) e indicatori interpretativi (livello generale). Per quanto concerne gli indicatori linguistici specifici,
si considerano:
- Categorie grammaticali tradizionali: marcatori temporali del verbo; caratteristiche lessicali inerenti al verbo; differenti tipi di avverbi temporali.
- Dispositivi retorici e discorsivi: metafore, metonimie, simboli, allegorie, tropi
di tempo; collocazioni temporali, idiomi, modi di dire, proverbi, frasi fatte.
- Strutture discorsive e narrative più vaste che esprimono visioni del tempo: anacronie (flashbacks, flashforwards, ellissi, sovrapposizioni, sottolineature, riassunti, pause, vuoti, salti), punti di vista o prospettive, sequenzialità (tramite congiunzioni), incassature o framing (integrazione di una storia in un’altra), velocità della narrazione, sistemi indessicali (che definiscono tempo, spazio, identità e
ordini morali di agenti e azioni di una storia), tipi e generi di narrazione.
Dalla lettura generale dell’organizzazione del racconto autobiografico e dall’evidenziazione degli indicatori specifici si perviene alla identificazione interpretativa
dei sei differenti modelli temporali narrativi suggeriti da Brockmeier (2000). Essi
possiedono le seguenti caratteristiche utilizzabili come indicatori interpretativi generali:
• Lineare: il racconto organizza il corso della vita come una linea continua, marcata
cronologicamente. La realtà è vista come una sequenza di eventi e il tempo è con23
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
•
•
•
•
•
cepito come lineare e irreversibile. Tali autobiografie hanno come caratteristiche
narrative (Brockmeier, 1995b): vuoti, salti, intersezioni, anacronismi e sovrapposizioni, non vi è ricostruzione di senso.
Circolare: la storia di vita emerge in funzione del presente. Tale modello illustra
perfettamente il concetto di teleologia retrospettiva. Caratteristiche narrative: si
racconta la propria storia selezionando episodi rilevanti, anche appartenenti ad un
passato molto remoto, ma che sono importanti alla luce di un tema attuale.
Ciclico: la narrazione è intrisa di strutture ripetitive per raccontare la vita, anche
se non vi è mai una ripetizione identica degli eventi. Caratteristiche narrative:
ripetizioni scriptiche o retoriche.
A spirale: i racconti autobiografici costruiscono una visione della vita a spirale
che si sviluppa in avanti; può assumere diversi generi. Es: vita descritta come
sequenza di rivelazioni o scoperte. Caratteristiche narrative: metafore per descrivere la vita, che ne forniscono un tema dominante.
Statico: il racconto propone una visione immutabile di una vita incentrata su un
solo evento, solitamente catastrofico. Caratteristiche narrative: genere tragico,
metafore stagnanti.
Frammentario: (modello postmoderno). In questo modello che fa riferimento
al postmodernismo l’identità è vista come qualcosa di discontinuo, mutevole e
policentrico (Bal, 1999). I racconti autobiografici promuovono la discontinuità,
sottolineano la natura imprevedibile della vita. Caratteristiche narrative: narrazione aperta, decentrata e frammentaria (Francese, 1997), discorso dialogico o
polifonico, identità mosaico, non ci sono riferimenti alla costruzione temporale
ancorata a date o dotata di una direzione verso uno scopo.
Risultati
Specificità lessicali dell’identità narrativa nella transizione.
In primo luogo il corpus testuale costituito dalle interviste prodotte dai partecipanti alla ricerca, è stato esplorato da un punto di vista lessicale: sono stati rintracciati, attraverso l’analisi delle specificità lessicali, le forme grafiche tipiche utilizzando
la variabile transizione per distinguere i sotto-insiemi testuali di analisi.
Per quanto concerne i soggetti in transizione normativa (Tab. 2), emerge una
propensione all’utilizzo di forme (comincio, creare, episodio, cambiamento, entro,
vivere, avvenire) che rimandano ad un’idea della ricostruzione autobiografica in termini di cambiamento. Emerge, inoltre, una propensione ad identificare nella propria
storia di vita episodi che attengono ad esperienze relative all’ambito nel quale si è
prodotta la transizione (scuola, professione, amicizia), sottolineando la funzione dei
turning point come elementi centrali per la memoria autobiografica e organizzatori
dell’identità narrativa (penso, vivere, storia, imparare, esperienza).
24
RICERCHE
Tabella 2 - Specificità lessicali (lemma, chi quadrato, frequenze nel sub-campione
della transizione normativa, frequenza sull’intero campione) della Transizione
normativa
SPECIFICITà Transizione normativa
LEMMA
scuola
professore
amicizia
vita
episodio
comincio
infanzia
anno
creare
cambiamento
classe
famiglia
grande
scegliere
amico
piccolo
forte
esperienza
genitore
futuro
nostro
fidanzato
piacere
momento
credo
insegnano
lavori
mondo
mettere
ricordi
giusto
penso
entrare
vivere
storia
ragazzo
nuovo
avvenire
CHI2
116,47
98,32
77,66
76,25
75,56
70,28
69,44
64,18
55,08
48,95
46,06
45,81
42,53
42,53
37,27
35,56
33,59
29,87
28,63
25,83
25,83
22,88
20,31
20,27
16,46
14,54
14,54
14,54
13,58
13,35
12,44
11,00
10,69
8,71
8,68
8,57
8,09
7,97
SUB
39
15
14
38
19
17
15
22
14
13
8
14
9
9
21
15
7
13
8
7
7
7
13
9
13
5
5
5
16
8
5
19
11
8
9
15
7
4
25
TOT
77
17
18
95
31
27
22
44
23
22
10
26
13
13
56
34
10
30
14
12
12
13
37
21
41
10
10
10
60
22
11
82
39
27
32
65
23
10
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
Per quanto concerne i soggetti in transizione non-normativa (Tab. 3), emerge
una prevalenza di forme che rimandano all’insorgere dell’evento traumatico, alla
propria esperienza di transizione vissuta come rottura nella propria esperienza di vita
(interrompere, riprendere) che evocano dimensioni emotive relative alle esperienze
di turning point evocate (paura, sentire, problemi), che alludono ad una percezione
della propria vita che si concentra staticamente intorno al cambiamento traumatico
vissuto. E’ da sottolineare, inoltre, l’uso prevalente di verbi coniugati all’infinito, che
confermano una dimensione di staticità e di sospensione temporale della ricostruzione dell’identità narrativa. L’identità narrativa sembra essere “fuori dal tempo”, dal
fluire della processualità.
Tabella 3 - Specificità lessicali (lemma, chi quadrato, frequenze nel sub-campione
della transizione non-normativa, frequenza sull’intero campione)
della Transizione non-normativa
SPECIFICITà Transizione Non- normativa
LEMMA
CHI2
interrompere
sentire
lavorare
problemi
paura
madre
riprendere
prendere
sò
ehm
stato
voci
parlare
50,39
9,08
8,78
7,73
7,55
6,82
6,39
5,80
4,85
4,79
4,21
3,96
3,90
SUB
390
260
135
114
73
130
64
132
52
89
60
45
124
TOT
391
276
140
118
74
136
65
139
53
93
62
46
132
I modelli temporali nella ricostruzione autobiografica
La verifica degli indicatori olistici e linguistici ha permesso di identificare i modelli relativi alle due differenti tipologie di transizione considerate.
Per quanto concerne la transizione normativa (Tab. 4), sono stati identificati modelli di tipo circolare e lineare: essi mostrano entrambi una ricostruzione narrativa
del sé che utilizza gli episodi del passato per dare senso al presente e per immaginare
il futuro. Costituiscono, pertanto, narrazioni di tipo evolutivo.
26
RICERCHE
Tabella 4 - Modelli temporali nella Transizione normativa (in grassetto gli
indicatori, in corsivo i segmenti di testo)
A.
(scuola/lavoro)
Modello circolare
C.
(scuola/lavoro)
Modello lineare
La storia emerge in funzione del presente.
Chi racconta organizza il corso della vita come
una linea continua, marcata cronologicamente:
penso cheee cioééé adesso.. alla fine di questi cinque anni.. comunque alla fine proprio di tutto questo
percorso, elementari medie e liceo, mi troverò per la
prima volta, comunque, ad affrontare un qualcosa, un
percorso, penso quello universitario, ma anche quello
lavorativo, cheee.. che.. in cui mi troverò comunque
senzaaa.. senza quella cosa diciamo dall’alto, di sicurezza, di protezione, quella cupola che può essere i
genitori, che possono essere i genitori, ma che possono essere, sopratutto in una scuola come la nostra, gli
educatori, ma anche gli stessi professori che diventano
proprio una sorta diii genitoriii adottivi,
Io personalmente penso che la mia infanzia cioè sia
stata
un’ infanzia che auguro a tutti
Parlo...alle scuole elementari addirittura…il tempo
che uscì
il film “ Io speriamo che me la cavo” ?!… diciamo
che allora cominciavano le prime bullonate… le prime cose un po’ più
sceme… si è creata la cosiddetta banda che ogniqualvolta
uscivamo da scuola andavamo ,diciamo ,in questo
piccolo
ritrovo che ci eravamo creati noi …una piccola/
casarella /
fatta con niente…con piccole sciocchezze… l’ orologio, il
bracciale là sopra..
alle scuole medie ho continuato a stare bene … diciamo… perché ero un po’ gettonato nella scuola dalle
ragazze …
poi finite le medie ..ho fatto..ho cercato di cominciare
a fare il primo superiore nell’ istituto ** ..diciamo fu
quell’ anno…diciamo il cosiddetto anno di cambiamento dal’ adolescenza .. e diciamo trascorsi un anno
all’ insegna del divertimento…
Diciamo già l’ anno successivo i professori già mi
avevano preso di mira….
La storia viene raccontata selezionando gli episodi
rilevanti.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Partita di calcetto
Scelta della facoltà di economia
Rapporto con gli insegnanti
Disillusione sui genitori (alle scuole medie)
Delusione d’amore
Tradimenti alle varie ragazze
Tutti gli episodi devono essere rilevanti alla luce di
un tema centrale. Tema centrale:
Io mi sento spaventato, so che devo essereee.. anche
perchè cioè. Vabbè. io nella miaaa singolarità sono un
po’.. che cerco di crearmi una maschera, no?…
E quindi di conseguenza non potevo più frequentare
quella scuola ( lunga pausa) DA LI’ ...sono venuto
qui. Venendo qui mi sono trovato bene, non ho avuto
problemi,
Sì, ma io me ne accorgo proprio, cioé io sono diverso
da
come mi approccio alla società, alla scuola, agli
amici
cioé, pochi amici mi conoscono veramente, sanno chi
sono, c’ho molti conoscenti e pochi amici.. però quei
pochi sono veri quindi comunque sono…
penso che comunque i buoni hanno sempre la peggio.
poi lavoro, che sono più di 4 anni…di pomeriggio,
quando non..
.ormai…ho venti anni, quindi è il momento che devo
cominciare seriamente a lavorare.
Per quanto concerne i soggetti in transizione non-normativa (Tab. 5), sono stati
identificati modelli sia di tipo evolutivo (circolare e ciclico) che statico.
27
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
Tabella n. 5 - Modelli temporali nella transizione non normativa
N.
(salute-malattia mentale)
Modello ricorsivo – misto (circolare e ciclico)
M.
(salute-malattia mentale)
Modello statico
La storia emerge in funzione del presente.
Visione immutabile di una vita incentrata su un
solo evento
… Cerchi qualcuno, qualcosa, che cosa sia successo,
perché. Perché non conosci né la malattia, non c’è
nessuno che te la spiega in modo concreto, poi.
Poi ho detto io basta, perché comunque riesco a
sentire la stanchezza fisica,quando…fortunatamente
mi conosco tantissimo, riesco a conoscermi quando posso dare della mia forza, quando posso…Sono
consapevole di questo. In più partecipo al progetto
“Leonardo” per andare in Irlanda, quindi sto facendo il corso di inglese, lavoro 8 ore, faccio il corso di
inglese, penso che partiremo, quindi andrò a fare ‘sti
due mesi di stage anche lì in Irlanda che è stato, cioè
è uno dei miei obiettivi anche da raggiungere. Quando ritornerò si vedrà, non ho certo più-più paura di
quello che potrebbe essere, perché tanto comunque io
so che sono una persona che il lavoro riesco sempre
bene o male a trovarl,
Io comunque devo ammetterlo, io non ho sofferto tanto nel dolore, io volevo solo capire. Non ho sofferto,
cioè voglio dire da star male, era più quello che mi
dava la gente e anche la società, ehm i dottori, le sorelle, questo mi distruggeva ancora di più
Io vorrei che questi ragazzi potrebbero dire: Noemi
ce l’ha fatta.
Io non [incomprensibile] so che potrò avere un ricovero, magari, io mi auguro di sì o di no, questo non lo
so, però so che sono all’altezza, perché uno degli ultimi che ho fatto sono stata io a deciderlo, mi sono sentita io che avevo bisogno di aiuto, quindi sono riuscita
a raggiungere quell’obiettivo, ho chiesto io aiuto.
adesso iooo è dieci anni che vado avanti così, ne ho
trentacinque,
poi mi son crollato proprio, ho avuto il crollo, eee…
[pausa di alcuni secondi] Cosa stavo dicendo?
trentacinque anni, eee non lo sono più intenzionato,
voglio dire, a farmi una vita, a sposarmi o…
Evento centrale: slatentizzazione della depressione.
A partire da questo tutto gli eventi si dispongono a
catena e ruotano intorno all’evento senza mostrare
una vera e propria evoluzione.
genere tragico
non è che lo faccio apposta, però non sono, [pausa di
alcuni secondi] non sono capito, ecco. Eeeh,
[pausa di alcuni secondi] eh, mi sento un’ incompreso,
ecco, perchèee,
Poi anche quando so stato maleee, nel, nel novantatrè,
avevo, avevo una ragazzaaa.
Anche lei mi ha lasciato,
quattro amici si vedono, escono assieme, peròoo evidentemente io perchéee non mi son diplomato,
perché ho passatooo i miei guai, mi hanno un po’ cosìii, forseee emarginato, non… eeeh, non son stato
capitolo, hanno interpretato male loro, però pazienza,
che devo fare?
metafore stagnanti
mi sentivo come, come la droga ferma
negli occhi
la storia viene raccontata selezionando gli episodi
rilevanti.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
Dentro di me che frullavano, ero, non so, boh, è stata una cosa, un evento scatenante proprio, non so
neanch’io come spiegarlo. A volte ho cercato di capire, di capire come ..., come fosse successo ma non, non
lo so neanch’io.
Incidente con la macchina (incipit)
Ospedalizzazione
Tentato suicidio
Incontro con il dott. Coletti
Ricovero coatto
Primo lavoro (pulizia delle scale)
Eliminazione dei chiodi dalla gamba
Secondo lavoro (supermercato)
Corso di aiuto magazziniere
Incontro con il dott. Mancini
Vari ricoveri
Lavoro attuale
cont...
28
RICERCHE
tutti gli episodi devono essere rilevanti alla luce di
un tema centrale
Tema centrale: “chi vuole ce la può fare”
E ho detto: io un giorno dovrò dire che ce la si
può fare in qualsiasi situazione. Sarò l’unica fino
adesso,magari, che riesce di nuovo ad avere una vita
normale, perché loro devono sapere che io sono una
persona che-che vale. Cosa mi interessa se la vicina
di fronte dice: quella era la pazza di Villa Cristina.
Se nella narrazione autobiografica di M. si rintraccia un modello che si può chiaramente interpretare come statico, in quanto caratterizzato da metafore stagnanti, appartenenza al genere tragico e ricostruzione narrativa focalizzata su un unico evento
centrale, nella narrazione autobiografica di N. la struttura temporale prevalente risulta riconducibile ad un “modello misto”, che sembra caratterizzarsi come l’esito
dell’intersezione di un modello circolare che struttura l’insieme della ricostruzione
autobiografica e di un modello ciclico che si inserisce nella narrazione dei singoli
eventi. Nell’intervista di N., che, da un punto di vista strutturale classico (Labov,
1997, 2003, 2004; Labov, Waletzsky, 1967) presenta modelli ricorsivi di complicating action ed evaluation, si rintracciano, cioè, elementi evolutivi, che attengono
all’emersione chiara di una teleologia retrospettiva, accanto ad elementi ricorsivi, di
tipo ciclico (Fig.1), inseriti all’interno degli eventi rievocati.
Figura 1 - Diagramma esemplificativo di circolarità nella narrazione di
N. (episodio 6: primo lavoro)
Episodio 6.
Primo lavoro
Complicating action.
E quindi è stato un attimino che
ho perso di nuovo il controllo.
Nuovo
episodio
Tema centrale
"Chi vuole ce la può fare"
29
Resolution.
E poi nient ho detto: boh. Da
allora ho avuto la forza dentro.
Quindi sono andata a togliermi il
chiodo nella gamba che avevo
Evaluation.
Perchè ogni tanto
comunque succede
Boh, ce l'ho rifatta di nuovo
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
La storia di vita di N. viene strutturata, nel suo complesso, in funzione del presente; tale formulazione si rispecchia anche nel grande spazio riservato all’evaluation
(“Quando ritornerò si vedrà, non ho certo più paura di quello che potrebbe essere,
perché tanto comunque io so che sono una persona che il lavoro riesco sempre bene
o male a trovarlo”, “Non ho sofferto, cioè, voglio dire… da star male, era più quello
che mi dava la gente e anche la società, ehm i dottori, le serolle, questo mi distruggeva ancora di più, parte della mia vita…”, “Io non so se potrò avere un ricovero,
magari, io mi auguro di sì o di no, questo non lo so, però so che sono all’altezza,
perché uno degli ultimi che ho fatto sono stata io a deciderlo…”). N., inoltre, non
procede attraverso un ordine strettamente cronologico-autobiografico ma seleziona
quelli che per lei sono degli episodi rilevanti. Tali episodi costituiscono dei veri e
propri turning point (Mc Adams, 2001), selezionati e riportati alla luce di un tema
centrale che può essere descritto, usando le sue stesse parole, come “Chi vuole ce
la può fare”. In questa frase, N. riassume la sua storia di vita caratterizzata dalla
focalizzazione sulla malattia e dal passaggio da questa alla sua condizione attuale
che le consente di svolgere una vita normale (transizione malattia salute). I singoli
eventi narrati, però, vengono ricostruiti secondo un modello ciclico che evidenzia la
struttura ripetitiva del vissuto degli episodi narrati.
Ciò suggerisce l’idea, in altri termini, che il sé narrante di N. utilizzi una struttura
temporale evolutiva di tipo circolare, quando elabora nel presente elementi del passato per conferire a questi un significato, ma che il suo sé narrato utilizzi una ricostruzione ciclica (data da sequenze di complicating, evaluating e resolution), in cui i
cicli sono aperti e chiusi da turning point (articolati in sequenze redentive; Carlson,
1988; McAdams, Diamond, de St. Aubin, Mansfield, 1997; Tomkins, 1987), e risultano ricorsivi: non riescono ad uscire ed evolvere dai loro movimenti stagnanti.
Commenti e conclusioni
In sintesi, sembra che differenti transizioni possano effettivamente attivare processi autobiografici, di ricostruzione narrativa della propria storia e del sé, organizzati attraverso modelli temporali differenti. Il vivere esperienze trasformative, che
si configurano come turning point rispetto alla continuità/discontinuità del processo
autobiografico, influisce certamente sulla collocazione temporale dell’identità autobiografica, conferendo alla ricostruzione soggettiva della storia di vita movimenti
e strutturazioni differenti all’interno della linea temporale. In particolare, transizioni
normative, che in qualche modo riflettono le attese socio-culturali di cambiamento, attivano modelli temporali di ricostruzione autobiografica di tipo evolutivo. I
soggetti si muovono, cioè, lungo la linea temporale con disinvoltura, utilizzando le
memorie del passato per interpretare il presente e costruire il futuro, ridefinendo la
propria identità attraverso l’esplorazione dei propri sé possibili (Grotevant, 1987).
Le transizioni non normative, invece, sembrano produrre un diverso rapporto con la
30
RICERCHE
temporalità. Tale rilievo è in linea con le note osservazioni cliniche sulla percezione
del tempo come fisso e immutabile in adolescenti ed adulti con sindrome psicotica
(Resnik, Levis, Nissim, Pagliarani, 2004).
Nel nostro caso, il processo autobiografico si catalizza intorno all’evento che
ha, realmente, modificato il corso dell’esistenza. Come in un complesso junghiano
(Jung, 1934), l’evento critico, il turning point è vissuto come l’evento centrale intorno al quale si riorganizza l’intera storia di vita. In questo caso, probabilmente più
che nelle narrazioni normative, la mancanza del ‘caso’ - cioè della successione degli
eventi derivata dall’accadere degli eventi stessi nel contesto di vita e non secondo un
ordine di causalità derivata dall’interpretazione soggettiva degli stessi - pare essere
predominante. L’intero filo rosso, l’intera costruzione di senso del processo autobiografico assume l’evento traumatico o critico come ineluttabile, quale elemento organizzatore dell’intera vita. In questo senso, sembra non esservi posto per l’elemento
casuale che definisce e scandisce parte dell’esistenza umana, ma proprio qui la necessità del concatenarsi degli eventi diventa immutabile. E la transizione biografica
assume le connotazioni dell’episodio centrale verso il quale, e a partire dal quale,
tutti gli altri episodi vengono collegati.
Proprio per questa tendenza a dare una spiegazione uni-causale del processo autobiografico - questa caratteristica cioè di bloccare il soggetto su un solo asse temporale – anche la visione del sé diventa fissa e immutabile. La progettualità viene
meno, la narrazione si concentra tutta sul presente e sul passato che ha condotto
inevitabilmente all’oggi, ma il futuro non viene menzionato né anticipato.
Ciò accade con maggiore evidenza nella storia di M., ma da forma anche al modello misto rintracciabile nella storia di N.. Sebbene ad intersecarsi, in quest’ultimo
caso, siano due modelli evolutivi, la loro interazione sembra bloccare lo sviluppo
dell’identità di N. conferendole un sapore scisso e “ruminativo”, in cui sembra non
esserci spazio per la proiezione del sé nel futuro, ma si continui a ‘girare a vuoto’ intorno ad un unico tema centrale che si declina dal passato al presente con modalità e
dinamiche costanti nel tempo. L’unica proiezione possibile nel tempo è come un’eco
del presente, uguale ad esso.
Lo spazio autobiografico di soggetti che hanno vissuto una transizione non-normativa, dunque, si restringe e anche le possibilità di modificazione della propria
identità sembrano contrarsi nell’inevitabilità del sé attuale. Una dinamica simile è
stata rintracciata anche nelle ricostruzioni autobiografiche di adolescenti devianti
(Sica, Aleni Sestito, 2006, in press) per i quali l’ingresso in sistemi di misura penale
ha costituito un turning point nella storia di vita comparabile ad una transizione nonnormativa.
In conclusione, proprio a partire dalla specularità del processo autobiografico
con la costruzione del sé (Smorti, 2003), sì può ipotizzare che nelle ricostruzioni
autobiografiche possano trovarsi modelli, forme organizzative che corrisondono ai
processi di costruzione del sé. In questo senso possono trovare appoggio quelle teorie secondo le quali il pensiero (e dunque il racconto che il soggetto fornisce al sé
31
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 15 - 37
sul proprio sé) ha una matrice dialogica (Harrè, Gillett, 1994; Mecacci, 1999): si
esprime, cioè, attraverso un discorso in cui mittente e destinatario coincidono in un
dialogo interiore. Il modello temporale utilizzato nella narrazione, dunque, potrebbe
corrispondere ad una modalità di vivere i movimenti della propria identità rispetto
alle dimensioni temporali dell’esistenza. Questo resta, certo, un punto da studiare
ed ampliare, ma costituisce un’ottica interpretativa non solo suggestiva ma anche
foriera di ricadute applicative, soprattutto in un’ottica preventiva in cui la narrazione
di sé venga utilizzata come strumento di costruzione identitaria e di elaborazione
degli eventi stressanti/traumatici. Ipotizzando, ad esempio, di costruire interventi di
prevenzione secondaria che aiutino l’individuo a spostarsi da un modello di narrazione statico del sé (es. transizioni non normative, identità negativa in adolescenti
devianti) ad uno evolutivo, che tenga conto di ulteriori piani temporali, di nuove
progettualità, di altri sé possibili.
In tale ottica, può essere particolarmente utile parlare della verosimiglianza della
ricostruzione autobiografica, piuttosto che della verità della narrazione, cioè d’identità narrativa; proprio grazie all’inscindibilità del sé dal racconto di sé e di quest’ultimo dal tempo e dal luogo in cui è prodotto. Tale inscindibilità potrebbe essere letta
come un’indicazione interessante al fine di ricostruire le fila di un’eco, nelle modalità del narrarsi, delle modalità del viversi e del pensarsi, con l’avvertenza di ricordare
che il processo autobiografico va considerato sempre come un processo ‘situato’.
Situato in un contesto e in uno specifico momento storico-soggettivo, situato nella
relazione o nella motivazione che funge da stimolo per il suo prodursi, ma anche
situato nel punto di vista che il soggetto, nel hic et nunc, fornisce a se stesso. E, dunque, passibile d’essere modificato.
“Se viene molestato con domande, il ricordo assomiglia a una cipolla che vorrebbe essere sbucciata perché, carattere dopo carattere, possa venire allo scoperto
quanto c’è di leggibile: di rado univoco, spesso in scrittura a specchio o comunque
enigmaticamente confuso. Sotto la prima tunica, ancora secca e cricchiante, si trova
la successiva che, appena staccata, ne libera una terza, umida, sotto la quale una
quarta, una quinta attendono e bisbigliano. E tutte quelle successive trasudano parole troppo a lungo evitate, anche disegni a ghirigori, quasi che qualcuno, volendo
fare il misterioso fin da giovane, quando la cipolla era ancora in germoglio, avesse
cercato di codificare sé stesso” (Grass, 2006, 4-5).
NOTE
1 Le interviste sono state raccolte nell’ambito di un più ampio progetto di ricerca
nazionale sulle transizioni biografiche (PRIN 2005 “TRANSIZIONI BIOGRAFICHE: OGGETTI E MODELLI DI ANALISI A CONFRONTO”, coordinatore
nazionale Prof. Mario Cardano, coordinatore locale Prof. Laura Aleni Sestito) e
afferiscono ad un corpus comune di interviste presente nell’archivio www.transizionibiografiche.it.
32
RICERCHE
2 Forma lessicale: si intende la singola parola, così come è scritta e non ridotta alla
sua forma canonica (lemma). In questa ricerca si è scelto di utilizzare le forme
grafiche e non i lemmi, in quanto consentono di mantenere inalterate alcune peculiarità delle parole (es: singolare/plurale) e dei verbi (tempi, modi e persone) che
risultano rilevanti nell’interpretazione dei testi stessi.
3 Analisi delle specificità: La tecnica delle specificità (effettuata con l’ausilio del
software T-Lab, Lancia, 2004) permette di comparare (tramite il test statistico
del chi quadro) i testi prodotti dai soggetti e di osservarne le modificazioni nel
profilo lessico-metrico. In particolare, dato un sottoinsieme del corpus (ad es.
le narrazioni dei frequentanti il primo anno di scuola superiore) si verifica quali
usi di parole lo rendono diverso dall’intero corpus o dagli altri sottoinsiemi. Le
specificità, in altri termini, rappresentano il sovra-impiego o il sotto-impiego,
all’interno del corpus testuale, di una forma rispetto ad una soglia di probabilità,
nel nostro caso pari al 5%.
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Riassunto
Lo studio confronta le modalità ricostruttive della narrazione autobiografica in
soggetti che hanno affrontato transizioni di vita sia di tipo normativo (2 tardo-adolescenti che transitano dalla scuola all’università/mondo del lavoro) che non-normativo (2 adulti che hanno affrontato esperienze di ospedalizzazione psichiatrica),
attraverso l’analisi dei modelli temporali della narrazione. E’ stato adottato un approccio di indagine di tipo qualitativo (interviste). Dall’analisi lessicale e dall’analisi olistico-interpretativa emergono risultati che mostrano una differenziazione
dei modelli temporali utilizzati nella narrazione in funzione della variabile ‘tipo di
transizione. In linea con l’ipotesi, i soggetti che hanno vissuto una transizione di tipo
normativo producono narrazioni autobiografiche che utilizzano modelli temporali di
tipo ‘evolutivo’, mentre i soggetti che hanno vissuto una transizione non normativa
utilizzano modelli di tipo statico.
Parole chiave: narrazione autobiografica, modelli temporali, transizione, identità, intervista.
Abstract
This paper examines narrative schemes of autobiographical narration in subjects
in transition. We consider two kind of transition: normative (2 late adolescents involved in transition from school to work) and non-normative (2 adults involved in
psychiatric experiences). We used a qualitative research approach (interviews). Results, that emerged from both lexical and holistic analysis, show a significant difference in temporality schemes of narratives in function of ‘kind of transition’ variable.
Subjects, who were involved in normative transition, use developmental schemes
of temporality; subjects, who were involved in non-normative transition, use static
schemes of temporality.
Key-words: autobiographical narration, temporality, transition, identity, interview.
Ricevuto febbraio 2010
Accettato aprile 2010
37
Declinazioni del senso civico nella
scuola. Uno studio esplorativo tra
gli adolescenti
Terri Mannarini*, Alessia Rochira* e Stefania Trippetti*
* Università del Salento
Il senso civico come modalità di relazione con l’Altro
Il senso civico, spesso utilizzato come sinonimo di “cultura civica” e di “civismo” (civicness) rappresenta un insieme di credenze, valori e norme (Almond &
Verba, 1980; Mazzoleni, 2004). Si riferisce ad un orientamento verso il bene comune caratterizzato da atteggiamenti di cooperazione e fiducia verso gli altri. Per civicness si intende, quindi, un orientamento dei cittadini verso la politica che non è
mosso da aspettative particolaristiche, ma da una visione dell’interesse individuale
legata ad una concezione del bene comune. Essa viene identificata con la diffusione
di un’ampia fiducia interpersonale e istituzionale, che facilita la cooperazione per
obiettivi comuni ed il funzionamento delle istituzioni politiche. La civicness tende
ad essere associata al grado in cui le persone si riconoscono come cittadini ed è
concettualizzata in termini bidimensionali come presenza simultanea di caratteristiche istituzionali oggettive e di caratteristiche soggettive (Evers, 2009). Secondo
Putnam (1993) la civicness è strettamente connessa al capitale sociale, definito
come la combinazione di fiducia, norme che regolano la convivenza e reti di associazionismo civico. Il capitale sociale, cui si attribuisce la funzione di collante
sociale (Van Deth, 1999), può essere pensato come un bene pubblico, costituito
da risorse indivisibili e inalienabili la cui disponibilità aumenta, invece di diminuire, con l’uso. In tal senso, la componente della fiducia costituisce il “ponte” che
connette reciprocamente il singolo alla comunità, generando reciprocità e rispetto
delle norme condivise (Sciolla, 2003).
In letteratura il costrutto di civicness non trova una definizione univoca, e a complicare ulteriormente il quadro teorico, è possibile rintracciare almeno altri tre costrutti che presentano reciproche, se pur parziali, sovrapposizioni: moralità civica,
identità civica e impegno civico. La moralità civica identifica il senso civico di responsabilità per il bene comune ed implica due dimensioni principali: il sistema personale di norme e valori,
39
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 39 - 52
fondato nella sfera privata e appreso attraverso la partecipazione alla vita sociale,
e il sistema istituzionale, contraddistinto dalla qualità dell’ordine pubblico e dal
modo di operare dell’autorità (Letki, 2006). L’espressione identità civica è invece
utilizzata per riferirsi al senso di appartenenza ad una comunità di cives ed al senso
di responsabilità personale che induce ad attivarsi per contribuire al benessere sociale (Kirshner, 2009). Nel processo di maturazione individuale, e specificatamente
nella fase di sviluppo adolescenziale, la maturazione dell’identità civica comporta
il superamento della logica autoreferenziale (Furrow & Wagener, 2003). Essa è in
interconnessione con lo sviluppo dell’identità morale, che proprio nell’adolescenza
si dispiega attraverso forme di impegno civico, anche per mezzo dell’assunzione
di ruoli collettivi (Kirshner, 2009). Infine, l’impegno civico, teorizzato da Bobek,
Zaff, Li e Lerner (2009), presuppone l’integrazione fra il costrutto di identità civica
e quello di impegno civico. Gli autori, con particolare riferimento al processo di
sviluppo degli adolescenti, sottolineano la mutua interconnessione fra individuo e
contesto. Tale prospettiva guarda all’impegno civico come ad una connessione con
la comunità di riferimento; dalle azioni individuali mirate alla valorizzazione della
comunità deriverebbe un feedback positivo per l’individuo, dal momento che le
risorse immesse renderebbero la comunità un contesto favorevole al suo stesso sviluppo. Sempre in riferimento gli adolescenti, la civicness è stata messa in relazione ai comportamenti devianti, secondo una prospettiva socio-ecologica attenta alla
qualità e alla direzione della relazione fra criminalità e ambiente. A tal proposito,
taluni autori (Gatti, Tremblay & Larocque, 2003) hanno sottolineato come il ruolo
della civicness sia stato trascurato nell’ambito della letteratura criminologica, la
quale ha dato maggiore risalto ad alcune caratteristiche dell’organizzazione sociale,
quali il capitale sociale e l’attitudine altruistica, in qualche misura considerate in
grado di disincentivare l’assunzione di comportamenti devianti. E’ tuttavia fondato
ipotizzare che una comunità civicamente strutturata agisca da fattore in grado di
contenere la criminalità (Gatti, Tremblay & Larocque, 2003). Da uno studio condotto su 95 province italiane (Gatti, Tremblay & Schadee, 2007) volto ad indagare
l’impatto della civicness su alcune forme di crimine violento (omicidio e rapina),
emerge che l’influenza protettiva della civicness si spiega in considerazione di alcune variabili socio-economiche e territoriali. Tale relazione è interpretata alla luce
delle teorie sul capitale sociale, che permettono di considerare la civicness come
una vera e propria forma di controllo informale. Inoltre, l’assetto civico sarebbe in
grado di scongiurare l’assunzione di comportamenti devianti in quanto garantisce
l’offerta di opportunità di investimento e di impegno, ed influenza positivamente
i processi di socializzazione. Tali considerazioni sono coerenti con quanto evidenziato da Bobek e coll. (2009) a proposito della capacità supportiva della comunità,
contesto funzionale allo sviluppo individuale e sociale.
Numerosi studi (Banfield 1976; Inglehart, 1983; Putnam, 1993) da diverso tempo
hanno rivolto l’attenzione al nostro paese, individuato come un contesto fortemente in crisi per lo sviluppo del senso civico. Si parla, a tal proposito, di tesi socio40
RICERCHE
culturale, secondo la quale alla base della scarsa civicness riscontrabile in Italia vi
sarebbe principalmente la presenza di orientamenti culturali quali il particolarismo,
il localismo e il familismo. Più di recente, tale visione è stata messa in discussione
(Sciolla & Negri, 1996; Gubert & Pollini, 2008), sottolineando la necessità di prestare attenzione all’interazione esistente tra i valori culturali e i contesti sociali in cui
si applicano, collocando cioè il senso civico nello spazio di intersezione tra valori,
fiducia nelle istituzioni e senso di appartenenza alla comunità. Complessivamente, dunque, possiamo considerare la civicness – con le sue componenti di fiducia,
orientamento al bene comune, investimento sul contesto – un organizzatore della
relazione con l’Altro.
Lo studio
Obiettivi
La ricerca, di natura esplorativa, ha inteso rilevare i modelli socio-culturali della
civicness in un campione di adolescenti. Ai fini dell’operazionalizzazione del costrutto, si è optato per una definizione di senso civico inteso come disposizione alla
tutela del bene collettivo piuttosto che all’interesse individuale, disposizione che si
realizza in atteggiamenti e comportamenti di tipo cooperativo, fondati cioè su una
base fiduciaria. In particolare, data la molteplicità di componenti e correlati che
la letteratura variamente attribuisce a questo costrutto (di cui si è dato conto nel
paragrafo introduttivo), si è proceduto a disarticolare la definizione generale appena fornita nei seguenti microelementi: (a) fiducia vs. diffidenza; (b) dominanza vs.
egualitarismo; (c) rispetto vs. rigetto delle regole di convivenza; (d) appartenenza
vs. estraneità al contesto scolastico e territoriale; (e) apatia vs. impegno rispetto a
questioni sociali/politiche. Questa definizione operativa permette di utilizzare il senso civico come organizzatore di un modello di relazione con il contesto e con l’altro. Nell’ambito del setting scolastico, l’altro/contesto possono essere rappresentati
dall’istituzione educativa, da singoli interlocutori al suo interno (professori, gruppo
di pari), ma anche dalla più ampia cornice della società locale. Comprendere come
gli studenti esprimano, nelle parole e nei comportamenti, la propria visione di sé e
dell’altro – all’interno del framework teorico definito dalla civicness – costituisce
pertanto un’opportunità di cogliere contemporaneamente gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo della convivenza e i fattori che spingono invece nella direzione di
una promozione della stessa, dentro e fuori l’organizzazione scolastica. Tali elementi
di conoscenza possono essere utilizzati dalla scuola non solo per entrare in contatto
con i propri studenti, spesso percepiti dagli adulti come abitanti di un mondo “a
parte”, ma anche per comprendere alcune delle dinamiche che gli studenti agiscono
dentro la scuola.
41
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 39 - 52
Strumenti
A partire dall’idea che siano possibili diverse declinazioni della civicness sulla
base della diversa articolazione degli elementi sopra menzionati, è stato costruito un
questionario composto dalle seguenti misure:
- 5 item volti a rilevare il posizionamento relativo di alcuni beni comuni (scuola,
università, stato, ambiente, servizio sanitario), ordinati sulla base del valore attribuito;
- 5 item a quattro modalità (per niente/poco/abbastanza/molto) atti a rilevare atteggiamenti di fiducia interpersonale generalizzata (Prezza, Vanneschi & Capurso,
2007) (es. “La maggior parte delle persone pensa solo a se stessa”; “La maggior
parte delle persone è onesta”) (α .53);
- 7 item a quattro modalità (per niente/poco/abbastanza/molto) per rilevare l’affidabilità percepita di alcuni enti/servizi (comune, sanità, polizia, sindacati, trasporti pubblici, pubblica amministrazione, imprese);
- 12 item utili a misurare la frequenza (mai/qualche volta/spesso) con cui comportamenti lesivi della convivenza vengono usualmente messi in atto (es. “Salire sul
treno o l’autobus senza pagare il biglietto”; “Sentire musica ad alto volume in
luoghi pubblici o comunque in presenza di vicini”) (α .73);
- 9 item finalizzati a misurare l’orientamento alla dominanza sociale (inteso come
grado in cui le persone guardano alla vita come a un gioco a somma zero, desiderando e supportando la stratificazione sociale e il dominio dei gruppi “superiori”
su quelli “inferiori”: es. “Alcune persone sono semplicemente più degne di altre”;
“Per andare avanti nella vita qualche volta è necessario passare sopra gli altri”)
(Roccato, 2001) (α .67);
- 6 item a quattro modalità (per niente/poco/abbastanza/molto) finalizzati a misurare il senso di comunità scolastico (Vieno, Perkins, Smith & Santinello, 2005) (es.
“Sento di appartenere a questa scuola”; “I miei compagni mi accettano per quello
che sono”) (α .73);
- 2 item per rilevare l’interesse e l’informazione politica (frequenza di lettura dei
quotidiani; interesse esplicitoper temi/questioni sociali e politiche);
- 2 item per rilevare l’appartenenza a gruppi/associazioni e l’ambito di attività;
- 4 item per rilevare la frequenza (mai/qualche volta/spesso) dei comportamenti di
partecipazione attiva in ambito socio-politico nell’ultimo biennio (es. “Partecipato ad una marcia/una manifestazione di protesta”; “Firmato petizioni, appelli”);
- 9 item a quattro modalità (per niente/poco/abbastanza/molto) volti a misurare il
grado di cinismo politico (Rubini & Palmonari, 1995) (es. “Nessun partito politico farebbe qualcosa per me”; “Penso che al momento la democrazia sia attiva nel
nostro paese”) (α .72);
- una scheda di raccolta dei principali dati socio-demografici (sesso, età, professione e grado di scolarità dei genitori).
42
RICERCHE
Campione
Il questionario è stato somministrato a studenti frequentanti le classi III, IV e V
di tre scuole superiori di Lecce e provincia (due licei scientifici e un liceo artistico).
Sono state coinvolte in tutto 27 classi (7 terze, 10 quarte e 10 quinte) per un totale
di 501 studenti, di età media pari a 17,2 anni. Di questi il 52,6% sono ragazze e il
47,4% ragazzi. Circa un terzo (il 30,4%) fa parte di qualche gruppo/associazione
attivo sul territorio.
Analisi
Per individuare i principali profili di risposta (ed i corrispondenti raggruppamenti
omogenei di soggetti) ed evidenziare così le differenti articolazioni degli elementi
costituenti il costrutto ‘civicness’ presso il campione di studenti, le risposte al questionario sono state elaborate mediante una procedura di analisi multidimensionale
articolata in due step: (a) nel primo step la matrice dei dati è stata sottoposta all’Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM); (b) nel secondo step, a partire dalle principali dimensioni fattoriali evidenziate, è stata condotta un’Analisi dei Cluster.
Le analisi sono state condotte attraverso l’applicazione del software Spad.
Risultati
Analisi dei cluster
Le analisi multidimensionali effettuate sugli item del questionario hanno permesso di individuare quattro modelli socio-culturali del civismo (graf. 1), ciascuno
relativo ad una certa percentuale di studenti. Il contenuto dei cluster può essere sintetizzato come segue, sulla base della lettura delle modalità di risposta con il più alto
valore-test caratterizzanti ciascuno di essi.
Cluster 1
Gli studenti portatori di questo modello culturale del civismo mostrano un elevato livello di cinismo politico e un chiaro distacco e disinteresse per la sfera politica
in generale, sulla quale risultano poco informati. In linea con questo atteggiamento,
essi non appaiono impegnati neanche saltuariamente in qualche forma di partecipazione attiva. Il loro rapporto con lo studio e con la scuola è di segno chiaramente
negativo: attribuiscono una scarsa importanza all’istruzione e si sentono estranei alla
scuola, percepita come un luogo tutt’altro che piacevole: non solo non percepiscono
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 39 - 52
gli insegnanti come fonte di sostegno, ma anche le relazioni tra pari sembrano essere
insoddisfacenti. Si rappresentano come ragazzi disperati e rassegnati, ambivalenti
nell’affidarsi o diffidare dell’altro, e nettamente svalutativi nei confronti di vari enti
e servizi. Il cluster è stato definito attraverso l’etichetta “cinici distaccati”.
Grafico 1 – Percentuale di studenti per cluster
Cluster 2
Gli alunni raggruppati in questo cluster (in prevalenza di sesso maschile) si caratterizzano per un elevato interesse e informazione sui temi politici, un certo ottimismo nei confronti della politica e delle sue funzioni, una discreta fiducia nella
democrazia e un marcato attivismo sociale. Tali aspetti si accompagnano ad una
valutazione fortemente negativa di tutti gli enti e i servizi. Questi studenti provano
forti sentimenti di rabbia ed esibiscono comportamenti in buona misura trasgressivi,
violando frequentemente alcune regole della quotidiana convivenza. Essi attribuiscono valore positivo al rischio e fanno fatica a considerare il rispetto delle regole
come il criterio orientativo dei propri comportamenti, mostrandosi invece piuttosto
spregiudicati e pronti a ‘seguire la corrente’ se utile. Il loro orizzonte è ampio, sentono la scuola come parte di sé non perché considerino importante impegnarsi nello
studio, ma perché essa viene identificata con il gruppo di pari. Per definire il cluster
si è utilizzata l’etichetta “trasgressivi impegnati”.
44
RICERCHE
Cluster 3
Gli studenti raggruppati in questo cluster (in prevalenza di sesso femminile) sembrano avere un buon rapporto con le istituzioni, e con la scuola in particolare, al cui
interno sia le relazioni orizzontali che quelle verticali (con l’autorità) sono percepite
in termini positivi. Essi mostrano una certa progettualità nello studio, investendo
nel proseguimento della propria formazione; si definiscono arrabbiati, ma anche ottimisti. Attribuiscono inoltre notevole importanza al rispetto delle regole e appaiono, oltre che poco propensi ad infrangere nei comportamenti quotidiani le regole
della convivenza, abbastanza integrati nel contesto. Il cluster è stato etichettato con
l‘espressione “legalisti integrati”.
Cluster 4
Questo modello caratterizza un ristretto gruppo di studenti (pari a circa il 7%).
Sembra, in questa visione di sé e dell’altro, e della convivenza, non esserci la possibilità di instaurare alcun tipo di relazione con l’altro e con il contesto; manca cioè
il riconoscimento dell’altro e di ciò che è comune a sé e all’altro, da qui la violenza
come modalità di rapporto che non riconosce le regole dello stare insieme. Si è denominato il cluster con l’etichetta “anomici”.
Analisi delle corrispondenze
Sulla base della lettura delle modalità di risposte con il più alto valore-test sulle
polarità fattoriali, i fattori sono stati denominati come segue. Il I fattore, corrispondente all’asse orizzontale (graf. 2), è stato denominato fiducia-sfiducia e si riferisce ad una percezione dell’altro (individuo, istituzione, contesto) come affidabile o
meno, quindi degno di investimento. Il II fattore, corrispondente all’asse verticale, è
stato denominato cinismo-estraneità e indica un rapporto con la dimensione pubblica/politica/collettiva contrassegnato da atteggiamenti di cinismo da un lato, e da una
radicale estraneità dall’altro. L’analisi delle corrispondenze mostra due contrapposizioni “forti”: sull’asse fiducia/sfiducia, una netta opposizione fra il modello dei legalisti da un lato (gli unici che si descrivono impegnati nella formazione ed esprimono
forme di investimento sul contesto e sul futuro), e i modelli di cui sono portatori i
trasgressivi, gli anomici e i cinici dall’altro. Sull’asse estraneità/cinismo, la chiara
differenziazione del gruppo degli anomici da tutti gli altri. Mentre i primi tre cluster
presuppongono un’autocollocazione dei soggetti all’interno alla comunità, ovvero
una presenza, seppur conflittuale, insoddisfacente, nel sistema di relazioni (opposte
passivamente nel caso dei cinici, attivamente nel caso dei trasgressivi), la posizione
degli anomici appare più estrema, in quanto rappresenta essenzialmente una forma
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di negazione di qualunque coinvolgimento relazionale. Essi esprimono una forma di
disimpegno diverso da quello associato alla sfiducia, ancorato al mancato riconoscimento della propria appartenenza alla comunità ed al suo sistema di relazioni.
Grafico 2 - Dimensioni sottostanti l’organizzazione dei modelli
socioculturali della civicness
Discussione
I risultati dello studio confermano che la civicness è un costrutto complesso e
pluridimensionale – composto da fattori cognitivi, emotivi e comportamentali – che
include un livello privato e un livello pubblico e organizza la relazione individuocontesto (o sé-altro) sulla base del rapporto fiduciario. I quattro modelli socio-culturali presenti tra gli studenti si differenziano fra di loro sulla base della combinazione
delle dimensioni indicate. E’ rintracciabile in essi una combinazione differente di
quattro delle componenti del costrutto CICE (civic identity/civic engagement) (dovere civico, competenze civiche, connessione con il gruppo dei pari e partecipazione
civica) (Bobek, Zaff, Li & Berner, 2009), che possono essere ricondotte alla dimensione cognitiva (le competenze), emotiva (la connessione ed il dovere) e comportamentale (la partecipazione).
Nel gruppo dei trasgressivi è evidente uno scollamento fra una dimensione personale legata all’impegno (interesse politico, attivismo, ottimismo) e una dimensione
di rapporto quotidiano con il contesto circostante connotato da comportamenti op46
RICERCHE
positivi e trasgressivi, accompagnati da atteggiamenti svalutanti nei confronti degli
attori istituzionali. Questa divaricazione sembra configurare un paradosso, tale per
cui le competenze civiche di cui questi studenti sono portatori non sembrano di fatto spendibili nella e a favore della comunità di appartenenza (scuola o territorio).
Inoltre, il mancato riconoscimento dell’autorità rappresentata dall’istituzione (in
quanto “non affidabile”) favorisce il disinvestimento morale, inducendo le persone
a ritenere che trasgredire le regole non sia moralmente sbagliato (Dekker, 2009).
Tale meccanismo rappresenta, di fatto, una strategia per svincolarsi dalle norme e
dalla responsabilità analoga a quelle individuate da Bandura (2002) per spiegare il
disimpegno morale. In riferimento al costrutto CICE, possiamo sottolineare come la
componente comportamentale sia in questo gruppo piuttosto marcata.
Nei legalisti, che per alcuni aspetti rappresentano l’altra faccia dei trasgressivi, si
definisce con chiarezza una forma di impegno personale sotto forma di investimento formativo, che, pur in un’ottica self-interest (Warren, Mira & Nikundive, 2008),
aderisce alle norme e ben si adatta al rispetto delle leggi che regolano l’istituzione
scolastica e le sue relazioni interne, orizzontali e verticali (Perussia & Viano, 2008).
In altre parole, il perseguimento dei propri obiettivi personali è realizzato all’interno
di un contesto relazionale “sintonico” e secondo modalità adattive. Anche in questo
modello possiamo rintracciare la presenza della componente comportamentale di
CICE, nella misura in cui intendiamo la tendenza alla compliance come una forma di
azione civica rispettosa del bene collettivo. I due gruppi, tuttavia, si differenziano fra
loro in relazione alla dimensione emotiva; mentre i legalisti dichiarano una fiducia
generalizzata ed un sostanziale senso di obbligazione che li induce a conformarsi
alle regole, i trasgressivi non rivelano un forte senso di connessione sociale e non
palesano senso del dovere nei confronti del contesto istituzionale in cui comunque
riconoscono di essere inseriti. In definitiva, mentre nel cluster dei legalisti è rintracciabile un’integrazione fra le componenti cognitive, emotive e comportamentali che
potremmo definire coerente, nel gruppo dei trasgressivi è rintracciabile una configurazione anomala, dal momento che alle competenze civiche si accompagna la tendenza ad assumere stili di comportamento contra civicness ed una pressocchè totale
assenza di connessione emotiva e di senso del dovere sociale.
Nel modello di cui sono portatori gli anomici non sembrano rintracciabili tracce
di civismo, risultando del tutto assente l’apertura verso l’altro che la letteratura considera un tratto essenziale dell’identità civica, dell’impegno civico o della cultura
civica (Kirshner, 2009). Una lettura analoga può applicarsi al modello dei cinici, che
con gli anomici condividono l’atteggiamento negativo nei confronti della dimensione pubblica, rappresentata dalla politica e più in generale da quelli che possiamo
definire “beni pubblici” o collettivi, materiali e immateriali. Questo atteggiamento
è peraltro accompagnato nei cinici da una pressoché totale assenza di azione e da
una percezione diffusa del contesto scolastico come scarsamente supportivo (con
riferimento sia ai ruoli istituzionali, sia al gruppo dei pari). Tuttavia, è possibile riconoscere in questo modello socio-culturale una qualche forma di inserzione sociale
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 39 - 52
che non si riscontra tra gli anomici, per i quali l’ “anti-civismo” non deriva da una
valutazione negativa del sistema di relazioni di cui sono partecipi, ma dalla negazione stessa di questo sistema, che non si riconosce ed in cui non ci si riconosce. Anche
lo stile comportamentale assunto dagli anomici è differente da quello descritto dai
cinici. La violenza è una modalità relazionale perfettamente compatibile con la negazione della relazione stessa: non si lede alcuna regola relazionale di convivenza
dal momento che non vi è alcuna convivenza da preservare. In definitiva, cinici e
anomici condividono la carenza della componente comportamentale di CICE secondo l’asse attivismo/passività. Mentre, infatti, il comportamento degli anomici si
caratterizza per una rilevante propensione alla trasgressione che assume la forma di
comportamenti distruttivi ed alloplastici, quello dei cinici risulta passivo e caratterizzato da un orientamento svalutante e sfiduciato nei confronti della propria condizione e del proprio futuro. Questi ultimi riconoscono la rilevanza della connessione
con il gruppo dei pari, ma al tempo stesso rivelano scarse competenze civiche che si
accompagnano ad una generale tendenza al disimpegno. Del tutto assente nel gruppo
degli anomici è la dimensione emotiva che, come messo in evidenza precedentemente, è associabile al senso di estraneità al sistema di relazioni. Quel che emerge in
maniera predominante nel gruppo dei cinici, al contrario, è la tendenza a percepire il
contesto e le figure adulte significative come non supportive, a conferma di quanto
evidenziato a proposito della correlazione fra impegno civico e percezione dell’ambiente di riferimento.
I risultati del nostro studio sembrano, inoltre, confermare l’ipotesi secondo la
quale l’orientamento civico è negativamente associato all’adozione di stili di comportamento devianti (Gatti, Tremblay & Schadee, 2007). Pur se a livello speculativo, è infatti interessante notare come il rispetto delle regole di convivenza ricorra
(quasi) esclusivamente tra gli studenti che dimostrano un atteggiamento positivo nei
confronti delle istituzioni ed ottimistico nei confronti del proprio futuro, nonché un
orientamento fiduciario nei riguardi dell’altro generalizzato. Il rapporto fra civicness
e devianza/violenza appare sì definito da una pluralità di fattori, ma attiene, ad ogni
modo, alle modalità di relazione e di interazione con l’altro/contesto.
Le dimensioni che organizzano i modelli culturali che abbiamo sin qui discusso forniscono sostegno all’ipotesi che la civicness sia un regolatore del rapporto
individuo-contesto e del rapporto pubblico-privato. Consideriamone con maggiore
attenzione le implicazioni. La relazione con l’altro/contesto è organizzata intorno
alla dimensione della fiducia. Se gli studenti sentono di potersi fidare e affidare alla
scuola, alle istituzioni, alla politica, ma anche ai loro pari, allora è possibile un investimento e un’attribuzione di senso alle regole. Se, al contrario, pensano di non
potersi fidare, la violazione della regola non viene percepita come un danno all’altro,
perché l’altro per primo “tradisce” le loro aspettative, e viene pertanto ripagato con
la stessa moneta. Fiducia e sfiducia funzionano, infatti, come circoli virtuosi e viziosi
(Jervis, 2003), innescando comportamenti simmetrici che possono deteriorare e persino disintegrare i rapporti oppure rinsaldarli. Per tale ragione contesti caratterizzati
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RICERCHE
da inefficienza o corruzione delle istituzioni (di chi dovrebbe cioè tutelare i beni
pubblici), prevalenza di interessi particolari sugli interessi generali, sistematica violazione delle norme, impunità, scarsa equità (Cartocci, 2007), distruggono il senso
civico. Per quanto riguarda la seconda delle dimensioni emerse, ovvero la percezione della dimensione pubblica (intendendo con dimensione pubblica sia la sfera dei
beni collettivi sia la sfera della gestione di tali beni, cioè la politica), va detto che i
dati rispecchiano il trend generale della società italiana e dei giovani in particolare.
Recenti rilevazioni sulla relazione tra giovani e politica in Europa indicano chiaramente come i giovani, congiuntamente a una spiccata sfiducia nei confronti delle
istituzioni politiche, dichiarino un interesse per la politica piuttosto basso (Bontempi
& Pocaterra 2007). Si può discutere, ma non è questa la sede, se gli studenti del nostro studio siano dei “cittadini disaffezionati”, oppure se sia necessario un diverso
schema di lettura per cogliere l’evoluzione dell’impegno sociale, politico e civico
delle nuove generazioni, come da più parti si sostiene (cfr. tra gli altri Cohen, 2005;
O’ Toole, Lister, Marsh, Jones & McDonagh, 2003 ).
Complessivamente, i risultati del nostro studio confermano la rilevanza della relazione individuo-contesto, suggerendo che lo sviluppo del senso civico negli adolescenti è il frutto di un processo di socializzazione trasversale ai sistemi relazionali
fondamentali: famiglia, scuola e gruppo dei pari. Sono, infatti, i legami sociali a incentivare condotte coerenti con i sistema di valori e di credenze proprie della comunità di appartenenza (Duke, Skay, Pettingell e Borowsky, 2009). Connessioni “forti”
con i genitori e la scuola, ma anche con il quartiere, con le figure adulte significative
e con i pari, favoriscono l’impegno civico degli adolescenti enfatizzando la dimensione della responsività, ovvero della percezione di essere riconosciuti dagli altri in
quanto portatori di uno specifico valore. Al contrario, una debole integrazione con il
contesto sociale contribuisce ad un generale disinteressamento per questioni che vadano al di là della sfera personale immediata. In sintesi, a livello individuale il senso
civico è favorito nella misura in cui gli adolescenti: sono inseriti in contesti (scuola,
famiglia, pari, comunità) caratterizzati da fiducia e disponibilità a collaborare con gli
altri; ritengono di poter soddisfare i propri bisogni attraverso l’iniziativa personale
e/o la collaborazione con gli altri; sono oggetto di atteggiamenti di rispetto e cooperazione da parte degli altri; verificano che chi viola le regole paga pegno; pensano,
infine, di poter influire sulla gestione della cosa pubblica. L’istituzione scolastica,
dunque, può agire come fattore di rinforzo della civicness se è essa stessa un sistema
regolato da fiducia e collaborazione, se chiede a tutte le sue componenti il rispetto
delle regole (e ne sanziona l’infrazione), e se fornisce ai suoi studenti un esempio di
“buona amministrazione” della cosa pubblica, nonché di equità e giustizia non solo
nella distribuzione delle risorse ma anche nel trattamento che riserva ai suoi attori.
Inoltre, è essenziale che essa si configuri come un ambiente aperto, capace di favorire lo scambio di idee e di permettere l’espressione delle opinioni, essendosi questa
proprietà delle organizzazioni scolastiche rivelatasi molto più efficace delle azioni
educative mirate a favorire lo sviluppo civico degli studenti (Campbell, 2008).
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Riassunto
La ricerca esplora i modelli socio-culturali di civicness in un campione di adolescenti. In letteratura non è rintracciabile una definizione univoca di civismo, descritto
come un costrutto complesso e pluridimensionale (Almond & Verba, 1980; Mazzoleni, 2004; Letki, 2006; Evers, 2009); piuttosto, si rileva un accordo pressoché unanime
relativamente alla sua funzione regolatrice dei rapporti individuo-altro e individuocontesto (Sciolla & Negri, 1996; Gubert & Pollini, 2008). Con specifico riferimento
alla fase adolescenziale, è stato sottolineato come il civismo sia connesso alla strutturazione di legami sociali forti, intrafamiliari e intracomunitari, e agisca da fattore
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protettivo in grado di sostenere lo sviluppo sociale, l’accrescimento delle competenze
personali e l’adozione di forme di comportamento prosociali, cooperative e normoconformi (Bronfenbrenner & Evans, 2000; Duke, Skay, Pettingell & Borowsky,
2009). Il costrutto di civismo indagato dal presente studio è stato operazionalizzato
in una serie di atteggiamenti e comportamenti riferiti all’organizzazione del rapporto
con il contesto e con l’altro. Un questionario self report è stato somministrato agli
alunni di tre scuole superiori della provincia di Lecce per un totale complessivo di
27 classi e 501 studenti. I dati sono stati sottoposti ad Analisi delle Corrispondenze
Multiple e ad Analisi dei Cluster rivelando la configurazione di quattro modelli socioculturali differenti fra gli adolescenti intervistati. Dai risultati emerge che la relazione
individuo-contesto e individuo-altro è organizzata lungo gli assi principali fiducia/
sfiducia e cinismo/estraneità, tanto al livello privato quanto al livello pubblico.
Parole chiave: civismo – adolescenti – fiducia – scuola.
Abstract
The study explores the socio-cultural models of civicness in a sample of adolescents.
In the literature it is difficult to detect a unique definition of civicness, which is
described as a complex and multidimensional construct (Almond & Verba, 1980;
Mazzoleni, 2004; Letki, 2006; Evers, 2009). Nevertheless, there is wide consensus
on the assumption that civicness is capable to regulate the self-other and self-context
relationships. As far as adolescents are concerned, civicness was found having strong
connections with family and community, favoring and fostering social development,
increasing personal skills, pro-social conducts, and cooperative and compliant
behaviors (Bronfenbrenner & Evans, 2000; Duke, Skay, Pettingell & Borowsky,
2009). In our study the construct of civicness was operazionalized through a pool of
attitudes and behaviors identifying the way adolescents organize their interactions
with the others (i.e. peers, family, teachers), the school and the community. Fivehundreds-and-one students attending three secondary high schools in the province of
Lecce were administered a questionnaire; data underwent Multiple Correspondence
Analysis and Cluster Analysis, through which four socio-cultural models of civicness
emerged. Such models appeared to be organized by two latent factors, i.e. trust/distrust
and cynicism/extraneousness, both concerning the private and the public level.
Key words: civicness – adolescents – trust – school.
Ricevuto marzo 2010
Accettato maggio 2010
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Videogiochi a contenuto violento ed
aggressività. Un modello semiotico
della loro relazione
Sergio Salvatore*, Roberto Quarta*, Ruggero Ruggieri**,
* Dipartimento di Scienze Pedagogiche, Psicologiche e Didattiche - Università del Salento
** Dipartimento di Scienze dell’Educazione – Università di Salerno
Introduzione
L’effetto dei videogiochi a contenuto violento (di seguito: videogiochi violenti)
sugli adolescenti è un argomento ampiamente dibattuto (Anderson 2004; Griffiths
1999). Due sono le posizioni che si confrontano in letteratura. Da un lato coloro i
quali sostengono che i videogiochi violenti elicitano aggressività; dall’altro lato chi
ritiene che non vi siano sufficienti evidenze scientifiche attestanti un legame stretto
tra questi due aspetti.
Le ricerche di Griffiths (1999), Dominick (1984), Lin & Lepper (1987), Cooper
& Mackie (1986), Silvern & Williamson (1987) hanno dimostrato che giocare ai videogiochi violenti non produce nessun effetto sul comportamento o al limite conseguenze di breve durata. Al contrario, Anderson (2004), Anderson, Gentile, e Burkley
(2006), Ballard e Lineberger (1999), Calvert e Tan (1994), Gentile e Stone (2005)
hanno trovato che l’esposizione a videogiochi violenti elicita risposte aggressive di
breve e/o di lungo periodo.
L’analisi della letteratura operata da Bensley e Van Eenwyk (2001) ha enucleato
sei differenti modelli del rapporto tra videogiochi violenti ed aggressività. Quattro
di questi sottolineano la capacità di questo tipo di videogiochi di elicitare risposte
aggressive negli utilizzatori. Secondo la Social Learning Theory di Bandura (1973),
i videogame violenti funzionano come una fonte di apprendimento imitativo del
comportamento aggressivo. La Arousal Theory di Tannenbaum & Zillmann (1975)
asserisce, invece, che la loro pratica può indurre attivazione neurovegetativa, che
troverebbe nel comportamento aggressivo il modo di essere scaricata. Secondo la
Theory of Priming (Berkowitz, 1984), i videogiochi violenti possono attivare strutture cognitive associate al contenuto violento e in tal modo rafforzare il legame tra
il sistema semantico dell’utilizzatore e il comportamento aggressivo. Anche la General Affective Aggressive Model Theory (Anderson & Dill, 2000; Anderson, Gentile, & Burkley, 2006) fa riferimento all’effetto priming; essa sostiene che giocare
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con videogiochi violenti faciliti l’emergenza di pensieri aggressivi e sentimenti di
ostilità. A questi quattro modelli si contrappongono due approcci. La Catharsis Theory (Feschebach & Singer, 1971) afferma the i videogiochi violenti possono avere
un effetto rilassante in quanto essi sono capaci di provocare ed allo stesso tempo
canalizzare l’espressione dell’aggressività latente. In modo non dissimile, per la
Drive Reduction Theory (Rubin 1994), l’uso di videogiochi violenti può tradursi
in un maggior equilibrio emozionale, in quanto esso permette la combinazione tra
un momento di attivazione e un successivo momento di rilassamento. Per esempio,
soggetti fortemente stressati o frustrati potrebbero recuperare il proprio equilibrio
emozionale attraverso l’attività di gioco, come risultato della attivazione e successiva scarica connessa all’esposizione. L’autore arriva così a suggerire che il gioco con
i videogame violenti potrebbe essere utilizzato negli interventi volti a contrastare i
comportamenti aggressivi.
La diversità dei risultati a cui sono giunte le ricerche ha portato diversi autori a
focalizzarsi sulle metodologie adottate. Griffiths (1999) ha così distinto tre principali
approcci metodologici: studi sperimentali, studi che ricorrono all’uso di strumenti
di self report e studi che utilizzano l’osservazione. Nessuno di questi approcci, comunque, arriva a conclusioni omogenee – in ciascuno di essi si ripropone infatti la
divergenza tra risultati a favore dell’effetto elicitante e risultati che lo negano.
Anderson (2004) analizza le caratteristiche metodologiche di 45 ricerche. Le sue
conclusioni mettono in evidenza come la maggior parte di queste ricerche soffrano di
rilevanti carenze metodologiche; tuttavia gli studi con maggiore solidità sono anche
quelli che riportano i maggiori effetti. Tale risultato porta a pensare che almeno in
parte l’eterogeneità dei risultati possa essere una conseguenza della variabile qualità
metodologica delle ricerche. Da qui alcune raccomandazioni di carattere metodologico proposte dall’autore, finalizzate a ridurre tale variabilità. In particolare, Anderson sostiene la necessità di distinguere tra cinque differenti tipi di variabili associate al costrutto di aggressività – il comportamento aggressivo, l’attività cognitiva
a contenuto aggressivo (di seguito: cognizione aggressiva), l’affettività a valenza
aggressiva (di seguito: affetto aggressivo), il comportamento d’aiuto e l’attivazione
fisiologica. Viene sottolineato come le ricerche dovrebbero adottare almeno uno di
questi cinque tipi di variabili come criterio di valutazione dell’effetto dell’esposizione ai videogiochi violenti.
Infine, è opportuno evidenziare un ulteriore aspetto metodologico: la durata
dell’esposizione al videogioco violento. Diverse ricerche, infatti, non controllano il
tempo di gioco (ad es. Gentile & Stone, 2005); in altri casi vengono adottati soltanto
tempi brevi – nella ricerca di Uhlman e Swanson (1985) l’esposizione è di 10 minuti;
15 minuti nel caso di Funk e colleghi (2003). E’ quantomeno plausibile ritenere che
questa limitazione possa aver contribuito ai risultati contrastanti rilevati in precedenza. Per verificare ciò, la nostra ricerca prenderà in considerazione la durata del gioco,
intesa come un indicatore della quantità di esposizione alla violenza.
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RICERCHE
Il significato della violenza
Anche se i ricercatori divergono nelle conclusioni a cui giungono, condividono
un fondamentale assunto teorico: essi considerano il contenuto violento dei videogiochi come avente un effetto invariante sui soggetti, trasversale ai diversi tipi di
videogiochi. In altre parole, si presuppone che la violenza dei videogiochi sia una
qualità unitaria ed omogenea – anche se variabile in quantità tra un videogioco e l’altro (Douglas, 1986). Sullo base di questo postulato, i videogiochi violenti sono visti
come un’unica variabile indipendente, riflesso di una caratteristica immanente dello
stimolo. Di conseguenza, essi sono studiati nei loro effetti psicologici a prescindere
dal loro contenuto e dalle condizioni sociali in cui l’attività di gioco viene esercitata.
In sintesi, gli studi postulano una relazione diadica tra videogioco e utilizzatore ,
che non riconosce nessuno spazio al ruolo di mediazione (Valsiner, 2007) operato
dall’interpretazione che gli utenti producono della esperienza di gioco.
Secondo un punto di vista socio-costruttivista e psicologico culturale (Jodelet,
1989; Cole, 1996; Salvatore et al., 2003; Valsiner & Rosa, 2007) che evidenzia la
situatività e la intersoggettività del processo di attribuzione di significato, tale concezione diadica è una semplificazione. Infatti, l’effetto di un qualsiasi oggetto-stimolo
è una funzione di come il soggetto lo interpreta, piuttosto che una qualità invariante
dell’oggetto in sè. Inoltre, questa interpretazione non è una mera e passiva registrazione delle caratteristiche intrinseche dell’oggetto, ma un processo costruttivo di
attribuzione di significato mediato da significati sovraordinati condivisi sul piano
socio-culturale (Harré & Gillett, 1994; Farr & Moscovici, 1984; Rommetveit, 1992;
Salvatore & Venuleo, 2008; Valsiner, 2007).
Questo studio propone un modello semiotico della relazione tra videogiochi violenti e risposta aggressiva. In termini generali, tale modello afferma che il giocare ad
un videogioco violento non ha effetti invarianti sull’aggressività, perché la relazione
tra gioco e risposta aggressiva è mediata dal significato che il giocatore attribuisce
allo stimolo. In ragione di questo assunto generale la ricerca qui presentata non propone una ipotesi specifica circa l’entità e la direzione dell’effetto dell’esposizione a
videogiochi violenti sull’aggressività. Infatti, dal punto di vista del modello proposto, l'entità e direzione dell’effetto dei videogiochi violenti variano in ragione delle
circostanze e del contenuto del gioco. La nostra ricerca si focalizza sui meccanismi
semiotici che possono spiegare il funzionamento di tale relazione.
Il modello
Quanto segue è una esposizione per punti del modello semiotico della relazione
tra esposizione al videogioco violento e risposta aggressiva, alla base della ricerca
presentata in questo lavoro:
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A) Quando si gioca ad un videogioco, si interpreta un ruolo, anche se solo virtualmente, in base al profilo del personaggio fornito dall’ambiente virtuale del videogioco. Il personaggio ha un aspetto specifico, persegue uno determinato scopo,
tramite azioni di un certo tipo. Tutti questi elementi sono, ad un tempo, la fonte
di regolazione e l’oggetto dell’attività di costruzione di senso agita dal giocatore.
Il videogioco rappresenta quindi uno specifico campo di esperienza (Salvatore &
Venuleo, 2010), a cui il giocatore dà senso attraverso specifiche strategie interpretative.
B) Il giocatore costruisce una rappresentazione del rapporto tra la parte di sé che
interpreta il personaggio e (in senso lato) gli altri. Il giocatore esperisce lo scenario del videogioco e il suo contenuto nei termini di questa rappresentazione. Per
esempio, l’utente potrà rappresentare se stesso come un eroe coraggioso e valoroso che combatte contro criminali crudeli o come una persona cattiva impegnata
a contrastarne altre che non meritano considerazione e pietà.
C) E’ plausibile che nel caso di videogiochi violenti, la rappresentazione di ruolo
sollecitata dal personaggio, tende a favorire una condizione di conflitto sé-altro
cioè una rappresentazione dell’altro come un nemico (di seguito indicheremo tale
rappresentazione con il termine: schema di nemicalità). Lo schema di nemicalità
consente all’utente di qualificare egosintonicamente la realizzazione dell’atto di
violenza virtuale (diversamente tale atto non potrebbe essere fonte di piacere e
divertimento).
D) Lo schema di nemicalità è molto diffuso nel contesto sociale. Esso rappresenta un
modo affettivo primitivo nei termini del quale interpretare l’esperienza. Esso può
essere elicitato da un gran numero di circostanze. La teoria psicoanalitica ritiene
questo schema non solo una delle dimensioni affettive alla base dello sviluppo
psicologico, ma anche un regolatore di base degli stati della mente (si veda, ad
esempio, Paniccia, 2003). La letteratura sul differenziale semantico fornisce diverse evidenze della cogenza di questo schema, inteso come la modalità di connotare gli oggetti secondo l’opposizione affettiva buono/cattivo. A tale proposito,
Osgood, Suci e Tannembaum (1953) parlano di dimensione valutativa (sul ruolo
di questo aspetto nella costruzione di senso si veda anche Salvatore & Venuleo,
2010). E' opportuno evidenziare che la valenza affettiva dello schema di nemicalità alimenta la sua generalizzazione attraverso i diversi domini di esperienza.
Gli affetti possono infatti essere concepiti come forme di rappresentazione ipergeneralizzanti ed omogeneizzanti (Matte Blanco, 1975; Osgood, Suci, & Tannembaum, 1953).
E) D’altra parte, in molte circostanze quotidiane, la norma sociale vincola l’espressione e ancora più l'agito dello schema di nemicalità. Nel caso dei videogiochi
violenti, la virtualità dell’ambiente permette una sospensione della cogenza del
vincolo normativo e dunque la possibilità di messa in atto dello schema di nemicalità. Da questo punto di vista, il significato stesso del videogioco violento
può essere rintracciato in questa sospensione - cioè nella possibilità del giocatore
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RICERCHE
di esperire lo schema di nemicalità, nei termini della sua traduzione in condotta
violenta esercitata verso un determinato oggetto-target virtuale.
F) Si ponga ora attenzione a ciò che accade subito dopo aver giocato con un videogioco. Secondo il nostro modello, in ragione della sua natura affettiva, lo schema di nemicalità tenderà ad essere generalizzato ed investirà il nuovo campo di
esperienza (si veda punto D). In altre parole, esso tenderà ad essere mantenuto e,
quindi, ad alimentare una risposta aggressiva nel campo di esperienza che si viene a determinare nel momento in cui il gioco si conclude. Per inciso, va osservato
che la risposta aggressiva può essere di diversi tipi: comportamentale, affettiva o
cognitiva. (In ragione delle finalità di questo lavoro, in questa sede ci si focalizzerà sul livello simbolico. Di seguito, dunque, il termine “risposta aggressiva” va
inteso riferito specificamente alle dimensioni cognitive e affettive della stessa).
G) La tendenza generalizzante dello schema di nemicalità non si sviluppa tuttavia in
modo incontrastato. Al contrario, la norma sociale eserciterà un vincolo su tale
processo di generalizzazione, così come accade in altri contesti di vita quotidiana
(punto E). Pertanto, in ultima analisi, l’effetto del videogioco violento varierà in
ragione della cogenza della norma sociale. Quanto più la norma sociale vincola
i comportamenti, tanto più la risposta aggressiva verrà inibita. Il nostro modello
identifica due fattori che giocano un ruolo significativo nella definizione della
cogenza della norma sociale e, quindi, nella capacità di quest’ultima di mediare
la relazione tra videogioco violento e risposta aggressiva. Il primo fattore è la
spendibilità sociale della condotta violenta operata dal personaggio del videogioco. Secondo il nostro modello, quanto più la condotta del personaggio è deviante
rispetto alla norma sociale, tanto minore risulterà socialmente spendibile la parte
di identità del giocatore coinvolta nella interpretazione del ruolo, tanto maggiore sarà dunque la probabilità che l’utente mantenga tale parte di sé vincolata al
dominio di esperienza del gioco, limitandone, quindi, la sua generalizzazione ad
ulteriori domini di esperienza. E viceversa. Il secondo fattore è il livello della
norma sociale che l’utente assume come riferimento cogente. E’ infatti opportuno distinguere tra almeno due livelli di norma sociale. Da un lato il livello
macro-sociale, dato dal repertorio di valori e di significati che identifica il giocatore come membro di un sistema sociale caratterizzato da una propria specifica
cultura condivisa (Valsiner, 2007). Dall’altro, il livello micro-sociale, cioè il sistema locale di valori e di significato che segna l’appartenenza del giocatore ad
un contesto situato di relazioni interpersonali (il gruppo dei pari, la famiglia, la
rete del vicinato, la scuola frequentata, e così via).
H) Tanto la spendibilità sociale quanto il livello della norma sono precipitati dell’attività interpretativa che i giocatori esercitano sulla propria attività di gioco. Nello
specifico, ogni fattore può essere associato ad una dimensione della costruzione
di senso.
La spendibilità sociale dipende dal significato della condotta violenta agita dal personaggio del videogioco con cui il giocatore si identifica (d’ora in poi: significato
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 53 - 77
della violenza). In ultima analisi, si tratta di come il giocatore connota l’uso della
violenza in ragione del sistema normativo di valore culturalmente condiviso.
Per quanto riguarda questa dimensione, al fine di opezionalizzarla, si propone
di distinguere due tipi generali di comportamento violento, quindi due categorie
generali di (personaggi di) videogiochi violenti. Da un lato, i videogiochi che
richiedono l’esecuzione di condotte violente virtuali animate da scopi che sono
socialmente censurabili - per esempio, azioni di natura criminale. D’altro lato,
i videogiochi in cui il giocatore compie atti violenti virtuali in ragione di scopi
socialmente valorizzati o comunque legittimati, quali la cattura di criminali, la
difesa di innocenti, l’autodifesa, ecc. Nel primo caso l’atto violento implica il
rifiuto della norma sociale, mentre nel secondo caso, rappresenta una forma di
adesione ad essa (o comunque di mantenimento di coerenza rispetto ad essa). Di
seguito faremo riferimento alla prima categoria di videogiochi con il termine:
videogioco illecito, e alla seconda con il termine: videogioco legittimato. Inoltre,
assumiamo che la prima categoria sia associata a basso livello di spendibilità,
mentre la seconda ad alta spendibilità sociale.
Per quanto riguarda il secondo fattore (il livello della norma sociale), esso può
essere associato al significato dell’attività di gioco svolta dall’utilizzatore del videogioco (d’ora in poi: significato dell’attività). Il significato dell'attività dipende
in ultima istanza dallo scopo che motiva l’attività di gioco. Anche in questo caso
operiamo una distinzione fondamentale tra due categorie generali: a) da un lato,
la situazione che vede il gioco operare come scopo/contenuto/mediatore di un
contesto interpersonale. In tale tipo di circostanze l’utilizzatore usa il videogioco
in ragione di una attività condivisa con altre persone (ad esempio, due o più pari
che si sfidano a chi ottiene il punteggio più alto); b) d’altra lato, la situazione
entro la quale l’utilizzatore gioca da solo, in ragione di finalità individuali (trascorrere del tempo, aumentare le proprie abilità, ecc.). Definiamo il primo tipo di
condizione di gioco come interpersonale; riserviamo al secondo tipo la definizione di condizione di gioco individuale.
La distinzione tra condizione di gioco individuale vs interpersonale implica una
diversa rilevanza dei due livelli di norma sociale di cui abbiamo in precedenza
parlato. Un soggetto che si trova a giocare entro e secondo un contesto di attività
interpersonale, è per ciò stesso motivato dalla - ed identificato con- l'immagine
di sé in quanto membro di tale contesto micro-sociale. Pertanto, in questo caso,
il giocatore sarà esposto ad un significato normativo micro-sociale alimentato
dalla micro-cultura del gruppo impegnato nella attività di gioco. E ciò indipendentemente da se tale norma micro-sociale sia o meno coerente con quella macrosociale.
Al contrario, quando un soggetto gioca individualmente, non vi sarà nessuna specifica dimensione micro-sociale ad essere attivata. Di conseguenza, si può concludere che egli sarà più direttamente esposto alla cogenza della norma macrosociale.
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RICERCHE
J) Nessuna delle due dimensioni richiamate al punto precedente va considerata capace di produrre effetti invarianti. Esse funzionano in ragione della loro interazione. E’ la loro combinazione ad avere un ruolo centrale nel mediare il legame
tra stimolo violento e risposta aggressiva. Questa interazione può essere concettualizzata come segue:
Condizione di gioco individuale. Ci si attende che in questa situazione la norma macro-sociale sia cogente. Questo significa che se l’utente sta giocando un
videogioco legittimato, il comportamento violento sarà legittimato, perfino rinforzato, quindi più facilmente generalizzato in termini di risposta aggressiva. Al
contrario, se l’utente è impegnato in una forma illecita di violenza, le prestazioni
di ruolo saranno incoerenti e sanzionate (o comunque devalorizzate) dalla norma
sociale, quindi più probabilmente inibite nella loro generalizzazione.
Condizione di gioco interpersonale. Secondo il modello, queste situazione è associata alla cogenza della norma micro-sociale. Nel caso tale condizione contempli
l’uso di un videogioco illecito, si realizza un conflitto tra norma macro-sociale e
norma micro-sociale. Infatti, mentre la violenza illecita è, per definizione, valutata negativamente dalla norma macro-sociale, essa deve necessariamente risultare
coerente con la norma micro-sociale. Infatti, nella misura in cui un soggetto gioca
ad videogioco illecito come un modo di partecipazione ad una attività condivisa,
egli sentirà evidentemente la sua condotta di ruolo violenta come un modo di
cooperare con il sistema di micro-sociale. Pertanto, l'ancoraggio micro-sociale
ridurrà in qualche misura l’effetto inibente della norma macro-sociale. Al contrario, nel caso la condizione interpersonale sia associata all’uso di un videogioco legittimato, la norma micro-sociale è coerente con quella macro-sociale. Ci
attendiamo quindi che i due livelli di norme sociali si rafforzino a vicenda nel
legittimare e dunque alimentare la risposta aggressiva.
Una precisazione si rende necessaria. La concettualizzazione sopra sviluppata
implica il riferimento ad una tipologia di adolescenti caratterizzata da un livello di
adesione alla norma macro-sociale. (Per tale ragione, la ricerca ha adottato come criterio di campionamento l’assenza di specifiche condizioni di psicopatologia e comportamento deviante).
Ipotesi
Le seguenti ipotesi sviluppano in termini di aspettative il modello sopra esposto.
Ipotesi 1) Siamo portati ad ipotizzare che il rapporto tra il giocare con un videogioco violento e la risposta aggressiva sia mediato da un processo di generalizzazione dello schema affettivo (lo schema di nemicalità). Ora, secondo una accreditata
letteratura interdisciplinare (LeDoux, 2002; Salvatore & Freda, in stampa; Westen,
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1998) è lecito attendersi che la rappresentazione affettiva sia alquanto rapida, basata
su una forma intuitiva e pre-semantica di computazione. Nella misura in cui tale
previsione è valida, il tempo di gioco non dovrebbe influenzare in modo decisivo la
relazione tra videogioco violento e risposta aggressiva.
Ipotesi 2) E’ lecito attendersi che la norma sociale funzioni in modo differente tra
i generi. Più specificamente, nel caso delle donne, la condotta aggressiva è connotata
come maggiormente deviante dalla norma sociale. Pertanto, si ipotizza che le donne
mostrino un maggiore decremento al post-test della risposta aggressiva (sia nel suo
contenuto affettivo che cognitivo)
Ipotesi 3) Si prevede di trovare un effetto di interazione tra il significato della
violenza (videogioco illecito vs legittimato) e il significato dell'attività (condizione
di gioco individuale vs interpersonale) In particolare, viene ipotizziamo che:
Ip.3a)il gruppo di soggetti che gioca in condizione individuale con un videogioco
illecito mostrerà il livello più basso di risposta aggressiva (cognitiva e affettiva);
Ip.3b) il gruppo di soggetti che gioca in condizione interpersonale con un videogioco legittimato, mostrerà il livello più alto di risposta aggressiva (cognitiva e
affettiva);
Ip.3c) il gruppo di soggetti che gioca in condizione individuale con un videogioco
legittimato e il gruppo di soggetti che gioca in condizione interpersonale con
un videogioco illecito mostreranno livelli intermedi di aggressività (cognitiva
e affettiva).
Metodo
Partecipanti
Lo studio è stato condotto su 128 soggetti, 64 uomini e 64 donne, di età compresa tra i 15 e 18 anni (M=16,88, ds=.774). Al momento della ricerca, tutti i soggetti
erano studenti di una scuola superiore (un Liceo) di una città dell’Italia meridionale
di medie dimensioni (Lecce).
Il campione è stato definito in ragione di tre criteri di inclusione.
1. Il partecipante doveva essere abile giocatore di Playstation2 (una console per videogiochi molto diffusa entro la popolazione di adolescenti da cui è stato estratto
il campione);
2. non doveva presentare forme di patologie fisiche e disagio psicologico;
3. non doveva aver giocato in precedenza con i videogiochi utilizzanti nella ricerca.
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RICERCHE
Disegno
Il campione è stato bilanciato in ragione dei seguenti tre fattori:
A) Il significato della violenza, differenziato in due modalità: videogiochi illeciti vs
legittimati;
B) Il significato dell’attività, differenziato nelle modalità: condizione di gioco individuale vs interpersonale
C) Il tempo di gioco, differenziato nelle modalità: 10’ (T1) vs 45’ (T2).
Ciascun partecipante è stato assegnato in modo causale ad una delle 8 (2x2x2)
combinazioni fattoriali. Ogni partecipante ha dunque giocato una sola volta ad un
solo videogioco.
Materiali utilizzati
Il significato della violenza: Videogioco illecito vs videogioco legittimato
Sono stati utilizzati due videogiochi a contenuto violento implementabili dalla
console Playstation2: Unreal Tournament e Driver 3. In Unreal Tournament, il personaggio principale interpretato dal giocatore è un poliziotto che si trova costretto a
compiere azioni violente per difendersi da una pericolosa banda di spietati assassini.
Questo videogioco è stato presentato nel seguente modo: “sei un poliziotto impegnato in una normale operazione di pattugliamento all’interno di un magazzino abbandonato. Mentre sei all’interno del magazzino, arrivano alcuni pericolosi criminali,
che usano il deposito come loro rifugio. I criminali si accorgono che c'è qualcuno e
iniziano la caccia per scovare ed uccidere l’intruso. Non puoi chiedere aiuto. Devi
difenderti come puoi. E’ necessario ucciderli se non vuoi essere ucciso da loro”.
In Driver 3, l’utente assume il ruolo di un criminale, che compie azioni illegali
senza alcun riguardo per i danni arrecati agli innocenti coinvolti. Questo videogioco è presentato nel seguente modo: “Sei un pericoloso criminale. Nulla ti fa paura,
neppure la polizia. Sei armato di tutto punto e rubi auto e moto. Mentre fai ciò, spari
alla gente che passa per semplice divertimento”.
In ragione di quanto precedentemente discusso, consideriamo il primo videogioco come un esemplare di videogioco legittimato ed il secondo come esemplare di
videogioco illecito.
Il significato dell’attività: condizione interpersonale vs condizione individuale
Al fine di attivare la condizione di gioco interpersonale, i soggetti hanno ricevuto
le seguenti istruzioni: “Stai partecipando ad una competizione con altri soggetti: Più
bersagli sei in grado di colpire e maggiore sarà il tuo punteggio. Il giocatore che
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otterrà il punteggio più altro sarà il vincitore. La durata del gioco sarà di X (10’ o
45’) minuti”.
La presentazione del compito sperimentale per i soggetti coinvolti nella condizione di gioco individuale è stata: “Sei invitato a giocare a questo videogioco, così che
possa divertirti. La durata del gioco sarà di X (10’ o 45’) minuti”.
Strumenti
Per raccogliere le informazioni relative ai criteri di campionamento, in fase di
pre-test sono stati applicati due questionari all’intera popolazione della scuola superiore di riferimento: il Questionario sull’Uso dei Videogiochi (QUV) e il CrownCrisp Experiential Index (CCEI; noto anche come Middlesex Hospital Questionnaire). Il QUV è stato costruito appositamente al fine di acquisire dati preliminari
sulla conoscenza e l’uso dei videogiochi presso i soggetti della popolazione target.
Il CCEI (Mavissakalian & Michelson, 1981) è un questionario standardizzato selfreport di personalità, suddiviso in sei sottoscale e progettato per misurare dimensioni
clinicamente rilevanti (ansia fluttuante, ansia fobica, ansia somatica, ossessività, depressione e tratti isterici). I soggetti con punteggio superiore alla soglia indicativa di
problematiche psicopatologiche sono stati esclusi dal campione.
Sulla scorta delle indicazioni metodologiche fornite da Anderson (2004), sono
state prese in considerazione come variabili dipendenti le dimensioni affettiva e
cognitiva della risposta aggressiva (affetto aggressivo e cognizione aggressiva). Entrambe le dimensioni sono stati misurate al pre-test e al post-test.
La Scala di Aggressività/Rabbia del POMS (Profile Mood States; Mc Nair, Lorr,
& Droppleman, 1991; per la versione italiana si rimanda a Farnè, Sebellico, Gnugnoli & Coralli, 1991) è stata utilizzata per misurare l’affetto aggressivo. Il POMS è
un questionario self-report composto da 6 scale. Esso adotta punteggi standardizzati
differenziati per genere. Ogni scala è volta a misurare uno specifico stato affettivo (Tensione, Forza, Depressione, Aggressività-Rabbia, Debolezza, Confusione). Il
POMS è stato pensato per campioni di soggetti nevrotici, o comunque in condizione
di stress; esso si è mostrato tuttavia efficace anche nel caso di campioni non clinici.
La scala Aggressività-Rabbia (d’ora in poi: Aggressività) è composta da dodici item
su scala Likert a 5 punti (da 0 = per niente a 4 = molto), che descrivono stati di aggressività e avversione verso gli altri (ad es. essere arrabbiato, irritato, imbronciato,
pronto a litigare ecc.). Ciascuno di questi stati è definito da un aggettivo che il soggetto deve utilizzare al fine di descrivere il proprio umore. La descrizione può fare
riferimento al momento presente o ad un recente passato (ad es. come ci si sentiva
la settimana precedente). In questa ricerca abbiamo usato il momento presente come
riferimento. Il punteggio della scala è dato dalla somma delle singole voci (min = 0,
max = 48).
Per la misura della cognizione aggressiva è stata utilizzata la Scala di Ruminazio62
RICERCHE
ne. Questa scala è una delle due in cui si articola la Scala di Irritabilità e Ruminazione/Dissipazione (Caprara, Barbaranelli, Pastorelli & Perugini, 1991), uno strumento
standardizzato self-report. La Scala di Ruminazione misura la propensione del soggetto a superare i sentimenti di risentimento e il desiderio di ritorsione sperimentati
come reazione ad un'offesa subita. La Scala è quindi concentrata sulle forme di aggressività che implicano il dispiegarsi di una prospettiva temporale, dunque funzioni
cognitive associate con l’attività di valutazione delle situazioni, di memorizzazione,
di presa di decisione, di pianificazione. Per questo motivo tale scala è stata utilizzata
in vari studi sperimentali (Bushman & Green, 1990; Ziherl et al., 2007) come indice
della cognizione aggressiva. La Scala di Ruminazione ha mostrato di essere un buon
predittore del comportamento aggressivo prodotto come ritorsione per un’offesa subita. Inoltre, essa è risultata correlare con la frequenza di arresto per reati contro la
persona e la proprietà. La scala è costituita da dieci item a 7 punti (da 1 = completamente falso per 7 = del tutto vero) più cinque item di controllo. I 10 item descrivono
l'atteggiamento del rispondente verso le offese e chi le produce (ad esempio: non ho
mai aiutato coloro che mi hanno offeso; solo dopo molti anni sono in grado di non
provare più rancore...). Anche questa scala fa riferimento a punteggi standardizzati
differenziati per genere.
Procedura
La fase di pre-test è stata realizzata cinque mesi prima delle successive fasi della
ricerca. L’attività di gioco si è svolta nel laboratorio di informatica della scuola, durante l’orario scolastico. Ogni partecipante ha giocato da solo, alla sola presenza dello sperimentatore (uno degli autori di questo lavoro, RQ). La procedura prevedeva
che lo sperimentatore accompagnasse il soggetto alla scrivania, dove quest’ultimo
trovava le istruzioni relative alla condizioni di gioco (individuale vs interpersonale)
a cui era stato casualmente assegnato. Terminata la presentazione, e dopo avere
fornito eventuali brevi chiarimenti, lo sperimentatore accompagnava il soggetto alla
console di gioco (posizionata due metri dietro la scrivania). Qui il partecipante trovava le istruzioni relative al videogioco assegnato. Una volta forniti eventuali ulteriori
chiarimenti, lo sperimentatore forniva al soggetto il joystick, mostrando brevemente
il funzionamento dei comandi previsti dal videogioco. Una volta che il soggetto si
dichiarava pronto, veniva dato il via al gioco.
Terminato il tempo a disposizione, lo sperimentatore accompagnava il soggetto
ad un’altra postazione, interna allo stesso laboratorio, in modo da procedere con la
seconda somministrazione (post-test) delle scale Aggressività e Ruminazione.
63
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 53 - 77
Risultati
Si è preliminarmente operata la trasformazione logaritmica dei punteggi della
scala Aggressività (relativi sia al pre test che al post test). I punteggi così trasformati
sono risultati coerenti con l’assunto di normalità della distribuzione (per la verifica
di tale assunto è stato utilizzato il test di Kolmogorov-Smirnov).
Nel caso della Scala di Ruminazione, la log-trasformazione dei punteggi non è
stata di aiuto. La normalità della distribuzione è stata ottenuta soltanto dopo aver
diviso il campione in ragione del genere (vedi sotto). Conseguentemente, abbiamo
deciso di eseguire le analisi relative alle ipotesi 1 e 3 separatamente per il subcampione degli uomini e delle donne.
Preliminarmente, sono state effettuate due MANOVA (2x2x2: significato della
violenza x significato dell'attività x tempo di gioco), per testare l’ipotesi nulla relativa alla non significatività della differenza tra i blocchi fattoriali. Una MANOVA
ha utilizzato i punteggi pre-test relativi alla Aggressività e alla Ruminazione come
variabili dipendente. Gli assunti di uguaglianza delle matrici di covarianza (test di
Box non significativo, con alfa =.05), e della varianza di errore (test di Levene non
significativo, con alfa =.05) non sono risultati sconfermati. Nessun effetto principale
o di interazione è emerso dalla analisi. L’altra MANOVA ha adottato le sei scale del
Crown-Crisp Experiential Index come variabili dipendenti. Anche in questo caso le
condizioni da assumere per la validità di questo tipo di analisi sono risultate soddisfatte. Non è stato trovato alcun effetto principale o di interazione.
Inoltre, una ANOVA a tre vie non ha mostrato la presenza di differenze significative tra le fasce d’età (test di Levene per l’uguaglianza delle varianze di errore non
significativo con alfa =.05). Infine, si è testata l’indipendenza delle 3 dimensioni
fattoriali prese singolarmente rispetto ad alcuni indicatori socio-demografici (livello
di istruzione del padre e situazione occupazionale), così come alla familiarità con la
Playstation2 (misurata con il Questionario per l’Uso dei Videogiochi in termini di
autovalutazione del tempo speso quotidianamente a giocare). Le uniche differenze
significative che sono state trovate riguardano la relazione tra : a) istruzione del
padre x la durata del gioco (i soggetti che avevano giocato 10’ hanno una più alta
percentuale di padri con livello di istruzione basso, chi quadro, p <0,5) e b) la familiarità con la Playstation2 x il significato della violenza (una più alta percentuale
di soggetti che avevano giocato al videogioco legittimato aveva dichiarato di usare
la Playstation per più di 90’ al giorno). Nel complesso, dunque, questi dati attestano
che la procedura di assegnazione casuale dei soggetti alle condizioni sperimentali è
stata sufficientemente efficace. La tabella 1 fornisce alcune statistiche descrittive dei
soggetti. (Per facilitarne l’interpretazione, nella tabella sono riportati i dati originari,
anche nel caso delle variabili per le quali le analisi sono state effettuate sulle trasformazioni logaritmiche).
64
RICERCHE
Tabella 1. Statistiche descrittive
Significato della violenza
Significato dell’attitivà:
Condizione interpersonale
Legittimata
Media
Donne
Ruminazione
(pre-test)
Ruminazione (posttest)
Aggressività (pre-test)
Aggressività
(post-test)
Ruminazione
Uomini
(pre-test)
Ruminazione
(post-test)
Aggressività
(pre-test)
Aggressività
(post-test)
N
Illecita
Dv. st.
Media
N
Totale
Dv. st.
Media
N
Dv. st.
49.681
16 27.3489 50.219
16 29.2660 49.950
32 27.8645
36.581
16 29.9642 36.275
16 27.7287 36.428
32 28.3991
59.50
16
13.337
56.69
16
10.799
58.09
32
12.022
50.88
16
11.465
52.88
16
12.393
51.88
32
11.788
54.963
16 27.5666 55.650
16 29.8352 55.306
32 28.2584
51.363
16 27.3713 52.744
16 29.2083 52.053
32 27.8533
60.25
16
8.371
59.69
16
12.711
59.97
32
10.591
58.63
16
17.200
55.38
16
14.957
57.00
32
15.941
Significato della violenza
Significato dell’attitivà:
Condizione individuale
Legittimata
Media
Donne
Uomini
N
Illecita
Dv. st.
Media
N
Totale
Dv. st.
Media
N
Dv. st.
Ruminazione
(pre-test)
63.888
16 22.0647 47.025
16 25.2178 55.456
32 24.8327
Ruminazione
(post-test)
52.444
16 29.6228 38.406
16 27.4374 45.425
32 28.9779
Aggressività
pre-test)
54.63
16
8.838
58.25
16
15.238
56.44
32
12.391
Aggressività
(post-test)
54.25
16
12.146
49.38
16
7.535
51.81
32
10.247
Ruminazione
(pre-test)
64.556
16 26.2244 61.238
16 24.3866 62.897
32 24.9674
Ruminazione
(post-test)
70.556
16 20.8168 51.950
16 29.3474 61.253
32 26.7537
Aggressività
(pre-test)
64.25
16
9.434
56.81
16
12.608
60.53
32
11.587
Aggressività
(post-test)
57.31
16
11.341
53.25
16
15.036
55.28
32
13.262
65
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 53 - 77
Significato della violenza
Totale
Legittimata
Media
Ruminazione
Donne
(pre-test)
Ruminazione
(post-test)
Aggressività
(pre-test)
Aggressività
(post-test)
Ruminazione
Uomini
(pre-test)
Ruminazione
(post-test)
Aggressività
(pre-test)
Aggressività
(post-test)
N
Illecita
Dv. st.
Media
N
Totale
Dv. st.
Media
N
Dv. st.
56.784
32 25.4867 48.622
32 26.9217 52.703
64 26.3285
44.513
32 30.3970 37.341
32 27.1565 40.927
64 28.8202
57.06
32
11.402
57.47
32
13.016
57.27
64
12.140
52.56
32
11.744
51.13
32
10.245
51.84
64
10.956
59.759
32 26.9113 58.444
32 26.9542 59.102
64 26.7264
60.959
32 25.8314 52.347
32 28.8046 56.653
64 27.4853
62.25
32
9.005
58.25
32
12.539
60.25
64
11.015
57.97
32
14.347
54.31
32
14.792
56.14
64
14.572
Al fine di testare l’effetto della durata del gioco (Ip.1), sono state operate due
MANOVA 2 (within - Momento di misurazione: pre vs post-test) x 2 (between –durata del gioco: 10’ vs 45’). I punteggi alle scale di Aggressività e Ruminazione sono
stati utilizzate come variabili dipendenti. Una MANOVA ha riguardato il subcampione maschile e una quello femminile.
Entrambe le MANOVA hanno soddisfatto le condizioni di uguaglianza delle
matrici di covarianza (test di Box’s non significativo, alfa=.05) e di uguaglianza
della varianza d’errore (test di Leven non significativo, alfa=.05). In ambedue le
MANOVA si è riscontrato un effetto principale per il fattore within (momento di
misurazione) [Donne: Wilks’s λ=.688, F(2, 61)=13.896, p<.000, potenza =.998; Uomini: Wilks’s λ=.841, F(2, 61)=3.794, p<.05, potenza=.790]. Un effetto di interazione tra il momento di misurazione e durata del gioco è stato riscontrato solo per
il subcampione maschile [Wilks’s λ=.868, F(2, 61)=4.622, p<.05, potenza=.761].
L’analisi univariata, inoltre, ha mostrato risultati differenti nei due sottocampioni.
Nel caso delle donne, un effetto principale si registra per entrambe le scale, quella di
Aggressività (pre-test M=57.27, s.e.=1.530; post-test M=51.84, s.e.=1.374; p<.000)
e quella di Ruminazione (pre-test M= 52.70, s.e.=3.305; post-test M= 40.93, s.e.
=3.361; p<.001). Nel subcampione maschile l’effetto principale riguarda solo la scala dell’Aggressività (pre-test M= 60.25, s.e.=1.383; post-test M=56.14, s.e.=1.814;
p<.005). Come mostra la figura 1, in tutti i casi in cui le analisi univariate evidenziano effetti principali, i punteggi post-test appaiono più bassi di quelli pre-test. Infine,
non è emerso nessun effetto di interazione tra il momento di misurazione e la durata
del gioco.
66
RICERCHE
Figura 1. Confronti con differenze significative pre-test vs post
Figur a 1. C onfron ti con dif fere nz e si gnific ative pre -test vs post
test
70.00
60.00
60.25
57.27
56.14
51.84
52.70
50.00
40.93
40.00
Pre-test
Post-test
30.00
20.00
10.00
0.00
Aggressività (Donne)
Ruminazione (Donne)
Aggressività (Uomini)
Al fine di testare l’effetto del significato della violenza e il significato dell’attività, per ciascuno dei due subcampioni sono state operate due ANCOVA 2(significato
della violenza: videogioco legittimato vs illecito) x 2 (significato dell'attività: condizione di gioco interpersonale vs individuale). Ciascuna ANCOVA ha riguardato una
delle due variabili dipendenti (punteggi post-test di Aggressività e Ruminazione). In
tutte le quattro ANCOVA così realizzate, è stato utilizzato il punteggio pre-test della
variabile dipendente corrispondente come covariata. In tutte le analisi l’assunto di
uguaglianza della varianza di errore è risultato soddisfatto (test di Levene non significativo, alfa=. 05).
Nel caso del subcampione femmine, solo l’ANCOVA effettuata con l’Aggressività come variabile dipendente ha evidenziato un effetto significativo di interazione tra
significato della violenza e significato dell’attività, [F(1,59)=4.804, p <0,05, potenza
=.578]. Come si evince dalla figura 2, questa interazione è associata soprattutto
ai giocatori in condizione di gioco individuale, che mostrano una maggiore differenziazione tra coloro che giocano ad un videogioco legittimato e illecito: [partecipanti che hanno giocato in condizione interpersonale ad un videogioco legittimato:
M=49.73, s.e.=2.300; partecipanti che hanno giocato in condizione interpersonale
ad un videogioco illecito: M=53.17, s.e.=2.297; partecipanti che hanno giocato in
condizione individuale ad un videogioco legittimato: M=55.60 s.e.=2.310; partecipanti che hanno giocato in condizione individuale ad un videogioco illecito: M=
48.87 s.e.=2.298].
67
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 53 - 77
Nel caso del subcampione di uomini, solo l’ ANCOVA operata con la Ruminazione come variabile dipendente ha evidenziato un effetto (comunque solo tendenzialmente) significativo di interazione tra il significato della violenza e il significato dell’attività [F(1.59)=3.153, p=0.081, potenza=.416]. Come mostra la figura 3,
anche in questo caso, l’interazione è principalmente associata ai partecipanti che
giocano individualmente, che mostrano una maggiore differenziazione tra il giocare
con videogioco legittimato e illecito [soggetti che hanno giocato in condizione interpersonale ad un videogioco legittimato: M=54.25, s.e.= 4.853; soggetti che hanno
giocato in condizione interpersonale ad un videogioco illecito: M=55.15, s.e.=4.848;
soggetti che hanno giocato in condizione individuale ad un videogioco legittimato:
M=66.76, s.e.=4.864; soggetti che hanno giocato in condizione individuale ad un
videogioco illecito M= 50.46, s.e.=4.842].
Figura 2. Aggressività.
Significato della violenza x Significato dell’attività.
Subcampione delle donne.
68
RICERCHE
Figura 3. Ruminazione.
Significato della violenza x Significato dell’attività.
Subcampione degli uomini.
Discussione e conclusioni
In primo luogo, va ricordato che la ricerca non si è posto come obiettivo la valutazione dell’effetto del videogioco violento sulla aggressività. Tuttavia, i risultati
delle prime due MANOVA 2 (momento di rilevazione: pre vs post-test) x 2 (durata
del gioco: 10’ vs 45’) offrono alcuni spunti di riflessione su tale questione.
Se ci limitiamo a prendere in considerazione il rapporto tra il tempo di esposizione allo stimolo e la risposta – senza dunque tenere in conto il ruolo delle altre
variabili intervenenti - i risultati portano a pensare che giocare con videogiochi violenti produce una diminuzione della risposta aggressiva. Infatti, sia gli uomini che
le donne mostrano una diminuzione dell’affetto aggressivo (misurato sulla scala di
Aggressività) dopo aver giocato a un videogioco violento (vedi figura 1). Le donne,
inoltre, mostrano anche una diminuzione della cognizione aggressiva (misurata sulla
Scala della Ruminazione).
Ovviamente simile conclusione va considerata come assolutamente provvisoria.
Senza il confronto con una condizione di controllo, non si può escludere la possibilità che il calo dell’aggressività che si registra dopo aver giocato con il videogio69
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 53 - 77
co violento sia il risultato di altri, non controllati, fattori. Il fatto che il campione
sia composto da partecipanti provenienti da un unico ambiente socio-istituzionale
(l’istituzione scolastica che ha collaborato alla ricerca) aumenta questa possibilità.
Tuttavia, per quanto provvisori, questi risultati sono interessanti; essi ci inducono a
prendere seriamente in considerazione le conclusioni di quegli autori che hanno sostenuto che i videogiochi violenti possono avere un effetto di riduzione della risposta
aggressiva.
Va osservato che l'eventualità secondo la quale giocare con videogiochi violenti
porti ad una riduzione dell’aggressività, non contraddirebbe il modello semiotico alla
base di questo lavoro. Infatti, il modello afferma che la norma sociale pone vincoli
alla generalizzazione dello schema affettivo di nemicalità, elicitato dall’esposizione
al videogioco violento e, così facendo, inibisce il trasferimento dello schema dal
campo di esperienza determinato dal giocare con il videogioco ai successivi campi
di esperienza. Il modello, tuttavia, non fa previsioni sull'entità di tale inibizione. Essa
può dunque essere di intensità tale da tradursi in un limitato incremento, o in non incremento della risposta aggressiva al post-test; allo stesso tempo, potrebbe riflettersi
in un decremento della risposta aggressiva, in comparazione con i livelli precedenti
al gioco. Quest'ultima eventualità è comprensibile se si tiene conto del fatto che,
prima di giocare, il giocatore può comunque caratterizzarsi per stati mentali di contenuto aggressivo (pensieri, affetti, sentimenti), espressione del campo di esperienza
precedente al gioco. Per la sua natura affettiva - e quindi generalizzante -, una volta
attivato dall’esperienza di gioco, lo schema di nemicalità assimila gli elementi del
precedente stato mentale coerenti con esso. Pertanto, ci si può attendere che una volta assimilati allo schema di nemicalità, i contenuti aggressivi precedenti seguiranno
il destino di quest’ultimo – vale a dire saranno anch’essi sottoposti ad inibizione. Ciò
equivale a dire che, come risultato del giocare con il videogioco violento, vi sarà una
riduzione del livello di affetto e/o di cognizione aggressiva attivo precedentemente
al momento del gioco,
Venendo al merito delle ipotesi della ricerca, possiamo innanzitutto affermare che
i risultati della ricerca sono coerenti con la prima delle ipotesi formulate. Le analisi
univariate non hanno riscontrato nessun effetto della durata del gioco. I partecipanti
che hanno giocato 10’ e quelli che hanno giocato 45’ mostrano differenze pre-test/
post-test del livello della risposta aggressiva tra loro simili. Come già osservato, tale
risultato è coerente con la natura affettiva del costrutto (cioè, lo schema di nemicalità) che il nostro modello assume come mediatore della relazione tra esposizione al
videogioco violento e risposta aggressiva. Esiste una vasta letteratura – ad esempio
LeDoux (2002) - che mostra come la risposta affettiva sia veloce e non mediata dalla
computazione analitica. Pertanto, ci si può attendere che anche un tempo di gioco
limitato sia in grado di attivare lo schema di nemicalità.
Anche nel caso dell’ipotesi 2 i risultati sono conformi alle aspettative (anche se
in questa circostanza solo parzialmente). Il fatto di avere dovuto approntare analisi
separate per i due sessi, non ci ha permesso di misurare in modo diretto l’effetto del
70
RICERCHE
genere sulla risposta aggressiva. Possiamo dunque comparare i risultati due subcampioni. Tale confronto, comunque, offre elementi di interesse. I due subcampioni si
differenziano per quanto riguarda la cognizione aggressiva: la differenza pre-test/
post-test è significativa solo per il subcampione delle donne. Così come ipotizzato,
dunque, l’inibizione della cognizione aggressiva si esercita sulle adolescenti, ma non
sugli adolescenti. Lo stesso non accade nel caso dell’affetto aggressivo, che decresce
tra il pre-test e il post-test in modo simile tra gli uomini le donne (si veda la figura 1).
In ambedue tali subcampione il decremento è statisticamente significativo. Dunque,
diversamente da quanto previsto, non solo le donne, ma anche gli uomini subiscono
una riduzione dell’affetto aggressivo come conseguenza del gioco.
La nostra ipotesi risulta dunque confermata solo per quanto riguarda la cognizione
aggressiva. In relazione a questo tipo di risposta, il fatto che gli uomini non mostrano
un decremento della cognizione aggressiva (cioè il livello di risposta relativo alla
pianificazione dell’azione aggressiva; in ultima analisi, dunque, ciò che possiamo
intendere come aggressività intenzionale) - appare coerente con la norma sociale
(per lo meno con la norma sociale del contesto socio-culturale dei soggetti coinvolti
nello studio), maggiormente tollerante dell’intenzionalità aggressiva espressa dagli
uomini. In sintesi, i nostri risultati sono coerenti e possono essere interpretati come
l’indizio di una norma sociale modellata su uno stereotipo di genere che legittima
gli uomini, ma non le donne, a riconoscere ed esprimere intenzionalità aggressiva.
Ulteriori analisi si rendono invece necessarie per dare senso al risultato non previsto
e cioè che l’affetto aggressivo viene inibito indipendentemente dalla distinzione di
genere.
I risultati delle due coppie di ANCOVA a due vie sono coerenti anche con la
maggior parte delle previsioni della Ipotesi 3, relative al ruolo di mediazione operato
dalla due variabili: significato della violenza e significato delle attività
In primo luogo, i risultati confortano la previsione secondo la quale il significato
della violenza e il significato dell’attività presi singolarmente non avrebbero dovuto
influenzare il rapporto tra esposizione al videogioco violenti e risposta aggressiva.
In secondo luogo, le analisi evidenziano alcuni degli effetti di interazione attesi,
tuttavia non tutti. In particolare, tali effetti sono stati riscontrati in una sola delle variabili dipendenti per ciascun subcampione: l’affetto aggressivo per il subcampione
femminile; la cognizione aggressiva (solo come effetto tendenziale, riguardante i
soggetti che giocavano in condizione individuale) nel caso del subcampione maschile. Anche in questo caso siamo propensi ad interpretare tali risultati in termini di
differenze culturali relative ai ruoli di genere: essi potrebbero riflettere un modello
stereotipale dei ruoli di genere. Nel caso delle donne, tale modello tollera l’espressione della reazione affettiva, ma sanziona l’intenzionalità aggressiva; di contro, nel
caso degli uomini lo stereotipo di genere legittima – quando non valorizza – l’intenzionalità aggressiva, mentre richiede un controllo della reazione impulsiva. Comunque sia, va riconosciuto che indipendentemente dalla plausibilità delle osservazioni
sopra proposte, esse sono tentativi a posteriori volti a dare senso a risultati inattesi.
71
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 53 - 77
Ulteriori analisi sono dunque necessarie per approfondire l’interpretazione di questi
dati.
In terzo luogo, è interessante osservare che gli effetti di interazione presentano alcune rilevanti somiglianze tra i due subcampioni, indipendentemente dalle differenti
variabili in gioco (si vedano le figure 2 e 3). Tanto per gli uomini sulla scala Ruminazione quanto per le donne sulla scala Aggressività, i soggetti che avevano giocato
in condizione individuale con un videogioco illecito hanno mostrano il più basso
livello di risposta aggressiva – coerentemente con l’ipotesi 3a. Inoltre, in entrambi
i sottocampioni, i soggetti che avevano giocato in condizione individuale con videogiochi legittimati hanno mostrano il più alto livello di aggressività (anche qui, le
donne solo in relazione all’affetto aggressivo mentre gli uomini solo in relazione alla
cognizione aggressiva). Questo risultato contraddice parzialmente la nostra previsione secondo la quale i soggetti con il più alto livello di aggressività sarebbero dovuti
essere quelli che avevano giocato con videogioco legittimato in condizione interpersonale. Tuttavia, il risultato è coerente con la previsione che tra i soggetti impegnati
a giocare in condizione individuale, vi sarebbe stata una considerevole differenza tra
chi aveva giocato con videogioco legittimato e con videogioco illecito.
Per quanto riguarda il gruppo di soggetti che aveva giocato in condizione interpersonale ad un videogioco illecito, il risultato è coerente con l’ipotizzato livello
medio della risposta aggressiva - una volta comparato con quello degli altri sottogruppi. Allo stesso modo, il risultato è coerente con la previsione che questo gruppo
avrebbe avuto un più elevato livello di risposta aggressiva rispetto ai soggetti che
avevano giocato in condizione individuale con il videogioco illecito. Infine, i risultati dei partecipanti che avevano giocato in condizioni interpersonale ad un videogioco
legittimato sono quelli che contraddicono in modo maggiormente marcato l’ipotesi
3. Infatti, differentemente da quanto atteso, i partecipanti - sia uomini che donne –
che avevano giocato in condizione interpersonale ad un videogioco legittimato non
hanno mostrato il più alto livello di risposta aggressiva; al contrario, il livello della
loro risposta aggressiva è inferiore a chi, sempre in condizione interpersonale, aveva
giocato ad videogioco illecito.
Il nostro modello sembra comunque in grado di fornire un’interpretazione di
questo risultato inaspettato, anche se a condizione di introdurre alcune ulteriori congetture, al momento soltanto speculative. La chiave di lettura che proponiamo è la
seguente. E’ possibile che quando la norma micro-sociale è saliente (cioè, nella condizione di gioco interpersonale) il senso di appartenenza al legame micro-sociale
potrebbe operare da vincolo alla generalizzazione dello schema di nemicalità. Ciò in
quanto la generalizzazione dello schema sarebbe sentita dai soggetti come incompatibile con l’esperienza di coinvolgimento nella relazione micro-sociale.
Nel complesso, al di là cioè dei singoli confronti tra i livelli della risposta aggressiva dei gruppi di partecipanti, ci sembra di poter concludere che i risultati delle due
coppie di ANCOVA mettono in evidenza la prevista l’interazione tra il significato
della violenza e il significato delle attività, in ciò confortando l’ipotesi principale
72
RICERCHE
del modello semiotico. I risultati relativi a questa interazione ed in precedenza richiamati non inficiano questa conclusione. Piuttosto essi segnalano la necessità di
sviluppare il modello semiotico nella direzione di una più precisa definizione della
microdinamica dei processi che mediano il legame tra l’esposizione al videogioco
violento e la risposta aggressiva.
Per muoversi in tale direzione sarà necessario affrontare i limiti metodologici
della ricerca qui presentata. Si è già evidenziata la mancanza dei controlli necessari per giungere a conclusioni attendibili sugli effetti dell’esposizione a videogiochi
violenti sulla aggressività. Tuttavia, è necessario anche dire che testare tale effetto
non era l’obiettivo principale del nostro studio. Un altro aspetto metodologico che
va evidenziato riguarda il fatto che come misura delle variabili dipendenti sono stati
adottati esclusivamente strumenti self-report. Ciò significa che, nei fatti, le variabili
dipendenti della ricerca non sono l’affetto e la cognizione aggressiva, ma l’autodescrizione di tali dimensioni da parte dei partecipanti. Ancora, la ricerca si è concentrata su un campione casuale estratto dalla popolazione di studenti afferenti ad un
unico istituto scolastico superiore. Ciò limita in modo rilevante la generalizzabilità
delle conclusioni. Il che è tanto più vero se si considera il tipo di processi coinvolti,
fortemente locali. Per fare solo un esempio, l’adesione alla norma macro-sociale può
variare notevolmente tra gli studenti di scuole diverse. A nostro avviso, comunque,
l'aspetto più critico è l’assenza di controllo delle variabili latenti che si ritiene siano
state attivate dalla manipolazione del campo sperimentale. Per esempio, non si può
essere sicuri che i soggetti abbiano dato lo stesso significato dei ricercatori alle procedure di gioco. Questo significa che, anche se la presente ricerca ha mostrato come
le caratteristiche dei videogiochi violenti e delle condizioni di gioco possono avere
un importante ruolo nel provocare o inibire la risposta aggressiva, non si può affermare con sicurezza che questo accade come conseguenza del processo semiotico
indicato dal modello concettuale proposto.
Nonostante questi limiti metodologici, i risultati della ricerca offrono vari spunti
per futuri sviluppi. Essi sono coerenti con un più generale approccio psicologico
culturale che sottolinea il ruolo centrale dei processi di costruzione di senso e la
natura situata del significato. La psicologia culturale sostiene che il significato di un
dato oggetto dell’esperienza, quindi il suo effetto psicologico, non sia una qualità
intrinseca dell'oggetto, essendo piuttosto contingente al contesto socio-culturale che
media l’interazione tra soggetti ed oggetti. Il quadro che emerge da questo studio
conforta tale prospettiva, laddove essa evidenzia come qualsiasi oggetto acquisti
valore psicologico in ragione del significato socialmente condiviso a livello micro e
macro-sociale.
73
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 53 - 77
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Riassunto
Nel presente lavoro viene proposto un modello semiotico della relazione tra i
videogiochi a contenuto violento ed aggressività. Si sostiene che tale tipo di videogiochi non ha effetti invarianti sugli adolescenti poiché la relazione tra il giocare e il
suo impatto è mediata dal significato che i giocatori associano alla violenza esercitata virtualmente ed alla attività di gioco. Lo studio è stato condotto su un campione
di 128 soggetti (64M; 64F) di età compresa tra i 15 e i 18 anni. Sono state prese in
considerazione tre variabili fattoriali: a) il tipo di violenza espressa nel videogioco
(videogioco a contenuto violento: Legittimo vs Illecito), b) il contesto sociale entro
cui l’attività di gioco si realizza (condizione di gioco: Individuale vs Interpersonale),
c) la durata del gioco (10’ vs 45’). La risposta aggressiva è stata misurata per mezzo
di due scale self report, una relativa alla dimensione cognitiva della aggressività,
l’altra a quella affettiva. I risultati delle analisi multivariate ed univariate sono coerenti con le principali ipotesi derivate dal modello.
76
RICERCHE
Parole chiave: videogiochi violenti; aggressività; costruzione significato.
Abstract
We propose a semiotic model of the relationship between violent videogames and
aggressiveness, stating that playing a violent videogame does not have invariant effect, because the relationship between playing and aggressive response is mediated
by the meaning adolescents associate to the violence performed and to the activity of
playing. The study adopts a sample of 128 participants (64M+64F), 15-18 aged. The
design takes into account 3 factorial variables: a) the kind of violence provided by
the videogame (valorised vs illicit); b) the social context within which the activity of
playing is performed (playing individually vs playing as an interpersonal activity);
c) the duration of playing (10’ vs 45’). The aggressive response has been measured
by means of two self-report scales - one referred to the cognitive aggressiveness and
one to the affective aggressiveness. Multivariate and univariate analysis provide results being consistent with the core hypotheses drawn by the model.
Key-words: violent videogames, aggressiveness, sense-making.
Ricevuto marzo 2010
Accettato maggio 2010
77
ORGANIZZAZIONE E
NORMATIVA
INCLUSIONE E PARTECIPAZIONE ATTIVA
ALL’UNIVERSITà
Nunzia Rainone*, Maria Francesca Freda*, Paolo Valerio**
* Dipartimento di Scienze Relazionali – Università degli Studi di Napoli
** Dipartimento di Neuroscienze – Università degli Studi di Napoli
Inclusione e partecipazione attiva
Potenziare la qualità dell’offerta formativa e garantire l’accesso di tutti al sistema di istruzione e di formazione sono stati, negli ultimi anni, considerati obiettivi
strategici delle politiche del Consiglio d’Europa1. Riconoscere pari opportunità per
tutti gli alunni è condizione necessaria alla progettazione di un sistema di istruzione
e formazione che possa definirsi “inclusivo”.
Nella teoria degli insiemi e nella logica matematica, il termine inclusione definisce la relazione tra due insiemi per cui «ogni elemento di un insieme fa parte anche
dell’altro» (Devoto Oli, 2007, p. 1350). In altre parole, la relazione di inclusione si
sostanzia nella creazione di un nuovo insieme che contiene e organizza al suo interno elementi provenienti dai diversi insiemi originari.
Questa digressione ci è utile per mostrare come, parlare di inclusione, significhi
riferirsi ad un movimento volto a “portare dentro” al contesto formativo tutti gli
studenti, con un duplice obiettivo; da un lato quello di promuovere la partecipazione
attiva al contesto formativo, affinché sia possibile l’attivazione delle capacità peculiari e uniche di ogni studente; dall’altro il raggiungimento di obiettivi formativi
personali ma, al contempo, riconosciuti dall’istituzione stessa.
La proposta inclusiva si inserisce nel più ampio tentativo di garantire un vero e
proprio diritto alla partecipazione attiva ai processi formativi, mirato a garantire un
apprendimento pienamente adeguato alle esigenze di ogni singola persona. In ciò si
nota una consonanza sostanziale con gli orientamenti dell’ONU che raccomandano un’educazione finalizzata allo sviluppo completo della personalità, inclusivo tra
l’altro della promozione del rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali, per
l’identità culturale e per l’ambiente fisico. La parola d’ordine, quindi, è partecipazione. Con partecipazione, infatti, si intende la possibilità degli studenti di poter e dover
prendere posizione su tutte le questioni che li riguardano e che, nello specifico, riguardano il loro percorso formativo, al fine di incrementare le loro capacità decisionali. Il successo formativo risulta, quindi, strettamente connesso all’individuazione
e al raggiungimento di mete comuni, fissate per tutti i soggetti e di mete personali,
81
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
differenziate sulla base di abilità, inclinazioni, talenti, propensioni individuali e competenze.
Il concetto di personalizzazione, prevedendo percorsi formativi diversificati per
raggiungere obiettivi formativi, appare in grado di eliminare la connotazione negativa legata al concetto di differenza, slegandolo da quello di standard minimo che
risulta riduttivo per coloro in grado di superarlo e privo di senso per coloro che non
hanno la possibilità di raggiungerlo o per i quali non è significativo. Le politiche
d’istruzione e di formazione devono, quindi, fare in modo che tutti gli studenti siano
in grado di acquisire e sviluppare le loro competenze professionali, le competenze
essenziali necessarie per favorire la propria occupabilità, l’approfondimento della
loro formazione, la cittadinanza attiva e il dialogo interculturale (Canevaro, 1998).
Lo svantaggio educativo dovrebbe essere affrontato fornendo, pertanto, un’istruzione inclusiva.
Parlare di inclusione, a questo punto, significa proporre un approccio che sia volto ad una partecipazione attiva a contesti specifici.
Nel 2007, infatti, si è svolta ad Istanbul la 22.ma Sessione della Conferenza Permanente dei Ministri dell’Educazione dei 46 Paesi del Consiglio d’Europa. La riunione, dal titolo “Costruire un’Europa più umana e più inclusiva: il contributo delle
politiche educative”, ha affrontato una tematica che costituisce senz’altro una delle
maggiori sfide per il vecchio continente; come espresso nel titolo stesso della Conferenza di Istanbul, la preoccupazione principale dei Ministri è rivolta a identificare
strategie efficaci per realizzare un’educazione per tutti, e in questo senso inclusiva.
Tale finalità potrebbe essere raggiungibile assicurando l’accesso di tutti al sistema di
istruzione e di formazione; tuttavia, tale impegno non basta se non viene accompagnato da interventi mirati a supportare e favorire la partecipazione attiva alla propria
formazione in un’ottica multidimensionale.
Quale inclusione?
I processi di istruzione inclusiva permettono di far emergere la cosiddetta “domanda debole”, legata all’esigenza formativa delle persone più emarginate e che
ancora rischiano di restare tagliate fuori dalle istituzioni formative.
Tra di queste, una popolazione studentesca che rischia di pagare a caro prezzo
l’assenza di servizi atti a garantire un’adeguata istruzione inclusiva è la popolazione
di studenti con disabilità.
I primi interventi della Comunità Europea, in merito alla tutela legislativa del
diritto all’istruzione degli studenti disabili, risalgono alla fine degli anni ‘70 con
la creazione di progetti pilota atti a finanziare servizi di integrazione2. Benché tali
iniziative segnino tappe importanti verso una concreta opera di sensibilizzazione sui
diritti dei disabili, l’avvenimento fondamentale che ha portato allo sviluppo di politiche e linee guida articolate nei confronti dei diritti dei disabili, è la designazione del
82
ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
1981 quale Anno internazionale degli handicappati da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, e la conseguente inaugurazione del decennio 1983-1992 quale Decennio dei Disabili. Il 1981 ha così gettato le basi per il ben più ampio processo
di inclusione del disabile nel contesto europeo (Hegarty, 1988). Nel 1991, infatti, il
programma HELIOS definì il primo scambio di esperienze tra paesi europei con la
prima Unità Sulla Disabilità. A seguito del programma, i paesi membri dell’Unione
Europea hanno sentito l’esigenza di istituire un tavolo di lavoro che facilitasse il confronto e la collaborazione nell’ambito delle politiche adottate per l’integrazione del
disabile e di tutte quelle persone portatrici di bisogni educativi speciali nel contesto
scolastico e formativo. Nasce nel 1996 la European Agency for Development in Special Needs Education3, un’organizzazione autonoma e indipendente, riconosciuta
dai Paesi membri dell’Unione Europea che si avvale di una piattaforma on line per
la collaborazione sullo sviluppo delle disposizioni inerenti gli studenti con bisogni
educativi speciali.
La non discriminazione delle persone disabili muove l’Europa verso una legislazione che tuteli i loro diritti fondamentali. È per questo che con il Trattato di
Amsterdam, nel 1997, si include con l’art.13 la base legale agli interventi europei per
la tutela delle persone disabili. Per la prima volta, la disabilità viene espressamente
menzionata in un trattato europeo e viene pubblicamente riconosciuta la necessità di
combattere le discriminazioni legate alla presenza di handicap.
L’Unione Europea non si è solo limitata a tutelare i diritti delle persone disabili.
Si è anche preoccupata di preparare il retroterra culturale affinché la persona disabile
possa, sempre più, essere inclusa nel contesto sociale e possa assumere un ruolo attivo e partecipato. E’ in questo clima che nel 2002 viene formulata la Dichiarazione
di Madrid, essa ha rappresentato in questi anni il manifesto culturale delle politiche
indirizzate al disabile. La dichiarazione sostiene che «I disabili devono poter accedere ai comuni servizi sanitari, scolastici, professionali e sociali, così come a tutte le
opportunità disponibili per le persone non disabili. Proporre un approccio integrante
nei confronti della disabilità e delle persone disabili implica dei cambiamenti su vari
livelli della vita quotidiana»4. Tali linee guida hanno indirizzato l’Anno europeo delle persone con disabilità del 2003 (Canevaro, Ianes, 2003) ed in tal senso si è mosso
anche l’Onu, che, nel 2006, ha promosso la Convenzione sui Diritti delle Persone con
Disabilità. Entrata in vigore nel 2008, la Convenzione intende promuovere e tutelare
i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone con disabilità, assicurandone
il pieno ed equo godimento. La Convenzione si ispira ad un nuovo approccio alla
disabilità, riconducendo la condizione di disabile all’esistenza di barriere di diversa
natura ed identifica nel loro superamento l’obiettivo da raggiungere. L’accessibilità di tutto per tutti, l’adozione di accomodamenti ragionevoli, il rafforzamento del
ruolo delle organizzazioni di rappresentanza ed il mainstreaming della disabilità nel
processo globale di sviluppo sono pertanto le priorità su cui si fonda la Convenzione. La volontà del legislatore nel proporre queste priorità è stata quella di tutelare e
rendere possibile l’esercizio di diritti fondamentali quali la dignità, l’eguaglianza, la
83
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
non-discriminazione, l’autonomia individuale, la partecipazione attiva e l’inclusione
nella società, l’accettazione della disabilità come parte della diversità umana.
Stando a quanto detto, i provvedimenti legislativi mostrati sembrano accomunati dall’assunto che la disabilità sia la conseguenza di una complessa relazione tra
la condizione di salute di un individuo, fattori personali e fattori ambientali5. Ne
consegue che ogni individuo, date le proprie condizioni di salute, può trovarsi in un
ambiente con caratteristiche che possono limitare o restringere le proprie capacità
funzionali e di partecipazione sociale; ciò permetterebbe di individuare gli ostacoli
da rimuovere o gli interventi da effettuare perché l’individuo possa raggiungere il
massimo della propria auto-realizzazione.
È in quest’ottica che i provvedimenti fatti per tutelare i diritti della persona disabile e per facilitare la sua inclusione sociale hanno agito in modo tale da preparare il
contesto ad accogliere il disabile e in questa direzione particolare attenzione è stata
rivolta ai sistemi di istruzione e formazione.
Sia nella Dichiarazione di Copenaghen del 2002, sia nella già citata Conferenza
di Istanbul del 2006, si evince che la formazione e l’istruzione inclusiva costituiscono processi fondamentali per promuovere la cittadinanza attiva, l’integrazione
sociale e la realizzazione personale. Strategia essenziale per realizzare l’inclusione
sociale è proprio quella di garantire il coinvolgimento di tutte le persone nel processo
di apprendimento-insegnamento che deve essere coestensivo alla durata della vita e
coerente con le capacità, abilità e competenze squisitamente personali. Le politiche
d’istruzione e di formazione devono fare in modo che tutti i cittadini, quali che siano
le loro circostanze personali, sociali o economiche, siano in grado di acquisire, aggiornare e sviluppare, lungo tutto l’arco della vita, le loro competenze professionali
e le competenze essenziali necessarie per favorire la loro occupabilità, l’approfondimento della loro formazione e il processo di cittadinanza attiva.
Le Istituzioni formative vengono così a giocare il ruolo principale nei processi
di inclusione. Nel contesto europeo, infatti, per quanto riguarda le politiche di inclusione nell’ambiente scolastico, la tendenza in atto è quella di realizzare politiche
educative che includano gli alunni disabili nelle scuole ordinarie, garantendo agli
insegnanti diversi tipi di sostegno in termini di staff aggiuntivo, materiali didattici,
formazione in servizio e strumentazione tecnica.
In base alla politica di integrazione adottata sul proprio territorio nazionale, i paesi possono essere suddivisi in tre categorie (Meijer, Soriano, Watkins, 2003):
• La prima, caratterizzata da un approccio uni-direzionale, riguarda i paesi in cui
le politiche educative e le prassi di attuazione tendono ad inserire quasi tutti gli
alunni nel sistema scolastico ordinario. Questa scelta poggia su una grande varietà di servizi incentrati sulla scuola. Esempi sono la Spagna, la Grecia, l’Italia, il
Portogallo, la Svezia, l’Islanda, la Norvegia e Cipro.
• I paesi che appartengono alla seconda categoria, contraddistinta da un approccio
multi-direzionale, presentano una molteplicità di approcci in materia di integra84
ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
zione. Offrono una pluralità di servizi tra due sistemi scolastici, uno ordinario e
uno differenziato. Danimarca, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Austria, Finlandia,
Inghilterra, Lituania, Liechtenstein, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Polonia,
Slovenia appartengono a questa categoria.
• Nella terza categoria, definita da un approccio bi-direzionale, esistono due distinti sistemi educativi. Gli alunni disabili vengono inseriti in scuole o classi differenziate. In genere, la maggior parte degli alunni ufficialmente riconosciuta come
avente esigenze educative speciali non segue il curriculum ordinario previsto dalla norma. Questi sistemi sono regolati da una legislazione specifica, con norme
diverse dalla scuola ordinaria. In Svizzera e in Belgio, il sistema scolastico differenziato è molto ampio. In Svizzera è un sistema misto: esiste una legislazione
apposita per le scuole e le classi differenziate. Allo stesso tempo, esiste un sistema di servizi specifici nelle classi comuni alle dipendenze del Cantone. Ricerche
recenti dimostrano che i paesi ad approccio bi-direzionale stanno sviluppando un
continuum di servizi tra i due settori. Inoltre, sono sempre di più le scuole differenziate che vengono trasformate in centri di risorsa per le scuole comuni.
Sul versante italiano, il Parlamento, sin dagli anni ’70, accetta una scommessa
molto importante per la sua crescita civile, sociale e culturale: la scommessa dell’integrazione, nella scuola e nelle classi comuni, anche di coloro che fino ad allora erano indirizzati ad istituzioni chiuse, come le scuole speciali, o verso forme istituzionali solo apparentemente meno emarginanti, come le classi differenziali. Il rispetto
per l’essere umano richiedeva l’assunzione di questo dato di fatto: il disabile è una
persona e come tale necessita di rispetto e di educazione in contesti formativi condivisi e aperti a tutti. Il valore della persona postulava non solo di essere affermato, ma
di essere concretamente promosso da un contesto educativo in grado di offrire tutto
ciò che la condizione di disabilità richiedeva. Nel 1971, infatti, veniva approvata
dal Parlamento italiano la legge 118, che sanciva per la prima volta, all’articolo 28,
il principio secondo il quale per gli allievi in situazione di handicap «l’istruzione
dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica»6. Da allora
sono passati 35 anni e la situazione si è molto evoluta.
Da una iniziale fase di inserimento e di tutela legislativa delle forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicap si è passati, poi, al diritto costituzionalmente garantito della persona disabile ad accedere a tutte le forme di istruzione e
di alta formazione (Canevaro, 2007).
Nel 1992, infatti, la legge quadro n. 104, definisce le prassi di integrazione scolastica; essa sancisce il diritto all’istruzione e all’educazione nelle sezioni e nelle classi
comuni, per tutte le persone in situazione di handicap precisando che «l’esercizio di
tale diritto non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap»7. A tutt’oggi la legge quadro
rappresenta un punto di riferimento fondamentale per il raggiungimento della qualità
dell’inclusione scolastica e non solo. Nell’art. 13, infatti, si sostiene:
85
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
«L’integrazione scolastica della persona handicappata nelle sezioni e nelle classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado e nelle università si realizza, …anche attraverso:[…] b) la dotazione alle scuole e alle università di attrezzature tecniche e di sussidi didattici nonché di ogni altra forma di ausilio
tecnico, ferma restando la dotazione individuale di ausili e presìdi funzionali
all’effettivo esercizio del diritto allo studio, anche mediante convenzioni con
centri specializzati, aventi funzione di consulenza pedagogica, di produzione
e adattamento di specifico materiale didattico; c) la programmazione da parte dell’università di interventi adeguati sia al bisogno della persona sia alla
peculiarità del piano di studio individuale…»
Nonostante ciò, il diritto ad accedere alle forme di alta formazione è stato
garantito solo alla fine degli anni ’90, nel 1999, con la legge n. 178; il legislatore
ha indirizzato gli Atenei italiani ad adottare un approccio di tipo sistematico in
materia di inclusione e di supporto agli studenti disabili. L’Università ha, così,
tesaurizzato la consolidata esperienza maturata dall’Italia nel settore dell’integrazione scolastica, che, già dal 1992, suggeriva indirizzi utili anche per l’ambito universitario (Nocera, 2001). L’obiettivo è stato quello di fornire agli studenti disabili
le stesse opportunità di cui godono tutti gli altri studenti, prestando attenzione ad
evitare la creazione di una sorta di “università per disabili”, che acuirebbe il loro
senso di isolamento.
Per agevolare la frequenza dello studente disabile all’interno di ciascuna università, già l’art. 16 della legge 104/92 istituiva la figura di un Docente Delegato
dal Rettore che avesse il compito di organizzare e gestire le attività rivolte agli studenti disabili iscritti all’università. La legge del 1999, poi, per concretizzare tali
regolamentazioni, ha stabilito di effettuare una rilevazione annuale delle nomine dei
delegati e delle attività svolte dalle università, una ricognizione dei bisogni e delle
difficoltà degli studenti disabili; è stato individuato, inoltre, un fondo attraverso cui
il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) co-finanzia le
diverse università, in base a criteri specifici.
L’attività del Delegato del Rettore mira, più in generale, alla realizzazione di
progetti ed iniziative in favore degli studenti con disabilità e promuove iniziative
finalizzate alla socializzazione e al benessere degli studenti disabili.
I Delegati dei Rettori per la disabilità, afferenti ai diversi Atenei italiani, al fine
di garantire una certa omogeneità di intervento in tutti gli Atenei per quanto riguarda
l’individuazione dei servizi e delle soluzioni organizzative, hanno deciso di coordinarsi e di istituire la CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati
per la Disabilità). La Conferenza Nazionale è stata istituita nel 2000 con lo scopo
di far partecipare lo studente disabile alla vita universitaria in maniera attiva; di non
creare una Università per disabili, che servirebbe solo ad aumentare l’isolamento; di
educare il Corpo Docente, il personale Tecnico-Amministrativo e gli Studenti ad una
nuova cultura della disabilità e dell’handicap.
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ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
La CNUDD, riconosciuta dalla CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università
italiane ) nel 2001, è l’organo ufficiale di coordinamento delle università italiane per
interventi a favore degli studenti disabili. Si è riunita nel 2000 e ha stabilito prima
di tutto i principi che devono informare gli interventi nelle Università a favore degli
studenti disabili. Le finalità principali della CNUDD sono: consentire lo scambio di
informazioni ed esperienze tra le diverse università; condividere alcune linee di indirizzo per le attività di tutti gli Atenei; attivare servizi necessari a rendere operativa la
normativa prevista dalla Legge 17/99 cercando di rispondere nel modo più adeguato
alle esigenze degli studenti disabili nel loro percorso formativo universitario. La
CRUI ha espresso la piena disponibilità a collaborare con la CNUDD quale organismo di coordinamento delle azioni universitarie in favore degli studenti disabili
(CNUDD, 2000).
Ciascuna università, quindi, è tenuta ad erogare servizi per l’integrazione degli
studenti disabili; tra di essi la legge prevede l’utilizzo di sussidi tecnici e didattici,
l’istituzione di appositi servizi di tutorato specializzato, nonché il trattamento individualizzato per il superamento degli esami.
Le attività di supporto e di assistenza agli studenti disabili vengono definite attività di “Tutorato Specializzato”, che prevede sia la promozione di servizi volti
all’inserimento dello studente disabile nella vita universitaria, sia alla rimozione di
possibili condizioni penalizzanti sul piano dell’acquisizione delle pari opportunità.
Tali attività sono demandate all’Ufficio diversamente abili di Ateneo, esistente in
diverse università italiane, deputato, appunto, alla gestione dei servizi di tutorato
specializzato. In particolare esso offre il supporto tecnico organizzativo ai docenti
referenti di Facoltà per l’organizzazione didattica, per l’eventuale preparazione di
piani di studio individualizzati e per l’espletamento delle prove equipollenti di esame. Altro accompagnatore dello studente disabile dovrebbe essere il compagno di
corso, per lo scambio di appunti e informazioni; studenti part time espleterebbero il
ruolo di peer tutoring.
Una risorsa in più in tale settore è rappresentata dall’informatica, il cui impiego
è incoraggiato dalla Legge Stanca n. 4 del 9 gennaio 20049. Obiettivo della legge è
favorire l’accesso dei disabili agli strumenti informatici, promuovendone l’uso come
volano per superare le disabilità e favorire l’inclusione formativa e sociale. In applicazione del principio costituzionale di eguaglianza, scopo della legge è di abbattere
le “barriere virtuali” che escludono i diversamente abili dal mondo del lavoro, dalla
partecipazione attiva alla vita sociale, da una migliore qualità della vita.
Finalità particolarmente significativa della legge è quella espressa all’articolo 5,
che prevede l’assicurazione dell’accessibilità e della fruibilità degli strumenti didattici e formativi: ad esempio, i testi didattici per gli studenti disabili, con particolare riguardo agli studenti non vedenti o ipovedenti. Le modalità di applicazione del
provvedimento sono contenute nel Decreto interministeriale Mussi-Nicolais del 30
aprile 200810, che detta le regole tecniche che disciplinano l’accessibilità agli strumenti didattici e formativi.
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
Sul piano europeo, i servizi di sostegno o le organizzazioni che offrono aiuto e
consulenza agli studenti disabili esistono in diverse forme (Meijer, C. Soriano, V.
Watkins, A., 2006). Il VEHHO Centro fiammingo di esperti per l’handicap e l’istruzione superiore, nella Comunità a lingua fiamminga del Belgio, e l’ handicap studie,
in Olanda, offrono un servizio di sostegno specifico e altamente specializzato per
gli studenti e per lo staff universitario. Gli stessi servizi di consulenza e guida specialistici sono proposti da SKILL l’Ufficio Nazionale per gli Studenti Disabili, nel
Regno Unito, e da DSW Deutsches Studentenwerk, in Germania. Il DSW è anche
una piattaforma per le organizzazioni, le istituzioni e i gruppi di auto-aiuto nel campo dell’istruzione e della disabilità con lo scopo di scambiare idee e sviluppare nuovi
progetti.
L’Italia e la Francia si servono di strutture nazionali. Per l’Italia, come già detto,
è presente la CNUDD, la Conferenza Nazionale dei Rettori per la Disabilità; in
Francia vi è una unità di coordinamento con il Ministere dell’Education Nazionale,
che sovraintende ed emette raccomandazioni sull’opera di sostegno sul piano istituzionale. Nella Comunità belga a lingua francese, l’AWIPH, Wallon Agency for the
integration of handicapped people, offre sostegno attraverso il pagamento di alcune
spese aggiuntive cui gli studenti disabili possono incorrere.
Islanda, Portogallo e Svezia hanno un livello nazionale generale: tutti i servizi
pubblicamente finanziati sono in grado di informare gli studenti su legislazione, diritti e sostegno. In Svezia, ci sono anche diverse autorità pubbliche che hanno responsabilità specifiche per misure specifiche, per esempio SISUS, l’Agenzia Nazionale
per il Sostegno Speciale Educativo, offre determinati sevizi nell’area dell’assistenza
alla persona. Ungheria, Norvegia, Polonia, Romania e Spagna hanno organizzazioni
internazionali o non governative che offrono sostegno e consulenza agli studenti disabili iscritti all’università. In Norvegia, due organizzazioni principali per le persone
disabili seguono politiche specifiche che riguardano l’istruzione superiore; in Polonia, il Consiglio Polacco per gli Studenti disabili, opera in cooperazione con l’Associazione degli Studenti Polacchi. In Svizzera, sebbene manchi un’organizzazione
nazionale di sostegno e consulenza agli studenti disabili, esiste invece un servizio di
sostegno che coinvolge tre università (l’Università di Zurigo, l’Università di Basilea
e l’Università Tecnica di Zurigo). I diversi servizi, offerti dalle organizzazioni che
operano sul piano nazionale, sono dedicati a fornire informazioni specialistiche e di
consulenza. Nella maggior parte dei casi si rivolgono agli studenti disabili, in altri
le informazioni sono indirizzate alle università e in particolare allo staff docente che
opera a contatto con gli studenti disabili.
Quali servizi per l’inclusione dello studente disabile? Uno sguardo nazionale ed europeo
Come si è visto, la formalizzazione del rapporto tra università e disabilità è relativamente recente, ma ciò nonostante, in questi ultimi anni, abbiamo assistito ad
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ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
un importante e significativo incremento del numero di studenti disabili iscritti negli
Atenei italiani. Le istituzioni universitarie sono, oggi più di ieri, chiamate ad assumere il compito di governare e integrare una varietà di esigenze senza alimentare
processi di esclusione, e garantendo a tutti la possibilità di riconoscersi quali soggetti
di diritto nell’accesso e nella fruizione dell’offerta formativa. Esigenze specifiche,
vanno integrate in reti ordinarie di funzionamento, garantendo servizi di supporto
e mediazione, senza scivolare in processi sostitutivi e fondati sulla sussidiarietà. Si
tratta di integrare il soggetto disabile nel circuito formativo, tenendo conto delle sue
specifiche esigenze, ma allo stesso tempo facendosi garanti dell’equipollenza del
percorso universitario. Criterio di equipollenza, necessario a contenere il rischio di
snaturare la funzione di formazione culturale e professionale dell’università, a favore di funzioni di assistenza e socializzazione.
Ciò ha costretto gli Atenei a ideare ed attuare progetti che facilitassero e supportassero gli studenti disabili nel loro percorso formativo. La realizzazione di questi
compiti istituzionali è strettamente connessa alla possibilità di conoscere le specificità individuali, al fine di elaborare strategie di intervento plurime e personalizzate
(Ianes, 2005).
Così come diversificate sono le situazioni e i bisogni individuali, così diversificati e flessibili devono essere i mediatori disponibili. Mediatori umani e materiali
che si declinino in base alle esigenze e alle capacità del disabile. Mediatori quali
strumenti culturali che funzionino come amplificatori della mente (Canevaro, 2005)
e strumenti di regolazione del rapporto tra individuo, contesto e progettualità.
Gli istituti di alta formazione, sia a livello europeo che italiano, hanno così cercato di mettere a sistema interventi e servizi che riuscissero a declinare in buone prassi
le nuove esigenze.
Nello scenario Europeo, tuttavia, non sempre le università rendono esplicite e
pubblicamente disponibili le proprie linee programmatiche sulle politiche e/o i piani
di azione realizzate per sostenere gli studenti disabili. Descrivere, dunque, la varietà
delle tipologie di servizi disponibili per l’utenza, sul piano internazionale, è estremamente difficile in quanto non ci sono standard univoci e i servizi offerti si basano
sull’organizzazione della specifica istituzione. Le università hanno una grande autonomia su come integrare il sostegno per i disabili all’interno delle proprie politiche
didattiche e sebbene siano individuabili diverse forme e tipologie di servizi sembrano evidenziabili tre principali assi organizzativi:
• La presenza di un referente e un coordinatore che operano sulle tematiche relative
al sostegno educativo e agli ausili didattici;
• La presenza di un gruppo di sostegno, di un dipartimento o un ufficio;
• La presenza di un servizio multidisciplinare con gruppi di tutor e consulenti composto da professionisti provenienti da diverse aree istituzionali.
Così come l’Italia, paesi come Austria, Cipro, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Olanda, Norvegia e Svezia, di solito utilizzano un referente e
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
un coordinatore del sostegno ai disabili come livello base del servizio disponibile
all’interno dell’università. In Germania, quasi tutte le università e le organizzazioni
locali di servizi allo studente hanno un referente e un coordinatore per l’handicap.
In Norvegia, la legge richiede la nomina di un referente, con le designazione di un
gruppo di sostegno. In un certo numero di paesi è prassi, per gran parte delle università, avere un dipartimento o un ufficio che includa un gruppo di professionisti
di profilo multidisciplinare che offre sostegno e consulenza agli studenti disabili.
Con l’aumento degli studenti, cresce la varietà delle tipologie di servizio richieste
che vanno gestite attraverso il riferimento a differenti professionalità integrate in un
gruppo di lavoro univoco. In Olanda, la legislazione prevede che tutte le università
creino i loro gruppi di sostegno organizzati in servizi multidisciplinari.
In Italia, la legislazione del 1999, ha predisposto linee guida cui i diversi Atenei
possono ispirarsi per mettere in atto servizi che assolvano funzioni di mediazione
tra ambiente universitario e studente disabile, al fine di valorizzare le sue peculiari
capacità pur nel rispetto delle sue difficoltà.
Al fine di favorire gli Atenei nella progettazione dei servizi, la CNUDD ha declinato tali linee guida in principi di base cui ispirarsi per organizzare servizi mirati a
facilitare il processo di inclusione del disabile.
Tali principi orientano a promuovere la partecipazione attiva dello studente disabile alla vita universitaria, a tutti i suoi aspetti culturali e accademici, nonché sociali,
a portare lo studente disabile dentro l’università e non portare l’università fuori,
dove sarebbe impossibile ricreare l’insieme di esperienze, di contatti e di legami tipici del percorso formativo universitario. Tali servizi dovrebbero favorire l’autonomia
e l’inclusione dello studente, valorizzando la sua diversità e tenendo conto dei ritmi
e delle condizioni di studio e di apprendimento al fine di fornire pari opportunità di
formazione, di studio e di ricerca, rimuovendo gli ostacoli materiali e immateriali
che si frappongono al pieno riconoscimento della persona, eliminando situazioni di
emarginazione ed interventi di separazione.
Tali principi di base, come detto precedentemente, suggeriscono agli Atenei servizi idonei per l’inclusione degli studenti disabili, nel pieno rispetto dell’autonomia
di ogni Ateneo, che comunque può sviluppare progetti e interventi mirati, legati alla
propria specificità politica e alle proprie risorse. Ogni università, pertanto, ha una
propria linea programmatica, nei termini dei servizi offerti agli studenti disabili.
Queste, spesso, sono riportate dalle università italiane sul sito internet dell’Ateneo,
sotto la denominazione di “Carta dei Servizi”, in modo da rendere chiare le linee
programmatiche dei servizi offerti, al fine di permettere allo studente di decidere
se iscriversi o meno. Al di là della varietà dei servizi offerti è possibile individuare,
oggi, alcuni focus di attenzione, alcune funzioni e alcuni strumenti trasversali ai diversi Atenei che possono costituire una importante base di esperienza comune utile
a governare una sua evoluzione.
Tra i focus, le funzioni e gli strumenti comuni possiamo oggi evidenziare: una attenzione costante rivolta all’accessibilità degli edifici ed alla rimozione delle barriere
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ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
architettoniche; l’attivazione di funzioni di accoglienza, di tutorato specializzato,
di counselling, di peer tutoring, di trasporto; la disponibilità di strumenti e ausili
tecnico-informatici ed economici.
Barriere architettoniche
Ogni Ateneo, per accogliere al meglio lo studente disabile, da un punto di vista
materiale, attua, ogni anno, un censimento delle barriere architettoniche, al fine di
rimuoverle e facilitare la partecipazione alle attività universitarie. Secondo la normativa vigente, infatti, tali barriere devono essere abbattute; il problema, tuttavia resta
per gli edifici storici che le università italiane occupano visto che quelli di nuova costruzione dovrebbero essere già a norma. Un’iniziativa in merito, prevista da alcune
università, tra cui l’Università della Calabria, persegue il miglioramento dell’accessibilità delle sedi universitarie per gli studenti non vedenti o ipovedenti. Il progetto
prevede l’attivazione di percorsi tattili pedonali per non vedenti ed ipovedenti, la
disposizione di mappe tattili lungo i percorsi di accesso ai cubi universitari ed alle
diverse strutture e l’attivazione di dispositivi acustici. L’Università degli Studi di
Milano, a tal proposito, avendo stipulato una convenzione con l’Istituto dei Ciechi di
Milano, assicura agli studenti non vedenti, neo-immatricolati, un Corso di mobilità
e orientamento all’interno dei luoghi e degli edifici dell’università. Il Corso, prevede che un insegnante specializzato in questa tecnica porti lo studente non vedente
ad avere una adeguata familiarità con gli ambienti e le vie di accesso dell’Ateneo, in
maniera da assicurare all’interessato una sufficiente indipendenza di movimento.
L’accoglienza
L’ingresso all’università, momento critico nel passaggio dal contesto scolastico
chiuso e rassicurante al contesto universitario aperto e dispersivo, viene accompagnato e supportato dai servizi di accoglienza. Tutti gli Atenei italiani, infatti,
offrono questa tipologia di servizio al fine di valutare le esigenze individuali dello
studente con disabilità, tenendo conto delle sue risorse ma anche delle esigenze
e dei problemi sottesi alla sua condizione che possono interferire con il percorso formativo. Al servizio accoglienza sono, in genere, preposti psicologi esperti
in campo di disabilità; tale scelta risponde all’esigenza di avvalersi di personale
competente in ambito relazionale, al fine di garantire competenze per orientare le
potenzialità di ognuno. Si offre, quindi, consulenza e supporto agli studenti nell’individuazione delle problematiche e dei bisogni e nella scelta di soluzioni personalizzate. Il servizio, inoltre, è predisposto anche all’informazione circa le modalità
di immatricolazione e i servizi offerti all’università, tra cui, in particolare le forme
di Tutorato Specializzato.
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
Il tutorato specializzato
Con questa espressione vengono intese le attività ed i servizi che mirano all’inserimento dello studente disabile nella vita accademica e che tendono a supportare
lo studente nella rimozione delle condizioni e delle situazioni che non gli permettono di avere pari opportunità di studio e di trattamento. Per quanto riguarda,
infatti, i bisogni didattici speciali, di cui lo studente disabile è portatore, le università italiane, in linea con la legislazione, prevedono iniziative volte ad individuare soluzioni personalizzate per gestire le specifiche difficoltà che la disabilità
pone sul cammino universitario. Gli Atenei, a tal proposito, nominano un keys
manager, un tutor di riferimento disponibile ad affiancare lo studente disabile nel
percorso di studi, ad aiutarlo a risolvere quei nodi critici che si possono presentare.
All’Università degli Studi di Napoli, è stato istituito un centro di Ateneo, SINAPSI, che si occupa di servizi per l’inclusione attiva e partecipata degli studenti.
Parte integrante di questo centro è il Punto di Orientamento Didattico – Educativo,
P O D E, che si occupa di supporto pedagogico per i problemi didattici legati alla
disabilità. Le attività del PODE sono volte a migliorare le condizioni di apprendimento dello studente disabile attraverso l’elaborazione di strategie didattiche
individualizzate.
Peer tutoring
Il peer tutoring, o tutoraggio alla pari, consiste in un’attività di supporto individuale che si avvale della collaborazione degli studenti dell’Ateneo. Le concrete
prestazioni di tutorato vengono determinate sulla base delle specifiche esigenze degli studenti disabili che ne abbiano fatto richiesta. Tra queste è previsto:
il supporto in aula, per la stesura di appunti e per l’interazione con i docenti;
la trascrizione delle registrazione in file audio delle lezioni; l’affiancamento in
tutte le diverse situazioni della vita universitaria; il supporto alle attività amministrative che richiedono un approccio individualizzato alle specifiche esigenze
dello studente disabile, quali la personalizzazione/addestramento all’ausilio tecnologico; il supporto logistico allo studente disabile, ovvero l’accompagnamento all’interno delle strutture dell’Ateneo. In genere questa è una collaborazione
retribuita effettuata da studenti part-time, che partecipano a bandi di concorso
istituiti dall’università, o dall’università in collaborazione con enti del Servizio
Civile Nazionale. Alcuni Atenei, inoltre, prevedono un’attività di tutor senior per
il supporto allo studio individuale; in quest’ambito i tutor, nominati secondo le
procedure previste dai regolamenti di Ateneo per l’orientamento ed il tutorato,
vengono affiancati dal Docente referente di ogni singola Facoltà. Tutti gli Atenei,
comunque, prevedono dei corsi e dei seminari al fine di formare i tutor alla loro
attività di accompagnatori.
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ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
Il trasporto
Il tutor alla pari, come visto, ha il compito di accompagnare lo studente disabile
anche nelle diverse sedi dell’Ateneo; è questa un’attività che promuove la partecipazione e la frequenza assidua alla vita universitaria. Al fine di facilitarla, infatti,
quasi tutti gli Atenei italiani, prevedono, oltre all’accompagnatore, un vero e proprio servizio di trasporto. Questo può assumere diverse forme. L’Università di Messina, per esempio, prevede un servizio di trasporto gratuito, con accompagnatore
professionale, disponibile per gli studenti disabili. Il servizio consente agli studenti
di essere accompagnati presso le varie sedi dell’Ateneo dalle proprie abitazioni o
dagli alloggi attrezzati dei Residence studenteschi o, per i fuori sede, dai terminal
di arrivo dei servizi ferroviari, e dai traghetti FS e privati. Altri Atenei mettono a
disposizione buoni taxi per gli studenti, che vengono erogati tenendo conto del
grado di invalidità e della distanza da percorrere tra le sede di studi e il proprio
domicilio. Altre università italiane si sono impegnate nel mettere a disposizione
degli studenti disabili pulmini attrezzati che effettuano viaggi giornalieri di andata
e ritorno tra il domicilio dello studente, ovvero un altro luogo di raccolta, e le sedi
dell’università . Ci sono anche Atenei, come l’Università di Parma, che mettono a
disposizione degli studenti scooter elettrici a due posti, per la persona con disabilità
e il suo accompagnatore.
Ausili tecnico-informatici
Iniziativa comune a tutte le università, riguarda l’utilizzo di ausili tecnico-informatici; software e hardware che facilitano i processi di compensazione delle difficoltà legate alla disabilità. Questi ausili, in genere vengono affidati in comodato d’uso
a quegli studenti che presentino particolari esigenze in rapporto al tipo di disabilità.
I principali ausili tecnologici a disposizione degli studenti con disabilità sono: gli
screen reader, dei software in grado di fornire un riscontro vocale o Braille alla
persona che, tramite la sintesi vocale, dispone di un “computer parlante” che legge
tutto ciò che è presente sullo schermo; display braille, dispositivi che consentono
di riprodurre il testo evidenziato a schermo utilizzando il codice braille a 8 punti;
ingranditori; stampe in rilievo; stampante braille a interpunto; dattilo-braille, un
sistema completo per imparare e scrivere il Braille che può essere usato per sviluppare la conoscenza di simboli e caratteri braille. Per quanto riguarda gli ausili alla
comunicazione per i disabili uditivi ci sono: indicatori e avvisatori luminosi; personal computer; sistemi di riconoscimento vocale; tastiere virtuali, che servono per
l’utilizzo agevolato del computer attraverso sensori o sistemi di puntamento in caso
di disabilità motoria. In tale ottica si declina anche il Progetto SUNA, dell’Università di Napoli Federico II; un progetto realizzato con i finanziamenti dalla Regione
Campania che ha consentito la realizzazione di due ambienti domotici11.
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
Se lo studente, inoltre, necessita di particolari ausili tecnici alcuni Atenei prevedono degli uffici tecnico-amministrativi cui ci si può rivolgere per commissionarne
l’acquisto. Ogni studente può richiedere che in sede d’esame il testo delle prova sia
nei formati a lui accessibili: braille, ingrandito, word, Mp3. A tal proposito, infatti,
sono previste stampe braille dei testi d’esame, registrazione dei testi d’esame ed
anche delle tesi universitarie in file audio, nonché un servizio di interpretariato LIS
per le lezioni.
Tasse universitarie
Tutte le università Italiane, comunque, prevedono l'esonero parziale e agevolazioni nel pagamento delle tasse universitarie. Tale provvedimento è in linea con la
volontà di incrementare sempre più la partecipazione dei disabili alla vita universitaria, cercando di prevenire la dispersione e l'abbandono degli studi.
Counselling
Tuttavia, le esigenze di uno studente disabile che si iscrive all’università possono
non esaurirsi in un discorso prettamente didattico. Il passaggio dalla scuola superiore all’università, l’entrata in un contesto che non nasce per accogliere i propri
bisogni speciali, possono rendere il percorso formativo molto complesso e stressante. A tal proposito tutti gli Atenei Italiani prevedono l’attivazione di un servizio
di counselling psicologico (Adamo, Valerio, Cinquemani, Foggia, 2009) rivolto, su
richiesta, allo studente disabile. Il servizio di counselling psicologico, in genere,
offre colloqui individuali con l’obiettivo di aiutare lo studente a superare situazioni
di disagio, a sviluppare consapevolezza e capacità nel gestire problemi attraverso il
potenziamento e lo sviluppo delle risorse personali. Alcuni Atenei, come la Federico
II, offrono un counselling prolungato consistente in sedute a frequenza settimanale
per un arco di tempo protratto e modulato sulle esigenze individuali dello studente.
Spesso, inoltre, per i familiari degli studenti sono previsti colloqui di sostegno; per i
docenti, i tutor e gli operatori sono previste consulenze su problematiche specifiche
concernenti gli studenti da loro seguiti.
Concludendo
In conclusione, negli ultimi anni le leggi, le linee guida e le azioni programmatiche hanno avviato un lenta e faticosa trasformazione di prospettive sui temi
dell’inclusione sociale che da una logica di tutela dei bisogni delle persone disabili
si sta gradualmente spostando verso una logica di garanzia dei diritti fondamentali
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ORGANIZZAZIONE E NORMATIVA
di partecipazione e di cittadinanza attiva. In tale processo l’università, assume un
ruolo strategico quale ponte tra un ambiente più circoscritto e protetto rappresentato
dalla famiglia e dalla scuola ed il vasto ed articolato mondo del lavoro. Il progetto
di vita per ciascuno studente, anche, dunque, per lo studente disabile, si dispiega in
una continua ricerca di equilibrio tra la condizione di partenza, le sue caratteristiche
e la tensione allo sviluppo e al cambiamento; si tratta di una condizione di equilibrio dinamico, essenziale per tutti, ma obiettivamente più difficile da individuare in
condizioni di disabilità. Molte persone disabili hanno bisogno di servizi di supporto
e mediazione nella quotidianità, e questi servizi devono essere di alta qualità, rispondenti alle necessità dei singoli; devono promuovere il coinvolgimento nella società,
e non essere motivo di segregazione.
Il compito dell’università viene, quindi, a definirsi come un compito di connessione tra lo studente disabile e l’offerta formativa, tra le sue difficoltà ed i compiti
di apprendimento, tra le sue scelte, la sua formazione professionale ed il mondo del
lavoro. Come accade per tutti gli ambiti della società, gli studenti con disabilità sono
portatori di esigenze molto diversificate; pertanto solo politiche che rispettino tale
diversità, che articolino una varietà di servizi attenti e flessibili potranno avere un
esito positivo. Il diritto a non essere discriminati si fonda, infatti, sulla possibilità di
essere sostenuti nell’esercizio della propria progettualità e partecipazione attiva, attraverso strategie di mediazione attente alla comprensione dell’altro (Bruner, 1990)
e a sostenere la sua padronanza della situazione.
“Quanto viene realizzato oggi per le persone disabili, avrà senso per tutti nel
mondo di domani”.
Note
1 OCSE, 1994; 1995; Carta di Lussemburgo del 1996, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea di Nizza del 2000, European Disability Forum del 1999;
Dichiarazione di Copenaghen del 2002.
2 Trattasi della Dichiarazione dei diritti delle persone mentalmente ritardate (DRMRP) adottata con Risoluzione dell’Assemblea generale n. 2856 (XXVI) del 20
dicembre 1971 e della Dichiarazione dei diritti dei portatori di handicaps (RDP)
adottata con Risoluzione dell’Assemblea generale n. 3447 (XXX) del 9 dicembre
1975.
3 Sito ufficiale: www.european-agency.org
4 La dichiarazione di Madrid, “non discriminazione più azione positiva uguale
integrazione sociale”. (sito: www.disabili.unina.it)
5 Questi sono i principi ispiratori dell’ International Classification of Functioning,
Disability and Health (ICF), Classificazione Internazionale del Funzionamento,
della Disabilità e della Salute, emanata nel 2001 dalla 54a Assemblea Mondiale
della Sanità
6 Gazz. Uff. 2 aprile 1971, n. 82, Legge 30 marzo 1971, n. 118, “Conversione in
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili” (sito: www.handylex.org)
7 Gazz. Uff. 17 febbraio 1992, n. 39, S.O., Legge 5 febbraio 1992, n. 104, “Leggequadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.” (sito: www.handylex.org)
8 Gazz.Uff. 2 febbraio 1999, n.17, Legge 28 gennaio 1999, n.17, “Integrazione e
modifica della legge-quadro 5 febbraio 1992, n. 104, per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.” (sito: www.handylex.org)
9 Gazz. Uff. n. 13 del 17 gennaio 2004, Legge 9 gennaio 2004, n. 4 “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”. (sito:
www.camera.it)
10Gazz. Uff. n. 136 del 12 giugno 2008, Decreto Ministeriale 30 aprile 2008, “Regole tecniche disciplinanti l’accessibilità agli strumenti didattici e formativi a
favore degli alunni disabili”. (sito: www.pubbliaccesso.gov.it)
11 Il termine domotica deriva dall’importazione del neologismo francese domotique,
contrazione della parola latina domus (casa, edificio) e di informatique (informatica) ed è la disciplina che si occupa dell’integrazione delle tecnologie che consentono di automatizzare una serie di operazioni all’interno della casa. Si occupa
dell’integrazione dei dispositivi elettrici ed elettronici, degli elettrodomestici, dei
sistemi di comunicazione, di controllo e sorveglianza presenti nelle abitazioni.
Trova le sue radici negli anni ‘70 quando cominciarono ad essere studiati e realizzati i primi progetti che permettevano l’interconnessione di alcuni sistemi come
l’impianto di illuminazione e quello di sicurezza, dando all’utente la possibilità
di automatizzarne alcune funzionalità.
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www.tutoratodisabili.unime.it
www.unical.it/portale/ufficiodisabili
Riassunto
Quest’articolo mostra la legislazione in tema di inclusione e partecipazione attiva nei contesti formativi della persona disabile. L’inclusione nei contesti formativi promuove la cittadinanza attiva e l’inclusione sociale; identifica
strategie efficaci per realizzare un’educazione per tutti attraverso la partecipazione attiva al proprio percorso formativo. Tali strategie si sostanziano
nell’individuazione di percorsi formativi diversificati e personalizzati al fine
di arginare fenomeni di esclusione. Categoria a rischio esclusione è la popolazione di studenti disabili. Nonostante la normativa sull’inclusione nei contesti
formativi abbia una lunga tradizione nel contesto italiano ed europeo, la formalizzazione del rapporto tra università e disabilità è relativamente recente.
Si è passati, infatti, da un’iniziale fase di inserimento e di tutela legislativa
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 81- 98
del portatore di handicap al diritto costituzionalmente garantito della persona
disabile di accedere a tutte le forme di istruzione e di alta formazione. L’università assume, in questo processo, un ruolo strategico di ponte tra l’ambiente
protetto della famiglia e della scuola ed il vasto mondo sociale e lavorativo. I servizi offerti dalle università per garantire l’inclusione sono molto diversificati sul piano europeo e, in Italia, variano tra i diversi Atenei. Filo comune
è la volontà di offrire servizi che medino tra lo studente disabile e il contesto
universitario. L’articolo infatti, cerca, a tal proposito, di dare una visione dei
servizi universitari che vengono offerti allo studente disabile, suddividendoli
per aree tematiche.
Parole chiave: Istruzione Inclusiva, Inclusione del Disabile, Partecipazione Attiva, Università.
Abstract
This article shows the legislation about the theme of inclusion and active involvement in the disabled person’s formative context. The inclusion in the formative
context fosters the active citizenship and the social involvement; it identifies convincing strategies to realize an everybody education thanks to the active participation
to your own formative career. These strategies materialize in founding several formative careers customized to prevent exclusion phenomena. The people constituted
by disabled students represents a category at exclusion risk. Even though the rules
about the involvement in the formative context had an old tradition in the Italian
and European society, the formalization of the relationship between university and
disability is relatively new. We passed, in fact, from a beginning phase of input and
handicapped people’s legal guardianship, to a complete access to all the forms of
education and high formation. University adopts, in this process, a strategic function
of linking the family protective atmosphere and the broad social and working world.
On the european setting, there are very different services offered by universities to
grant the inclusion and, in Italy, they change from Athenaum to Athenaum. “le fil
rouge” is the intention to grant services that connect the disabled student and universitary context. The article, tries, in this way, to give a vision of universitary services
offered by disabled students, subdividing those one in thematic areas.
Key words: Inclusive Education, Inclusion of the Disabled, Active Participation,
University
Ricevuto febbraio 2010
Accettato aprile 2010
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INTERSEZIONI
MEDIAZIONE FAMILIARE e PREVENZIONE del
DISAGIO SCOLASTICO
Michela Ravarini*
* Mediatrice familiare
“Questa è la vera natura della Casa: il luogo della pace, il rifugio, non soltanto
da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio o discordia”
John Ruskin
“Guarda e troverai, ciò che non viene cercato rimarrà inesplorato”
Sofocle
Introduzione alla mediazione
Sotto il profilo semantico il termine Mediazione indica un processo mirato a far
evolvere dinamicamente una situazione problematica, ad aprire canali di comunicazione che erano bloccati.
Da un punto di vista ontologico la mediazione si risolve quindi in un processo
generalmente formale in cui un terzo neutrale favorisce il riattivarsi della comunicazione tra le parti, mediante scambi tra le stesse permette loro di confrontare i
rispettivi punti di vista e di cercare una soluzione al conflitto che le oppone. Prima
di considerare le possibili strategie di gestione dei conflitti interpersonali, è utile
distinguere concettualmente cosa si intende per "contrasto" e ciò che, invece, è individuabile più propriamente come "conflitto". Se la comunicazione consta di due
elementi, inscindibili seppure distinguibili, ovvero di contenuto -ciò che si dice- e
di relazione -come lo si dice-, anche le problematiche connesse alla relazione tra le
persone possono essere distinte in:
contrasti: stati della comunicazione riconducibili alla dimensione di contenuto,
ovvero divergenze di opinioni
conflitti: stati della comunicazione afferenti alla dimensione della relazione. In
queste situazioni, il contenuto della comunicazione passa in secondo piano poiché la
relazione si sposta prevalentemente sulla relazione, dunque sul ‘come’ si sta comunicando e non tanto sul ‘cosa’ .
Così definiti, il contrasto e il conflitto, sono due concetti diversi non tanto dal
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
punto di vista quantitativo, bensì qualitativo. Un contrasto, se rimane sul piano del
contenuto, rimane comunque un contrasto, forte o debole che sia, e come tale non si
trasforma in conflitto.
Nel momento in cui ci troviamo di fronte ad una situazione relazionale critica è
dunque importante saper, innanzitutto, distinguere su quale piano – contenuto/relazione - si sta sviluppando la problematica, ovvero se siamo di fronte ad un contrasto
oppure ad un conflitto. Questo ci consente di attuare le strategie più adeguate per
cercare di "ristabilire" la situazione facendola evolvere nel modo più soddisfacente
per le parti in questione.
Etimologicamente il vocabolo “conflitto” in italiano riprende il latino conflictus
derivato dal verbo confligere, composto di cum con e di un raro fligere, urtare, sbattere contro. Il prefisso cum indica che l’urto non è unilaterale, ma coinvolge almeno
due parti: è quindi anche una lotta, un combattimento. Il valore certamente più generale e onnicomprensivo del termine è oggi quello di scontro.
Date queste premesse, è importante tuttavia sottolineare che il conflitto non è in
sé né positivo né negativo, ed è imprescindibilmente e fisiologicamente connaturato
all’esistenza stessa di una relazione interpersonale. In quanto tale non può essere
risolto, bensì gestito e trasformato in altro, andando ad incidere sull’attivazione di
relazioni costruttive.
La gestione dei conflitti svolta nelle pratiche di Mediazione privilegia soluzioni
“interne”, ovvero provenienti direttamente dagli stessi protagonisti del conflitto, investiti del potere e della responsabilità di assumere la decisione in ordine allo scontro
che li oppone, sotto la guida autorevole del mediatore.
L’esperienza della Mediazione, nata nei paesi anglosassoni, ha avuto successo
anche in Europa, ad esempio in Francia e Germania, l’ordinamento italiano la preveda in varie forme e le istituzioni europee ne incoraggiano la diffusione in quanto
strumento più economico, rapido, efficace e flessibile della giustizia ordinaria.
La Mediazione investe oggi ambiti applicativi molto diversi tra loro:
•
•
•
•
•
mediazione sociale, ovvero quella familiare e coniugale
mediazione scolastica
mediazione interculturale
mediazione nel settore civile
mediazione penale
Il comune denominatore risiede sul piano metodologico e consiste nell’attivazione della pratiche di negoziazione con l’obiettivo di prevenire la degenerazione del
conflitto in contesa e di pervenire, ove possibile, alla soluzione della controversia
attraverso il componimento volontariamente concordato tra le parti, alla presenza di
un terzo imparziale. La negoziazione rappresenta un meccanismo evoluto per generare valore dai conflitti, in particolare quando le parti percepiscono gli interessi della
controparte come legittimi e non considerano a rischio la propria dignità, la propria
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INTERSEZIONI
identità, i propri principi, poiché le risorse oggetto di discussione sono meramente
materiali e funzionali. Ruolo del Mediatore è quindi riconoscere lo spazio di utilità
condivisa entro cui trovare un punto d’accordo mutuamente e massimamente vantaggioso per tutti gli attori coinvolti.
Mediazione familiare. La famiglia, nucleo fondante del sistema sociale: nozione
giuridica
Nel linguaggio comune la parola Famiglia designa un piccolo gruppo di persone formato da un uomo, una donna e i loro figli. La condizione che la coppia sia
coniugata può essere usualmente implicita, benché ad essa vada oggi sostituendosi
il requisito fattuale della convivenza stabile. In altri tempi l’idea di famiglia avrebbe richiamato alla mente un gruppo più vasto, comprendente diverse generazioni e
diverse linee di discendenza; mentre il matrimonio, civile o religioso sarebbe stato
considerato come il fondamento necessario dei vincoli familiari.
Anche nel linguaggio giuridico, il significato di Famiglia ha subìto un’evoluzione
ed è a tutt’oggi molteplice. Nell’art. 29 e nell’art. 30 della Costituzione le espressioni “famiglia” e “famiglia legittima” sono riferite alla c.d. “famiglia nucleare”,
cioè al piccolo gruppo essenziale (nucleo) formato dai coniugi e dai loro figli. Stesso
significato ha il termine negli artt. 143 e 144 c.c. Più ampio è invece il significato
in altri contesti normativi: così ad esempio nell’art. 230 bis cc, che disciplina l’impresa familiare. Anche per quanto riguarda il legame tra “famiglia” e matrimonio, il
linguaggio giuridico si è adeguato all’evoluzione del costume. Un tempo, il termine
identificava senz’altro e in modo esclusivo il gruppo costituito sulla base di un valido
matrimonio. Oggi invece nel linguaggio dei giuristi “famiglia” tende a diventare un
concetto di genere, che può precisarsi in due espressioni diverse:
famiglia legittima, fondata sul matrimonio, che ha piena tutela giuridica e funge
per certi versi da modello
famiglia di fatto, espressione che indica il gruppo familiare costituito senza matrimonio, talora sulla base della convivenza tra genitori e figli naturali, legati tra loro
da un rapporto giuridico di filiazione, talora sulla base della semplice convivenza di
fatto tra un uomo e una donna, la cui rilevanza sotto il profilo giuridico è peraltro
limitata.
Le norme della Costituzione italiana che riguardano direttamente la famiglia trovano posto nella prima parte del testo costituzionale, all’inizio del titolo dedicato ai
“Rapporti etico-sociali”. Si tratta di tre fondamentali articoli:
l’art. 29 si apre con il solenne riconoscimento dei diritti della famiglia legittima,
come “società naturale fondata sul matrimonio”; dispone poi che il matrimonio sia
“ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi” e che la parità tra marito
e moglie possa essere limitata solo a garanzia dell’unità familiare;
nell’art. 30 sono dettati i principi che riguardano doveri e diritti dei genitori e dei
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
figli, sia nel matrimonio sia fuori del matrimonio. In entrambi i casi vale il dovere
e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli e in entrambi i casi è
assicurata ogni tutela giuridica e sociale;
nell’art. 31 si fissano i compiti della Repubblica in ordine alla protezione della
famiglia come gruppo sociale, della maternità e dell’infanzia.
Questi precetti normativi devono essere letti alla luce del principio fondamentale
dettato nell’art. 2 Cost. e che vale per tutto il sistema dei rapporti tra la persona, i
gruppi sociali e lo Stato : “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale”. Tra le formazioni sociali la Famiglia si pone come la sede
primaria di sviluppo e di svolgimento della personalità. Perciò il sistema del diritto
di famiglia deve osservare due esigenze tra loro collegate, da un lato la protezione
della personalità dei singoli anche all’interno del gruppo familiare, dall’altro la difesa della famiglia come luogo e strumento di espressione della persona. Alla luce del
principio fondamentale espresso nell’art. 2 della Cost., si può meglio comprendere il
significato del 1° comma dell’art. 29 Cost., là dove afferma che la Repubblica “riconosce i diritti della famiglia legittima”. Il linguaggio è identico a quello che la Costituzione usa quando “riconosce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2): la formula del
“riconoscimento” è, come chiaramente si può evincere, quella propria alle solenni
dichiarazioni di diritti. La famiglia è peraltro riconosciuta come società naturale.
L’espressione è comunemente intesa nel senso che essa non è un gruppo “creato” dal
diritto dello Stato e che trova la sua ragion d’essere e le sue regole di vita solo e immediatamente nella volontà del legislatore statuale. È piuttosto una società naturale,
ovvero una forma del vivere sociale radicata nelle strutture reali della società degli
uomini. Le sue intrinseche leggi si trovano nel “costume”, frutto a sua volta dell’evoluzione dei rapporti sociali, dell’organizzazione economica e della cultura, di tutto
ciò che guida i nostri comportamenti fondamentali. Con il precetto di cui all’art. 29,
la Costituzione “riconosce” questa realtà che in un certo senso precede il diritto dello
Stato, e stabilisce un limite alla libertà del legislatore ordinario, il quale è impegnato a rispettare la vita e l’evoluzione della famiglia sia come istituzione sociale, sia
come singolo, concreto gruppo. Riconoscere la famiglia come società naturale quindi implica che lo Stato, dopo aver stabilito, non per puro arbitrio legislativo ma in
accordo con la realtà sociale, i principi fondamentali che devono regolare i rapporti
familiari, si astiene dall’intervenire a guidare dall’esterno la vita della famiglia stessa. Essendo società naturale, essa è un gruppo che deve trovare dentro di sé le regole
concrete del suo vivere, sicchè la determinazione dei modi di vita del gruppo familiare è lasciata alla decisione concorde dei suoi componenti. E’ questo un principio
cardine riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico e che si sintetizza nell’espressione di “autonomia della famiglia”. Pur tuttavia in tale autonomia la stessa Carta
Costituzionale sancisce le fondamenta dei rapporti tra i coniugi nonché del rapporto
educativo con i figli, affermando la regola dell’eguaglianza morale e giuridica tra
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INTERSEZIONI
i coniugi, intendendosi per “eguaglianza giuridica” uguali diritti e doveri, criterio
peraltro che non può essere fatto tacere a favore dell’unità della famiglia. Si intende
poi per “eguaglianza morale” che la disciplina dei rapporti tra i coniugi deve essere
tale che la dignità di ciascuno sia egualmente protetta e che nessun aspetto della
personalità dell’uno sia sacrificato per favorire la personalità dell’altro. E’ l’art. 30
Cost., 1° comma, che regola il rapporto educativo, enunciando il principio per cui
è “dovere e diritto” dei genitori quello di mantenere, istruire ed educare i figli. Il
binomio diritto-dovere è inscindibile e costituisce il nucleo dell’idea di “potestà”: si
tratta di un potere vincolato allo scopo e che deve essere esercitato conformemente
allo scopo, cioè all’interesse della prole. Si tratta però anche di un diritto, quindi di
un prerogativa che il genitore può rivendicare, ovvero pretendere di esercitare, perché corrisponde a un suo interesse fondamentale protetto dalla Costituzione, anche
come espressione fondamentale della personalità. La disposizione di cui all’art. 30
comma 1° è una solenne affermazione di autonomia educativa, che trova i suoi limiti
nella necessità di reprimere indirizzi educativi abnormi e di tutelare l’interesse dei
minori, pure costituzionalmente protetto. In seguito a cospicui interventi normativi,
la materia del diritto di famiglia è stata sottoposta a riforma nel 1975 con la Legge
151 la quale ha ribadito tra l’altro il principio di uguaglianza giuridica tra i coniugi,
nonché la loro uguaglianza nei rapporti personali e patrimoniali, e la possibilità di
riconoscere i figli naturali con identici diritti medesimi rispetto a quelli legittimi,
l’esercizio della potestà ai figli da parte di entrambi i genitori.
All’impostazione di una famiglia non intesa come insieme di individualità, ciascuna portatrice di specifiche peculiarità, bensì come unico corpo familiare e fine a
se stessa in cui l’individuo veniva soffocato per lasciare spazio al gruppo familiare,
si è sostituita una nuova visione della realtà familiare che ha prodotto un radicale
mutamento di prospettiva di cui è necessario e opportuno tener conto. La centralità della persona che connota l’impianto costituzionale, connota la famiglia come
formazione sociale nella quale ogni suo componente ha il fondamentale diritto di
realizzarsi come persona, di essere rispettato e sostenuto in questo suo progetto. Da
strumento e luogo di trasmissione del patrimonio e di produzione e accumulazione
di ricchezza, la Famiglia diviene luogo degli affetti e della rappresentazione e realizzazione dell’individuo. Sul tema, peraltro ampiamente dibattuto oltre che in ambito
dottrinale anche in ambito giurisprudenziale, la Corte di Cassazione in una recente
pronuncia ha precisato che “il rispetto della dignità e della personalità, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile….la famiglia è luogo di incontro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si
esprime, si sviluppa e si realizza attraverso l’instaurazione di reciproche relazioni di
affetto e di solidarietà, non già sede di compromissione e di mortificazione di diritti
irrinunciabili” (così la sentenza n. 9801 del 10 maggio 2005).
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
La famiglia nell’attuale quadro storico e culturale
Poste queste premesse è altresì necessario inquadrare la realtà e le dinamiche che
la formazione sociale Famiglia vive nell’attuale contesto storico e culturale.
Ogni anno l’Istat conduce un’indagine sulle separazioni e una sui divorzi rilevando, presso le cancellerie dei 165 tribunali civili, i dati relativi ad ogni singolo procedimento concluso dal punto di vista giudiziario nell’anno di riferimento. Il presente
lavoro, redatto nell’agosto 2008, descrive l’evoluzione temporale dei due fenomeni
e, in particolare, i vari aspetti relativi ai figli minori affidati. Proprio le disposizioni normative inerenti l’affidamento dei figli hanno subito sostanziali modifiche nel
2006, conseguentemente all’entrata in vigore della legge n. 54/2006 che ha normativamente disciplinato l’affidamento condiviso dei figli.
Preliminarmente preme chiarire che:
la separazione consensuale si basa su di un accordo fra i coniugi con il quale vengono stabilite le modalità di affidamento dei figli, gli eventuali assegni familiari, la
divisione dei beni. Per avere validità giuridica deve essere omologata dal giudice.
la separazione giudiziale è un vero e proprio procedimento contenzioso su istanza
di uno dei due coniugi, successiva istruttoria e pronunciamento di una sentenza di
separazione.
per divorzio si intende lo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio in caso, rispettivamente, di matrimonio celebrato con rito civile o di matrimonio celebrato con rito religioso. Il divorzio è stato introdotto in Italia dalla Legge
n. 898 del 1 dicembre 1970; la Legge n. 74 del 6 marzo 1987 ha ridotto da cinque a
tre gli anni di separazione necessari per la pronuncia della sentenza di divorzio. Nel
2006 le separazioni sono state 80.407 e i divorzi 49.534.
Dall’andamento temporale e dalla diffusione territoriale emerge che entrambi
gli eventi sono notevolmente aumentati nell’ultimo decennio: rispetto al 1996 le
separazioni hanno avuto un incremento del 39,7% e i divorzi del 51,4%. Rispetto
all’anno precedente, nel 2006 le separazioni diminuiscono del 2,3%, confermando
la flessione del fenomeno già osservata nel 2005 (-1,1% rispetto al 2004), mentre i
divorzi continuano a crescere (+5,3%). Questa opposta dinamica delle separazioni
e dei divorzi può essere in parte riconducibile alla costante diminuzione del numero
di matrimoni celebrati nell’ultimo decennio, di cui cominciano a risentire l’effetto
proprio le separazioni.
I divorzi − che dalle separazioni derivano a distanza di almeno tre anni − sono invece ancora influenzati dalla fase crescente registrata nelle separazioni fino al 2004.
Nel 2006 si sono conclusi in modo consensuale 68.820 procedimenti di separazione (pari all’85,6% del totale delle separazioni) e 39.012 di divorzio (78,8%).
Rapportando il numero di separazioni e divorzi al numero di coppie coniugate,
si ottengono dei tassi generici di diffusione dei due fenomeni presso la popolazione.
In tal modo, nel 2006 si registrano 5,4 separazioni e 3,3 divorzi ogni 1.000 coppie
coniugate.
106
INTERSEZIONI
La propensione a ricorrere alla separazione o al divorzio non è uniforme sul territorio nazionale: nel 2006 al Nord si rilevano 6 separazioni e 4,2 divorzi ogni 1.000
coppie coniugate contro 4,3 separazioni e 2,1 divorzi nel Mezzogiorno.
I figli coinvolti nelle cause di separazione e divorzio
Nel 2006 il 70,6% delle separazioni e il 60,1% dei divorzi hanno riguardato coppie coniugate con figli avuti durante la loro unione. I figli coinvolti nella crisi coniugale dei propri genitori sono stati 98.098 nelle separazioni e 46.586 nei divorzi
. Oltre la metà (il 52,8%) delle separazioni e oltre un terzo (il 37,1%) dei divorzi
provengono da matrimoni con almeno un figlio minore di 18 anni. Il numero di figli
minori implicati nei casi di conflitto coniugale nel 2006 è stato 63.256 nelle separazioni e 23.940 nei divorzi. In particolare, il 22,4% delle separazioni e il 10,3% dei
divorzi hanno interessato matrimoni con più di un figlio minore, ma le percentuali
risultano più alte nel Mezzogiorno (28% delle separazioni e 13,3% dei divorzi), che
è caratterizzato dalla maggiore frequenza di famiglie con un numero elevato di figli,
rispetto al resto del territorio nazionale. Nell’Italia meridionale, infatti, il 66,4% dei
figli nelle separazioni e il 48,5% nei divorzi aveva almeno un fratello con meno di
diciotto anni che viveva la sua stessa situazione, contro il 58,5% e il 42,9% rilevato
nell’Italia settentrionale.
Il 57,6% dei figli minori coinvolti nelle separazioni concesse nel 2006 aveva
un’età inferiore ad 11 anni e il 16,8% un’età compresa tra i 15 e i 17 anni. Al momento della pronuncia del divorzio i figli sono generalmente più grandi: nel 2006 quelli
al di sotto degli 11 anni rappresentavano il 37,4%, mentre i figli di età compresa tra
i 15 e i 17 anni erano il 25,4%.
Il disagio da separazione: padre - madre - figli
I dati riportati nel capitolo precedente sono una base di partenza per inquadrare il fenomeno delle separazioni e dei divorzi che si rivela essere in crescita.
Sul piano psicologico ed emotivo la coppia vive la separazione, in maniera consapevole o inconscia, attraverso un sentimento di lutto e di perdita. Le ricerche dimostrano come sempre più spesso le cause che conducono ad una decisione così dolorosa,
risiedono in motivazioni di tipo psico affettivo. Si tratta di dover prendere atto non
solo della conclusione di un progetto non più comune ma di un legame che è divenuto sterile e non realmente rispondente ai propri bisogni emotivi non razionali che
trovano spazio nel sentirsi accettati incondizionatamente, nel sentirsi riconosciuti del
proprio valore, nel provare e ricevere amore, affetto, tenerezza, fiducia, rispetto reciproco, amicizia, condivisione, nel sentirsi dare e fare critiche o commenti costruttivi e di rinforzo, nel sentirsi complici. La frustrazione costante e ripetuta di questi
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
bisogni porta a elaborare un distacco sempre crescente, che conduce alla scelta
separativa in una tempesta di sentimenti anche estremi cui non è possibile sottrarsi.
Il disinvestimento attraversa una fase di oscillazione tra momenti di aggressività e
momenti di riappacificazione fino alla cronicizzazione del conflitto giungendo poi
alla consapevolezza che l’unione comporta più svantaggi che vantaggi. La separazione implica un notevole dispendio di energie personali comportando da un lato
un’evoluzione delle relazioni familiari sul piano coniugale, su quello genitoriale e su
quello riguardante l’ambiente esterno.
Tuttavia la scelta separativa porta con sé anche la fiducia e la speranza di essere
amati in un modo più corrispondente alle proprie aspettative, si mette fine ad una
situazione infelice perché si è fiduciosi nella possibilità di essere felici e di essere
amati.
Ciò che quindi separa la coppia generando dolore, al tempo stesso riconnette
ciascun partner alla propria storia personale, alle proprie reali e profonde esigenze.
E nello spazio della mancanza può realizzarsi una progressiva ripresa di sé, basata
sulla ricostruzione della fiducia in sé e nel valore dei legami.
Questo processo di elaborazione è indispensabile per poter vivere il distacco nel
modo più sereno possibile e, di conseguenza nel caso di figli, sostenerli nei cambiamenti prodotti dalla separazione.
La Mediazione Familiare in questa dimensione si pone come strumento in grado
di accettare la sfida del superamento positivo di un evento traumatico perché capace, con le sue connotazioni di praticità e pragmatismo, di leggere nel cambiamento la prospettiva del futuro, la possibilità per ogni individuo in gioco di percepire
nell’esperienza della fine di un rapporto il proprio sé che è in divenire e che si riappropria delle proprie radici, del proprio presente e del proprio futuro.
Una mancata elaborazione e interiorizzazione di questo evento e l’incapacità o il
rifiuto di razionalizzarne le conseguenze, impediscono la strutturazione di un nuovo
sistema di relazioni di equilibrio.
Anche nei figli la sofferenza derivante dalla separazione dei genitori è profonda.
La rottura dell’unità familiare modifica la rete di rapporti e la stabilità delle relazioni
con il padre e la madre, costringendoli a riordinarsi e a costruirsi una nuova realtà.
A questo si deve considerare l’atmosfera che ha preceduto lo scioglimento della
famiglia; ogni separazione ha infatti alle spalle un periodo di incubazione accompagnato da manifestazioni di disagio, con conflitti, tensioni, screditamento reciproco
dei genitori.
In definitiva, chi subisce maggiormente le conseguenze di una scelta – che tra
l’altro non gli appartiene – è, in ogni caso, colui che dovrebbe invece essere massimamente “protetto”, il figlio.
Si pone quindi come necessaria ed urgente un’innovazione culturale che interpreti le conflittualità che provengono non solo dalla scissione ma anche dal successivo
allargamento delle dimensioni familiari, e che sia altresì mirata ad arginare i possibili
abusi e a regolamentare le nuove situazioni familiari partendo da quelle che sono le
108
INTERSEZIONI
loro reali caratteristiche attraverso la sensibilizzazione dei protagonisti e di tutti gli
agenti che si trovano ad affrontare il disagio di una separazione.
La separazione dei genitori, infatti, è per i figli un momento di grande trasformazione in quanto una serie di meccanismi giudiziari e psicologici si scatenano, a tal punto
da esporre a “rischio emotivo” l’intero nucleo familiare. La separazione tuttavia non
è di per sé causa diretta dei disturbi di comportamento dei figli, bensì un fattore di rischio e vulnerabilità. Sono infatti le modalità secondo cui viene vissuta la dissoluzione del legame familiare e la ricostruzione dei rapporti a determinare le conseguenze.
Questa modificazione interfamiliare condiziona inevitabilmente i meccanismi affettivi, emotivi, sociali e comportamentali del figlio che possono esprimersi in segnali
di disagio all’interno di un’altra agenzia educativa in cui egli si trova quotidianamente inserito, ovvero la Scuola. Per tale motivo ritengo che attivare la Mediazione
Familiare in questo particolare contesto si ponga come una strategia pedagogica oltre che innovativa, capace di accompagnare genitori e figli nella rielaborazione del
conflitto in termini costruttivi e pragmatici. In tale ambito infatti emerge con forza,
implicita ed esplicita, che l'intervento del Mediatore è finalizzato a salvaguardare
i rapporti tra genitori e figli e a favorire la trasformazione dei diritti coniugali in
doveri genitoriali. Il Mediatore, in funzione del mantenimento della responsabilità
genitoriale, guida i coniugi a una ristrutturazione del loro rapporto in cui sia riconosciuta ad entrambi la validità genitoriale che si concretizza nella definizione di
ruoli stabili, precisi e affidabili agli occhi del figlio, ma che secondo il variare delle
circostanze e delle esigenze di crescita di quest’ultimo, siano elastici e ridefinibili.
L’intervento mediativo che aiuta le parti a trovare soluzioni stabili, concrete, adeguate e da entrambi accettabili, pone quindi attenzione oltre che agli adulti in gioco, al
soggetto in divenire che è il figlio. Egli ha bisogno di trovare sostegno nei genitori,
che mantengono nei suoi confronti la medesima responsabilità educativa perché, pur
separandosi come coniugi, restano genitori per sempre. Cambia quindi la dinamica
delle relazioni, per quantità e qualità, ma i genitori restano in tal modo per il figlio
figure di riferimento significative. La Mediazione Familiare si pone pertanto come
luogo di risistemazione dei legami familiari facendo sì che nessuno venga escluso
dal progetto, e consente il mantenimento di una relazione a tre, padre-madre-figlio,
fondamentale per la tutela del benessere del figlio e per l’introiezione delle norme
sociali. Il figlio minore ha infatti bisogno di vivere in una situazione mentale ed
emotiva di continuità, dove sia lui a cambiare e tutto il resto rimanga stabile. Quando
infatti il conflitto è ben gestito l’evento trasformativo seppur doloroso diviene evento
formativo, poiché il figlio minore ha bisogno non solo di essere felice ma di diventare adulto e misurarsi con la realtà. La disgregazione familiare quindi, se ben gestita
e attraversata, porta con sé per il figlio elementi di forte sollecitazione all'autonomia,
all'indipendenza e all'acquisizione di un forte senso di responsabilità, così come la
fiducia nella potenziale positività dei legami, anche familiari, che da adulto si troverà a porre in essere. D'altro canto la presenza di tali elementi non sospende in alcun
modo la responsabilità che i genitori hanno nei confronti del processo di crescita
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
del proprio figlio. Qualora invece questi resti testimone di un conflitto non gestito o
evitato ciò può avere ripercussioni che si possono esprimono in disagi di varia natura, spesso esternate nell'ambiente scolastico, dove egli è chiamato a sperimentare la
realtà circostante e anche a sviluppare le sue abilità sociali.
Lettura del disagio minorile in ambito scolastico
l’ambito scolastico è l’ambiente nel quale il minore porta con sé il bagaglio di
esperienze, stili educativi, modalità di relazioni apprese e/o sviluppate nell’ambito
della propria famiglia. Ogni individuo può essere definito come un sistema dinamico in cui interagiscono fattori genetici, psicologici, affettivi, socio-ambientali.
Inoltre il macrosistema delle Istituzioni e delle tradizioni culturali è strettamente
connesso al microsistema dell’ambiente di vita e delle relazioni personali. L’ essere umano è fondamentalmente relazionale, continuamente impegnato nella relazione con altri esseri umani e quindi chiamato ad attivare processi adattivi di
integrazione delle dimensioni intrapsichiche ed interpersonali. Il tipo e la qualità delle relazioni quindi influenzano il funzionamento della persona stessa. In
tale ottica, qualora nell’ambito scolastico emerga una situazione di disagio scolastico, può essere opportuno ed efficace considerare la possibilità che la questione non sia solo un problema dell’alunno ma possa essere espressione di una
condizione di difficoltà di tutti i componenti del sistema di cui il minore è parte.
Per disagio scolastico si intende una condizione di disagio che si manifesta
soprattutto e in particolare all’interno della vita scolastica sul piano relazionale, comportamentale e degli apprendimenti. È un fenomeno complesso legato
alla Scuola, come luogo di insorgenza e di mantenimento, ma anche a variabili personali e sociali, come le caratteristiche psicologiche e caratteriali da una parte e il
contesto familiare/culturale e dall’altra. Viene ad essere determinato dall’interazione
di più fattori sia individuali che ambientali e si esprime in una grande varietà di
situazioni problematiche che espongono lo studente al rischio di insuccesso e di disaffezione alla scuola. I problemi scolastici sono di tipo diverso e presentano diversi
livelli di gravità, spesso non sono la conseguenza di una specifica causa, ma sono
dovute al concorso di molti fattori che riguardano sia lo studente, sia il contesto in
cui egli viene a trovarsi (ambiente socioculturale, clima familiare, qualità dell’istituzione scolastica e degli insegnanti). Mancini e Gabrielli lo definiscono come “uno
stato emotivo, non correlato significativamente a disturbi di tipo psicopatologico,
linguistici o di ritardo cognitivo, che si manifesta attraverso un insieme di comportamenti disfunzionali (scarsa partecipazione, disattenzione, comportamenti prevalenti
di rifiuto e di disturbo, cattivo rapporto con i compagni, ma anche assoluta carenza
di spirito critico), che non permettono al soggetto di vivere adeguatamente le attività
di classe e di apprendere con successo, utilizzando il massimo delle proprie capacità
cognitive, affettive e relazionali”. Può manifestarsi con varie modalità, tra cui com110
INTERSEZIONI
portamenti di disturbo in classe, irrequietezza, iperattività, difficoltà di apprendimento, di attenzione, difficoltà di inserimento nel gruppo, scarsa motivazione, basso
rendimento, abbandono, dispersione scolastica. Vi sono coinvolte variabili personali
(ad es. l’autostima, l’autoefficacia, componenti cognitive) e variabili contestuali e
relazionali (ad es. l’ambiente di vita, l’ambiente scolastico, il rapporto tra l’alunno e
l’insegnante, tra la famiglia e l’insegnante) e a seconda del grado di coinvolgimento
possiamo parlare di disagio ad origine interna al soggetto e disagio ad origine esterna
al soggetto. E’ evidente come ricercare spiegazioni lineari, di tipo causa-effetto, per
individuare i fattori responsabili del disagio possa rivelarsi riduttivo e fuorviante.
Le complesse variabili psicologiche e socio-culturali che sono coinvolte e il loro
soggettivo intersecarsi con la storia personale del bambino/ragazzo rendono imprevedibili le modalità con cui ciascun soggetto manifesterà il suo disagio, in una vasta
gamma di situazioni che vanno dal malessere tutto interiore e silenzioso al comportamento eclatante, disturbato e disturbante. Tra le possibili manifestazioni del disagio
a scuola troviamo infatti:
Difficoltà di apprendimento: i soggetti in questione manifestano spesso una discrepanza tra il potenziale cognitivo stimato e le modalità di funzionamento a livello
di apprendimento scolastico. Questi soggetti, in altri termini, manifesterebbero capacità e potenzialità normali: le difficoltà di apprendimento dipenderebbero da uno
scarso utilizzo delle proprie risorse cognitive.
Disinvestimento / flessioni del rendimento
Difficoltà relazionali / emozionali: in particolare aggressività di tipo fisico o verbale rivolta a compagni, insegnanti, oggetti; iperattività; basso livello di attenzione e
di tolleranza alle frustrazioni; reazioni emotive eccessive; ansia.
Apatia: immobilità o riduzione dell’attività, mancanza di curiosità e di interessi,
tendenza ad isolarsi, stanchezza generalizzata.
Questi aspetti si influenzano reciprocamente e si intersecano alle variabili di partenza andando a determinare una situazione di circolarità che acuisce il vissuto di
disagio del ragazzo. Di nuovo, dunque, risulta evidente la complessità del fenomeno,
la reciproca influenza delle variabili in gioco non solo nel senso delle loro possibili
interconnessioni ma anche nel loro essere determinate dalle stesse situazioni di disagio in una circolarità che rende difficile, spesso, definirne i confini causali. I possibili
esiti/effetti del disagio scolastico possono essere:
• disagio dell’alunno, dispersione, devianza
• disagio dell’insegnante e disfunzione del sistema-scuola
• disagio della famiglia, conseguente o precedente al disagio del figlio, che può
portare la famiglia a colpevolizzare e allontanarsi dalla scuola per evitare ulteriori
frustrazioni o a colpevolizzare il figlio per le aspettative disattese.
111
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
Ho precedentemente evidenziato come il disagio sia un fenomeno complesso e
multifattoriale. Analizzando in dettaglio i fattori riconducibili al soggetto si possono
evidenziare:
- Caratteristiche psicologiche generali del soggetto, ovvero bassa autostima, scarsa motivazione, immaturità dell’io (inibizione affettiva; scarso controllo emotivo;
ansia di separazione, bassa tolleranza della frustrazione), inadeguato stile di attribuzione (attribuzione delle cause degli eventi a fattori esterni indipendenti dal
soggetto)
- Scarso livello di conoscenza, come povertà di contenuti cognitivi, carenti strutture cognitive (come l’informazione è organizzata e rappresentata nella memoria),
inadeguati processi cognitivi (come il sistema cognitivo interpreta e operare sulla
realtà), stile di apprendimento poco funzionale (apprendimento mnemonico tendente alla descrizione più che alla comprensione; carenza di abilità metacognitiva).
Tra i fattori riconducibili alla famiglia invece è dato rilevare:
- Svantaggio socioculturale e carenze del contesto relazionale. Per situazione
socioculturale svantaggiata non si intende tanto la condizione economica familiare quanto invece fattori come il livello di istruzione dei genitori, la zona e
le condizioni di residenza, la eventuale appartenenza a minoranze culturali/linguistiche, carenze affettive, assenza di una valida rete di supporto alla famiglia.
Un alto livello socioculturale può incidere in vari modi, per es. fornisce un ambiente più ricco di stimoli e sussidi e con stimolazioni dirette qualitativamente superiori, c’è una maggiore sensibilità rispetto al processo di apprendimento e al valore della scuola e dell’istruzione ed è così più
facile che il bimbo sia motivato ad apprendere e al successo scolastico.
Questi fattori interagiscono con quelli legati alle caratteristiche della famiglia:
clima, valori proposti, attenzione e interesse dei genitori verso le attività scolastiche del figlio, i contenuti che affronta, attenzione quotidiana a cosa è successo a
scuola. La qualità di questa attenzione deve però essere regolata, evitando la troppa e inadeguata attenzione, che determina eccessiva pressione e si accompagna di
solito all’elaborazione di ambiziosi progetti (più interessati ai risultati che al reale
apprendimento). Si può avere un effetto boomerang per cui il bimbo all’inizio
accoglie le sollecitazioni e poi però reagisce negativamente e nel timore di non
essere all’altezza delle aspettative dei genitori può ritirarsi e rifiutare la sfida con
le prove scolastiche.
- Atteggiamenti educativi inadeguati, come atteggiamento iperprotettivo (può favorire una carenza di impegno nell’affrontare le nuove situazioni o le difficoltà quotidiane,. nonché le regole del vivere insieme); atteggiamento autoritario
(il bambino può reagire con chiusura o rinuncia all’iniziativa, oppure tendenza
112
INTERSEZIONI
all’opposizione e all’aggressività); atteggiamento permissivo (può essere vissuto
dal bambino come manifestazione di non interesse profondo; non favorisce lo
sviluppo della capacità di tollerare la frustrazione); svalutazione del bambino,
incoerenza negli atteggiamenti. Il disagio scolastico assume quindi varie forme,
dalle difficoltà di apprendimento, basso rendimento rispetto alle reali capacità del
soggetto, assenteismo, disaffezione, abbandono scolastico fino a problematiche
comportamentali quali difficoltà di attenzione e concentrazione, iperattività motoria, scarsa tolleranza delle frustrazioni, fenomeni di prepotenza e bullismo. C’è
poi la realtà dell’abbandono non accompagnato dall’atto manifesto di lasciare
la scuola ma caratterizzata da un disimpegno e disinvestimento. Si tratta di una
realtà che ingloba altre forme di non frequenza scolastica: evasione, assenteismo,
rendimento inferiore alle reali capacità di apprendimento, disaffezione, insuccesso e dispersione, fino a legarsi a aspetti più specifici della vita sociale quali le
condotte a rischio. L’abbandono scolastico è dunque presente nella nostra scuola
in forme differenti sul piano dell’osservabilità: da forme più esplicite ed evidenti
a forme più sommerse. Nel primo gruppo rientrano tutte le manifestazioni che
comportano una interruzione degli studi come risultato dell’impossibilità di proseguire dei ripetuti fallimenti sul piano del rendimento, di un rifiuto nei confronti
di una realtà fonte di emozioni negative e frustranti, oppure frutto di una scelta
più o meno razionale e più o meno condivisa tra genitori e figli. Queste manifestazioni, possono essere accompagnate da tendenze oppositive, espressione
del bisogno di ribellarsi nei confronti delle richieste-imposizioni esterne e quindi anche scolastiche, oppure da sentimenti di rabbia nei confronti della scuola,
vista come la causa dell’insuccesso, o ancora, da sentimenti di tipo depressivo,
di inadeguatezza, di incapacità, di scarsa autostima e conseguentemente ritiro e
disinvestimento che può estendersi anche ad altre attività. Nel secondo gruppo
si trovano manifestazioni più sommerse di disagio. Il ragazzo lamenta un senso
di noia, di scontentezza, di disinteresse, a volte circoscritto alla scuola, ma più
spesso generalizzato, al quale l’adolescente non sa dare un significato. In questi
casi non si verifica un vero e proprio abbandono della scuola, ma una fluttuazione
o abbassamento del rendimento accompagnato da altrettanta flessione e scarsa
fiducia nelle proprie capacità e possibilità e dall’assenza di piacere nell’usare il
proprio pensiero. In entrambi i casi si tratta di un segnale di un disagio sottostante
che può presentarsi per la prima volta nell’adolescenza rimandando alle problematiche di cambiamento che essa comporta e dunque avere carattere transitorio,
ma può anche legarsi a difficoltà già presenti, in modo nascosto o difficilmente
rilevabile, in precedenza e esacerbate dal periodo evolutivo che possono dunque
assumere carattere patologico. Talora può invece trattarsi di modalità disfunzionali reattive con le quali l’adolescente cerca di far fronte a carenze della realtà
esterna quali, l’inadeguatezza dell’istituzione scolastica e del corpo insegnante,
situazioni familiari particolari. I molteplici fattori in gioco, specificati nei paragrafi precedenti, pesano in maniera diversa sul dropping out a seconda del grado
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
scolastico. Nella scuola dell’obbligo infatti sono determinanti i fattori di ordine
socioculturale che riguardano la famiglia. La scuola è un banco di prova attraverso il quale il bambino / l’adolescente cerca di trovare riscontri che gli consentono di investire positivamente un sè incerto, ancora indefinito tanto sul piano
dell’identità corporea che su quello del pensiero e delle competenze cognitive,
in termini di ricerca di identità adulta. Il fallimento in questa realtà non fa che
confermare una immagine di sè svalutata, inadeguata, determinando così un effetto boomerang che può investire anche altri aspetti della realtà anche futura del
soggetto. Non di rado infatti l’alunno che viene a trovarsi in questa situazione
mette in atto comportamenti anomali di tipo reattivo (opposizione, rifiuto, aggressività o inibizione, demotivazione). Tutto questo accade per una immediata e
diretta percezione che egli ha del proprio stato, ma anche per le ripercussioni che
queste difficoltà producono nell’intero sistema relazionale e di vita del soggetto,
negli stessi insegnanti e soprattutto nei familiari. Si verifica una compromissione
della relazione tra questo alunno e il suo ambiente, per cui il ragazzo si viene a
trovare in un contesto di aspettative disattese, disorientamento, senso di colpa e
inadeguatezza, frustrazione, vissute dai vari componenti (famiglia, scuola, soggetto stesso). Da qui ha origine un senso di inferiorità e insicurezza insieme ad
una progressiva degradazione dell’immagine di sè, come effetto degli insuccessi
ripetuti e delle conseguenti disapprovazioni, esplicite o implicite, degli altri, che
non fa che influire maggiormente sulle già presenti difficoltà. Ecco che torna di
nuovo evidente il carattere complesso e circolare del fenomeno del disagio scolastico, che spesso rischia di divenire disagio a più livelli: affettivo, relazionale,
psicologico.
La mediazione familiare a scuola: strumento di prevenzione del disagio
Date queste premesse, un’attenta opera di screening precoce (sia relativamente
a difficoltà/disturbi dell’apprendimento che a situazioni a rischio disagio) e di prevenzione assume dunque una valenza fondamentale. Con il termine prevenzione mi
riferisco all’insieme di azioni riguardanti sia l’individuo che il suo ambiente, volte a
impedire la comparsa di uno stato di disagio o di uno stato patologico successivo o
di ridurne le conseguenze. La Mediazione Familiare offerta nella Scuola può porsi in
tale contesto come strumento di prevenzione capace di incidere su due livelli:
• prevenzione primaria, cioè un’azione a livello dell’ambiente e/o dell’individuo
per impedire la comparsa di disagi/disturbi;
• prevenzione secondaria, cioè un’azione mirata in risposta ad un precoce riconoscimento di disagi/disturbi.
114
INTERSEZIONI
Da quanto illustrato nei capitoli precedenti emergono alcuni fattori di rischio,
tra cui il disagio familiare e da separazione, sui quali è opportuno e necessario
agire ai vari livelli di intervento per attuare una efficace prevenzione del disagio
del bambino/adolescente coinvolto. Il primo passo di una prevenzione deve essere
allora una attenta osservazione: saper riconoscere il disagio e saper riconoscere le
situazioni a rischio di disagio. Un momento fondamentale per una efficace strategia
preventiva è inoltre lo sviluppo di un sistema di rete tra famiglia, scuola servizi e
territorio per un coerente e integrato intervento. Attivare e sviluppare un servizio di
Mediazione Familiare nella Scuola si configura come possibile linea di intervento
per prevenire e far fronte al disagio scolastico. L’ottica in cui porsi è a mio avviso di tipo sistemico-relazionale, un’ottica che tenga conto della complessità delle
variabili che si vengono ad attivare e alle modalità sempre specifiche e soggettive
con cui si intersecano, influenzano e manifestano e che consideri non solo il disagio come un problema del singolo individuo, bensì una condizione che appartiene
all’intero sistema di vita in cui il ragazzo è inserito: gruppo classe, scuola, famiglia,
società. E’ l’intero sistema, allora, ed in particolare quello familiare, che deve essere preso in considerazione se si vogliono attivare interventi di prevenzione, rilevazione e recupero che siano efficaci. In un’ottica sistemica nel rapporto individuo e
famiglia si possono riconoscere tre livelli di realtà relazionale interdipendenti. Ad
un primo livello si osservano i rapporti basati sull’immagine che la famiglia ha e
dà di sé, e che ogni membro da dell’altro e di se stesso,in riferimento ai rispettivi
ruoli in quella struttura familiare. La maggiore vicinanza tra le persone, il contatto,
l’andare oltre i ruoli, si trovano invece ad un secondo livello di osservazione Infine al terzo livello si osservano rapporti interni basati su fantasie comuni e regole
condivise mai messe in discussione. All’interno di una visione plurigenerazionale,
inoltre, si possono meglio comprendere non solo le dinamiche relazionali ma anche
le conflittualità individuali, si può utilizzare un livello orizzontale per raccogliere
elementi di tipo morfologico-strutturale, in quanto si osserva come i membri del sistema realizzano lo stare insieme, ed un livello verticale per raccogliere elementi che
individuano il collegamento relazionale, passato e presente, fra le tre generazioni.
Un gruppo familiare sano mantiene una separazione tra le generazioni (madre e padre non sono figli e i figli non sono genitori). Le due generazioni appartengono a
due categorie separate all’interno delle quali individui della stessa generazione sono
dello stesso livello. Tuttavia c’è una sostanziale libertà nella scelta dei ruoli, ciascuno dei quali è accessibile ad ogni membro (es.: un padre può essere un bambino di
5 anni o può essere madre in una situazione protetta da un implicito “come se”). La
distribuzione del potere all’interno della famiglia sana è flessibile con una casualità
che deriva dalla libertà di esprimere le differenze individuali, di rinegoziare la struttura e le aspettative rispetto ai ruoli e di rivalutare l’esperienza passata. Ciascuno ha
diritto di essere sé stesso e può sviluppare la propria unicità trovando negli altri un
incoraggiamento o pochissima opposizione. La libertà di scegliere tra appartenenza e
differenziazione è garantita dal gruppo. Il modello teorico del ciclo vitale della fami115
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
glia, introdotto da Haley, inquadra lo sviluppo spazio-temporale di questo fondante
nucleo sociale attraverso l’individuazione di determinate fasi evolutive prevedibili.
Le varie tappe sono contrassegnate da particolari eventi significativi. Si possono
distinguere due tipi principali di eventi: quelli normativi, prevedibili, legati alle fasi
del ciclo vitale (matrimonio,pensionamento,…) e quelli paranormativi. Tra questi
ultimi che vengono ad intrecciarsi ai primi vi sono eventi luttuosi, così come l’evento separativo e il mutamento delle condizioni socio-economiche. Per ogni fase, la
Famiglia si trova a dover svolgere determinati compiti evolutivi, sia in base a delle
richieste interne da parte dei membri sia in base ad esigenze esterne del contesto
socio-culturale in cui è inserita. Il ciclo vitale non è semplicemente la descrizione di
uno sviluppo naturale della struttura familiare, non essendo ipotizzabile un modello
unico di sviluppo uguale per tutte le famiglie. L’utilità del modello del ciclo vitale
consiste quindi non tanto nella possibilità di identificare la fase in cui si trova la
famiglia “qui e ora”, ma piuttosto nel poter osservare il cambiamento e la riorganizzazione della famiglia nel passaggio da una fase all’altra. Il cambiamento evolutivo
comporta la crisi in quanto è legato all’inevitabile ingresso in regioni sconosciute.
Durante il periodo di transizione da una fase all’altra del ciclo vitale si scontrano due
opposte tendenze: da una parte il desiderio di tornare indietro verso situazioni note e
familiari, che promettono stabilità e sicurezza; dall’altra l’aspettativa della conquista
di nuove possibilità che si prospettano ricche di potenziali positivi. La crisi, quindi,
se colta nel suo intero significato, costituisce il primo atto di una nuova fase maturativa. Le diverse possibilità di scelta che nascono dalla situazione di crisi possono
avere sbocchi sia in senso evolutivo che regressivo, tale eterogeneità nella risposta
allo stress dipende in primo luogo dai significati attribuiti dai membri della famiglia
all’esperienza di crisi. La possibilità che gli eventi stressanti assumano significati
“traumatici” per la Famiglia è maggiore se essi si verificano in posizione sfalsata
rispetto all’atteso corso della vita. La famiglia si percepisce “fuori tempo” non solo
in rapporto a parametri fissi come l’età dei membri, o gli archi di tempo in cui ci si
aspetta che si verifichi un dato evento; ma anche in base agli elementi “vissuti”: basti
pensare alla trasmissione degli schemi relazionali, ai miti familiari. La separazione e
il divorzio sono eventi fonte di stress fuori tempo.
La capacità di ogni componente della Famiglia di tollerare tali sfalsamenti potrà essere incrementata dall’attivazione di un procedimento mediativo che renda
evidente come la crisi possa rivelare aspetti generativi e costruttivi e non degenerativi né regressivi. Se infatti consideriamo che la famiglia sana è una sottocultura che si è strutturata nel corso di molte generazioni, attraverso il cambiamento
di ruoli e funzioni nel tempo e le conseguenti crisi di identità, possiamo dedurre
che i problemi sorgano e si strutturino in rapporti patologici e disfunzionali quando questi cambiamenti non sono permessi e l’assegnazione di ruoli e funzioni si
irrigidisce diventando irreversibile o totalmente in contrasto con quella biologica.
In una famiglia sana, invece, i problemi vengono risolti con un riordinamento delle
abitudini,ruoli,miti speranze,tabù e azioni concrete. Fondamentalmente i problemi
116
INTERSEZIONI
si manifestano come empasses e giungono a soluzione attraverso un processo standard di tesi,antitesi e sintesi. I confini della famiglia sono flessibili e la chiarezza
dei confini (ossia le regole che definiscono chi partecipa e come) è un parametro
utile per la valutazione del funzionamento. Alcune famiglie concentrano l’interesse
su sé stesse, con conseguente aumento di comunicazione e di coinvolgimento tra i
loro componenti. Il risultato è che la distanza diminuisce e i confini si confondono e
i rapporti si cristallizzano in una dimensione di disimpegno. La differenziazione del
sistema familiare si indebolisce. Altre famiglie sviluppano confini eccessivamente
rigidi, la comunicazione tra i sottosistemi diventa difficile, le dinamiche si strutturano all’estremo opposto, ovvero nell’invischiamento e le funzioni di difesa della
famiglia sono danneggiate. Considerato che il processo di crescita dell’individuo
avviene sia all’interno del suo contesto familiare, sia in relazione ad altri contesti e
che esso si basa sull’integrazione di bisogni apparentemente contrastanti, quelli di
differenziazione e quelli di coesione, proprio nell’ambiente scolastico emerge con
evidenza come ciascun individuo sia costretto a rinegoziare costantemente il proprio
bisogno di appartenenza con l’esigenza di separarsi e di rendersi autonomo. Considerato poi che in ogni momento di difficoltà e di crisi, come è l’evento separativo,
corrisponde la messa in discussione di strutture relazionali consolidate, ovvero di
un modo di appartenere ad un sistema di relazioni, Il procedimento di Mediazione
Familiare attivato nelle Scuole consente di dare voce e ridefinire i significati che le
persone assegnano alle relazioni che vivono e a quelle che hanno vissuto, nell’ottica
della salvaguardia del valore del legame familiare. Un intervento di questo genere
può quindi porsi come opportunità affinchè nel momento della crisi la coppia che si
separa non resti congelata nelle sue credenze e nelle sue dinamiche conflittuali e i
figli coinvolti non vengano posti nella condizione di spingere all’estremo il proprio
sentimento di appartenenza e di identità tanto da rinunciare alla propria piena realizzazione per non correre il rischio di essere respinto dal sistema o di provocare la
sua frammentazione. Questo infatti fermerà la crescita, bloccando le potenzialità
evolutive di tutti i singoli coinvolti. La Mediazione Familiare a Scuola, pertanto,
creando un setting specifico, uno spazio e un tempo “neutro” dove il focus sulla persistenza e permanenza della funzione genitoriale a prescindere dalla scelta separativa
risulta esplicitato, consente ai coniugi di “ripensarsi” come coppia che si separa ma
che rimane unita nell’esercizio della funzione genitoriale, avendo l’opportunità di
riorganizzare emotivamente e pragmaticamente la loro vita. Attraverso un percorso
strutturato di negoziazione, giungere a degli accordi ragionevoli e mutualmente soddisfacenti su tutti gli aspetti inerenti il divorzio, ovvero le modalità di affidamento
dei figli, calendario delle visite per il genitore non affidatario, assegno di mantenimento, divisioni patrimoniali, spartizione dei beni ecc., permette di salvaguardare
il valore del mito familiare che ognuno porta con sé e che influenza il suo modo
di vedere il mondo e le relazioni che intreccerà. È infatti il grado della rigidità che
definisce il carattere patologico del mito, sicchè il processo mediativo può porsi
con la sua valenza e potenzialità altamente pragmatica e centrata sul presente in
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Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
una prospettiva futurocentrica, come efficace strumento di prevenzione di disagi che
potrebbero tradursi in disfunzioni relazionali. Il processo mediativo si pone quindi
in un’ottica di crescita dell’individuo, al fine di contribuire all’elaborazione di strutture che connettano gli individui e alla riorganizzazione delle relazioni familiari e
alla risoluzione o attenuazione dei conflitti in caso di separazione o di divorzio. Lo
scopo del percorso di mediazione è quello di consentire ai coniugi che scelgono di
porre fine al proprio vincolo matrimoniale di raggiungere, in prima persona, degli
accordi di separazione e di essere artefici della riorganizzazione familiare che andrà
a regolare la vita futura loro e dei loro figli. Queste ricerche, avviate negli Stati Uniti, in Canada e in Europa, dimostrano con evidenza che in percentuale gli accordi
raggiunti in sede di mediazione familiare presentano un numero considerevolmente
più basso di successivi ricorsi in tribunale rispetto agli accordi imposti dal giudice
in sede giudiziaria. La Charte européenne de la formation des médiateurs familiaux,
redatta nel 1992 da un’équipe di mediatori e poi ripresa nel 1997 dal Forum europeo
di formazione alla mediazione familiare, definisce la mediazione “un processo che
prevede la presenza di un terzo - il mediatore appunto - adeguatamente preparato
che aiuta le parti ad affrontare tutte le questioni connesse alla riorganizzazione
familiare in vista della separazione coniugale, nel pieno rispetto delle legislazioni
vigenti nei vari paesi”. In mediazione, quindi, i coniugi lavorano insieme con il
mediatore per il raggiungimento di un obiettivo concreto: l’elaborazione di accordi
di separazione che saranno poi presentati al giudice per ottenere la ratifica ufficiale
necessaria”. La Mediazione, quindi rappresenta anche il modo migliore per i minori
di vedere tutelati i loro diritti, bisogni ed interessi: se, infatti, il mediatore non interviene in merito al contenuto degli accordi, sui quali soltanto i coniugi hanno diritto
di parola, egli ha comunque il dovere di opporsi a quelle decisioni che con evidenza
minaccino l’interesse dei bambini. Sono allora i figli, i terzi assenti –eppur presenti a
maggior ragione perché il luogo Scuola richiama costantemente la loro presenza nel
processo di mediazione - i beneficiari privilegiati di questo tipo di intervento. La Mediazione Familiare si presenta allora come un aiuto concreto ai padri e alle madri che
intendono ripensare in maniera intelligente e costruttiva alla riorganizzazione del
ménage familiare, evidentemente destrutturato dalla crisi coniugale. In mediazione
non ci si occupa del passato e dei motivi che hanno condotto la coppia alla decisione
di separarsi, e l’attenzione dei protagonisti si soffermerà soprattutto sui ruoli presenti e futuri e su tutti gli aspetti di gestione del nuovo assetto familiare. Peraltro la
Mediazione Familiare a Scuola non è necessariamente rivolta alle coppie che hanno
già deciso di separarsi: in quanto servizio di aiuto in caso di conflittualità familiare,
possono recarsi dal mediatore tutti coloro che vivono una situazione di conflitto in
famiglia e che sentono il bisogno di trovare uno spazio neutro in cui confrontarsi per
chiarire la propria posizione, le proprie idee, o ritrovare un proprio ruolo genitoriale
corroso dal tempo o da situazioni conflittuali. In tale quadro e contesto la Mediazione Familiare può divenire strumento di prevenzione.
118
INTERSEZIONI
Conclusioni
In conclusione ritengo che la Mediazione Familiare agita in ambito scolastico
come opportunità offerta alle Famiglie con figli in età scolare, aiutando i coniugi
in via di separazione a trovare accordi “mutualmente soddisfacenti” per entrambi,
ristabilisce un canale di comunicazione interrotto promuovendo un dialogo costruttivo e chiaro fra gli ex coniugi in vista di una collaborazione futura come genitori.
Coadiuvare i cambiamenti emotivi, psicologici, pragmatici ed organizzativi che accompagnano la separazione significa infatti evitare che la crisi coniugale sfoci in una
conflittualità dannosa e distruttiva e significa avere a cuore la tutela del benessere
e i diritti dei minori coinvolti, promuovendo il rispetto fra in genitori. La capacità
infatti di separarsi civilmente rappresenta il modo migliore per chiudere in positivo
e dignitosamente un capitolo della propria storia personale, riappropriandosi della
responsabilità del proprio benessere, recuperando risorse nell’ottica di mantenere un
ruolo da protagonisti responsabili nella crescita dei propri figli e di riorganizzare le
relazioni e la propria vita che si apre al nuovo che verrà.
Abstract
This article speaks about the Family Mediation shakes in scholastic circle, in
particular in the Italian contest, like an opportunity way offered to the families with
children in age to drain, that can help the consorts during the separation to find accords “satisfactory” for both, to reestablish a channel of communication interrupted
and to promote a constructive and clear dialogue among the ex consorts in sight of a
future collaboration as parents.
Accompany the emotional changes, psychological and organizational of the separation it means in fact to avoid that the conjugal crisis flows in a harmful and
destructive conflict and means to take care the needs of the children, to listen the
signals of uneasinesst and to take care the rights of the children involved, promoting
about the respect in parents.
Key words: family mediation, parents training, divorce and schooling.
Ricevuto gennaio 2010
Accettato marzo 2010
119
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 101-120
Bibliografia
J.Haynes – I. Buzzi : “Introduzione alla Mediazione Familiare” Ed. Giuffrè.
R. Fisher – W. Ury: “L’introduzione al negoziato” Ed. A. Mondadori.
F. Dolto : “Quando i genitori si separano” Ed. Oscar Mondadori.
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genitori separati” Ed. Giuffrè.
D. Francescato : “Figli sereni di amori smarriti” Ed. Putton Anna Mondadori.
I. Buzzi – S. Pinna : “Esperienze pratiche per mediare i conflitti” Ed. Punto Di
Fuga.
S. Montagano – A. Pazzagli : “Il genogramma. Teatro di alchimie familiari” Ed.
FrancoAngeli.
P. S. Nicosia : “Come gestire i conflitti e vincere…insieme” Ed. Paoline.
M. Cozzolino : “La comunicazione invisibile” Ed. Carlo Amore.
S. Castelli : “La mediazione. Teorie e tecniche” Ed. Raffaello Cortina.
F. Sinibaldi, G. Ferrari : “Equilibrio” Ed. Carlo Amore.
M. Maglietta : “L’affidamento condiviso dei figli” Ed. FrancoAngeli.
Mediazione Familiare si propone come risorsa per una soluzione condivisa del
conflitto nella vi
120
Valentina Boursier
Sentire con gli occhi
Note sull’osservazione del bambino in psicoanalisi
tra formazione, clinica e ricerca.
Franco Angeli, 2010
è con grande piacere che presento il lavoro di Valentina Boursier “Sentire con
gli occhi. Note sull’osservazione del bambino in psicoanalisi tra formazione, clinica e ricerca.” Comincerò subito con l’esplicitare che il valore del volume non sta
solo nel presentare al lettore con rigore e chiarezza un tema di grande interesse ed
attualità, perché in esso l’autrice affronta (con delicatezza in termini di “note” ma
nello stesso tempo senza timore di prendere posizione) alcune questioni “euristiche” relative ai contributi che l’osservazione diretta psicoanalitica fornisce, con il
proprio specifico, al lavoro clinico in età evolutiva, alla pratica clinica in generale,
alla ricerca ed alla formazione.
Il lavoro è strutturato in due parti, la prima di tipo teorico, rigorosa e nello stesso
tempo fruibile, analizza l’osservazione diretta in psicoanalisi partendo dai pionieri,
la seconda di stampo più clinico, dà ampia dimostrazione dell’attualità dell’utilizzo
dell’osservazione del bambino evidenziandone in particolar modo il valore di strumento, non solo formativo ma anche di intervento, volto al sostegno della relazione
e dello sviluppo infantile.
Il vertice di approfondimento scelto dall’autrice è la questione del metodo; esso
è affrontato nel rapporto tra metodo osservativo e metodo ricostruttivo fondato
sull’après-coup, o se vogliamo, attraverso la vessata questio: bambino ricostruito
nella stanza d’analisi/bambino osservato nel compiersi del suo sviluppo, che negli
ultimi anni è confluita nel dibattito, ci ricorda l’autrice, portato avanti dagli psicoanalisti Andrè Green e Daniel Stern.
Le riflessioni sulla moderna Ricerca osservativa partono dall’ illustrare i principi dell’Infant Research che, attraverso la strutturazione di situazioni sperimentali
prefissate, rispondono ai criteri di quantificazione e misurabilità. Si sottolinea però
il rischio che l’osservazione del bambino possa attualmente venire “identificata
tout court nella pratica osservativa portata avanti dall’infant research”. Viene allora individuato un campo, un ambito specifico di differenziazione che si declina a
partire dall’interrogarsi su alcune questioni prioritarie e problematiche nell’osservazione psicoanalitica: il peso psichico degli eventi, il ruolo dell’attenzione orientabile, l’intenzionalità curativa e preventiva.
Il volume si pone come un lavoro squisitamente psicoanalitico non solo perchè
è attraversato da concetti psicoanalitici, ma perché si interroga costantemente su
una posizione dell’osservatore, su un assetto mentale da ricercare attraverso un
lavoro psichico che consente di cogliere aspetti della realtà osservata accogliendo
le esperienze anche più primitive, in divenire.
121
Psicologia Scolastica - Volume 9, Numero 1 - pp. 121-123
Nel descrivere i temi relativi al processo osservativo viene evidenziata, ad esempio, una particolare qualità relazionale mediata dalla funzione attentiva di Houzel:
“…se è vero che l’osservatore deve in qualche modo affrancarsi da quelle interferenze psichiche che rischiano di adombrare le sue capacità recettive, esercitando
così una necessaria attitudine veritativa, va pur detto che le sue capacità recettive
sono tali proprio perché si servono di quel lavoro psichico, che può interferire ma
che può anche consentire di cogliere alcuni aspetti della realtà osservata, attraverso
una forma di interpretazione che si esprime con la costruzione (che non è mera
attribuzione) di un possibile significato. Per tale ragione, torniamo a ribadire che
la ricettività dell’osservatore non può servirsi soltanto della registrazione del dato,
ma deve essenzialmente avvalersi della sua emozionalità, di un attraversamento
sensoriale che consente la traduzione dei segnali; in sostanza, di ciò che – come
rileva Houzel (2002) – Bion definisce “capacità di rêverie”. Ed è questo esercizio
che prepara ad accogliere l’altro e, così, ad averne cura”.
Così si snoda un percorso teorico-clinico-formativo che si presta particolarmente bene a fini didattici, universitari e specialistici, e che nella seconda parte
del volume presenta, come si accennava, una serie di esperienze in vari contesti
applicativi: osservazioni longitudinali madre-bambino nell’ambiente familiare, il
lavoro educativo negli asili nido, la formazione alle professioni parasanitarie.
Qui l’autrice ci propone un duplice sguardo su esperienze in formazione e di
formazione, presentandoci prima la propria esperienza formativa (dal punto di vista del formando) proposta come un vivo ed intenso percorso trasformativo e poi
l’applicazione in vari contesti (dal punto di vista di chi forma ma sempre si interroga) di un “modus osservandi” che non pretende di essere esaustivo, ma che
permette all’identità in formazione la costruzione di saperi e conoscenze in una
condizione di apertura, di transito, in cui ridefinire le esperienze, “esperienze di
relazione con l’altro”.
Una peculiare applicazione è quella dell’osservazione del bambino come strumento di individuazione del rischio e di sostegno indiretto allo sviluppo infantile, alla genitorialità e alla relazione educativa. Qui viene illustrato un modello di
lavoro messo a punto in questi anni nel Progetto di ricerca - intervento “Nidi di
mamme” da Adele Nunziante Cesàro, che con Valentina Boursier firma un capitolo
curando anche la prefazione al volume.
Infine, il titolo del volume “Sentire con gli occhi” riassume un modo di intendere l’osservazione che “attraverso lo sguardo esprime una condizione di partecipazione che è già una forma di intervento”. Viene ripresa l’intuizione di Mashud
Khan con il riferimento alla qualità percettiva e sensoriale dell’esperienza analitica
di relazione con l’altro e al valore della comunicazione affettiva, di cui numerosi
sono i rimandi nel volume, cominciando dalla passione che lo attraversa, forse perché, riprendendo anche Shakespeare, “Udire con gli occhi si addice al fine ingegno
dell’amore” (XXXIII Sonetto).
Giorgia Margherita
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RECENSIONE
Riferimenti bigliografici
Houzel, D. (2002), L'aube de la vie psychique, ESF éditeur: Paris.
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