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editoriale
È
luglio, mese di bilanci sull’attività svolta e di
buoni propositi su quella da svolgere. Mi viene chiesto di riflettere su come ha funzionato l’attività di
formazione del Cres, se ha corrisposto alle reali e
più importanti esigenze degli insegnanti e delle
scuole, se va arricchita di nuovi temi di riflessione.
Provo a dire qualcosa, soprattutto sull’ultimo punto.
P
arto da una notizia che non è proprio una novità, ma insomma, fa sempre un po’ impressione
vederla scritta. E’ sull’aumento esponenziale degli
allievi figli di immigrati nella scuola italiana. Scrive il Corriere della Sera che nelle scuole della provincia di Milano nell’a.s. 2007/8 ci saranno 41.000
studenti stranieri, con un aumento del 17% rispetto al 2006. In non poche scuole alcune classi saranno formate al 90% da alunni stranieri. L’anno prossimo sarà così anche a Roma, Prato, Genova e in
numerose altre parti d’Italia.
La prima cosa che viene da pensare di fronte a
notizie del genere è che le risorse utili a fronteggiare questa situazione (ad esempio, gli insegnanti
facilitatori), lungi dall’essere proporzionalmente
incrementate, sono drasticamente diminuite (senza differenze di atteggiamento significative tra i diversi governi, almeno finora.) Fatta questa doverosa constatazione cambio registro e racconto brevemente, a proposito di alunni stranieri, una esperienza interessante che può dare qualche indicazione al Cres sulle proposte per la formazione.
A
lla “Casa del Sole”, storico istituto comprensivo di Milano sito in un quartiere ad alta densità
di famiglie immigrate, con un corpo docenti avvezzo da tempo a pratiche didattiche interculturali, agisce da qualche anno una associazione di mamme
della scuola, italiane e straniere, che svolge attività
di “accoglienza linguistica” per bambini e mamme
di recente immigrazione. Questa associazione si
chiama “Parole in gioco”. Per un certo numero di
pomeriggi alla settimana, in maniera del tutto volontaria, essa fa, per l’appunto, “accoglienza linguistica”: attraverso il gioco, le feste, la “chiacchiera”
e quant’altro, cerca di creare contesti di relazione
che facilitino la comunicazione, che sciolgano le
barriere della diversità linguistica e incentivino il
dialogo, l’uso delle parole e la voglia di apprenderle in maniera corretta. Le mamme di Parole in gioco non fanno doposcuola, non insegnano la grammatica, non fanno le maestre (non ne hanno i titoli), tanto meno vogliono sostituirsi ai facilitatori linguistici o sollevare l’istituzione scolastica dal dovere di garantire l’istruzione a tutti i bambini con le
dovute risorse. Vogliono, semplicemente, gettare
ponti relazionali da mamma a bambino, da genitrice a genitrice, cercando di provocare, in questo
modo, le condizioni affettive per l’apprendimento/
uso della lingua. Un lavoro, esse ritengono, utile e
necessario anche se le risorse istituzionali per fron-
2
teggiare il fenomeno migratorio fossero sufficienti.
Quali i risultati di questa attività? Difficile dire,
difficile misurare. Si può però osservare che non
esiste alla Casa del Sole un significativo fenomeno
di “fuga” di genitori italiani verso scuole “etnicamente pure”; che non si sono riscontrate, finora, tensioni interculturali; che tra mamme e tra
bambini italiani e non italiani c’è un clima di collaborazione, di sostegno reciproco, di amicizia. Certo, non perché ci sono le mamme di Parole in gioco (abbiamo detto della lunga tradizione di didattica interculturale del corpo docenti). Ma, forse,
un pochino, anche perché ci sono loro.
L
’impegno delle mamme di Parole in gioco sottintende la convinzione, condivisa dalla scuola che
ha fin da subito appoggiato l’esperienza, che sia necessario, per rendere più efficace l’intervento
formativo verso i figli di immigrati, agire anche
sulle famiglie, sulle mamme, in particolare, e in un
duplice senso: favorendo l’acquisizione di strumenti linguistici che permettano loro di affiancare la scuola nell’impegno di insegnare ai bambini;
costruendo con le stesse mamme straniere contesti di inclusione socio - affettiva capaci di riverberarsi positivamente sull’esperienza scolastica dei
figli. La scuola, infatti, anche quella più attrezzata, di fronte alla radicalità culturale del fenomeno
migratorio corre il rischio di non farcela a integrare, se direziona il suo intervento educativo solo sul
bambino a scuola e non anche sui contesti familiari dell’apprendimento e della socialità.
C
osa dice al Cres l’esperienza della Casa del
Sole? Che il modo di fare cultura dell’integrazione
e del dialogo a scuola va probabilmente dilatato.
Che è sì necessario continuare a lavorare sull’adeguamento dei curricoli disciplinari ai bisogni
formativi posti dalla società presente, come abbiamo finora fatto, ma che questa dimensione dell’intervento non può più probabilmente rimanere
l’unica.
L’esperienza della Casa del Sole sta forse ad indicare che si sta diffondendo nelle scuole una attenzione alla necessità di strategie di integrazione
e apprendimento degli alunni stranieri che passino anche attraverso la costruzione di relazioni più
forti tra scuola e famiglie immigrate. Questa attenzione è destinata a mutarsi in domanda di formazione. Credo che al Cres spetti non solo il compito
di raccoglierla, questa domanda, ma anche di farla crescere: riflettendo sulle esperienze di coinvolgimento delle famiglie straniere nella vita della
scuola e ricavandone possibili modelli da rilanciare
e diffondere.
Abbiamo già troppe cose da fare. C’è spazio anche per questa?
Dino Barra
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SPUNTI DI RIFLESSIONE
Intersezioni disciplinari
sui temi ambientali
Michele Crudo*
“Il pensiero che interconnette rimpiazzerà
la causalità unilineare e unidirezionale con
una causalità circolare e multireferenziale,
mitigherà la rigidità della logica classica con
una dialogica capace di concepire nozioni allo
stesso tempo complementari e antagoniste,
completerà la conoscenza dell’integrazione
delle parti in un tutto con il riconoscimento
dell’integrazione del tutto all’interno delle
parti”.
E. Morin
L’emergenza ambientale
I temi ambientali hanno finalmente conquistato le
prime pagine dei giornali. Non c’è settimana in cui i
quotidiani non trattino questioni che riguardano il
delicato rapporto fra natura e società. Gli argomenti
sono spesso di rilevanza regionale e nazionale: il complesso sistema di dighe progettato per impedire il fenomeno dell’acqua alta a Venezia; la costruzione del
ponte sullo stretto di Messina; il raddoppio delle corsie autostradali e delle linee ferroviarie nei tratti tra
Firenze e Bologna e fra Torino e Milano; la realizzazione delle gallerie per i treni ad alta velocità in Val
di Susa; la costruzione della centrale termoelettrica
a Brindisi; lo smaltimento dei rifiuti a Napoli e in
Campania. Si potrebbe andare avanti con il dissesto
idrogeologico, gli scarsi finanziamenti alle amministrazioni dei parchi naturali, il frequente superamento della percentuale di polveri sottili che hanno trasformato le città italiane in camere a gas a cielo
aperto.
Nell’ultimo periodo, tuttavia, lo stato di salute del
pianeta ha imposto anche ai provinciali giornali italiani la trattazione dei problemi ecologici che affliggono l’intera comunità mondiale. Un più vasto pubblico di lettori è quindi venuto a conoscenza della
progressiva riduzione dei ghiacciai alpini e dell’inarrestabile restringimento dei ghiacci ai poli. Entrambi i fenomeni sono dovuti all’aumento della temperatura terrestre, che a sua volta è stato provo-
*
L’autore si fa portavoce del gruppo di storia e geografia dell’Ist. Sperimentale Rinascita A. Livi, Milano
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cato dall’incremento delle emissioni delle sostanze
inquinanti nell’aria. Se il processo di liquefazione
delle aree glaciali dovesse perdurare, il livello dei mari
e degli oceani si alzerebbe mettendo a rischio la sopravvivenza di molte città costiere.
Questa tendenza è accelerata dalla riduzione delle
aree boschive, soprattutto nella fascia equatoriale, e
dalla moltiplicazione delle fonti di inquinamento causata dalla rapida industrializzazione di India e Cina.
La popolazione di queste due nazioni, che da sole
superano abbondantemente i due miliardi di persone, sta inoltre procedendo nella sua marcia verso la
conquista del benessere con un massiccio acquisto
di automobili, i cui scarichi vanno inesorabilmente a
peggiorare la qualità dell’atmosfera. A tutto questo
bisogna sommare la incombente desertificazione della steppa a nord del fiume Giallo che, nella scorsa
primavera, ha fatto sentire i suoi effetti inondando
Pechino con una fitta coltre di sabbia. Il tumultuoso
decollo della Cina sta inoltre fagocitando, da oltre
dieci anni, una impressionante quantità di materie
prime e di energia. Per diversificare lo sfruttamento
delle fonti energetiche, gli ingegneri stanno edificando giganteschi sbarramenti sul fiume Azzurro. Sono
destinati a ingabbiare la poderosa corrente per produrre energia idroelettrica ma, secondo alcuni studiosi, potrebbero provocare gli stessi disastrosi effetti verificatisi nella regione del lago d’Aral, dove la
deviazione dell’acqua dei fiumi destinata all’irrigazione delle piantagioni di cotone ha quasi del tutto
prosciugato il pescoso specchio d’acqua dolce e inaridito i terreni circostanti.
Non tutti gli scienziati propendono per la tesi del
progressivo deterioramento delle condizioni climatiche. Alcuni si attestano su posizioni attendiste, rilevando che i dati a disposizione interessano un arco
temporale troppo breve per confermare una irreversibile deriva ambientale. Altri contestano un presunto catastrofismo, che non terrebbe conto né dei
tempi geologici dell’inclinazione dell’asse terrestre,
né della ciclica alternanza di periodi caldi e miniglaciazioni. Quest’ultime si sono succedute nei secoli
passati con scansioni che hanno creato una irregolare e imprevedibile intermittenza climatica. La più tragica fu quella del decennio 1835/1845, che affamò e
fece morire milioni di europei. Un altro raffreddamento del clima si registrò nel decennio 1337/1347,
quando la carestia debilitò il fisico delle persone esponendole al micidiale attacco della peste nera.
Tra i vari punti di vista emergono anche quelli ottimistici di chi intravede un sostanziale bilanciamento
tra la desertificazione di delimitate zone, già colpite
dalla siccità come il Corno d’Africa, e l’estensione
delle aree temperate, che renderebbe vivibili le fasce
geografiche ora inospitali del Canada e della Siberia.
A supporto di questa visione viene portato l’esempio
3
di quanto è accaduto alla fine della quarta glaciazione,
quando l’inabitabilità del Sahara è stata equilibrata
con la diffusione della specie umana in quelle che una
volta erano le gelide praterie a ridosso della linea dei
ghiacci. Peraltro - viene aggiunto - l’innalzamento
della temperatura favorì il passaggio dal Paleolitico
al Neolitico. Questo ragionamento trascura però un
dettaglio significativo. Quindicimila anni fa la popolazione si aggirava, secondo stime accreditate, intorno ai 10/15 milioni di abitanti. Il fabbisogno
energetico di quel piccolo nucleo di nomadi era quasi
inesistente e le risorse a disposizione erano illimitate.
Oggi la popolazione ha superato i 6 miliardi di persone, che stanno distruggendo le risorse naturali a
un ritmo che entro il 2037 potrebbe portare a un loro
graduale esaurimento. Queste previsioni, che possono essere giudicate apocalittiche, pongono comunque
un problema ineludibile: il diseguale rapporto tra
uomo e natura, che nel corso dei millenni ha acquisito la forma di un arbitrario e indiscriminato uso del
territorio e dei suoi elementi biotici e abiotici. Questo
abuso ha prodotto ripercussioni di tale portata sull’ambiente da rendere nocive le condizioni di vita degli esseri umani che lo popolano. Ormai, “la questione non è più tanto di dominare la natura per elevare
il livello di vita, quanto quella di sopravvivere alle
conseguenze di questo dominio. Ciò che si domanda
la scienza è dunque di contribuire e assicurare le condizioni della sopravvivenza, in modo da controllare
le conseguenze e riuscire così a dominare il nostro
stesso dominio”1 .
L’educazione ambientale
Le scienze da anni si stanno occupando delle conseguenze ambientali prodotte dalla coltivazione intensiva dei terreni agricoli, dalla incessante urbanizzazione, dalla proliferazione dei beni di consumo.
I risultati degli studi si conoscono e sono disarmanti.
Le falde acquifere sono contaminate dall’impiego dei
concimi chimici e degli anticrittogamici. Le metropoli sono congestionate dal traffico e sono affollate
da una massa inquieta e irrequieta di individui condannati all’anonimato della moltitudine e alla solitudine degli affetti autoreferenziali. Il benessere, inteso come conquista dell’agiatezza ad ogni costo, ha
scatenato la corsa alla fruizione del superfluo e dell’eccesso, che si è tradotta in uno spropositato consumo di energia elettrica, di acqua, di carburante. La
diagnosi è dunque impietosa, ma si fa fatica a mettere in atto i consigli suggeriti da una terapia drasticamente incisiva.
A frenare l’orientamento del comportamento collettivo verso il risparmio energetico e il riciclaggio dei
materiali è la cultura della crescita propagandata dall’economia di mercato. I beni prodotti, infatti, vanno
desiderati, comprati e repentinamente buttati. Solo
così si alimenta lo sviluppo economico e s’incrementa il prodotto nazionale lordo. Per continuare a produrre bisogna quindi costantemente distruggere. In
ossequio a questo principio, che istiga alla subitanea
soppressione degli oggetti, la pubblicità interviene per
creare un atteggiamento mentale incline a una
inestinguibile insoddisfazione per ciò che già si possiede. I tempi di appagamento nei confronti delle prestazioni dei beni di uso quotidiano si sono infatti ac-
4
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corciati. La loro durata non corrisponde più al ciclo
dell’obsolescenza tecnologica, bensì a quello
dell’insofferenza psicologica.
Un evidente esempio dell’affermazione e della
pervasiva diffusione di una tale mentalità è l’impiego dell’automobile a dispetto dei suoi clamorosi svantaggi. In città, se si calcolano i minuti persi per trovare posteggio, è il mezzo di trasporto più lento. E’
costoso perché all’investimento iniziale si devono
aggiungere i costi del bollo, dell’assicurazione, della
benzina e della manutenzione 2 . La sua pericolosità
è rimarcata dall’alto tributo di morti versato ogni
anno sulle strade e autostrade: oltre 7000 solo in Italia. Infine, i suoi tubi di scarico sono il principale fattore di inquinamento nei centri urbani. Respirarne i
gas equivale a fumare quindici sigarette al giorno.
Eppure, anche di fronte a questi dati incontrovertibili, l’automobile non cessa di incarnare l’ideale di libertà e di autonomia propagandato dalla pubblicità con immagini mistificanti, che la mostrano
veleggiare su improbabili nastri d’asfalto, lanciata in
una fuga liberatrice verso idilliaci paesaggi a portata
di rombanti motori. Ultimamente, la fusione di potenza e aggressività si è materializzata con la comparsa dei prepotenti Suv, corazzati e superaccessoriati veicoli dentro i quali i proprietari covano
manie di grandezza puntualmente frustrate dall’introvabile parcheggio.
Vista da questa angolazione, l’alternativa all’iper-
1
M. Cini “Un paradiso perduto” Feltrinelli, 1994, (pag.
265)
2
G. Viale “Tutti in taxi. Demonologia dell’automobile”
Feltrinelli, Milano, 1996
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trofia della crescita non può restare prigioniera della
campagna moralistica contro gli sprechi e gli egoismi,
ma deve assumere i contorni di una prospettiva
culturale connotata da una concezione del progresso che sveli lo scarto tra i trionfalistici scenari tratteggiati dai tecnocrati e i controversi traguardi da essi
raggiunti. Si tratta in sostanza di far risaltare sia gli
aspetti critici di uno sviluppo unilateralmente accreditato come benefico3 , sia il totalitarismo di una filosofia del mondo legittimata da un antropocentrismo intransigente e ottuso, che ha declassato
la flora e la fauna al rango di prede. Ciò non comporta il ripristino di una inedita versione filosofica del
luddismo, né tanto meno la riedizione di un’anacronistica variante del pauperismo. Al contrario, le innovazioni tecnico-scientifiche vanno incoraggiate
perché costituiscono la soluzione più efficace e conseguente ai problemi creati dal saccheggio delle risorse e dallo smaltimento dei rifiuti.
Sul piano del confronto/scontro delle idee, un’operazione culturale di così vasto respiro dovrebbe mirare a mettere in dubbio la mitologica certezza sulle
virtù propulsive dello sfruttamento intensivo delle
ricchezze naturali, ponendo in evidenza le violazioni
che hanno scosso il fragile equilibrio ecologico. Ciò
non comporta, d’altronde, il rifiuto della positività del
processo evolutivo delle società, ma attesta l’esigenza di accogliere con riserva la proclamazione dell’incontrastata supremazia del genere umano. Solo nutrendo delle perplessità, infatti, si riuscirà a individuare le ferite inferte al paesaggio, si potranno valutare le implicazioni dei danni arrecati, e si arriverà
finalmente a capire che gli errori commessi non vanno più ripetuti.
Costruire una tale consapevolezza è compito prioritario dell’istituzione scolastica, perché tra le sue finalità strategiche è contemplata la formazione di cittadini provvisti degli utensili cognitivi e della sensibilità etica necessari per conoscere e migliorare il
mondo che li circonda. Le occasioni non mancano
affinché gli insegnanti adempiano alla loro funzione
di educatori, ma bisogna avere il coraggio di oltrepassare i confini angusti e autoreferenziali delle materie insegnate, per esplorare campi investigativi più
ampi e stimolanti. L’educazione ambientale va infatti concepita come intreccio di conoscenze sulla natura e le forme del territorio; sulla varietà delle piante
coltivate e il diversificato utilizzo delle materie prime; sulla molteplicità degli interventi attuati dall’uomo sia per adattarsi all’ambiente, sia per modificarlo
con l’irrigazione, la divisione dei campi, l’urbanizzazione, la pianificazione di strade e infrastrutture, l’industrializzazione.
Perché gli allievi si abituino all’interconnessione
delle variabili che nel tempo e nello spazio concorrono a rimodellare il volto dell’ambiente, è inoltre opportuno ricostruire il contesto di volta in volta preso
in esame, dando rilevanza all’interdipendenza dei fattori. Non esistono infatti angoli del pianeta che non
abbiano subito modifiche all’impronta originaria
preesistente all’arrivo degli esseri umani. Con le migrazioni dei popoli, già all’epoca delle prime civiltà,
sono circolate piante alimentari e ornamentali che si
sono diffuse in tutte le zone dell’Eurasia caratterizzate dalla contiguità dei climi temperati.
Da allora, l’adattamento dei primi gruppi di sedentari a un ecosistema precario ha dovuto affrontare il
problema della sopravvivenza di una popolazione in
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vertiginosa ascesa. La domesticazione di animali e
piante assicurò una maggiore disponibilità di cibo,
di materie prime e di energia muscolare, ma questi
risultati furono ottenuti in seguito a una selezione
empiricamente accurata, che ha ristretto a una dozzina le specie vegetali da cui si ricava oggi più
dell’80% del raccolto annuo sulla terra. I cinque cereali più diffusi (grano, mais, riso, orzo, sorgo) da
soli forniscono attualmente la metà delle calorie consumate dalla popolazione mondiale4 .
La profondità temporale di un mutamento così radicale, che ha orientato l’approvvigionamento delle
future generazioni puntando sulla restrizione della
vasta gamma di piante esistenti, dà l’idea di quanto
sia simbioticamente alterato il legame che ci unisce all’ambiente in cui viviamo. L’alterazione è stata
successivamente favorita dall’imposizione delle
monocolture, che hanno notevolmente assottigliato
la biodiversità dei territori colonizzati5 . E’ il caso delle
piantagioni di caffé in Brasile e in Kenya, di indaco
in India, di tè e caucciù in Assam, di cacao in
Camerun e Togo.
A dare tuttavia una dimensione socialmente rilevante e un carattere di urgenza all’educazione ambientale è la portata planetaria delle anomalie meteorologiche e le sue gravi ripercussioni geoantropiche.
Negli ultimi decenni l’andamento delle perturbazioni, che si accompagna alla formazione di cicloni e tifoni, ha perso la sua regolarità per assumere il carattere di improvvise e turbolente intensificazioni che
flagellano le coste del mar della Cina, del golfo del
Bengala, del mare dei Caraibi. E’ nota a tutti la tragica devastazione che si è abbattuta su New Orleans
alla fine dell’estate del 2005.
Gli studiosi ritengono che i bruschi cambiamenti
climatici dipendano da un tendenziale aumento della temperatura, che ha accelerato l’evaporazione da
cui hanno origine le masse nuvolose sugli oceani. Un
ultimo dato conferma questo andamento: l’autunno
del 2006 è stato il più caldo degli ultimi 150 anni. In
Lapponia le temperature sono insolitamente rimaste sopra lo zero. In Siberia gli orsi non sono andati
in letargo. La migrazione degli uccelli dall’Europa
all’Africa è stata ritardata. La presenza di meduse in
varie zone del Mediterraneo si è protratta fino al mese
di ottobre. Non è il caso di allarmarsi, ma non bisogna neanche sottovalutare la pericolosità dei segnali
che la natura ci fa pervenire. Gli ultimi profughi
ambientali, in ordine di tempo, sono stati i
diecimila abitanti dell’isola di Lohachara, nel
Bangladesh, che, nel dicembre del 2006, sono stati
costretti a evacuare l’isola sommersa dalle onde dell’oceano.
Occorre dunque prendere misure adeguate prima
che una strisciante normalità si trasformi in dramma. Non è facile, perché i fenomeni si manifestano a
tappe, con oscillazioni lunghe che rendono difficile
l’individuazione del problema. L’unico antidoto, contro l’indifferenza e l’inerzia, è la convergenza di vedute della comunità scientifica e della componente
3
G. Rist “Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale” Bollati Boringhieri, Torino, 1997
4
J. Diamond “Armi, acciaio, malattie” Einaudi, Torino,
1998
5
A. Crosby “Lo scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali del 1492” Einaudi, Torino, 1992
5
più sensibile dell’umanità nell’avvertire la gravità
epocale dei cambiamenti in atto. Ma non basta. La
percezione dell’emergenza ambientale su scala planetaria può tradursi in interventi concreti a patto che:
gli esperti non si lascino fuorviare dalle tergiversazioni dei politici; l’opinione pubblica acquisisca la
coscienza che l’equilibrio ecologico del pianeta è un
bene collettivo dalla salvaguardia del quale dipende la sorte delle generazioni che ci seguiranno.
Ponendosi in quest’ottica, non si può prescindere
dall’educazione ambientale perché essa racchiude le
strategie pedagogiche per persuadere l’umanità che
l’ecosistema è un patrimonio da difendere ad ogni costo. In passato, la deforestazione e la conseguente erosione dei suoli, lo spreco delle risorse idriche, l’intensivo sfruttamento dell’habitat naturale che non
lasciava alle risorse il tempo biologicamente necessario per rinnovarsi, spinse alcune popolazioni ad
eliminarsi a vicenda. L’autosoppressione, innescata
dalla cattiva gestione del territorio e inasprita dal
peggioramento delle condizioni climatiche, determinò la scomparsa degli insediamenti umani nell’isola
di Pasqua e sulla costa della Groenlandia.
Nel caso in cui si creda che, per la loro distanza
spaziale e temporale, questi eventi non possano avere alcun significato per il mondo contemporaneo, ci
si sbaglia. Il tragico destino dei vichinghi della Groenlandia e dei polinesiani dell’isola di Pasqua fu, in
ultima istanza, determinato da una irriducibile
conflittualità per la spartizione dei beni rimasti che,
su scala globale, si riproduce oggi nel massiccio e incessante flusso degli emigrati verso i Paesi ricchi del
nord del mondo. Alla lunga, la scialuppa di salvataggio delle nazioni economicamente benestanti potrebbe giungere alla saturazione, scatenando una disperata e fratricida contesa dai risvolti inimmaginabili.6
dei saperi
L’integrazione
sui temi ambientali
La scuola è il luogo ideale per mettere in atto una
oculata strategia di sensibilizzazione sulle questioni
ambientali. Sia perché è il luogo istituzionale che le
nuove generazioni frequentano per ricevere e organizzare le conoscenze. Sia perché è l’osservatorio più
attrezzato per interpretare e rappresentare, con il
supporto delle discipline, l’oggettività del mondo
esterno e la soggettività dei vissuti personali. Le materie d’insegnamento sono infatti un formidabile serbatoio di saperi che indirizzano gli alunni nell’esplorazione della realtà. Le potenzialità dei saperi sono
tuttavia mortificate dalla specificità settoriale dei rispettivi campi d’indagine. Succede così che l’oggetto
di studio di ciascuna materia rimane isolato, senza
beneficiare dei prestiti derivanti dalle ricerche
interdisciplinari.
Col tempo la chiusura stagna si è sclerotizzata in
rigidi compartimenti che, dal primo ciclo dell’istruzione all’università, si reitera in un irrigidimento formale refrattario alle novità. Uno degli effetti di questo immobilismo è l’ostacolo frapposto agli scambi
trasversali fra l’area umanistica e quella scientifica,
che ha vanificato le pur timide aperture degli orizzonti conoscitivi su aspetti complessi come quelli affrontati dall’educazione ambientale.
Allo scarso grado di permeabilità tra le due aree ha
contribuito un vizio di fondo che inficia la formazio-
6
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ne degli studenti universitari, perché quelli dell’area
scientifica raramente inseriscono nel piano di studi
esami sulla storia delle scienze, privandosi così della
dimensione contestuale nell’ambito della quale le innovazioni tecnologiche e le scoperte scientifiche
interagiscono con l’evoluzione sociale e culturale.
D’altra parte quelli dell’area umanistica che si laureano in italiano, raramente si preoccupano di dedicarsi allo studio di testi di storia e geografia, trovandosi quindi in seguito a insegnare materie di cui conoscono solo le nozioni più elementari.
Nelle scuole medie inferiori, dove l’insegnamento
di storia e geografia è abbinato all’insegnamento di
italiano, si supplisce alle scarse conoscenze sui processi storici e geoantropici con un apprendimento
appiattito sulla memorizzazione delle informazioni
studiate sul manuale. Ad essere penalizzata è soprattutto la geografia, che, assorbita attraverso la lettura
del testo scritto, perde la peculiarità del linguaggio
cartografico attraverso cui i contenuti e i dati statistici prendono le forme dei simboli e dei colori.
Questa modalità letteraria dell’apprendimento storico/geografico è all’origine di un equivoco che, affondando le radici nella concezione
crociana della cultura, nega a storia e geografia lo
statuto di materie riconducibili all’area scientifica.
Tuttora, per la scuola italiana e il senso comune, la
storia racconta i fatti come si sono succeduti nel tempo, mentre la geografia si limita a descrivere il territorio. In base a questa definizione, solo parzialmente corretta, esse rientrano indiscutibilmente nel
novero delle discipline che illustrano le modalità di
svolgimento dei fenomeni e dei processi. Dal loro
orizzonte investigativo viene quindi esclusa l’analisi
interpretativa che, mettendo in relazione le variabili
di un contesto, consentono di spiegare le combinazioni e le concatenazioni di causa-effetto.
La storia e la geografia indubbiamente non appartengono al campo delle scienze nomotetiche, che studiano le leggi universali della natura, come quelle
scoperte da Galileo sul moto e la caduta dei corpi, da
Newton sulle forze gravitazionali, da Einstein sul rapporto tra massa, energia e velocità della luce. Non
potrebbe essere altrimenti, perché la storia e la geografia non si occupano di svelare meccanismi ricorrenti, ma di rintracciare e mettere in luce dinamiche irripetibili. Tuttavia esse, pur rinunciando alla
prevedibilità dei fenomeni, manifestano delle affinità con il metodo scientifico quando si pongono di
fronte ai problemi sociali e ambientali con il proposito di raccogliere fonti e dati, di vagliarli criticamente, di formulare ipotesi sulla praticabilità di scelte delineate per evitare in futuro gli errori commessi nel
passato.
Condotta in chiave problematica, l’indagine sui fatti
storici e sulle interdipendenze dei fattori socio-ambientali non produce soltanto discorsi, ma struttura
un tipo di logica esplicativa supportata dall’affidabilità dei materiali esaminati e dal rigore del ragionamento. Le affinità dell’area geoantropico-sociale con l’area tecnico-scientifica non si fermano all’aspetto metodologico, ma concernono gli elementi
6
J. Diamond “Collasso. Come le comunità scelgono di
morire o vivere” Einaudi, Torino, 2005
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costitutivi del paradigma delle discipline interessate.
Il linguaggio specifico da esse usate è infatti permeato da vocaboli la cui valenza semantica rimanda a significati comuni. Basti ricordare la densità concettuale di termini come: sistema, struttura, organismo,
fenomeno, processo, territorio, sviluppo, ambiente.
Impostato in una prospettiva che ammette e incoraggia la permeabilità reciproca, l’impianto contenutistico delle materie dell’area tecnico-scientifica
(matematica, scienze, tecnologia) può accogliere, nella scuola media inferiore, segmenti del curricolo trattati nell’arco dei tre anni da storia e geografia. L’ambito privilegiato in cui porzioni dei due curricoli hanno l’occasione di incontrarsi e frequentarsi proficuamente è proprio quello dell’educazione ambientale, i
cui temi potrebbero essere selezionati e inseriti nella
programmazione quadrimestrale delle ore di compresenza a disposizione delle rispettive discipline.
Uno dei filoni tematici che andrebbero presi in considerazione è l’evoluzione delle civiltà in relazione all’estensione e all’intensificazione dell’utilizzo delle
fonti energetiche. Lo sviluppo storico verrebbe in
questo modo osservato in connessione con l’avanzamento tecnologico compiuto dalle società durante il
percorso di perfezionamento della produzione di
utensili, macchinari e beni di consumo. Si scoprirebbe, di conseguenza, che il progresso tecnico e sociale
è proceduto parallelamente alla pauperizzazione
del territorio, alla quale è corrisposta una frenetica privatizzazione delle risorse.
La civiltà romana è cresciuta sulla conquista dei terreni lottizzati con la centuriazione, sulla rapace
appropriazione di miniere, saline e boschi, sulla cattura e la schiavizzazione di milioni di prigionieri. Agli
architetti e ingegneri romani va riconosciuto il merito di aver bonificato le paludi, di aver edificato acquedotti, strade, ponti e porti. Essi sono stati però
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anche gli artefici della prima grande deforestazione.
La romanizzazione dell’Europa ha marciato col passo dei legionari che hanno sottratto ai germani, ai
galli, ai daci, terre e pascoli di uso collettivo. La loro
lezione è stata seguita, oltre un millennio dopo, dai
colonizzatori del continente americano, dove gli indigeni sono stati sterminati e la natura soggiogata.
Nel frattempo in Europa si andava avanti con
l’espropriazione e la recinzione delle terre demaniali,
a cui seguì la prima rivoluzione industriale.
Oggi la privatizzazione incombe su un bene inalienabile: l’acqua. Non solo! Perfino ciò che appartiene
alla biodiversità, come le piante e i veleni dei serpenti della foresta amazzonica, corre il rischio di essere
sottoposto al vincolo delle industrie farmaceutiche
che detengono il brevetto di commercializzazione.
Questa mentalità privatistica, incoraggiata dalla diffusione di un vorace liberismo economico, va contrastata perché è un impedimento alla diffusione di
una condivisa coscienza ambientalista. Il privato,
infatti, agendo con lo scopo di trarre profitto, non
pone dei limiti allo sfruttamento delle risorse e trascura gli oltraggiosi effetti collaterali dell’inquinamento.
Le materie scientifiche e geografia, con un adeguato
progetto di educazione ambientale, possono invece
facilmente dimostrare che, nel sistema globale, la crescita della popolazione, della produzione industriale
e del consumo delle risorse, ha superato il limite del
tasso di rigenerazione. La natura ha infatti bisogno dei suoi tempi sia per assorbire e neutralizzare
gli agenti inquinanti, sia per rinnovare i suoli, l’acqua, il pescato, gli alberi, i minerali. Se i ritmi biologici non vengono rispettati, l’ecosistema potrebbe
subire dei guasti irreparabili. Sull’articolazione di
questo argomento s’innesta un altro dei filoni tematici
che gli insegnanti potrebbero esplorare, mandando
fattivamente avanti la ricerca sulla confluenza delle
materie in una coerente e organica interdisciplinarietà.
La ricerca interdisciplinare rappresenta il futuro
della scuola e delle sue finalità pedagogiche e didattiche. L’intersecazione di storia e geografia con le
materie dell’area tecnico-scientica è uno degli ambiti in cui gli insegnanti sono chiamati a far valere le
proprie competenze. L’itinerario è impegnativo e va
affrontato come un esperimento, perché non si dispone di mappe e non si conosce l’esito finale del viaggio. La sfida merita tuttavia di essere ingaggiata, in
quanto le contingenze del lavoro di gruppo creano
per il docente l’opportunità di riflettere e riorganizzare la programmazione didattica, ponendolo nell’atteggiamento di chi è ancora disposto ad apprendere.
Infatti “imparare significa essere disposti a procedere lentamente, a verificare le cose, a raccogliere
informazioni sugli effetti delle azioni, giuste o sbagliate che siano. Non si può imparare senza commettere errori, riconoscerli e poi procedere oltre. Imparare significa esplorare con coraggio una nuova
via ed essere disposti ad accettare i contributi che
velocemente portano al conseguimento dell’obiettivo”7
7
D. H. e D. L. Meadows, J. Randers “Oltre i limiti dello
sviluppo” Il Saggiatore, Milano, 1993 (pag. 297)
7
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ESPERIENZE
Un utilizzo didattico di Mastro Don
Gesualdo e La festa del ritorno
Gianluca Bocchinfuso
Giovanni Verga e Carmine Abate sono due scrittori
distanti per tempo, storia e vicende personali, ma, dal
punto di vista letterario, permettono un utilizzo didattico molto interessante che cercheremo di capire
in questo breve accenno di percorso pensato - con
dovute variazioni, scelte e adeguamenti - sia per una
classe III media inferiore che per una classe V superiore.
Saranno presi in esame e usati due romanzi:
Mastro-don Gesualdo (1888) di Giovanni Verga e La
festa del ritorno (2004) di Carmine Abate.
Una lettura comparata dei due romanzi permette
l’utilizzo in chiave convergente e divergente di alcune tematiche care ad entrambi gli autori.
Prima di fare questo tipo di operazione, i due romanzi autorizzano un’immediata riflessione storico-sociale:
- Mastro-don Gesualdo è un romanzo ambientato
nel piccolo centro contadino di Vizzini, in provincia
di Catania. Le vicende narrate sono contestualizzate
nella Sicilia pre-unitaria, negli anni che vanno dal
1819 al 1848. Nel romanzo non mancano i riferimenti sia ai moti risorgimentali del 1830 che a quelli del
1848. L’ardore risorgimentale e giovanile di Verga
8
ritorna, anche se qui prevale una chiave critica rivolta soprattutto alla vacuità della società nobiliare e
terriera dell’Ottocento.
- La festa del ritorno è ambientato a Carfizzi, narrato con il toponimo di Hora, e racconta una Calabria
post-repubblicana che vive delle ricchezze e della povertà della sua terra, orfana della sue braccia migliori, in un processo migratorio lento e inarrestabile che
inizia negli anni cinquanta del Novecento e continua
oggi.
La lettura storica permette un paragone e uno studio diretto tra:
1) la società siciliana dell’Ottocento, a maggioranza contadina e analfabeta e a minoranza alto borghese
e nobiliare, con tutti gli squilibri che questo dualismo
comporta in termini di diritti e di libertà. I contadini
e gli zolfatari, alla vigilia dell’unità, riporranno le loro
speranza in Garibaldi, ma saranno presto delusi, già
durante il suo passaggio nell’isola (ricordiamo anche la novella Libertà dello stesso Verga che racconta l’eccidio di Bronte).
2) la società calabrese dei decenni successivi al Secondo conflitto mondiale. Una società, soprattutto
nelle aree più interne e isolate, costretta ad emigrare
e fuggire alla povertà, anche negli anni in cui una parte del paese è interessata dal miracolo economico.
In Abate (anche se in lui è sempre vivo l’elemento
della speranza) e in Verga - a distanza di un secolo e
con condizioni istituzionali e socio-politiche cambiate
- si ripetono i racconti di sofferenza, di povertà, di
lotta, con l’aggiunta del distacco, che condizionano
l’esistenza delle fasce più povere della popolazione e
dei loro figli.
StrumentiCres ● Agosto 2007
L’incipit narrativo
Mastro Don Gesualdo
Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il
paesetto dormiva ancora della grossa, perché era
piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava
fino a mezza gamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio,
s’udì un rovinìo, la campanella squillante di
Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che
sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia,
gridando:
- Terremoto! San Gregorio Magno!
Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera
dell’Àlia, ammiccava soltanto un lume di carbonai,
e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del
Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un
uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere
basso, giunse il suono grave del campanone di San
Giovanni che dava l’allarme anch’esso; poi la campana fessa di San Vito; l’altra della Chiesa Madre,
più lontano; quella di Sant’Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una
dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelle dei
monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano,
Santa Teresa: uno scampanio generale che correva
sui tetti spaventato, nelle tenebre.
- No! No! È il fuoco!... Fuoco in casa Trao!... San
Giovanni Battista!
Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in
mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto
il paese, sulla collina, che formicolava di lumi, come
fosse il giovedì sera, quando suonano le due ore di
notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi
avesse visto da lontano.
- Don Diego! Don Ferdinando! - si udiva chiamare in fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso.
Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri
vialetti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in
tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel
bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta
di Sant’Agata, e quella voce che chiamava:
- Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti?
Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione
sdentato, si vedevano salire infatti, nell’alba che cominciava a schiarire globi di fumo denso, a ondate,
sparsi di faville. E pioveva dall’alto un riverbero
rossastro, che accendeva le facce ansiose dei vicini
raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso
in aria.
Questi due incipit narrativi hanno toni e clima diversi, ma anche elementi comuni che si ripetono in
tutto il romanzo. Un primo elemento è la coralità
narrativa: in Mastro-don Gesualdo la popolazione di
Vizzini è unita dalla disordinata corsa seguita allo
scampanellio di chiese e monasteri che annuncia l’incendio a palazzo Trao; ne La festa del ritorno, la
coralità a due (padre-figlio), davanti alla sola chiesa
di Santa Veneranda, lentamente si allarga agli amici
e al resto del paese, la notte di Natale, simbolo di coStrumentiCres ● Agosto 2007
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La festa del ritorno
Le scintille ci avvolgevano, sembravano sciami
d’api crepitanti; poi si azzittivano spegnendosi e ci
cadevano sui capelli e sui vestiti come una bufera di
neve, e mio padre diceva che un fuoco così non si
era mai visto, pare fatt’apposta per schiaffarci dentro i ricordi più malamenti, diceva, e appiccicarli in
un lampobaleno, per sempre.
Stavamo ammirando il fuoco di Natale, quella
notte, seduti sulla scalinata della chiesa di Santa
Veneranda. Era stato acceso da poco e già aveva le
sembianze di un vulcano imponente, dalle cui bocche si levavano fiamme alte e pennacchi di fumo.
Anch’io avevo contribuito a quello spettacolo, andando in giro per i vicoli di Hora con i miei coetanei
a raccogliere grossi ciocchi di legna che le famiglie
donavano per la nascita del Bambinello.
Il sagrato si era riempito di persone di tutte le età
che parlavano fitto fitto, a gruppetti, con la faccia
al fuoco. Tre amici di mio padre vennero a sedersi
accanto a noi e allora mio padre disse che aveva una
sete beduina, colpa delle sarde salate piccanti di cui
si era rimpinzato durante il cenone. Così mi mandò
a comprare una cassa di birre al bar Viola. “Se non
ci riesci a portarla da solo, ” aggiunse “lasciati aiutare da qualcuno, mi raccomando.”
Andai di corsa al bar che si trova in piazza, mi
caricai la cassa sulla spalla e mi avviai verso la chiesa, inseguito dal mio cane Spertina.
La cassa pesava più del previsto: non mi restava
che stringere i denti e intanto farmi largo a fatica
tra la folla.
Quando giungemmo davanti al sagrato, Spertina
deviò verso la Kona. Non aveva paura nemmeno del
diavolo ma appena vedeva un fuoco scappava con
la coda tra le gambe.
“Bravo Marco,” mi disse mio padre mentre appoggiavo la cassa ai suoi piedi “oramai sei un giovanotto. Ti spetta la prima birra: te la sei meritata”.
E, senza chiedermi se la volevo, afferrò una bottiglia e la stappò con i denti. “Tié, bevi alla saluta mia
e del Bambinello.” Poi offrì da bere ai suoi amici seduti accanto a noi.
Avevo quasi tredici anni. Prima di quella notte non
avevo mai bevuto una birra intera, però mi piacque, andava giù senza cautela, come acqua fresca.
“Posso averne un’altra?” gli chiesi mostrandogli
la bottiglia vuota. Mio padre mi guardò sbalordito.
“Giovinò, io te la do ma è l’ultima. E devi ziccare
piano, altrimenti mi tocca riportarti a casa sulle
spalle come un sacco di pomi di terra.”
munione per eccellenza. I toni sono diversi: in Verga
c’è confusione, paura, rassegnazione, spettegolio; in
Abate, serenità, tranquillità, silenzio, familiarità sincera, in attesa della nascita del Bambinello.
Elemento comune e simbolico il fuoco. In Verga,
elemento distruttore, non solo materiale, perché divora parte del palazzo Trao; anche familiare, perché
Don Diego, nel trambusto delle fiamme, scopre la
sorella Bianca a letto con il cugino Ninì Rubiera, fatto che determinerebbe uno scandalo irreparabile, per
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fortuna passato inosservato perché tutti sono impegnati nello spegnimento dell’incendio. Fallito il matrimonio riparatore tra Ninì e Bianca, entra in scena
Mastro-don Gesualdo che sposa Bianca, entra (mai
accettato) nell’élite nobiliare, diventa padre di Isabella
che nasce prematuramente, perché figlia in realtà di
Ninì. In Abate, il fuoco scalda e unisce persone e sentimenti. Nella notte di Natale avvolge tutti di calore e
di silenzio e permette quella vicinanza di padre-figlio,
quella comunanza di parole e gesti che si ripetono per
La lingua
Verga
Utilizza prevalentemente l’italiano, ma lascia ampio spazio a termini siciliani tipicamente dialettali:
un cucco (persona balorda), cunnuttu (collettore di
scarico dei rifiuti), impresciuttito (rinsecchito), rastrello (cancello), paratore (artigiano che cura le decorazioni), pettata (salita ripida), occhietto ammammolato (palpebra socchiusa), erano spulezzati
(andati via in fretta), una grembiata (quanto può
essere contenuto in una grembiule), reste (filze di
frutti attraversate da uno spago), strologare (sognare), col squinci e linci (con ricercatezza ridicola),
petronciani (melanzane), sorgozzoni (colpi dati alla
gola), ecc.
L’utilizzo di parole dialettali permette a Verga di
riprodurre quella società reale o società del vero che,
dopo la pubblicazione di Nedda, è la protagonista di
tutti i suoi lavori letterari. Non a caso, Verga nel romanzo non entra con nessun commento personale,
perché a parlare è la lingua per bocca dei protagonisti.
Termini popolari e di uso comune ricorrono anche
nei nomi che l’autore dà ai personaggi, ad iniziare
dal protagonista, Mastro-don Gesualdo (sintesi del
romanzo: il don acquisito attraverso il matrimonio
con la nobile decaduta Bianca Trao non cancella il
mastro dell’uomo abile nel suo lavoro, di basse origini, che ha accumulato la sua roba da sé per tutta
una vita, preso sempre dai suoi affari), fino a Mastro
Nunzio, Nanni l’Orbo e a tutti quei don, donna e compare prima di tanti nomi di personaggi secondari.
Il rapporto padre-figlio
Mastro-don Gesualdo
Sono due i rapporti padre-figlio che si delineano
nel romanzo e che fungono da elementi principali
insieme ad altri: il rapporto tra Mastro-don Gesualdo
e suo padre Mastro Nunzio; il rapporto tra Mastrodon Gesualdo e “sua” figlia Isabella.
Il primo è un rapporto di rispetto di Gesualdo per
il padre, ma non di stima. Potremmo definirlo un rapporto di cortesia imposta. Gesualdo e Mastro Nunzio
hanno sempre parlato poco e sono rimasti distanti
da molte cose. Crescendo, questo rapporto è sempre
rimasto intatto, diventando sempre più uno sforzo
formale. Mastro Nunzio viene dipinto come la classi-
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tutto il romanzo. Non ci sono movimenti, se non il
crepitio delle fiamme e i passi lenti della gente che si
appresta ad entrare in chiesa. Anche qui, il fuoco ha
un alto valore simbolico: come fuoco di Natale che
detta il ritmo del tempo, il momento in cui il padre
ritorna dalla Francia in paese e può godere dei suoi
affetti più cari.
Entrambi i romanzi sono subito contestualizzati a Vizzini e a Hora - e gli elementi descrittivi e reali
servono ad introdurre i personaggi.
Abate
Le scelte linguistiche di Abate sono complesse, ma,
nello stesso tempo lineari. Abate, nei suoi romanzi,
utilizza l’italiano come lingua narrativa, ma rende le
sue storie più particolari (e originali) attraverso l’intreccio di espressioni dialettali calabresi, ma anche
parole arbëresche e idiomi nati dal germanese, la lingua parlata in Germania dagli emigranti italiani.
Per tali motivi, una riflessione linguistica su questo romanzo permette di incontrare tutte queste lingue/dialetti insieme: Spertina (da sperta, cioè intelligente), ziccare (bere), një ziarr shumë i bukur (in
riferimento al fuoco superbo), appicciato (acceso),
Te ku vete? (Dove vai?), sugneggiante di condimenti (con molti condimenti), haje gji’ buken e sacicën
(mangia il pane e la salsiccia), ecni këté (andate via),
këcupe (dolce pasquale), Fròncia (Francia), zonje
(anziane signore), sparagnare (risparmiare),
varrònche (burroni), cioto (pazzo), minzognaro (bugiardo), cacatello (fifone), contando (raccontando),
e molte altre.
L’utilizzo di termini dialettali e arbëresche spinge
Abate a costruire periodi narrativi che spesso si reggono su un dialetto italianizzato. Scelta voluta, per
rendere pienamente il messaggio, di forma e di contenuto, che vuole dare e per avvicinare il lettore in
maniera diretta alla storia che vuole raccontare e alla
pluridentità dei suoi personaggi, sempre divisi tra
due o più paese. E ci riesce, perché questi costrutti
risultano facili da comprendere anche a chi calabrese
o arbëresche o germanese non è.
La festa del ritorno
Il rapporto tra il padre (Tullio) e il figlio (Marco) è
l’elemento centrale del romanzo di Abate.
La genuinità e la semplicità, ma anche la dolorosità
di questo rapporto, sono rievocate già dal titolo: la
festa del ritorno rimanda alla festa degli emigranti
che ogni anno si svolge a Carfizzi (e lo scrittore è uno
degli organizzatori), momento di legame e di riconciliazione tra chi è rimasto nel paese e chi l’ha lasciato e vi fa annualmente ritorno. Anche Marco è in festa ogni volta che il padre ritorna dalla Francia durante i periodi di vacanza: “Natale è la festa più bella perché torna mio padre dalla Francia”. E, di conStrumentiCres ● Agosto 2007
ca persona che s’intestardisce a fare tutto, ma crea
problemi ai quali poi deve porre rimedio Mastro-don
Gesualdo, beccandosi anche i rimproveri del padre
che impreca contro di lui che non gli porta rispetto.
Il secondo è quello tra Mastro-don Gesualdo e Isabella, in realtà figlia illegittima di Ninì Rubiera. Per
quanto si sforzi, Mastro-don Gesualdo entra in rapporto con Isabella solo per quanto riguarda l’educazione scolastica che le vuole assicurare a Vizzini e a
Palermo. Tra i due non è mai vero amore: Isabella
non tollera le origini popolari del padre e lo vive solo
come colui che le garantisce economicamente studi
completi. Non esiste dialogo né intimità di affetti.
Gesualdo non potrà mai cercare l’amore di altri figli,
perché la moglie, fino alla morte, sarà debilitata dalla tisi e impossibilitata ad avere altre gravidanze. Isabella sposerà il duca di Leyra, come la mamma, senza amore, ma solo per scelta riparatrice.
La Letteratura del vero
Verismo
Nel Mastro-don Gesualdo il verismo verghiano diventa atto d’accusa alla nobiltà decaduta del suo tempo, avida di denaro, insensibile ai valori etici e vinta
da scelte immorali e di convenienza.
Di contro ci sta la classe sociale rappresentata dal
lavoratore infaticabile di Gesualdo che lavora una vita,
saltando i pasti e crede, con il “giusto” matrimonio,
di essere entrato nella società che conta. Rimane, invece, sempre un vinto, perché la sua accumulazione
di ricchezza non colma il margine tra la sua origine
popolare e quella nobile.
Dai suoi familiari diretti e da tutti i nobili del paese, è considerato sempre un escluso, socialmente diverso.
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seguenza, Marco è triste ogni volta che il padre parte
e, spesso, lo fa di notte per non vedere il figlio piangere o forse perché non vuole che il figlio lo veda piangere. Nel rapporto tra Tullio e Marco c’è anche la cruda realtà di generazioni che s’incrociano nel destino
del lavoro, che comporta partenze verso terre lontane per avere un futuro. E consente ritorni per ritrovare facce amiche, parenti, affetti.
Sono i passi in cui questo rapporto non unisce solo
un padre e un figlio, ma racconta la comunanza di
tanti padri e tanti figli costretti a rapporti a distanza,
fatti di privazione e di attesa prima di rivedersi e gioire.
Tullio e Marco sono anche legati da tutti i simboli,
naturali e umani, che scandiscono la vita di Hora: le
feste religiose e popolari, i vicinati, le stagioni, le
viuzze ciottolose, le abitazioni, le amicizie, la campagna, il viaggio, l’afa, i racconti.
Realismo magico
La festa del ritorno non è solo un atto di accusa
delle condizioni misere che spingono migliaia di
calabresi ad abbandonare i loro paesi d’origine per
trovare lavoro altrove. È anche un romanzo di formazione - insieme storia d’amore personale e storia
di umiltà collettiva - che si sviluppa in un tempo e in
situazioni che, nel racconto, cercano anche “fughe”
mitiche e storiche, con i continui richiami al passato
(linguistici, culturali e storici delle comunità
arbëresche).
La realtà raccontata da Abate, poi, si tinge di elementi simbolici che rendono la storia con una cornice in cui gli antenati fanno tutt’uno con i giovani, in
un unicum inscindibile. I suoi personaggi, però, non
sono mai dei vinti, ma vivono sempre della speranza
e della forza delle loro radici.
Conclusioni
Abate - con altri autori meridionali come Montesano, Alajmo, De Silva - da certa critica, è considerato espressione di quella nuova letteratura meridionalista (etichetta molto limitativa) nata negli ultimi
decenni. La sua è una letteratura che parla del Sud
ma allarga i suoi orizzonti, cercando di riprendere e
raccontare le radici - passate e presenti - di tutte quelle persone che dal Sud partono e al Sud ritornano,
tenendo fermo quel senso di identità che non rimane mai uguale a se stesso. Perché ne incontra altri,
mutando sempre. Se Verga, oltre un secolo fa, aveva
denunciato la situazione delle classi più umili e vinte
della Sicilia del suo tempo, rimanendo però in un’ottica chiusa, tutta siciliana, Abate allarga la sua denuncia oltre i confini della Calabria e accomuna le
vicende di molti calabresi a quelle di milioni di migranti che vivono e attraversano il mondo. Per questo, il suo meridionalismo è parte integrante della
Letteratura della migrazione in lingua italiana che,
da oltre quindici anni, caratterizza la nostra Letteratura e che ha portato decine di scrittori provenienti
dal Sud del mondo (e non solo) ad utilizzare la nostra lingua per raccontarsi e raccontare.
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BREVI NOTE BIOGRAFICHE
Giovanni Verga è nato a Catania nel 1840. La
sua famiglia vantava origini nobiliari e buone condizioni economiche che gli hanno
permesso di avere un’educazione
risorgimentale e
romantica, curata
dallo scrittore Antonino Abate e da
Mario Torrisi.
Lo sbarco di Garibaldi in Sicilia
spinge Verga a
sospendere i suoi
studi in Legge e a
tuffarsi idealmente nelle vicende politiche del
tempo. I suoi esordi letterari, infatti, sono tutti
di matrice romantico-risorgimentale: Amore a
patria (1857), I carbonari della montagna
(1861), Sulle lagune (1863). Durante il soggiorno fiorentino - in cui conosce Luigi Capuana,
che avrà una grande influenza sulle sue future
scelte stilistiche e contenutistiche - pubblica Una
peccatrice (1866) e Storia di una capinera
(1871). Successivamente, si trasferisce a Milano e si confronta anche con il clima letterario
della Scapigliatura.
I suoi successivi lavori, pubblicati tra 1873 e il
1876, sono i romanzi Eva, Tigre reale, Eros e
la raccolta di novelle Primavera e altri racconti. La svolta letteraria avviene nel 1874,
quando pubblica il bozzetto Nedda, novella che
abbandona gli ambienti borghesi e piccolo borghesi e descrive realmente la Sicilia contadina e
povera, attraverso un’umile raccoglitrice di olive: è il passaggio alla Letteratura del vero, con
la nascita del Verismo, la strada italiana di quello che era il Naturalismo in Francia.
Le sue pubblicazioni successive, che hanno
avuto alterne vicende di immediato successo e
riscontro di critica e pubblico, sono: le novelle
Vita dei campi (1878), Fantasticheria (1880),
il romanzo I Malavoglia (1881), I ricordi del
capitano d’Arce (1881), Il marito di Elena
(1882), Novelle rusticane (1883), Per le vie
(1883), Drammi intimi (1884), le novelle Vagabondaggio (1887), il romanzo Mastro-don
Gesualdo (1888).
Vive gli ultimi trent’anni della sua vita (dal 1894
al 1922, anno della morte) per lo più a Catania,
escluso brevi parentesi a Roma e Milano.
I mutamenti politici e letterari del primi anni
del Novecento accantonano l’interesse per la letteratura verista. Dopo la guerra, Verga novelliere
e romanziere di matrice verista viene riscoperto
e lo scrittore, nominato anche senatore nel 1920,
diventa uno dei pilastri della nostra letteratura
del secondo ‘800, ruolo che gli si riconosce ancora oggi.
12
Carmine Abate è nato nel 1954 a Carfizzi,
un piccolo paese poco distante da Crotone, in
Cala-bria, abitato da una comunità ar-bëresche,
cioè italo-albanese, discendente dagli albanesi
che, alla fine del 1400, per sfuggire ai Turchi,
attraversarono il mare e s’insedia-rono sulle coste calabresi.
Questa origine, in tutti i romanzi di Abate, ritorna sia in chiave mi-tica, storica che linguistica.
Come già era capitato a suo padre e com’è
capitato a molti suoi coetanei, Abate, giovanissimo, e-migra in Germania alla ricerca di quel
lavoro che nel suo piccolo paese è sempre più
difficile trovare. Il suo esordio letterario avviene
in Germania dove pubblica, nel 1984, i racconti
Den Koffer und weg! (edizione italiana ampliata, Il muro dei muri, 1993), in cui il tema
della migrazione s’intreccia con quello della società nel suo complesso e del sistema produttivo.
Dal 1991 vive in Trentino, nel piccolo centro di
Besenello, dove insegna ed è sposato con una
donna tedesca, lettrice presso l’Università di
Trento. Ripete spesso Abate: “Ho scelto di vivere a Besenello perché è a metà strada tra
Amburgo, dove vive parte della mia famiglia e
Carfizzi, dove ho gli altri parenti”.
Ha pubblicato i romanzi Il ballo tondo (1991),
La moto di Scanderbeg (1999), Tra due mari
(2002), La festa del ritorno (2004, finalista al
Premio Campiello), Il mosaico del tempo
grande (2006) e la raccolta di poesie Terre di
andata (1998).
Abate viene considerato una delle espressioni
più originali della Letteratura della migrazione
in lingua italiana - associato agli autori stranieri
che vivono nel nostro paese e utilizzano la nostra lingua letteraria per esprimersi - in cui s’intreccia il tema dell’emigrazione di andata e ritorno, con quello delle pluridentità linguistiche,
culturali e storiche (arbëresche, italiana,
calabrese, germanese).
I suoi libri, editi oggi da Mondadori, hanno avuto diversi riconoscimenti e sono tradotti in molti
paesi.
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Insegnare scienze
attraverso il teatro
Pietro Danise*
Nell’ultimo numero di Strumenti (45, aprile 2007)
Giuseppe Bagni in un articolo molto interessante si
chiede quali siano le competenze scientifiche legate
al futuro… indispensabili per l’inserimento nel mondo del lavoro o per una cittadinanza globale e, in
relazione alle scienze, sottolinea l’importanza dell’apprendimento attraverso l’utilizzo del laboratorio. Tra
le diverse motivazioni a sostegno proposte dall’autore mi piace riportarne due, una che riguarda il rapporto con il sapere (il laboratorio permette di tenere
contemporaneamente sotto controllo l’oggetto dell’insegnamento e il metodo) e l’altra che riguarda il
carattere sociale della conoscenza (il laboratorio permette di trasformare l’apprendimento in una conquista individuale avvenuta all’interno di un’impresa
collettiva).
Concordo pienamente con le riflessioni dell’articolo e vorrei però aggiungere altri elementi di riflessione sull’insegnamento delle scienze che derivano dalla mia doppia esperienza di insegnante in una scuola
media e di coordinatore scientifico di Scienza under
18 1 (Su18).
In particolare, intendo qui analizzare i risvolti didattici ed epistemologici di un dispositivo finora poco
utilizzato nell’insegnamento delle scienze, il teatro,
che, tra le altre cose, ha portato ad un nuovo filone di
ricerca, conosciuto come teatro scientifico.
Le valenze del teatro
scientifico
Il teatro, per le sue indubbie valenze emotive e
relazionali, è una pratica molto diffusa nelle scuole
italiane. Trovo quindi abbastanza curioso la scarsa
diffusione del teatro a tema scientifico visto che teatro e scienza condividono le medesime radici greche: se, infatti, il primo deriva la sua etimologia dal
verbo theatron, che vuol dire guardare, contemplare, la seconda è collegata alla nascita della filosofia
naturale e all’atto del pensiero che l’ha resa possibile, il cosiddetto theorein, lo sguardo contemplativo,
la visione intellettuale e disinteressata 2 . A sostegno
di questa tesi Maria Rosa Menzio afferma che la scienza è realtà, il teatro è finzione, però il teatro è uguale alla scienza in quanto smonta e rimonta dei mondi possibili… Sia il teatro sia la scienza costruiscono
storie, e teatro e scienza hanno in comune l’emozione 3.
Riprendendo le riflessioni di Bagni, vorrei porre
l’attenzione sul fatto che se è vero che la didattica
laboratoriale riesce, in modo efficace, a fondare i con*
Docente dell’Ist. Sperimentale Rinascita A. Livi,
Milano e coordinatore di Su18
StrumentiCres ● Agosto 2007
cetti e le teorie fondamentali della scienza e ad insegnare la metodologia della ricerca, è anche vero che
spesso lascia in ombra la dimensione storica e biografica del sapere scientifico. Questo problema non
nasce da un uso distorto del laboratorio, ma riguarda il cuore stesso della scienza e deriva dal modo stesso in cui la scienza si è affermata e viene diffusa all’esterno dei luoghi dove viene elaborata. Se si guarda, infatti, al processo di costruzione della scienza e
dell’evento scientifico, possiamo distinguere due fasi:
la fase della scoperta e la fase della formalizzazione.
· La scoperta. La ricerca scientifica nasce dai problemi e si fonda sulla passione e sul lavoro fisico e
intellettuale degli scienziati. Gli scienziati alle prese
con un problema da risolvere, immersi in una rete di
relazioni sia personali sia di saperi, individuano le
piste di ricerca, si informano, provano, riprovano, si
consultano, prendono appunti, lavorano per ore o
mollano il lavoro per un periodo, si ispirano, si arrabbiano, amano, odiano, si sposano, divorziano, ritornano sui loro passi, cambiano direzione, e piano
piano oppure all’improvviso arrivano alla soluzione
1
Scienza under18 è un progetto sull’educazione scientifica che utilizza la comunicazione pubblica della scienza
prodotta a scuola come contesto di apprendimento degli
studenti di ogni ordine e grado e come contesto di ricerca e
formazione per i docenti. Su18, che quest’anno ha festeggiato il decennale, conta sette sedi espositive in Lombardia ed ha estensioni anche in Toscana e Liguria. In dieci
anni Su18 ha presentato 1.704 progetti sulla scienza. Ulteriori informazioni su Su18 sono reperibili visitando il sito:
www.scienza-under-18.org.
2
L. Querci, Scienza e teatro, Dedalus, N° 1, anno 1, settembre/ottobre 2006, pag. 75.
3
M.R. Menzio, http://matematica.uni-bocconi.it/interventi/teatroTorino.htm
13
del problema, oppure addirittura abbandonano la
pista imboccata per cercarne un’altra. È questo un
percorso spesso molto complesso che non sempre
conferma l’ipotesi di partenza.
· La formalizzazione. Giunti a questo punto si tratta di formalizzare e comunicare i risultati raggiunti.
Secondo una modalità consolidata nel tempo, lo scienziato in questa fase depura gli eventi della scoperta
da tutto ciò che è biografico e attua una descrizione il
più possibile asettica delle fasi della scoperta. I protocolli e gli articoli scientifici sono spesso un elenco
di fasi (dall’ipotesi alle conclusioni) che escludono
completamente il soggetto che li ha prodotti. Ciò che
viene fuori dagli articoli scientifici è la cronaca degli
eventi di laboratorio, la risoluzione di un’equazione,
ecc. Il soggetto che è stato l’artefice di questi processi
scompare. Allo stesso modo, i manuali scolastici in
linea con i protocolli scientifici, di norma riportano
le scoperte in termini di concetti, principi e leggi. Le
uniche citazioni biografiche spesso riguardano il
nome dell’autore, l’anno di nascita e di morte e l’anno della scoperta. A volte, a margine del testo principale, sono presenti delle schede biografiche dei personaggi più famosi. Poco traspare e poco o nulla viene trasmesso agli studenti in merito agli sforzi effettuati per arrivare a quella scoperta, alle direzioni di
ricerca errati, ai dubbi, alle frustrazioni dei ricercatori e poco o nulla si scrive in merito ai contesti storici e
scientifici che hanno favorito quelle direzioni della
ricerca e quei risultati. Per i contesti occorrerà rivolgersi ai testi di storia.
A conferma di ciò Antonio Marfella, autore di spettacoli di teatro a tema scientifico, scrive: quando a
scuola ci facevano studiare I Promessi Sposi, La
Gerusalemme Liberata, La Divina Commedia, non
ci risparmiavano notizie e informazioni sulla vita
degli autori e sul periodo storico in cui vissero. […]
Quando invece cercavano di iniziarci ai misteri della matematica e alle leggi della fisica, la lavagna si
affollava di segni e simboli strani, che venivano commentati con poche parole, cadenzate e neutrali … Non
una parola sugli uomini e le donne che contribuirono a svelare quei misteri, a scoprire quelle leggi. Per-
14
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ché? Le scoperte scientifiche sono indipendenti da
chi le realizza, se Einstein non avesse scoperto la relatività, l’avrebbe scoperta qualcun altro al suo posto ho letto tempo fa su un libro di fisica. Sarà vero,
non discuto, ma intanto la relatività l’ha scoperta
Einstein… e varrebbe la pena sapere di più sul suo
conto… Intendiamoci, io ho una cultura scientifica
che sfiora il ridicolo, ma da quando ho conosciuto
più da vicino la vita dei grandi personaggi che hanno fatto la fisica moderna, coltivo l’illusione di aver
capito qualcosa in più sull’argomento.4
Come si può superare questa lacuna nella scuola?
Una possibilità è rappresentata dall’introduzione nei
curricoli di percorsi espressivi più caldi, come il teatro o il cinema. Infatti questi dispositivi sono in grado di raccontare oltre alle storie delle scoperte scientifiche, anche le storie degli uomini e delle donne che
le hanno effettuate e dei contesti che le hanno generato. A tale proposito nell’introduzione allo spettacolo Il fuoco del radio. Dialoghi con Madame Curie,
si legge: la ricerca scientifica, come qualunque altra impresa umana, non può essere compresa a prescindere dalle storie personali, individuali dei suoi
autori. È frutto del pensiero, della fatica, della passione di esseri umani5 .
Un progetto
sul teatro scientifico
Sull’onda di queste riflessioni, dall’a.s. 2001-2002,
ho introdotto nel mio insegnamento delle scienze
nella scuola media le rappresentazioni di teatro a
tema scientifico. Tenendo conto che il teatro scientifico … indica una serie di esperienze molto diverse
tra loro 6 , in accordo con quanto detto sopra, perso4
A. Marfella, Note sullo spettacolo Variazioni Majorana,
tratte da http://erewhon.ticonuno.it/riv/scienza/t-s/
rossotiz.htm
5
Introduzione dello spettacolo Il fuoco del radio. Dialoghi con Madame Curie, http://erewhon.ticonuno.it/riv/
scienza/t-s/radio.htm
StrumentiCres ● Agosto 2007
nalmente ho scelto di privilegiare le biografie degli
scienziati e la storia dei contesti che hanno fatto da
cornice alle scoperte e alle invenzioni. Così nel corso
degli anni abbiamo portato in scena Darwin e l’evoluzione , Mendel, Crick, Watson e la genetica,
Rontgen, Curie e le radiazioni (radioattività compresa), Galvani, Volta e l’elettricità e quest’anno,
Gall, Broca, Binet e il razzismo psudoscientifico. Con
quest’ultima esperienza ho potuto quindi verificare
che è possibile lavorare con il teatro scientifico anche
sugli aspetti interculturali delle scienze (vedi scheda 1). Lo spettacolo nasce, a livello adulto, dalla lettura del testo di S.J. Gould (Intelligenza e pregiudizio 7) ed è stato costruito, durante le ore di Progetto
(2 ore alla settimana per circa 60 ore totali), dalla
stretta collaborazione dei ragazzi con un gruppo di
docenti di varie discipline (Scienze, Scienze Motorie,
Educazione Musicale, Strumento Musicale e Tecnologia). Per una piccola parte il lavoro è stato anche
seguito dal regista Gabriele Calindri. Il percorso
formativo è stato arricchito da numerosi interventi
extra-scolastici. Citiamo, a titolo di esempio, la visita
alla mostra Golgi. Architetto del cervello (Università
di Pavia), una lezione sul cervello del neurochirurgo
Enrico Motti (Università degli studi di Milano) e la
visione serale di due spettacoli teatrali, il secondo dei
quali a tema scientifico (Senza Misura, di Renata
Coluccini). Lo spettacolo è stato rappresentato per la
prima volta, con grande successo, nel maggio 2007,
presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano, all’interno della manifestazione di
Scienza under 18.
La scheda 2, infine, riporta le riflessioni di una
giovane attrice, Chiara, che in scena recitava la parte
della moglie di Alfred Binet, l’inventore dei test d’intelligenza.
SCHEDA 1.
La trama dello spettacolo: Il cervello,
questo sconosciuto… appunto.
Gli studi sul cervello e sull’intelligenza sono stati
utilizzati, fin da subito, per classificare gli esseri umani e hanno fornito elementi per la nascita di un razzismo “pseudoscientifico”. Lo spettacolo affronta il
tema dal punto di vista cronologico e racconta in
modo ironico e dissacrante i primi studi di Gall, che
tentò di dimostrare la relazione tra funzioni psichiche
e bernoccoli del cranio, gli studi di Broca, che individuò l’area del linguaggio e l’invenzione dei test d’intelligenza ad opera di Binet. Nell’ultima parte, attraverso un salto nel futuro prossimo, lo spettacolo
ipotizza una possibile evoluzione di questi studi e le
sue possibili applicazioni.
Un frammento della scena 2, quadro 1. Le
teorie di Paul Broca
Nel suo laboratorio, Broca (B.), assieme al suo assistente (Topinard, T.), spiega ad un visitatore
(Lebonne, L.) gli ultimi studi sul cervello. In quel
momento arriva il signor Leborne per una visita
specialistica…
B. (con un cranio in mano, citazione dall’Amleto
di Shakespeare ). Cranio e cervello! Qual è la loro relazione? Questo è il problema.
L. Chi lo può dire…
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In quel momento si affacciano alla porta Leborne
e la moglie
T. (prende il seghetto) Tu aspetta che qualcuno
muoia e poi ci penso io…Apro il cranio, peso il cervello…
Vedendo il seghetto Leborne scappa inseguito dalla moglie.
B. Cosa è stato?
L. Non saprei dottore.
T. (riprende il discorso mimando con pallini, cilindro e cranio) Come controprova secco il cranio, lo
riempio di pallini da caccia, verso i pallini nel cilindro, leggo e ricavo il volume interno del cranio, cioè
del cervello. Metodo Broca!
L. E cosa avete scoperto?
T. Confermato, vuole dire. Il cervello dei bianchi è
più grande di quello dei neri e quello degli uomini è
più grande di quello delle donne.
B. Cioè, i bianchi sono più intelligenti dei neri e gli
uomini più delle donne.
L. E tra neri e donne?
B. Ah, è una bella lotta!
L. Nulla di nuovo quindi.
T. In quanto alle province del cranio…
L. Si…
B. Siamo punto e a capo. Perché non osservare direttamente il cervello?
T. (riprende il seghetto) Il dottor Broca è un eccellente chirurgo.
In quel momento rientrano Leborne e la moglie.
Leborne vede il seghetto e scappa. Resta la moglie).
Ecc…
SCHEDA 2.
Il mio punto di vista sul Progetto di teatro
scientifico: Il cervello, questo sconosciuto…
appunto!
Il cervello: è stato l’ingresso in un mondo speciale
e per me sconosciuto, misterioso.
La cosa più grande che mi ha lasciato questa esperienza è prima di tutto la gran quantità di informazioni... troppe !
La storia del cervello è estremamente complicata,
all’inizio credevo che non ce l’avrei fatta, mi sentivo
incapace di capire e collegare tutte quelle nozioni che
man mano accumulavo nel mio...cervello, appunto!
Ma il teatro ha bisogno di credibilità, chiarezza e accuratezza nei particolari, quindi il lavoro non poteva
esaurirsi in una lezione... fortunatamente! Così, pian
piano, mi sono addentrata nelle conoscenze scientifiche e ho cominciato a capire la complessità meravigliosa dell’organo più incredibile che possediamo.
Alla fine di tutto il lavoro gli argomenti che più mi
hanno impressionato sono stati l’afasia e i test sui
bambini “non adatti”.
L’afasia, malattia del cervello in cui l’area del linguaggio è stata danneggiata, mi ha colpito perché mi
ha fatto riflettere sulla sofferenza di non riuscire ad
6
F. Magni , Comunicazione teatrale nella scienza,
Jekyll.comm 1 – marzo 2002, pubblicato su http://
jekyll.comm.sissa.it/articoli/art01_04.pdf
7
S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo, Il Saggiatore, Milano, 1981.
15
esprimersi con le parole: deve essere terribile!
Per quanto riguarda i test invece ho pensato alla
crudeltà con cui venivano trattati quegli studenti che
- solo perché non andavano “al passo” con gli altri,venivano separati dal gruppo per inserirli in classi
omogenee per livello: credendo di aiutarli si scoraggiavano e si umiliavano dei ragazzi che in realtà non
avevano problemi gravi e non mancavano di intelligenza.
Questo lavoro mi ha arricchito davvero, per l’argomento trattato e per il mezzo, il teatro, che ha “fatto
vivere” quello che abbiamo imparato. E, per concludere, penso anche che d’ora in avanti tratterò meglio
il mio cervello.
(Chiara G.)
festival
Un
del Teatro Scientifico?
Perché no! Mi preme ricordare che dall’a.s. 20022003, all’interno di Su18 si è sviluppato ed è attivo
tutt’ora, un filone di ricerca sul teatro scientifico che
vede la partecipazione di numerosi docenti lombardi
di ogni ordine e grado scolare. Questa ricerca dà lin-
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fa alle rappresentazioni che si svolgono ogni anno
nel mese di maggio durante le varie manifestazioni
di Su18 (44 in 5 anni).
In seguito a queste esperienze, Su18, in collaborazione con le Università di Milano, il Politecnico di
Milano, la Fondazione Tronchetti Provera (sponsor
del teatro scientifico di Su18) e ad altri enti, sta lavorando all’istituzione di un Festival del Teatro Scientifico (e più in generale delle Scienze che prevedono
performance) che dovrebbe vedere la coesistenza di
piece degli studenti (e dei giovani in generale) e di
compagnie professioniste. Sarebbe una novità assoluta, in quanto tutti i vari Festival a tema scientifico
presenti in Italia (e non solo) prevedono la presenza
degli studenti (quasi) esclusivamente in qualità di
utenti e non di protagonisti. E per la scuola sarebbe,
finalmente, un riconoscimento dell’esistenza di quel
sapere scientifico che Su18 rivendica nel libro del
decennale e al quale rimandiamo per gli approfondimenti delle tematiche trattate in questo articolo 8 .
8
A.A.V.V. Il sapere scientifico della scuola. Con una ricerca sull’immaginario di scienziati, docenti e studenti, F.
Angeli, Milano, 2007.
Studiare insieme
per imparare a conoscersi
Sara Medi
Sono una studentessa di diciotto anni che nel 20062007 ha frequentato la quarta nel Liceo di Scienze
Sociali “Tenca” di Milano. Ho sempre avuto voglia di
dedicarmi ad attività di volontariato, ma in passato
non avevo mai trovato né il tempo né un campo che
mi soddisfacesse pienamente. Finché questo anno insieme a Marta, una mia cara amica che frequenta la
quarta superiore in un liceo scientifico, dopo varie
ricerche, abbiamo conosciuto la Fondazione l’Aliante.
L’Aliante si propone di aiutare i ragazzi stranieri
che frequentano le scuole superiori a Milano ad inserirsi nella nuova realtà con cui sono entrati in contatto attraverso un progetto pomeridiano di sostegno allo
studio nel corso dell’anno scolastico, un laboratorio
teatrale, uscite organizzate e una scuola estiva.
Io e Marta abbiamo fatto un colloquio con la direttrice e l’organizzatrice della fondazione; ci hanno spiegato che la loro intenzione era quella di provare ad
affiancare ai ragazzi stranieri che frequentano il centro dei coetanei italiani che potessero aiutarli nelle
materie scolastiche e nei compiti in cui essi incontravano difficoltà. L’idea di riservare questo compito a
dei ragazzi invece che, come in passato, a degli adulti
era motivata anche da altri obiettivi: far sentire gli
16
studenti stranieri più a loro agio ed invitarli a
socializzare con altri coetanei, stranieri e italiani.
A me e Marta è parsa un’ottima idea e abbiamo
iniziato subito questo progetto con entusiasmo ma
anche con curiosità, in quanto per noi questa era la
prima esperienza di volontariato. Così ci siamo accordate sugli orari, che in linea di massima prevedevano di trovarsi due volte la settimana per circa sei
mesi, ovviamente salvo imprevisti. Infatti talvolta io
e Marta abbiamo dovuto rinunciare a causa degli impegni che avevamo nei confronti della nostra scuola;
altre volte un ragazzo avvertiva all’ultimo momento
che l’aiuto richiesto per una disciplina non gli serviva più, o viceversa che gli servivano più incontri per
preparare una lezione. E così via.
I ragazzi in tutto erano circa una ventina: alcuni
erano aiutati esclusivamente dalle educatrici dell’Aliante, altri un po’ da loro e un po’ da noi.
Essendo Marta più abile nelle materie scientifiche
e io più preparata in quelle umanistiche, ci siamo suddivise il lavoro a seconda delle lezioni che i ragazzi
dovevano studiare.
Io ho aiutato principalmente sette ragazzi.
N. è una ragazza marocchina e con lei spesso abbiamo studiato storia e italiano.
Non era cosa facile, perché i suoi testi scolastici erano scritti in un linguaggio complesso che, a mio parere, poteva risultare di difficile comprensione perStrumentiCres ● Agosto 2007
sino per uno studente italiano… Figuriamoci per uno
straniero che si trova da pochi mesi in Italia!!! Ricordo la difficoltà di spiegarle che cosa fosse uno “scacchiere internazionale”…
La sua professoressa poi non teneva conto delle difficoltà linguistiche della ragazza e le assegnava da un
giorno all’altro interi capitoli senza rendersi conto
che, se uno studente italiano avrebbe impiegato quattro ore per prepararsi all’interrogazione, per lei ne
sarebbero servite il doppio, dovendo rileggere più
volte il testo per tradurlo e comprenderlo.
Proprio per questo motivo siamo intervenute scrivendo alla sua insegnante una lettera in cui spiegavamo che N. era costantemente seguita nello studio,
ma che, ciò nonostante, non si poteva pretendere che
in così poco tempo raggiungesse una padronanza
nella lingua italiana tale da permetterle di seguire le
lezioni con lo stesso ritmo del resto della classe. Fortunatamente la professoressa si è dimostrata disponibile al dialogo; così abbiamo raggiunto con lei l’accordo che fosse interrogata su un minor numero di
capitoli del testo.
Per aiutarla preparavo degli schemi con i concetti
chiave della lezione, in modo da semplificarle il lavoro di rielaborazione e memorizzazione.
Quando la settimana dopo aver preparato un’interrogazione l’ho rivista e mi ha detto di aver preso sette, mi sono sentita davvero contenta ed orgogliosa di
quanto avevamo fatto insieme.
M., A. e J. sono latino americani. Ho aiutato tutti e
tre soprattutto nello studio della lingua inglese. Ma
loro, al contrario della ragazza marocchina che è sempre stata riservata e diligente, erano molto estroversi
e indurli a fare i compiti non è stato sempre facile,
poiché mi chiedevano in continuazione di interrompere lo studio per fare una pausa; si picchiavano per
gioco e inoltre ridevano, scherzavano e cantavano
sempre. Ma forse proprio per questo motivo con loro
mi trovavo completamente a mio agio: perché, a differenza di altri ragazzi, si comportavano con scioltezza e naturalezza e non mi consideravano una professoressa che dava loro ripetizioni, bensì un’amica
che dava loro una mano.
Con G., ragazza latino-americana, e con N.,
pakistana, mi sono cimentata nel diritto. E’ stata in
assoluto per me la materia più complicata, poiché
abbonda di termini giuridici tecnici e di concetti
astratti, molto difficili da spiegare specie a persone
che non solo hanno difficoltà linguistiche, ma sono
anche al loro primo approccio con il diritto.
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Con N. ho legato subito perché è una ragazza equilibrata: nei momenti di relax sa essere molto divertente, ma quando c’è da studiare è molto seria, attenta e impegnata. Inoltre, essendo da più tempo in
Italia, ha una maggiore padronanza della lingua e
questo certo ha aiutato sia lei che me nel lavoro.
Invece con G. non è andata esattamente così, poiché aveva verso di me un atteggiamento freddo e distaccato che rendeva il mio compito più arduo, essendo per me la mancanza di sintonia fonte di disagio e imbarazzo… Ma forse è stata solo una mia impressione sbagliata dal momento che non ci sono stati
fra noi contrasti aperti … Magari ciò che ho interpretato come ostilità era solo timidezza.
Comunque sia, alla fine tutte e due sono molto migliorate in questa disciplina e questo mi ha ripagato
di tutte le fatiche affrontate.
P. doveva stendere la relazione sullo stage che, promosso dalla sua scuola, aveva svolto presso un asilo
nido. E’ stato un lavoro piuttosto lungo, ma alla fine
sono stata molto soddisfatta di come l’abbiamo realizzato. Per prima cosa mi ha raccontato la sua esperienza: che cosa aveva fatto, le difficoltà che aveva
incontrato, i suoi successi; insieme abbiamo messo
per iscritto i suoi pensieri un po’ alla rinfusa in una
sorta di brain storming. Poi ho preparato per lei una
scaletta con punti molto precisi da seguire in modo
da guidarla nel percorso di scrittura. Da qui infine
abbiamo ricavato il testo definitivo.
Devo dire che le maggiori difficoltà che ho osservato nei ragazzi stranieri quando studiano sono la
comprensione dei concetti astratti e delle metafore
presenti nei testi scolastici, ma anche il processo di
sintesi e di rielaborazione dei contenuti con parole
proprie.
Invece, per quanto concerne lo studio di altre lingue, come l’inglese e il francese, ho notato come per
loro la difficoltà maggiore derivi da una scarsa preparazione e dimestichezza con gli elementi della
grammatica e della sintassi.
In generale, però, devo dire che tutti si sono impegnati per fare del loro meglio.
Nei momenti di relax dallo studio abbiamo organizzato diverse attività: feste a tema, con l’obiettivo
di conoscere meglio cultura, usi e costumi reciproci
ma anche ovviamente di divertirci e stare insieme,
diversi giochi e un cd rom.
Durante le feste ognuno ha portato del cibo tipico
del suo paese e abbiamo imbandito uno splendido
17
buffet; più tardi abbiamo trasformato l’aula in una
mini discoteca e ognuno ha messo a turno le canzoni
che preferiva: salsa, merenghe, reggae, rock, pop ecc.
Un’altra volta siamo andati in Duomo dove abbiamo giocato alla caccia al tesoro: ogni squadra aveva
un ragazzo italiano che fungeva da jolly e in caso di
bisogno poteva aiutare gli altri componenti del gruppo a risolvere gli indovinelli proposti.
In questo modo ci divertivamo insieme e contemporaneamente i ragazzi stranieri si esercitavano nella lingua e imparavano a girare per Milano.
Infine, quando sono arrivate due nuove ragazze brasiliane, io e Marta per accoglierle abbiamo preparato
un cd rom in cui ci presentavamo e descrivevamo la
L’ALIANTE
La Fondazione L’aliante onlus nasce nel 2000
con lo scopo di promuovere pari opportunità di integrazione sociale per gli adolescenti a rischio di
emarginazione.
In seguito la Fondazione orienta il proprio intervento prevalentemente a favore degli adolescenti stranieri e delle loro famiglie, con l’obiettivo di
migliorare le condizioni di accoglienza nel nostro
Paese e di accompagnarli nella delicata fase del
passaggio alla vita adulta autonoma. Gli interventi
sono volti a favorire il successo scolastico, l’integrazione lavorativa e sociale.
La Fondazione L’aliante si avvale di equipe composte da assistenti sociali, educatori, facilitatori linguistici, mediatori culturali, psicologi.
La Fondazione agisce in collaborazione con una
pluralità di realtà: la Provincia e il Comune di Milano, Scuole Secondarie di secondo grado, Centri di
Formazione Professionale, Comunità di accoglienza per adolescenti, Cooperative sociali di servizi e
di inserimento lavorativo, Associazioni di volontariato, Aziende private prevalentemente di tipo
artigianale ...
LA PRESA IN CARICO INDIVIDUALE
E FAMILIARE
Ad ogni adolescente viene assegnata una
microequìpe - assistente sociale, educatore e psicologo - con la funzione di progettare e monitorare
l’intervento.
Questo approccio multidisciplinare, sperimentato con buoni risultati da alcuni anni all’interno della
Fondazione, prevede, tre ambiti principali di intervento - sociale, educativo, psicologico-.
LE ATTIVITA’ DI GRUPPO
L’Orientamento scolastico/ professionale e
i Tirocini lavorativi
L’orientamento è un percorso volto a far emergere attitudini, competenze e risorse personali necessarie all’adolescente straniero per costruire un
progetto per il proprio futuro. L’orientamento pertanto è finalizzato a promuovere:
1 la conoscenza di sé (le competenze acquisite
qui o altrove, il diritto ad avere e coltivare interessi)
2 il dialogo con il proprio passato (la provenienza
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vita milanese, i ragazzi milanesi, le abitudini di noi
giovani milanesi e così via e loro hanno fatto lo stesso per noi. Confrontare le diverse abitudini dei giovani milanesi con quelli brasiliani ci ha fatto scoprire tanti aspetti divertenti che non sapevamo del mondo giovanile. Per esempio..? Mentre da noi fumare
sigarette non necessariamente ha una connotazione
sociale, ci hanno detto che in Brasile i ragazzi che
fumano sigarette sono considerati ragazzi abbandonati a se stessi o comunque non di buona famiglia.
Il progetto ha funzionato così bene che ad un certo
momento si sono aggiunti altri ragazzi italiani provenienti dal liceo di Marta e spero che anche per loro
l’esperienza sia stata positiva come lo è stata per me.
Per informazioni: 02/89420850
www.fondazionelaliante.it
culturale, la storia familiare,
3 la relazione con il presente (l’incontro con cultura di accoglienza, le relazioni con i pari, le relazioni con un mondo altro dal proprio ),
4 la proiezione nel futuro, che può avvenire a
condizione che si realizzi un processo di integrazione tra passato e presente.
Il tirocinio lavorativo costituisce una preziosa modalità di orientamento attivo, che consente al ragazzo di sperimentarsi “dal vivo”, in un contesto
reale di lavoro. L’incontro con il mondo delle regole, degli adulti, spesso per la prima volta “degli
adulti italiani”, si pone come una sfida necessaria,
da cui, se ben guidata, possono nascere interessi
e abilità, opportunità e saperi.
Per i ragazzi che abbiano in corso un tirocinio
lavorativo, il percorso di orientamento è uno strumento di lettura ed elaborazione dell’esperienza
lavorativa.
Il Laboratorio di italiano L2 e la Scuola estiva propongono agli studenti stranieri di recente
immigrazione un percorso di apprendimento della
lingua italiana.
Si tratta non solo di insegnare loro a parlare,
leggere e scrivere in italiano, ma più in generale di
portare i ragazzi a “sentirsi a casa”. L’adolescente
deve sapersi muovere con fiducia dentro ad un
nuovo spazio culturale entro il quale sarà possibile
realizzare un buon progetto di vita.
La scuola estiva è organizzata da metà giugno a
fine luglio e realizza corsi intensivi di italiano L2
(con ampi spazi di laboratorio e di “uscite” alla scoperta della città).
Questa proposta risponde all’esigenza delle famiglie e dei ragazzi di recente immigrazione di investire il periodo estivo, libero dagli impegni scolastici, per potenziare gli strumenti di comunicazione a disposizione e poter usufruire di occasioni
di socializzazione fondamentali per il benessere
relazionale.
Il Laboratorio di teatro è un percorso di formazione che permette ai ragazzi di sperimentare
l’arte teatrale in prima persona.
Il conduttore del laboratorio è un professionista
che, attraverso il metodo della “scrittura creativa”,
coinvolge i ragazzi nella costruzione stessa del testo teatrale che diventa l’occasione per ripensare
ai propri vissuti condividendoli con gli altri.
StrumentiCres ● Agosto 2007
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dossier
dossier
EDUCARE
ALLA CITTADINANZA
IN UN MONDO
GLOBALE
La formazione del Cres per gli insegnanti
A
ttraverso i vissuti e i saperi scolastici passano le visioni del mondo e quindi le
basi per ogni progetto di futuro. Le profonde trasformazioni che stiamo vivendo rendono indispensabile e urgente un adeguato cambiamento della scuola, dei saperi
insegnati e della stessa professionalità docente, pena lo scollamento totale tra scuola
e bisogni della realtà.
Di fronte ad un sapere scolastico ‘tradizionale’ orientato al passato, etnocentrico,
settoriale, cumulativo, ridondante nei contenuti, rigidamente cognitivo e ancora largamente trasmissivo, il CRES mira a promuovere e facilitare il passaggio ad un insegnamento adeguato ad una società globale e multiculturale attraverso i suoi
Corsi di formazione per gli insegnanti.
A cura della Redazione
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19
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dossier
Indicazioni di rotta in un
mondo in cambiamento
Piera Hermann
Il CRES è nato molti anni fa quale ‘costola’ dell’organizzazione non
governativa Mani Tese che si era
sempre occupata della scuola
come ambito privilegiato in cui
mettere i giovani in contatto con i
temi e i problemi della contemporaneità che più le stavano a cuore per il perseguimento dei suoi
scopi statutari, cioè l’azione per un
mondo migliore e più giusto, il rispetto delle diversità e dei diritti,
sia per chi vive oggi sia per le generazioni future.
L’idea base sulla quale abbiamo
lavorato fin dall’inizio era che nella scuola non ci può essere innovazione educativa veramente incisiva che non sia portata avanti
dagli insegnanti.
Sembra ovvio ma non lo è.
Nell’ultimo anno scolastico, solo
nella sede di Mani Tese a Milano,
ben cinquanta classi sono passate
attraverso esperienze didattiche
efficaci e illuminanti su lavoro
minorile, consumo critico, acqua
come bene comune, terra e sfruttamento, condotte da giovani e
preparati animatori. Tutti concordano sull’importanza determinante di realizzare una sinergia tra
questi interventi e l’impianto
formativo (contenutistico-disciplinare e metodologico) vissuto e costruito nell’esperienza scolastica
quotidiana dagli studenti con i loro
insegnanti; ma in realtà i temi della
contemporaneità faticano ad entrare nella scuola e i docenti non
sono stati preparati a coniugare le
discipline che insegnano con i bisogni della realtà in cui viviamo e
alla quale gli studenti di oggi dovranno dare il loro contributo di
cittadini globali e responsabili.
Da qui l’idea sostenuta fortemente dal CRES di operare per gli insegnanti, non solo fornendo loro
materiali di lavoro e mettendo in
circolo riflessioni ed esperienze (il
Centro di Documentazione, la col-
20
lana Crescendo e la rivista Strumenti), ma anche pensando a specifici momenti in presenza a loro
indirizzati: i Corsi di Formazione.
Nel tempo questi Corsi hanno
cercato di dare risposta ai bisogni
reali degli insegnanti (a volte anche al di là delle richieste esplicitate) sulla base di un lavoro di ricerca e di approfondimento.
Aggiornare
le conoscenze
La realtà è cambiata, non sentiamo dire altro ed è certamente
vero: la globalizzazione, che plasma le culture, trasforma il mondo del lavoro; la comunicazione e
i suoi linguaggi, che mentre
interconnettono, escludono o isolano; le nuove guerre, cui guardiamo troppo spesso con ambigua
confusione tra realtà e finzione….
Il mondo risulta davvero difficile
da decifrare! Da qui l’idea che possano essere necessari per noi insegnanti momenti di apprendimento o di discussione su quegli aspetti
della realtà che, a seconda di come
verranno affrontati, condizioneran-
no il nostro futuro.
Perché il ritorno di nazionalismi
e localismi? Perché il montante
integralismo culturale o religioso?
Perché permane tanto squilibrio
nelle condizioni di vita tra i popoli
del pianeta? Perché tanta umanità
è costretta ad affrontare il durissimo percorso della migrazione? Il
tutto nonostante la dichiarata volontà internazionale, dei governi e
della società civile di eliminare la
povertà, in tutte le sue diverse manifestazioni? Dove sono le responsabilità, sia che si tratti di errori
sia di malafede?
Tutti siamo ormai più o meno
lucidamente consapevoli delle
interconnessioni tra il nostro agire
quotidiano e le condizioni di vita
possibili per gli “altri”. Possiamo allora, nel nostro compito di formatori dei futuri ‘cittadini globali’,
non dare un aiuto aggiornato e
competente ai bisogni di comprensione della realtà da parte dei nostri studenti? Non si tratta di
‘presentismo selvaggio’. Si tratta
di vera e propria competenza sul
Sapere contemporaneo, disciplinare e interdisciplinare. Si tratta di
ripensare l’epistemologia più o
meno implicita del proprio insegnaStrumentiCres
StrumentiCres●● Agosto 2007
Vivificare
la motivazione
La sola conoscenza non basta.
Ogni educatore sa bene che non
c’è cambiamento che non passi attraverso la sfera delle emozioni. Se
l’educazione vuole mirare a formare atteggiamenti e comportamenti, il ‘sapere’ è condizione indispensabile, ma non sufficiente. E questo non vale solo per gli studenti,
ma anche per i docenti!
Gli insegnanti sono chiamati oggi
ad una profonda trasformazione
della propria professionalità. Da
semplici trasmettitori e facilitatori
di conoscenza a specialisti dell’apprendere, animatori, tutors, intellettuali per il cambiamento…. Serve allora trovare in sé le ragioni
per mettere in atto questo cambiamento! Ed è importante che la
formazione metta in gioco la sfera
emotiva per non perdere o per ritrovare (o trovare?) l’indispensabile motivazione a svolgere il lavoro affascinante e difficile cui siamo chiamati.
Adeguare i ‘ferri
del mestiere’
Oltre e al di là delle varie dichiarazioni e raccomandazioni ministeriali esiste poi un problema di
padronanza degli strumenti ‘tecnici’ per strutturare, porre in atto
e condividere l’insegnamento.
Come si deve intendere il curricolo,
su quali obiettivi selezionare i contenuti, quali sono i concetti - chiave, come e cosa si può verificare e
valutare in un’ottica rigorosa,
formativa e veramente democratica? Anche su questi temi pensiamo che dagli insegnanti si pretenda molto dando tutto troppo per
scontato mentre così non è!
Non si pensi, con quanto abbiamo detto, ad un nostro… delirio di
onnipotenza! Siamo perfettamente consapevoli dei limiti nostri e
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mento. Si tratta di rivedere i concetti fondanti delle materie che
insegniamo. Quale Storia, quale
Scienza, quali competenze linguistiche ed espressive devono formare l’impianto culturale indispensabile per affrontare la vita con
strumenti non desueti o addirittura controproducenti? Pensiamo che
sia importante non essere troppo
soli nel rispondere a queste domande!
dossier
della struttura stessa della formazione così come oggi è proponibile,
fondata come è sull’impegno volontario ed extralavorativo dei
destinatari oltre che sugli scarsi
mezzi di cui possono disporre le
scuole e le amministrazioni che la
finanziano. Ma l’esperienza ci ha
dimostrato al di là di ogni esitazione o dubbio, che momenti di scambio anche relativamente brevi, ma
correttamente impostati sulla base
di bisogni reali, possono avere
un’importante valenza:
1 perché costituiscono una
fonte agile e sperimentata di aggiornamento culturale personale
sulla complessità del mondo contemporaneo facilmente percorribile,
2 perché ogni Corso è, dal
punto di vista metacognitivo, un
esempio concreto e ‘mutuabile’ di
insegnamento/apprendimento coerente con un approccio interculturale, plurilinguistico e partecipativo,
3 perché aprono strade su cui,
chi vorrà, potrà proseguire da solo
ma con adeguate ‘istruzioni’,
4 perché ogni insegnante (ancora di più in alcuni ordini di scuola) è sostanzialmente sempre più
solo con i molti dubbi che il suo
lavoro quotidiano comporta: sui
propri scopi, sugli allievi cui si rivolge, su ciò che la società spesso
arrogantemente gli chiede e, perché no, su sé stesso e le proprie
capacità e competenze. Trovare
sostegno e scoprire quanto si ha
in comune con gli altri può già essere di per sé un risultato importante!
Il Cres dedica molta attenzione alla Educazione all’informazione e
ai media, in particolare all’utilizzo dello strumento filmico in contesto scolastico; il tema è affrontato, sotto diverse angolature, in alcuni Corsi di formazione per insegnanti e nell’ultimo Quaderno Cres
pubblicato con la EMI (Marina Medi, Il cinema per educare
all’intercultura) che viene recensito a pag. 40
21
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dossier
Nuove mappe
per risognare il mondo
Letteratura e intercultura
Anna Di Sapio
“Il mondo è una Maschera
che danza, e per vederlo
bene non si può rimanere
fermi nello stesso luogo”.
Chinua Achebe,
La freccia di Dio
Nel gennaio scorso a Torino, su
iniziativa del Grinzane Cavour, si è
riunito a convegno un folto numero di autori tra i più famosi dell’Africa subsahariana1 , alcuni di
essi vivono in Africa altri, accomunati dalla diaspora, vivono in Europa o negli Stati Uniti. Queste
scrittrici e scrittori africani, “hanno offerto il proprio sguardo e la
propria posizione estetica ma anche politica”2 mandando in frantumi stereotipi e luoghi comuni. Coi
loro racconti hanno presentato
un’Africa quanto mai variegata, ricca di potenzialità e di energie, di
risorse materiali e culturali.
Se si chiedesse all’uomo della
strada di parlare di Africa direbbe
molto probabilmente trattarsi di un
continente povero e primitivo,
dilaniato da guerre tribali, bisognoso del nostro aiuto e della nostra
“carità”. La nostra immagine oscilla
tra il catastrofismo dei mass media, i quali si interessano all’Africa
solo quando ci sono guerre, colpi
di stato, catastrofi naturali, e
l’esotismo delle guide e delle agenzie di viaggio. Perdura una certa
percezione unitaria dell’Africa e dei
suoi processi, che si rivela sempre
più inadeguata a descrivere e spiegare quanto sta succedendo.
In un romanzo di una giovane
scrittrice dello Zimbabwe, I. Nozipo
Maraire, intitolato Zenzele. Lettera per mia figlia, Zenzele che si appresta a lasciare l’Africa per i suoi
studi chiede tutta eccitata ai suoi
22
Chinua Achebe.
genitori notizie sul paese in cui andrà a vivere. Ecco come risponde
la madre:
“(...) Purtroppo sono pochi gli europei che considerano alla pari gli
africani. Dopo la sbornia del
colonialismo hanno di noi una visione confusa. (...) Preparati a conoscere molta gente che continua
a considerare l’Africa come una
vasta massa amorfa: il continente
nero, una palude primigenia, avvolta di fumi e vapori, abitata da
creature del Neanderthal e da indigeni allegri ma primitivi, sempre
impegnati in sordide cerimonie rituali, fino a notte fonda, al frenetico ritmo dei tamburi.(...).” 3
In Italia l’editoria, la critica letteraria, il mondo accademico sono
stati lenti nell’aprirsi alle produzioni
africane, per fortuna negli ultimi
anni la situazione sembra stia cambiando. Ancora grande è la nostra
ignoranza eppure potremmo iniziare a conoscere questo continente
attraverso le opere dei suoi scrit-
tori e delle sue scrittrici.
Vent’anni fa anch’io ignoravo tutto dell’Africa poi un giorno, in libreria, mi sono imbattuta in un romanzo di Chinua Achebe, Il crollo4 , mi sono incuriosita, l’ho comprato, ho iniziato a leggerlo e, arrivata alla fine, mi sono accorta che
avrei voluto che continuasse. Un
colpo di fulmine, un’esperienza che
mi ha segnato e ha dato inizio a
un “viaggio” che, in compagnia di
alcune amiche/colleghe, ci ha condotte dall’Africa ai Caraibi e riportate poi in Europa tra gli scrittori
migranti.
In questo lungo viaggio, attraverso le storie di personaggi fittizi, ci siamo avvicinate poco per volta a culture per noi nuove, poco a
poco abbiamo avuto voglia di conoscere meglio la storia dei paesi
e dei popoli che incontravamo, le
loro forme di espressione artistica, la loro visione del mondo. Siamo state portate a ripensare il ruolo che l’Occidente ha avuto nel cancellare e stravolgere le culture che
1
Erano presenti tra altri: Nadine
Gordimer, Werewere Liking, Niyi
Osundare, Sami Tchak, Moses Isegawa, Germano Almeida, José Eduardo Agualusa, Abdulrazak Gurnah,
Ondjaki, Henri Lopes.
2
Itala Vivan, La voce dei leoni e delle
principesse, “El Ghibli” anno 3, n. 15,
marzo 2007 www.el-ghibli.provincia.
bologna.it
3
I. Nozipo Maraire, Zenzele. Lettera per mia figlia, Mondadori, Milano
1996, p. 92
4
Il crollo è la storia di Okonkwo,
guerriero di un villaggio ibo della Nigeria orientale che assiste impotente
allo sgretolamento culturale, religioso, sociale, economico della propria civiltà sotto i colpi dei colonizzatori.
Achebe non idealizza il mondo precoloniale anzi ne mostra i difetti e le
tare oltre alla grandezza, il suo intento è quello di demistificare il mito dei
neri primitivi e incivili cui i bianchi portano il dono di una civiltà superiore.
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StrumentiCres●● Agosto 2007
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incontrava nella sua avanzata
come potenza coloniale, e a leggere in un ottica nuova la nostra
storia.
Un viaggio in altri spazi letterari
induce a riflettere anche sulle
connotazioni culturali del proprio
mondo, spinge ad affrontare con
occhi nuovi la lettura della propria
realtà, perché l’identità si sviluppa e si afferma nello scambio, nell’incontro con l’altro. La potenzialità di queste letterature è grande non solo come strumento di
conoscenza degli altri, ma anche
come conoscenza di se stessi.
La lettura di autori africani,
caraibici, migranti ci ha portato a
riflettere sul fatto che la globalizzazione che caratterizza la
nostra epoca non è che il portato
di processi in atto da secoli, da
quando lo slancio espansionistico
di alcune potenze europee diede
inizio alla circolazione, all’incontro
e allo scontro tra collettività, economie, civiltà lontane e diverse,
che rapidamente coinvolsero l’intero pianeta.
Anche le migrazioni non sono un
problema di oggi, abbracciano tutto l’arco della modernità, a partire
dalla “scoperta del Nuovo Mondo”,
dalla conquista di vaste aree del
pianeta che si trovarono così ad
dossier
essere colonizzate.5 Gli europei
riuscirono in tempi brevi a sconvolgere le realtà politiche, economiche, sociali di antiche civiltà. I
popoli colonizzati furono privati
della loro identità e della libertà di
decidere del proprio futuro, si videro imporre i valori economici,
politici, sociali e religiosi del colonizzatore, videro negata la propria
storia e cultura, ritenute inferiori
di fronte alla superiore civiltà europea che il colonizzatore aveva il
dovere di imporre al colonizzato.
Per il senso comune l’epoca del
colonialismo è lontana, qualcosa
che apprendiamo nei libri di storia
(spesso una storia rimossa), ma
scrittori della generazione di
Chinua Achebe (1930), uno dei
padri delle letterature africane,
Wole Soyinka (1934), premio
Nobel per la letteratura, Ngugi Wa
Thiong’o (1938), il mondo coloniale
lo hanno vissuto, così come hanno vissuto la stagione delle lotte
per l’indipendenza.
Lo storico burkinabé Ki Zerbo,
scomparso recentemente, definiva l’ incontro tra Europa e Africa
come un incontro mancato, non fu
infatti una relazione tra pari ma tra
chi si credeva superiore e chi veniva considerato un essere inferiore da civilizzare. L’era del colo-
nialismo e dell’imperialismo ha
prodotto delle relazioni deformate
fra culture diverse instaurando rapporti di dominio e di sopraffazione, innescando processi di inferiorizzazione degli uni per affermare
la superiorità degli altri.6
Ma questa – sostiene Ian Chambers - non è la storia che la modernità occidentale è abituata
a raccontare a se stessa. Schiavitù e razzismo sono considerati
aberrazioni, incidenti storici che
non scalfiscono il cuore della modernità contrassegnata dal progresso, dalla democrazia e dalla
cultura illuminista. Diamo per scontato che gli atteggiamenti intolleranti e razzisti siano semplicemente deviazioni ed eccezioni di una
cultura sostanzialmente buona e
liberale. Chinua Achebe e Ben Okri
ci ricordano che non è proprio così:
“(…) il razzismo bianco contro
l’Africa è una maniera di pensare
tanto normale che le sue manife-
5
Ian Chambers, Paesaggi migratori,
Meltemi, Roma 2003
6
V. Frantz Fanon, Pelle nera maschere bianche, Marco Tropea editore, Milano 1996 e Albert Memmi, Ritratto del
colonizzato e del colonizzatore, Liguori,
Napoli 1979
23
stazioni passano completamente
inosservate. (…) l’uguaglianza è
una cosa che gli europei sono evidentemente incapaci di estendere
agli altri, in particolare agli africani. (…) Affrontando il nero, il bianco ha davanti una scelta semplice: o accettare l’umanità del nero
e quindi l’eguaglianza che ne deriva, oppure negarla e considerarlo
una bestia da soma. Non c’è via di
mezzo, a meno di fare dei sofismi
intellettuali. Per secoli l’Europa ha
scelto l’alternativa animale, che
automaticamente ha escluso la
possibilità del dialogo. (…) Per colpa dei miti creati nel corso degli
ultimi quattrocento anni dall’uomo
bianco per deumanizzare i negri –
miti che forse hanno procurato all’Europa un benessere psicologico,
e certamente quello economico – i
bianchi hanno parlato e parlato e
mai ascoltato; perché si immaginano di stare a parlare con un animale privo di favella. (…) La speranza è che, se l’uomo bianco ha
tanta curiosità per l’uomo nero,
forse un giorno si fermerà davvero ad ascoltarlo.” 7
“E’ sconcertante che mentre facciamo rotta verso pianeti lontani,
mentre ci avviciniamo alla meraviglia e al timore di un nuovo millennio (in cui l’umanità potrebbe
realizzare la propria distruzione o
entrare nella più splendida fase del
suo sviluppo), come esseri umani
non abbiamo ancora iniziato a vederci l’un l’altro come dovrebbero
fare persone che sono obbligate a
vivere insieme. La storia umana ha
centinaia di migliaia di anni e noi
ancora ci guardiamo l’un l’altro in
modo superficiale, come se in tutti questi millenni di reciproche relazioni non avessimo ancora imparato che siamo tutti soltanto
esseri umani, che sotto la nostra
pelle si estendono gli stessi continenti di desideri e gli stessi sogni
prorompenti, universi di pensieri
turbinanti, pulsioni preistoriche,
balenare di fulmini e eterne
fioriture.” 8
Con le migrazioni contemporanee l’Altro è diventato prossimo, è
il nostro vicino di casa, il nostro
compagno di banco. Come fare per
instaurare una relazione che non
sia più quella coloniale? Renate
Siebert, facendo proprio il suggerimento della scrittrice marocchina
Fatima Mernissi propone ad entrambi i protagonisti della relazione di esplorare il proprio “territorio mentale”, di esplorare cioè tut-
24
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dossier
to quel bagaglio di immagini e simboli che determinano le nostre
emozioni, i nostri pensieri, i nostri
schemi culturali, morali ed etici, i
punti di riferimento della propria
civiltà, quelli che ci permettono di
comprendere il mondo e di agire
in esso. Esplorarli e poi cercare di
“tradurli” per farsi capire dall’Altro. Nello stesso tempo mettersi
all’ascolto dell’Altro chiedendogli di
“tradurre” i suoi parametri culturali ed etici per noi.9
Oggi l’incontro tra culture, storie, religioni e lingue diverse non
è più situato altrove, ma è qui e
ora, al centro della nostra vita quotidiana, allora la “ragione” occidentale deve aprirsi a nuovi percorsi,
deve instaurare un rapporto più
critico e non arrogante. “Forse (…)
tocca ora a noi imparare a stare a
casa senza sentirsi a casa, per recepire ciò che esiste oltre i nostri
confini”. 10
“Il mondo è una Maschera che
danza, e per vederlo bene non si
può rimanere fermi nello stesso
luogo”, dice Chinua Achebe, e
Salman Rushdie suggerisce: ”Solo
quelle persone che escono dalla
cornice vedono il quadro per intero”. La lettura di scrittori provenienti da altre aree culturali ci permette di ascoltare tante voci diverse, di indagare tanti punti di
vista, consentendoci di esercitare
e affinare il giudizio critico, ci aiuta a capire meglio le relazioni
interculturali tra l’Occidente e gli
Altri. Poiché questi autori sono es-
seri che vivono tra due (o più) culture, sono in grado di osservarle
entrambe da una certa distanza,
di scrivere da una doppia prospettiva, sono in grado di tradurre i parametri culturali dell’una e dell’altra. 11
Le letterature africane e caraibiche, gli scrittori migranti si pongono come esempi significativi
delle interazioni che stanno ridisegnando la mappa letteraria del
nuovo millennio, come specchio dei
mutamenti sociali e culturali, chiavi
di lettura della nuova complessità.
L’Africa che emerge dal racconto
dei suoi scrittori e delle sue scrittrici è un universo multiforme, variegato, ricchissimo, costituito da
una miriade di popoli, lingue, culture, dalle complesse vicende storiche. I loro testi ci raccontano speranze e fallimenti, impegno mora7
Chinua Achebe, Speranze e ostacoli, Jaca Book, Milano 1998, pp. 21,
30-31
8
Ben Okri, Tra le pietre mute, in “La
tigre nella bocca del diamante. Saggi,
paradossi, aforismi, minimumfax,
Roma 2000” pp. 98-99
9
Renate Siebert, La traduzione come
metafora, “El Ghibli”, anno 3, n. 14,
dicembre 2006 www.el-ghibli.pro
vincia.bologna.it/
10
Ian Chambers, Paesaggi migratori,
Meltemi Roma 2003, p. 150
11
Salman Rushdie, Patrie immaginarie, Mondadori, Milano 1994, pp. 1326
StrumentiCres
StrumentiCres●● Agosto 2007
Grazie agli scrittori caraibici e alle
loro storie apprendiamo l’estrema
varietà di questo arcipelago, tutte
le sfaccettature di questo mondo
meticcio e creolo dove tante civiltà sono passate e hanno lasciato
tracce: l’Europa (Spagna, Francia,
Inghilterra, Olanda), l’Africa, l’Asia.
Scrive Walcott:
I’m just a red nigger
who love the sea,
I had a sound colonial
education,
I have Dutch, nigger,
and English in me,
and either I’m nobody,
or I’m a nation
Io sono solamente un negro
rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione
coloniale,
ho in me dell’olandese, del negro
e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una
nazione.12
La complessità dell’arcipelago
appare a tutti i livelli: linguistico,
culturale, religioso, politico. Oltre
ai premi Nobel Derek Walcott e V.
S. Naipaul molti sono gli artisti
caraibici che hanno raggiunto fama
internazionale: Aimé Césaire,
Edouard Glissant, Alejo Carpentier,
Maryse Condé… La cultura scaturita dall’arcipelago è ricca, vivace,
vitale sulle isole come all’estero.
Le comunità immigrate (antillana
a Parigi, giamaicana a Londra,
portoricana e cubana a New York
e Miami) hanno contribuito a diffondere e ampliare questa cultura
e, a loro volta, hanno prodotto altra cultura, frutto di un nuovo
meticciato, di una nuova creolizzazione con le società urbane
delle grandi metropoli dei paesi industrializzati in cui ormai vivono e
da cui ricevono nuovi stimoli.
Gli scrittori migranti sono un fenomeno importante della letteratura contemporanea, specchio di
un mondo in rapida evoluzione.
Basti pensare al boemo Milan
Kundera, al marocchino Tahar Ben
Jelloun in Francia, all’indiano
Salman Rushdie e a V.S. Naipaul,
trinidadiano di origine indiana,
entrambi residenti in Gran Bretagna, al russo Iosip Brodskji esiliato negli Stati Uniti, (per limitarStrumentiCres ● Agosto 2007
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le e civile, la storia e la memoria, i
problemi e le urgenze dell’oggi, vizi
e virtù di un continente complesso.
dossier
si al presente, ma anche nel passato la schiera è folta). “Per il Novecento europeo – sostiene Chiellino – emigrazione, immigrazione
ed esilio vanno annoverati tra gli
impulsi che hanno concorso in modo decisivo al rinnovamento delle
letterature nazionali perché hanno smorzato l’auto-referenzialità
entro cui esse hanno rischiato di
perdersi.” 13
Oggi anche in Italia abbiamo la
presenza di autori arrivati da tutti
gli angoli del mondo, che hanno
adottato la lingua di Dante per
esprimersi. Questi scrittori affrontano temi molto vari, e sono ormai giunti a una maturazione significativa tanto sul piano dell’autonomia linguistica che sul piano
dei contenuti e della forma. Ancora poco conosciuti in Italia, questi
autori sono invece studiati nelle
università europee e americane,
come Gëzim Hajdari premio Montale per la poesia, per citarne qualcuno.
Questi autori danno uno sguardo particolare alla società italiana
e ai suoi travagli per l’integrazio-
ne, ci fanno capire meglio chi siamo, com’è la nostra società, ci costringono a una riflessione sull’identità italiana, su come si rappresenta e si rapporta con l’altro,
perché il migrante vive in vitro
l’identità dell’uomo contemporaneo, è una sorta di laboratorio in
cui sperimentare l’identità del XXI
secolo.
ˇ
Scrive Jarmila Oekayova:
“(…) forse il contributo della narrativa italiana scritta da autori stranieri potrebbe essere questo:
smontare un po’ di stereotipi, letterari e umani. Riaccendere la curiosità, la voglia di riflettere e di
stupirsi per qualcosa che prescinde da pura forma, dalla “tendenza”. Ricordare che la diversità
umana, con il suo infinito spettro
di possibilità, è la materia prima
12
Derek Walcott, Mappa del nuovo
Mondo, Adelphi, Milano 1992
13
V Seminario degli scrittori e scrittrici migranti in www.sagarana.net
25
della letteratura, nonché la sua
ragione di essere. Mostrare che le
nostre solitudini, i nostri talenti, i
nostri malesseri e la nostra aspirazione a sentirci parte integrante
del mondo che ci gira attorno, possono non dipendere dalle radici
geografiche, o viceversa dallo sradicamento, ma dall’adesione a una
scala di valori, che è senza frontiere, dalla nostra poetica esistenziale, prima ancora che da quella
letteraria, dal coraggio di dare un
senso alle nostre parole e ai nostri
gesti e ai nostri sogni, e dal coraggio di spalancare le porte perché
le parole i gesti i sogni di altri entrino in casa nostra. Provare che
si può creare, trasmettere e ricevere, praticando la reciprocità. (…)
Che le sabbie mobili su cui camminiamo, e in cui rischiamo di sprofondare, possono essere trasformate da brodaglia stagnante e caotica in numerose sorgenti limpide e fertili, rivitalizzanti. (…) La
multiculturalità è un’occasione.
L’occasione per un vero confronto
con il diverso, ma anche per
riscoprire e rafforzare noi stessi e
ciò che continuerà a unirci, sempre: la condizione umana comune, le ragioni profonde della nostra esistenza”.14
Una formazione letteraria e culturale che ignorasse la complessità della modernità rischierebbe di
restare provinciale. Forse è arrivato
il momento di ripensare la formazione con i suoi canoni letterari ed
estetici, di rendere la storia, la cultura e la letteratura nazionale un
po’ meno narcisistiche. D’altronde
si è più portati a interrogarsi sul
canone proprio quando si vive in
un’epoca di grandi cambiamenti
che portano con sé anche crisi e
disorientamento.
Le opere di queste scrittrici e
scrittori provenienti da altri orizzonti culturali, con la loro straordinaria vitalità, fecondità, qualità letteraria, si offrono – suggerisce
Franca Sinopoli - come soglia di
ingresso in altri mondi e come via
al colloquio con altre culture.15
14
Jarmila Ockayova,
Al di là della
ˇ
parola, in www.disp.let.uniroma1.it/
kuma
15
Franca Sinopoli, La storia comparata della letteratura, in “A. Gnisci (a
cura di ), Introduzione alla letteratura
comparata, Bruno Mondadori, Milano
1999” p. 28
26
○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○
dossier
Il ruolo
degli squilibri
Nord-Sud
Massimiliano Lepratti
Vecchi squilibri
e nuove periferie
In un mondo attraversato da dinamiche importanti e spesso amare quali le migrazioni internazionali e intercontinentali, le guerre
più o meno permanenti, i disastri
ambientali, la realtà della “madre
di (quasi) tutti i problemi” appare
meno dibattuta, il suo nome resta
all’ombra di parole dense di carichi emotivi: malattie, guerra,
intercultura, sostenibilità, democrazia.
Eppure la disuguaglianza fra
Nord e Sud del mondo è l’autentico dramma della contemporaneità,
nato nel 1800 e mai risolto, anzi
divenuto così grave e endemico da
trasformare la storia umana in
qualcosa di completamente diverso da ciò che si è conosciuto fino
alla fine del ‘700. Vale sempre la
pena di argomentare queste affermazioni richiamando alcuni giganti
della ricerca. Paul Bairoch racconta come fino alla fine del XVIII secolo lo squilibrio internazionale
praticamente non esisteva (tra le
macroaree più ricche al mondo e
quelle più povere vi era un rapporto di reddito medio inferiore a
1,5 contro 1). Eric Wolf ricorda per
lo stesso periodo la risposta divertita e sprezzante dell’imperatore
cinese alle richieste di quali merci
inglesi potessero interessare:
“nessuna grazie, abbiamo già tutto”. L’UNDP (il programma dell’ONU sullo sviluppo) cita un rapporto fra il 20% più ricco e il 20%
più povero dell’umanità pari a 3 a
1 nel 1820 e arrivato a oltre 70 a
1 alla fine del XX secolo.
Mentre il mondo ottocentesco e
novecentesco si attorcigliava negli eventi storici più grandi e orribili, mentre le dinastie e gli imperi
cadevano, le guerre mietevano decine di milioni di vittime, regimi
tremendi sterminavano masse
enormi, silenzioso il sistema capitalistico del Nord andava costruendo il modo di sottrarre ricchezze
al Sud e di accumularle – reinvestirle – accumularle, utilizzando
mezzi diversi: colonialismo, debito estero, controllo dei prezzi,
delocalizzazioni delle multinazionali ecc.
Così da allora la disuguaglianza
è andata sempre crescendo, raggiungendo all’inizio del XXI secolo
dimensioni mai viste: 3 persone
sono arrivate a possedere un patrimonio complessivo pari al reddito annuale di 49 nazioni messe
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StrumentiCres●● Agosto 2007
StrumentiCres ● Agosto 2007
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insieme. Se ci si colloca in questa
ottica risulta più facile comprendere anche il resto: le migrazioni
originate da una prospettiva di futuro economico infinitamente
meno favorevole in Africa rispetto
all’Europa; il trasferimento di risorse ambientali a costi bassissimi dal
Sud verso il Nord; l’amarezza con
cui le masse del Sud guardano a
una floridezza economica che lì
sembra non arrivare mai; la disperazione di chi non ha più nulla da
perdere se non il proprio corpo.
Il sistema degli squilibri internazionali agisce con precisione e
impersonalità, muovendosi oltre la
volontà dei singoli: il trasferimento della ricchezza dai capitalismi
deboli e debolissimi del Sud ai
capitalismi forti del Nord avviene
attraverso migliaia di canali creati
nel tempo e capaci di agire anche
con forza propria e l’unico elemento di ironico riequilibrio fra il capitalismo un tempo includente del
Nord e quello sempre escludente
del Sud appare la nuova capacità
del Nord di relegare ai margini fette
crescenti della propria società, in
un processo di creazione di nuove
periferie che vanno ad aggiungersi alle vecchie, rappresentate dall’inferno verde delle monoculture,
dei terreni inariditi o dalle favelas.
A partire dagli anni ’80 le ricchezze sottratte al Sud restano in mani
sempre meno numerose e il pro-
dossier
cesso di concentrazione economica produce una nuova emargi-nazione nelle società più opulente,
tanto da far parlare di un mondo
in cui la dislocazione di centri e
periferie appare molto meno
schematica di un tempo.
Un’ambigua
attenzione politica
Negli anni ’90 l’UNDP ha iniziato
un’importante riflessione sui temi
dello squilibrio internazionale,
giungendo a formulare tre parametri con cui misurarlo: la (nota)
disuguaglianza economica, la disuguaglianza in termini di speranza di vita, la disuguaglianza in termini di tasso di alfabetizzazione.
L’insieme di questi parametri ha
fornito un nuovo strumento concettuale: l’indice di sviluppo umano grazie al quale l’idea di squilibrio economico si è allargato all’idea di squilibrio sociale.
Le riflessioni di alcuni studiosi ed
attivisti iniziate negli anni ’70 e sviluppatesi negli anni ’80 hanno ulteriormente arricchito il dibattito
inserendovi i temi ambientali e arrivando a porli in connessione con
il problema dello squilibrio Nord Sud. La crescita di queste riflessioni è andata di pari passo con la
crescita di movimenti internazionali che hanno sottoposto all’atten-
zione internazionale singole tematiche di ampio respiro sociale: la
progressiva confluenza di questi
movimenti ha visto un’accelerazione con la nascita dei grandi patti
politici relativi alla gestione del
commercio globale: il NAFTA americano e l’Organizzazione internazionale del commercio (o WTO);
la rivolta zapatista contro il NAFTA
e la rivolta di Seattle contro la WTO
hanno rappresentato i momenti di
coagulazione ed esplosione mediatica delle contraddizioni accumulate nei decenni, obbligando le
agende dei grandi vertici internazionali ad inserire parole prima ben
poco frequentate: fame, povertà,
malattie endemiche.
L’attenzione degli otto paesi più
industrializzati al mondo per questi temi è risultata ambigua a poco
duratura, piegata sulle esigenze di
rispondere alle grandi mobilitazioni
sociali con provvedimenti d’immagine e di scarso impatto relativi a
debito estero, fondi internazionali
contro le malattie più diffuse e
poco altro. Anche questa debole attenzione si è progressivamente
disciolta con lo spostamento dell’agenda internazionale sui temi
della guerra, del terrorismo e della “sicurezza” seguiti all’attentato
alle torri gemelle di New York l’11
settembre 2001; la disuguaglianza internazionale è andata ad aggravarsi ancora, nascosta dietro
27
l’attenzione riservata a Bin Laden
e a Saddam Hussein.
Il dibattito
sullo sviluppo
Fino alle riflessioni elaborate
dall’UNDP all’inizio degli anni ’90
l’idea dominante per risolvere gli
squilibri internazionali era quella
della crescita economica. Un’idea
rassicurante, semplice e psicologicamente gratificante per i paesi
ricchi: noi abbiamo fatto così, ci
siamo rimboccati le maniche, abbiamo affrontato mille difficoltà,
ma ora non abbiamo (quasi) più
problemi di povertà, denutrizione,
malaria, sfruttamento del lavoro
infantile.
L’idea forte affondava la sua certezza nella semplicità e nel rifiuto
di affrontare la complessità del
mondo: l’economia guida le altre
dimensioni del vivere sociale, ed
ha una sua indipendenza che permette la riproducibilità del modello in qualsiasi realtà sociale; è solo
questione di tempo e le culture,
gli ambienti sociali e naturali dei
diversi luoghi si trasformano sotto
il peso della crescita produttiva e
della diffusione di scuole, ospedali
ecc..
La crisi economica negli anni seguiti al 1973 e l’idea di affrontare
il tema della speranza di vita e dell’analfabetismo insieme al tema del
reddito pro capite, hanno iniziato
a scuotere l’assioma dell’era
“sviluppista”: si è scoperto ad
esempio che lo Sri Lanka, pur
avendo un reddito pro capite decisamente inferiore, superava il Brasile in termini di dati sociali; l’idea
che la ricchezza avrebbe trascinato con sé gli altri parametri e la
stessa qualità della vita cominciava a lasciare il campo al concetto
di complessità, di multifattorialità
dello sviluppo.
Gli anni ’90 hanno reso sempre
più evidenti i limiti di una visione
economicista dello squilibrio Nord
– Sud (che pure permangono ampiamente nel dibattito pubblico),
il vertice di Rio de Janeiro del 1992
ha richiamato con forza le pratiche della sostenibilità ambientale
nella progettazione sociale e il termine “sviluppo” con i suoi sinonimi (crescita in primis) sono entrati in una crisi, forse resa troppo
polemica da un fraintendimento
delle parole (“sviluppo” in sé significa sbrogliamento, passaggio
da uno stato di confusione a un
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dossier
maggior ordine lineare, cosa non
necessariamente carica di significati negativi, così come non appare negativo parlare di sviluppo sociale o di sviluppo dei diritti); in
poco tempo è sorta la teoria
dell’aggettivazione: i termini
“umano”, “sostenibile”, durevole”,
“partecipativo” variamente combinati hanno accompagnato con frequenza crescente il sostantivo “sviluppo”, senza che si sia arrivati ad
una formulazione ampiamente
condivisa.
Due teorie critiche
sugli squilibri
Nord – Sud
Con uno sguardo un poco attento alla storia delle teorie è oggi
possibile sottolineare la forza di
due concetti che si propongono di
affrontare in modo radicale il problema della disuguaglianza fra il
Nord e il Sud del pianeta.
La prima teoria è quella dello sviluppo autocentrato, elaborata a
partire dalla cosiddetta scuola della
dipendenza (di radice latino-americana) nei decenni fra il 1960 e il
1980; i presupposti fondamentali
sono quelli dell’autonomia e della
partecipazione: ogni stato o gruppo di stati vicini dovrebbe creare
un sistema di partecipazione popolare che permetta di decidere
consensualmente gli obiettivi di
sviluppo, privilegiando il mercato
interno rispetto ai mercati internazionali, i diritti sociali dell’intera
popolazione sui risultati mera-
mente economici, l’uguaglianza
sulla concorrenza. Un ruolo fondamentale in questo processo è riservato allo stato, suo è il compito
di favorire la partecipazione, di assicurare la distribuzione per classi
e per aree geografiche, di filtrare i
rapporti con i mercati esterni, privilegiando quelli funzionali allo sviluppo e all’uguaglianza interni.
La seconda più che una teoria è
una provocazione, frutto di un incontro fra il pensiero economico
ambientalista (con l’ingiustamente misconosciuto Georgescu Roegen in primo piano) e la riflessione di alcuni antropologi, molto attenti alle problematiche delle specificità culturali; il nome di
“decrescita” con cui è conosciuta
al pubblico è provvisorio e poco
amato dagli stessi pensatori, ma
ne sintetizza i capisaldi: non è
realizzabile alcuna idea di crescita
economica infinita in un pianeta
finito, l’umanità potrà salvarsi e
vivere in modo migliore solo se
autoregolerà il suo consumo diminuendone in modo netto l’impatto
ambientale.
Naturalmente tutto ciò comporta obiettivi e politiche differenti nel
Nord del mondo iperconsumista e
nel Sud dove molte popolazioni
non hanno ancora accesso a beni
materiali primari (come lo stesso
cibo); in questo modo la forbice
crescente fra le nazioni ricche e
quelle povere dovrà diminuire a
vantaggio di un ripensamento comune delle strategie di sopravvivenza e del significato del termine
“qualità della vita”.
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StrumentiCres●● Agosto 2007
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dossier
Educazione al patrimonio
e dialogo interculturale
Marina Medi
Nuove
LeEducazioni
trasversali per
la ”cittadinanza
attiva”
Da anni ormai è sempre più diffusa, sia a livello ministeriale che
tra gli insegnanti, la consapevolezza che la proposta formativa della
scuola non si possa esaurire nello
studio delle tradizionali materie
d’insegnamento, ma debba fornire strumenti per leggere e interpretare il nostro mondo in rapida
trasformazione, sviluppando “competenze di cittadinanza attiva”1 .
A questo fine mirano quegli
aspetti o dimensioni dell’educazione scolastica, come l’Educazione
interculturale, allo sviluppo, alla
pace, ai diritti, all’ambiente ecc.,
che spesso abbiamo chiamato
Nuove Educazioni trasversali
da una parte per distinguerle dalle educazioni di “prima generazione” (come l’educazione motoria,
musicale, all’immagine ecc), dall’altra per sottolinearne la forte
valenza formativa di fronte alle
nuove urgenze che sollecitano la
scuola e il carattere di complessità che interseca le varie aree del
sapere e si serve di concetti e procedure provenienti da discipline diverse.
Le Nuove Educazioni trasversali
in questi anni sono state lo stimolo per innumerevoli esperienze realizzate nelle scuole. Tra queste,
però, quelle che si sono dimostrate veramente interessanti e innovative sono state quelle che hanno realizzato una vera solidarietà
reciproca tra discipline e Educazioni e non si sono limitate a
proporre percorsi di studio occasionali, paralleli alla tradizionale
StrumentiCres ● Agosto 2007
programmazione disciplinare.
A nostro giudizio infatti, e lo abbiamo spesso ribadito in questa rivista così come nei corsi di formazione del CRES, le Nuove Educazioni trasversali devono assumere
oggi la funzione di organizzatori e
selettori del curricolo nel suo insieme, dato che intervengono nella scelta consapevole e coerente
tra finalità formative, contenuti e
strategie didattiche. Sono in grado infatti di indicare priorità e
rilevanze di temi/problemi su cui
orientare lo studio e di suggerire
possibili convergenze interdisciplinari, rompendo gli steccati ancora presenti nel nostro sistema
scolastico. Sul piano metodologico
invitano a superare il carattere
solamente verbale della scuola per
utilizzare una didattica progettuale, strumenti di lavoro e strategie diverse (lavori di gruppo, giochi di ruolo, interviste, drammatizzazioni ecc.) che mettono in discussione le stesse relazioni
interpersonali nelle classi. Inoltre,
aprono la scuola al territorio non
solo perché invitano ad osservare
criticamente la realtà che ci circonda, ma anche perché sollecitano
la collaborazione con enti, istituzioni e organizzazioni, governative e non, specializzati su questi
temi.
In questo modo le Educazioni
trasversali possono diventare anche uno stimolo ai processi di innovazione in una scuola sempre
più alla ricerca di senso.
L’Educazione
al patrimonio
Alle altre Educazioni da qualche
tempo se ne è aggiunta un’altra:
l’Educazione al patrimonio.
Le Nuove Educazioni trasversali
vengono in genere declinate al plurale per sottolineare quanto ciascuna di esse sia strettamente legata
alle altre, così come globali e
interconnesse sono le problematiche della complessa realtà in cui
viviamo. Come potremmo infatti
parlare di cittadinanza senza par-
lare di diritti, o di problemi ambientali senza riflettere sui modelli di sviluppo? Come potremmo
separare i temi dell’alimentazione
da quelli della salute ed entrambi
dal ruolo dell’affettività?
D’altra parte è possibile distinguerle in base alla focalizzazione
tematica e all’istanza formativa
prevalente: il rapporto Nord-Sud,
l’incontro/scontro culturale, la pace
e la guerra, le competenze di cittadinanza, la differenza di genere
ecc. Qual è dunque il tema su cui
si vuole focalizzare l’attenzione
quando si parla di Educazione al
patrimonio?
Con il termine “patrimonio culturale” possiamo intendere tutto
l’insieme di tracce materiali e
immateriali che testimoniano l’esistenza culturale di un popolo in un
determinato momento storico.
Sono innanzitutto il territorio plasmato dal suo insediamento, poi
gli oggetti della cultura materiale,
poi ovviamente i linguaggi, il
folclore, i modi di organizzarsi e
interagire, i prodotti artistici ecc.
Se pensiamo al significato etimologico (patris-munus) ci ritroviamo nel campo semantico di concetti come “valore”, “possesso”,
“eredità”.
In un certo senso la scuola ha
sempre avuto tra le sue finalità
quella di far conoscere ai giovani il
proprio patrimonio culturale. Limitandosi però a presentare la cultura nazionale, specie quella di tipo
classico-umanistico, in genere ha
ottenuto il risultato di costruire
identità chiuse al proprio interno
come fortezze, pronte all’aggressione contro qualunque altra cultura, giudicata totalmente diversa
1
Così vengono indicate le competenze che la scuola deve riuscire a sviluppare nel documento prodotto da
una commissione ministeriale incaricata di riflettere sulle modalità con cui
realizzare l’innalzamento dell’obbligo di
istruzione a 16 anni “Indicazioni sulle
modalità dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione” del 3 marzo 2007.
29
e inevitabilmente inferiore.
In questi anni diversi autori hanno mostrato come sia pericoloso
insistere sul tema dell’identità,
perché questa inevitabilmente
esclude e rende “altro”, potenzialmente “nemico”, chiunque non sia
come noi2 . Perché allora insistere
sul concetto di patrimonio?
Per prima cosa perché esiste il
diritto e il dovere da parte di ogni
essere umano di conoscere la cultura a cui appartiene. L’importante però è comprendere che questa
cultura nasce da lontano ed è il risultato di contaminazioni e integrazioni continue. Il patrimonio
culturale infatti è il prodotto dell’attività delle generazioni passate
che quelle presenti contribuiscono
a ridefinire per poterlo poi trasmettere alle generazioni future. Senza questa consapevolezza è facile
vivere il proprio patrimonio senza
riflessione e questo facilmente provoca scarsa cura o rispetto nei suoi
confronti, così come spesso ingenera disagio nei confronti delle tradizioni culturali diverse da quelle
a cui si è abituati e quindi aggressività per chi le ha prodotte. Saper fruire dei beni culturali invece
permette in primo luogo di sviluppare il senso di appartenenza di
sè a una cultura: radici parentali,
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dossier
linguistiche, territoriali, religiose
che ci caratterizzano, ma rispetto
alle quali nel corso della vita abbiamo anche la libertà di realizzare nuove scelte per riplasmare in
modo creativo l’identità culturale
di cui facciamo parte. Contro il
modello statico di cultura elaborato dagli antropologi dell’800, oggi
sappiamo invece che l’identità culturale ha aspetti di dinamismo,
permeabilità, storicità.
In secondo luogo conoscere i
prodotti della propria cultura stimola la presa di coscienza dei diritti e doveri che abbiamo rispetto
ad essi. L’Educazione al patrimonio si intreccia quindi all’Educazione alla cittadinanza, sviluppando
responsabilità civile e mettendo in
moto atteggiamenti di valorizzazione, tutela e conservazione.
Ma in questo momento, in cui gli
scambi tra i popoli sono sempre
più importanti e più facili, l’Educazione al patrimonio può assumere
anche un significato fortemente
interculturale.
Ogni prodotto culturale, infatti,
testimonia le risposte, in parte simili e in parte diverse, che ogni
popolo ha dato ai bisogni comuni
che l’umanità si trova ad affrontare sul pianeta; racconta la storia
del gruppo umano che lo ha prodotto, con le strategie adottate per
interagire con il territorio in cui vive
e con i secolari processi di incontro, scontro e scambio con i popoli
con cui è venuto in contatto. Lavorare sul patrimonio quindi stimola l’interesse per le espressioni
culturali degli altri e quindi anche
il rispetto per esse, permette di
scoprire somiglianze e differenze
e costituisce un terreno per il dialogo e lo scambio.
L’Educazione al patrimonio invita infatti a realizzare un senso di
appartenenza senza la tendenza a
esaltare la propria identità e tradizione contro quella di altri, ma
per facilitare la relazione e l’incontro.
Ma il patrimonio culturale può assumere anche un’altra valenza
interculturale, rivolta in questo
caso agli adulti stranieri inseriti nel
2
Sui pericoli derivati dall’insistenza
sugli aspetti identitari vedi: M. Aime,
Eccessi di culture , Einaudi, Torino
2004, A. Maalouf, L’identità, Bompiani,
Milano 1999, A. Sen, La democrazia
degli altri, Mondadori, Milano 2005, A.
Sen, Identità e violenza , Laterza,
Roma-Bari, 2006, A. Ghosh, Circostanze incendiarie, Neri Pozza, 2006
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StrumentiCres●● Agosto 2007
In questo senso interculturale
l’Educazione al patrimonio viene
proposta da associazioni che da
anni lavorano per una formazione
degli insegnanti attenta alla diversità e alla reazione tra le culture
come Clio 92, associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia, che ha elaborato
22 Tesi per l’Educazione al patrimonio, che possono essere lette
nel sito www.clio92.it, o come la
Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) della Provincia di Milano, che ha dedicato al
tema un settore della sua ricerca3
e una parte del suo sito www.ismu.
org/patrimonioeinter cultura.
Con questo stesso approccio al
patrimonio culturale come potente veicolo di formazione e dialogo
interculturale stanno cominciando
a lavorare diversi musei e archivi
che hanno messo in discussione la
tradizionale logica espositiva, secondo la quale i prodotti culturali
si conservano e basta, per assumere una nuova idea processuale
del bene culturale che deve essere capito e agito per diventare occasione di incontro.
L’Educazione
al patrimonio
nella formazione
Già nel 1994 l’UNESCO aveva
lanciato il progetto “La partecipazione dei giovani alla preservazione
e promozione del patrimonio mondiale” per sensibilizzare alla necessità di preservare il patrimonio
naturale e culturale dell’umanità e
aveva invitato a inserire l’Educazione al patrimonio nei programmi scolastici di tutto il mondo.
Questa indicazione è stata ripresa
nel 1998 dal Consiglio d’Europa.
○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○
mondo del lavoro e ai loro figli inseriti nella scuola. Far conoscere e
rendere accessibili anche a loro i
beni culturali del nostro paese significa aiutarli a comprendere la
società in cui sono arrivati e quindi a inserirsi in essa in modo migliore. Inoltre conoscere la cultura di un paese aiuta a impararne
la lingua con maggior competenza. L’Educazione al patrimonio,
quindi, può contrastare e ridurre
l’esclusione sociale di persone
svantaggiate in quanto mira a favorire pari e ampie possibilità di
accesso, partecipazione e rappresentazione sul piano culturale.
dossier
Anche il ministro Fioroni si è dimostrato sensibile al tema, tanto
che nel documento Cultura scuola
persona. Verso le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e
per il primo ciclo di istruzione del
3 aprile 2007 scrive:
“Non dobbiamo dimenticare che
fino a tempi assai recenti la scuola
ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea. Oggi, invece, può
porsi il compito più ampio di educare alla convivenza proprio attraverso la valorizzazione delle diverse identità e radici culturali di ogni
studente. La finalità è una cittadinanza che certo permane coesa e
vincolata ai valori fondanti della
tradizione nazionale, ma che può
essere alimentata da una varietà
di espressioni ed esperienze personali molto più ricca che in passato.
Per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale ad un tempo,
una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle
nostre tradizioni e memorie nazionali: non si possono realizzare
appieno le possibilità del presente
senza una profonda memoria e
condivisione delle radici storiche.
A tal fine sarà indispensabile una
piena valorizzazione dei beni culturali presenti sul territorio nazionale, proprio per arricchire l’esperienza quotidiana dello studente
con culture materiali, espressioni
artistiche, idee, valori che sono il
lascito vitale di altri tempi e di altri luoghi.
La nostra scuola, inoltre, deve
formare cittadini italiani che siano
nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo.”
Il Cres da anni sta realizzando
esperienze di formazione nelle
scuole che propongono di rivedere il curricolo alla luce delle Nuove
Educazioni trasversali. In particolare si suggerisce di utilizzare una
grande tematica, che potremmo
chiamare “Il mio paese e quello
in cui vivo”, come sfondo integratore e filo conduttore tra Unità di
apprendimento che nel corso della progettazione in verticale permettono a studenti, italiani e stranieri, di studiare la realtà in cui
sono inseriti e di riflettere sulle
somiglianze e le differenze tra questa e quella di altri paesi che sono
carichi di valenze affettive perché
collegati alle proprie origini o a
quelle dei compagni.
Alcuni esempi
di percorsi
Un obelisco fa parte dell’ambiente quotidiano in cui vivono i ragazzi
di San Fermo della Battaglia in provincia di Como, tanto che neanche ci badano. Ricorda la vittoria
di Garibaldi sugli Austriaci del 27
maggio 1859. Costruito nel 1873,
ha subito trasformazioni in epoca
fascista e poi dopo la seconda
3
S. Bodo – S. Cantù – S. Mascheroni,
Progettare insieme per un patrimonio
interculturale, Quaderni ISMU 1/2007
31
StrumentiCres ● Agosto 2007
MArina 06
ha una risoluzione bassa ed è piccola
Uno dei disegni leonardeschi del Montalbano.
guerra mondiale, quando è diventato ricordo per i caduti di tutte le
guerre. La proposta nell’Istituto
Comprensivo di Como Prestino di
andare a osservarlo, leggerne le
varie parti, riconoscere le diverse
versioni negli anni significa ripercorrere la storia italiana di più di
un secolo, ma significa anche
un’occasione per riflettere sulle
ragioni e le modalità con cui un popolo conserva la memoria di parti
del proprio passato, mentre altre
le censura o le oblia. Significa inoltre parlare di indipendenza, conoscerne il processo in Italia, ma
anche in altri paesi e riflettere su
come ovunque sia ricordata e ribadita attraverso elementi simbolici (il nome e la storia di un protagonista, una data da festeggiare,
un monumento, che possono essere scoperti, studiati e confrontati).
In una scuola primaria di Magenta il cibo delle feste è apparso
un tema interessante per conoscere la realtà culturale in cui si vive.
Permette di ragionare sulla ritualità
ciclica della festa e sulle sue motivazioni (religiose, civili, locali, familiari, personali ecc.), di scoprire
lo stretto legame del cibo festivo
con le caratteristiche climatiche,
32
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dossier
geografiche e storiche del posto,
di riflettere sulla festa come occasione di comportamenti alimentari eccezionali e addirittura eccessivi, di leggere il significato simbolico del cibo, di vedere come la
società del benessere e i mass
media ne hanno stravolto il senso.
E tutte queste riflessioni sono sicuramente rafforzate se si confrontano le tradizioni alimentari legate
alla festa del posto in cui si vive
con quelle di altri paesi, trovando
somiglianze e differenze.
In un plesso del circolo didattico
di Vinci la quarta è andata alla scoperta del Montalbano, il territorio
in cui vivono. Ne hanno visto le caratteristiche naturali e antropiche,
le attività produttive attuali, le
tracce del ricco passato storico.
Hanno scoperto con emozione che
i disegni delle colline, dei castelli,
degli uccelli fatti da Leonardo coincidevano con quello che loro stessi avevano potuto osservare e fotografare nella zona e hanno capito che la formazione culturale del
loro illustre antenato era strettamente connessa alle osservazioni
fatte proprio nella zona del Montalbano. Solo dopo questo lavoro
di ricerca hanno riconosciuto che i
diversi punti strategici della zona
si potevano vedere direttamente
dalla finestra della loro aula, e che
quel paesaggio coincideva con un
disegno di Leonardo. Scrivono le
maestre nella relazione del loro
lavoro: “Noi insegnanti ci siamo
stupite di non essercene mai
accorte. Per tanti anni eravamo
passate per quei luoghi con l’automobile e alcune volte vi ci eravamo soffermate in occasione di
feste e sagre; per tanti anni avevamo osservato quel paesaggio
dalla finestra di quest’aula e non
avevamo mai associato quei luoghi al loro nome”. La nuova conoscenza accresce la comprensione
e questa a sua volta mette in moto
un coinvolgimento affettivo che accomuna maestre, bambini locali,
ma anche i nuovi piccoli abitanti
di Vinci arrivati da lontano.
Questa scoperta che porta a vedere con occhi nuovi quello che prima era solo un elemento del contesto emerge anche alla conclusione di una ricerca realizzata nel
quadro del progetto biennale
(2004-2006) “Dalle cave di Candoglia e Ornavasso al Duomo di Milano: storie di marmi”, promosso
dall’associazione IRIS (Insegnamento e Ricerca Interdisciplinare
di Storia) e dal LANDIS (Laboratorio nazionale per la didattica della
storia), con il sostegno della Fondazione Cariplo e della Veneranda
Fabbrica del Duomo di Milano. Al
progetto, nato dalla volontà di contribuire alla conoscenza e alla
valorizzazione dei legami tra il
Duomo di Milano e le cave di
Candoglia e Ornavasso nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola,
hanno partecipato quattro scuole
di Milano, una primaria, una secondaria di primo grado e due secondarie di secondo grado, tra cui
il Liceo artistico di Brera, oltre a
una secondaria di primo grado di
Baveno4 . Al termine del lavoro, tra
i diversi risultati ottenuti, uno è
emerso non previsto: una nuova
consapevolezza con cui guardare
il solito Duomo, fatta di conoscenze acquisite e di esperienze realizzate.
4
Il progetto e i suoi risultati possono essere consultati nel sito www.
storieinrete.org e nel testo Le vie dei
marmi. Il lavoro e l’arte della Fabbrica
del Duomo di Milano a cura del Liceo
artistico statale di Brera e della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano,
Legma Grafiche, Lissone 2007
StrumentiCres
StrumentiCres●● Agosto 2007
TESTI DI SUPPORTO
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RUBRICHE
dossier
Ascoltare altrimenti. Adolescenti
stranieri a Milano
Claudia Bruni, Franco Angeli, Milano 2007.
a cura di Laura Morini
Gli spazi di “ascolto psicologico” destinati agli adolescenti, aperti in parecchi istituti superiori, sono diventati, in
alcuni casi, gangli vitali del tessuto scolastico, luoghi d’incontro fra insegnanti, psicologi e genitori, depositi di esperienze e storie come quella che segue.
“Gli insegnanti di Dimitri, ragazzino albanese, arrivato dalla mamma,
già in Italia, durante le elementari, si
trovano in una situazione difficile per
cui chiedono una consulenza. Questo
loro allievo ha una storia in cui emergono molti abbandoni di figure paterne. Con suo padre non ha mai convissuto, ma al paese si era molto attaccato a uno zio materno che ha dovuto lasciare per raggiungere sua madre che
viveva qui con un italiano un po’ più
anziano. Dimitri sembra legarsi molto a questo signore che il pomeriggio
sta a casa con lui e lo aiuta a fare i compiti. La mamma è sempre occupata con
il lavoro, molto stanca anche se, chiamata, arriva a scuola e mostra il suo
bisogno di essere aiutata. Soprattutto
quando, separatasi da quest’uomo, si
trova davanti a un grande, per lei incomprensibile e doloroso cambiamento del figlio. Anche gli insegnanti non
possono credere a una trasformazione così improvvisa….”
Come Dimitri, sempre più spesso,
molti ragazzi portano a scuola il loro
vissuto emotivo, le loro storie di adolescenti fragili, segnati da troppi cambiamenti, da una precarietà che ne caratterizza la vita quotidiana e ne compromette il successo scolastico.
Noi insegnanti dobbiamo misurarci
con una difficoltà di comunicazione crescente che rende difficile il dialogo tra
generazioni il cui linguaggio e stile di
vita tendono a divaricarsi rapidamenStrumentiCres ● Agosto 2007
te, (non dimentichiamo che l’età media
dei docenti nel nostro paese supera ormai i cinquant’anni).
Ci aspettiamo di incontrare studenti
con difficoltà, aspettative, preoccupazioni legate al loro percorso scolastico,
siamo pronti a sostenerli nel processo
di apprendimento, abbiamo gli strumenti adeguati a rapportarci, da insegnanti, con i nostri allievi; ma talvolta,
come nel caso di Dimitri, vorremmo
essere affiancati da un “esperto/a” la cui
competenza professionale si avvicini
maggiormente al mondo emotivo del
ragazzo e si integri con la nostra.
Delle esperienze condotte nella scuola media inferiore e superiore in diretta collaborazione con gli insegnanti, o
più specificamente indirizzate ad “ascoltare” i ragazzi e i loro genitori, ci
parla Claudia Bruni nel suo libro Ascoltare altrimenti. Adolescenti stranieri a
scuola.
Il volume è dedicato in particolare
agli incontri con adolescenti stranieri,
presenti in numero crescente nella
scuola superiore, ragazzi chiamati ad
affrontare contemporaneamente il pas-
saggio dal luogo simbolico dell’infanzia
all’età adulta, ad integrarsi in un nuovo paese e confrontarsi con una nuova
cultura.
Adolescenti al quadrato, dunque, o
giovani impegnati in un doppio percorso di migrazione, a cui vanno offerti
supporti e attenzione particolari.
Perché, come osserva l’autrice, ”…i
ragazzi stranieri rischiano di lasciar
fuori della scuola il loro più profondo
mondo emotivo nel tentativo di adeguarsi, adattarsi e integrarsi. A volte
sono addirittura i migliori, in alcune
materie, soprattutto le ragazze, anche
se gli insegnanti più attenti mostrano
preoccupazione per certe loro tristezze, silenzi, visi imperscrutabili. Per
molti adolescenti è difficile affrontare
il dolore mentale, la frustrazione, il
senso di responsabilità necessari per
accedere al ruolo di studente, un ruolo
sociale che li fa procedere nei loro compiti evolutivi. Per quelli stranieri talvolta indossare questi panni è quasi un
obbligo anche per una loro riconoscenza, un bisogno di restituzione delle fatiche e dei costi della migrazione.”
(pag18)
Se le storie di questi adolescenti costituiscono la trama narrativa del libro,
l’ordito è rappresentato dall’analisi dei
casi, dalle riflessioni della psicologa
che, nell’illustrare il proprio metodo di
lavoro, mette a nudo anche le emozioni, i criteri scientifici e le risorse di sensibilità personale che le consentono di
interagire positivamente con tante persone diverse.
Non casualmente il volume è pubblicato nella collana, edita da Franco Angeli, Adolescenza, educazione e affetti,
diretta da G. Pietropolli Charmet: si
tratta di un interessante testo di facile
lettura che presenta un’ampia gamma
di storie con cui confrontarsi, da cui
educatori, genitori e insegnanti possono trarre utili spunti di riflessione.
È infatti indubbio che, senza eccedere nello “psicologismo”, anche gli insegnanti devono oggi accrescere le proprie capacità di ascolto, acquisire maggiore attitudine al decentramento e
consapevolezza della relatività del proprio punto di vista (personale e culturale) se vogliono costruire una relazione didattica positiva con lo studente. E’
una forma di aggiornamento sul campo non generalizzata, ma praticata in
molte scuole in cui diverse figure professionali interagiscono per prevenire
o sostenere il disagio scolastico.
I temi proposti sono molti e di grande interesse perché sempre legati ad
33
- come rielaborare il trauma migratorio proprio o dei genitori spesso assunto con senso di colpa anche da ragazzi della seconda generazione ?
- come rinforzare le relazioni con i genitori messe doppiamente in crisi dall’ingresso nell’adolescenza e dal bisogno
di orientarsi in un contesto sociale e
culturale nuovo?
- come recuperare il rapporto con le
proprie radici familiari e culturali senza cadere nella trappola della mitizzazione del mondo dell’infanzia in cui alle
soglie dell’adolescenza qualche ragazza/o vorrebbe tornare a rifugiarsi?
Le risposte non sono facili ricette
precostituite, ma nascono dallo sforzo
di combinare l’approfondimento su
concetti chiave come quelli di identità, cultura, cittadinanza, integrazione, con l’analisi di atteggiamenti e comportamenti diffusi fra gli
educatori. Claudia Bruni riflette creativamente alla luce di teorie, concetti ed
esperienze che provengono da diverse
fonti italiane ed europee. Spesso gli insegnanti oscillano fra i due poli del senso di impotenza e dell’onnipotenza
invasiva, comportamenti ambedue generati dall’ansia, dalla mancanza di momenti di confronto e di lavoro in equipe.
Questo agile saggio-racconto invita a
mettersi in gioco di fronte alla novità
che ogni ragazzo porta con sé, ad accogliere la sfida professionale che l’incontro con nuovi arrivi, suoni e colori comporta.
Non mancano, infine, alcune propo○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○
esperienze e storie reali; ne segnaliamo
alcuni:
ste innovative destinate, per così dire,
a lubrificare il meccanismo spesso inceppato dei rapporti scuola-famiglia.
Ad esempio organizzare gruppi di genitori che si incontrano, con la presenza della psicologa, per confrontarsi,
senza celare le diversità di approccio,
anche su temi difficili come la morte, la
malattia, il rapporto con gli anziani.
”Recentemente alcune inchieste hanno
rivelato severi giudizi di badanti e
baby sitter straniere nel confronto del
nostro modo di relazionarci con i bambini, troppo viziati e poco rispettosi…”
perché dunque non proporre ai genitori di ascoltarsi reciprocamente ed aprirsi ad un confronto reale anche su temi
caldi, come l’educazione dei figli?
Fare della scuola un luogo privilegiato del confronto interculturale, in cui
scambio e apprendimento reciproco
sono la vera scommessa.
LE SECONDE GENERAZIONI
FANNO SENTIRE LA LORO VOCE
In Italia, secondo il dossier Caritas/Migrantes i
figli di immigrati, le seconde generazioni, hanno raggiunto le 585mila presenze, considerando solo i minori nati in Italia o nei Paesi di origine e arrivati
bambini nel nostro Paese per ricongiungimento familiare.
Alcuni di loro, originari da Africa, Asia e America
Latina ma cresciuti per la maggior parte a Roma,
hanno creato la Rete G2 – Seconde Generazioni.
“Abbiamo creato un gruppo perché non vogliamo
più subire passivamente leggi che condizionano le
nostre vite senza poter dire la nostra” spiega Mohamed Tailmoun, G2
di nazionalità libica. “Per noi non
esiste una legislazione ad hoc, che
tenga presente il fatto che siamo cresciuti qui ma dipendiamo dalle stesse normative create per i nostri genitori. E’ come se fossimo appena arrivati in Italia”
Come molti ragazzi della loro età
amano e padroneggiano i nuovi media quindi per far sentire la loro voce
hanno scelto internet: il loro sito
ospita parecchi blog tematici dove
discutere di piccole difficoltà quotidiane ma anche affrontare i seri problemi di accesso alla cittadinanza italiana.
In questo modo hanno potuto venire in contatto tra loro e conoscersi G2 di diverse
città italiane che hanno poi sentito l’esigenza di incontrarsi anche fisicamente organizzando a Roma,
nel luglio 2006, il loro primo Workshop.
Si è trattato di un’intera giornata dedicata allo
studio, con l’aiuto di esperti, di quelle parti della
legislazione italiana che li toccano più da vicino: il
permesso di soggiorno per motivi familiari, che permette di restare legati economicamente alle proprie famiglie solo fino ai 18 anni; il permesso per
studio, evidentemente pensato per chi entra in Ita-
34
lia da maggiorenne ma poi, di fatto, molto utilizzato per le seconde generazioni che risente dei tempi
limitati di durata; la carta di soggiorno, quasi impossibile da ottenere per chi ha lavori precari; alcuni casi di rifiuto della cittadinanza italiana ai nati
in Italia così come i rifiuti, per redditi ritenuti insufficienti, delle richieste di seconde generazioni nate
nei Paesi di origine.
Dal Workshop è nata la Campagna di accesso
alla cittadinanza italiana da parte dei figli degli immigrati.
Ma, come spiega la G2 Maya
Llaguno Ciani, “per farci sentire non
basta la parola: per noi è molto
importante trovare le forme migliori
per arrivare a un pubblico più vasto”. E così hanno rispolverato il Fotoromanzo. “In questa occasione ci
siamo divertiti a posare con autoironia come se fossimo degli attori,
rappresentando alcuni episodi comuni delle nostre vite di tutti i giorni
– racconta Lucia Ghebreghiorges,
una delle protagoniste - Ma abbiamo giocato tenendo sempre ben
presente l’obiettivo di G2: quello di
sensibilizzare sulla Campagna”.
Con lo stesso obiettivo questi vulcanici ragazzi hanno girato due
cortometraggi, uno dei quali ha vinto il premio Moustafa Souhir.
Le seconde generazioni sono riuscite a smuovere
anche il mondo politico: l’assessore capitolino all’università, alle politiche giovanili e alla sicurezza,
Jean Leonard Touadì ha partecipato al Workshop di
Roma e il Ministero della Solidarietà Sociale ha finanziato otto progetti tagliati sulle loro esigenze in
altrettante città.
www.secondegenerazioni.it
StrumentiCres ● Agosto 2007
Da Madre a Madre
Sindiwe Magona, Gorée ed. (1998), 2005
a cura di Shara Ponti
Il romanzo, coraggioso e toccante, parte da un fatto di cronaca del 1993: una studentessa americana bianca viene assalita
e brutalmente uccisa da un gruppo di giovani neri in una township di Capetown
(Sudafrica), dopo avervi riaccompagnato
in macchina alcune amiche nere. Si era
recata nel Sudafrica grazie a una borsa di
studio Fullbright per sostenere moralmente i neri nell’esercizio del voto democratico conquistato per la prima volta nell’agosto 1993. La nazione, liberato Mandela, era emersa dal brutale regime dell’ apartheid, fermato anche grazie all’embargo internazionale.
Come spiega la scrittrice, lei stessa di
Guguletu1 , in una brevissima prefazione,
di solito in tali situazioni è della vittima,
del suo ambiente, amicizie e legami familiari che si parla, si vuol sapere. Cosa giusta e legittima. In questo caso, invece, l’autrice opera un ribaltamento “... non c’è
forse da imparare qualcosa anche da
quell’altro mondo? ...Qual era il mondo
degli assassini di Amy Biehl?”
A questa domanda cerca di offrire sfondo e senso il romanzo, scritto in prima
persona dalla madre del supposto unico
(ma così non è stato nei fatti) assassino
adolescente, Mxolisi. In un ininterrotto
monologo interiore (che a volte sembra
prendere le forme del diario, altre di un
documento) si rivolge alla madre della
ragazza trucidata. Sicuramente non per
fare una difesa d’ufficio, ideologica, addurre a scusante le sopraffazioni storiche;
né tantomeno intende offrire scuse formali per l’assassinio, al fine di ottenere
sconti di pena per il figlio.
E’ dalla ricostruzione dell’ultimo giorno di Amy Biehl a Capetown che il racconto parte fino ad arrivare al luogo fatale nella township dove nessun bianco
sudafricano metterebbe piede. Lì, da subito, sono incise le radici della violenza
nera: nella struttura sociale, nella deprivazione e violenza instillate di generazione in generazione nel quotidiano dei neri.
E’ un dialogo sussurrato quello di
Mandisa, la voce narrante, un titubante
ragionare in libertà, con la vaga idea della presenza dell’altra madre che silenziosamente ascolta (e noi con lei), per comunicare e partecipare il comune, se pur diverso, dolore per le vite spezzate dei figli.
E’ un tentativo di stabilire un contatto
empatico, per non chiudersi in una sofferenza cieca e sorda, tra due madri così
lontane e che nulla sanno l’una dell’altra.
Ammantata di delicata pietas e scoramenStrumentiCres ● Agosto 2007
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NARRATIVA
to, l’io narrante cerca le parole che imbastiscono ricordi e riflessioni e compone un
quadro non solo per l’altra madre ma anche per sé, per ricostruire un senso, a
monte dell’atrocità degli eventi, nel tentativo di capire cosa abbia trasformato il
figlio adolescente in un mostro, un assassino.
Le righe in corsivo, in prima persona,
sono direttamente rivolte alla madre di
Amy Biehl ed esordiscono brutalmente
“Mio figlio ha ucciso tua figlia”.
Non nega né nasconde i fatti. Cerca e
invita, così facendo, anche l’altra madre
a uscire dalla comprensibile chiusura nel
proprio dolore per capire e ricostruire il
mondo dei figli. Per lei quel mondo
sudafricano nero nel quale la giovane
americana bianca aveva deciso di essere
e collaborare.
Alla prosa in corsivo seguono ricostruzioni cronachistiche degli avvenimenti,
brani di ricordi che affiorano in modo disordinato, senza un ordine cronologico.
Ricordi del recente passato di Mxolisi piccolo, o il proprio, solo un po’ più in là nel
tempo. Poco alla volta appaiono ai nostri
occhi il contesto umano, storico e geografico, la continua deprivazione e sopraffazione culturale e umana che hanno portato a tanto odio e violenza in Sudafrica.
Contesto geografico incredibile è Guguletu senza infrastrutture, dalle vie senza
asfalto, senza nomi, le case poco più che
baracche senza acqua. E’ il luogo in cui
avviene l’omicidio e in cui vivono solo
neri, sradicati dalle loro terre e strappati
alle relazioni familiari e amicali tribali e
lì costretti, nella assenza di strutture e di
possibilità di vita umane, a vivere. “I bianchi vivono nei loro quartieri e si fanno i
fatti loro, punto. Noi viviamo qua, lottiamo e ci ammazziamo tra di noi.”
L’accavallarsi di ricordi, che incalzano
sotto gli occhi di chi vuole sapere e ascol-
tare, riportano via via a galla ingiustizie,
prevaricazioni, privazioni, angherie, soprusi. Di più generazioni. Danno risposte
possibili -senza volerlo fare di propositoai mille perché della violenza e rabbia
ancora vive e forti. “..e tua figlia ha pagato per i peccati di tutti quei padri e
quelle madri che ... non si sono resi conto
che mio figlio aveva una vita degna di
essere vissuta.”
Ecco che ricostruiamo, come in un atroce puzzle, l’inesistente adolescenza della
voce narrante, diventata madre vergine
(ironia della sorte?) a tredici anni, con un
figlio che le sfila tutti i sogni di studio e di
una vita diversa: vede il sogno d’amore,
così forte e irresistibile, appassire nella
durezza e indifferenza crudele della vita,
la vita la precipita nella condizione di nuora, ovvero serva-schiava nel clan del marito, in una animalità bruta senza apparenti vie di uscita. La sorte le strappa le
ultime speranze di una vita non dominata dalla ignoranza e dalla miseria, della
possibilità di un lavoro decoroso. Quanto
affiora è la storia di una donna, emblematica della storia dei neri sudafricani,
una storia non scritta nei libri di testo scolastici. Affonda le sue radici nel tempo e
affiora attraverso i ricordi strappati dall’oblio dall’atroce evento, vive nelle parole brevi e incisive, ma ammantate di dignità, del nonno Tatankhulu che racconta alla nipote della brutalità sadica, distruttiva e senza apparente ragione delle
incursioni poliziesche nella comunità
nera. Una comunità dal calore solidale
nelle decisioni elaborate e prese insieme
da tutta la comunità, nel forte senso dei
legami e delle parentele familiari, nei riti
per il fidanzamento e nelle elaborate trattative per il matrimonio.
Affiora qui la vena di cantastorie di
Sindiwe Magona. L’urgenza di comunicare una eredità da lasciare, così come da
tradizione, alle generazioni a venire, secondo la tradizione xhosa. Il rimando a
una oralità forte allora colora lo scritto,
fa emergere il ritmo della parola orale e
delle credenze xhosa. E’ un mondo popolato di figure a noi sconosciute come ‘il
padre di mezzo’ di una famiglia ben lontana dalla nucleare contemporanea; ma
anche di tradizioni crudeli come il totale
asservimento delle giovani spose alla famiglia del marito secondo l’ ukuhota
(iniziazione), evidenziato nella cancellazione e nuova attribuzione di un nome alla
moglie. I ricordi dell’infanzia, delle relazioni familiari e amicali forti e calde contrastano con la violenza diventata la misura delle township (“La violenza è dilagante. E’ diventata routine.”): i neri ne
sono gli attori e le vittime, il governo nazionalista propugnatore dell’apartheid ne
è all’origine. La brutalità e la mancanza
di valori e di rapporti significativi, soprattutto tra i giovani neri, contrastano con i
ricordi di un mondo di valori e di relazioni vitali e misurate dal tempo, prima del
trasferimento forzato nella township. Non
è quindi soltanto la nostalgia a colorare il
passato. Questo è segnato dalla potente
cesura della violenza con la quale sempre
più i neri sono trattati. Ma la capacità di
vedere oltre la contingente terrificante
brutalità fa sì che lo sguardo si faccia iro-
35
da un anelito al proprio umiliato orgoglio
e dignità, un anelito alla libertà di espressione e di movimento, insieme alla
valenza e riconoscimento delle proprie
radici e alla affermazione del proprio patrimonio culturale.
1
Guguletu è una delle immense, anonime township attorno a Capetown. Non è
l’unica: altre sono Langa, Nyanga, Khoyelitsha. Qui decine di migliaia di neri sono
stati ammassati a vivere e a patire la politica dell’apartheid del regime boero di estre-
LO SCAMBIO
tra Parklands College (Capetown, Rsa)
e Liceo Berchet (Milano, I)
L’incubazione del progetto (nato per una serie di coincidenze che hanno avuto l’incipit e il sostegno del Consolato Generale del Sudafrica di Milano) è durata due anni circa. All’inizio
sembrava poco più di una remota possibilità che, solo dopo
un incontro de visu a Città del Capo, si è sviluppata in un
accordo concreto.
Lo scambio si è attuato con la scuola secondaria privata
Parklands College.
Una prima fase ha visto l’arrivo a Milano di studenti e professori sudafricani. Sono stati ospiti rispettivamente di studenti e professori di una seconda del nostro liceo classico
Berchet.
Sono arrivati a Milano il 26 aprile 2007 e sono ripartiti il 9
maggio 2007. Il 4 settembre le/gli stessi 19 studenti della
futura terza liceo del Berchet si recheranno con i due professori a Capetown. La lingua veicolare utilizzata è ovviamente
l’inglese (una delle 12 lingue ufficiali).
Il programma che abbiamo potuto offrire alle/agli ospiti
sudafricani, grazie a una generosa donazione, è stato molto
denso e ricco: una visita di 3 giorni a Roma e Orvietovisite a
Venezia e Lago di Como.
Durante i giorni feriali, il mattino era dedicato alle lezioni.
Alcune erano assembleari (20 studenti noi, 23 loro) in inglese
di fisica, scienze, astronomia, dibattiti su film o opere teatrali
sul Sudafrica o libri di autori sudafricani già letti, preparazione alle escursioni con cenni storici culturali artistici.. In alternativa, mentre le/i nostri studenti seguivano lezioni curricolari
in italiano, le/gli studenti sudafricani, in piccoli gruppi, hanno
incontrato le classi della scuola che ne han fatto richiesta.
Questo è stato il nostro tentativo di coinvolgere altre classi
della scuola nella opportunità di dialogare e confrontarsi in
lingua con le/i loro pari provenienti da un mondo così lontano
e con una storia di recente evoluzione.
Il pomeriggio è stato dedicato a visite della città, visite di
chiese e pinacoteche, incontri con personalità pubbliche o istituzionali, lezioni in lingua per esempio sul cielo astrale del
nostro emisfero... .
Il senso dell’iniziativa è stato quello di offrire un’occasione
di incontro a giovani coetanei che vivono in paesi lontani, ma
destinati ad avere legami sempre più stretti, e di dare loro la
possibilità di porre le basi per una conoscenza reciproca di
fondamentale importanza per la formazione dei futuri cittadini europei e del vicino continente africano.
Non stupisce quindi che l’evento che ha più colpito e coinvolto le/gli studenti (non solo italiani -Berchet e di alcuni altri
licei-, ma anche sudafricani) è stato il convegno che abbiamo
organizzato per sabato 28 aprile dal titolo: Pensare all’Africa incontrando il Sudafrica.
Sul palco si sono avvicendati e hanno dato il loro contributo
di vissuto e conoscenza sia la dr. Nokwe, Console Generale
del Sudafrica a Milano, sia il vicepreside del Parklands College
dr. Wildschut, sia i docenti universitari che si sono interessati
al recente passato del Sudafrica per la sua storia, economia,
letteratura, o per le vicende legate al TRC (Truth and
Reconciliation Committee, comitati per la verità e riconcilia-
36
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nico e la lingua assorba il punto di vista e
i modi di dire xhosa: “... un poliziotto parla con voce alta e ringhiosa. E’ una voce
orribile, terrificante. Ha qualcosa di inumano. E quando lo guardi in faccia, ti accorgi che deve averla rubata ad una rana
toro, e ad un bue deve aver preso il collo
e gli occhi.”
Sindiwe Magona disegna uno spaccato
contemporaneo di vita dei coloured
sudafricani che precede gli abissi desolanti della township, e che poi sostanzia l’odio
per le umiliazioni subite dal bianco predatore, un odio che non si è mai disgiunto
ma destra a partire dal 1948. I neri, e in questa zona in particolare gli Xhosa, in seguito
a leggi apposite, hanno visto via via le loro
terre, i loro animali, i loro alloggi confiscati,
abbattuti, rasi al suolo.
Intere comunità sono state trasferite e disperse con la forza nelle varie township costruite in tutta fretta attorno alle città, ormai completamente bianche (alle quali l’accesso per lavoro era consentito solo grazie
ai pass -appositi documenti di identificazione per coloured recanti il gruppo etnico di
appartenenza- da portare sempre con sé
pena la prigione o peggio).
zione): dr Flores, dr Vivan e dr Pedretti dalle Università di
Siena e Milano. Si è vista anche una bellissima intervista sul
Sudafrica post-apartheid alla scrittrice premio Nobel per la letteratura Nadine Gordimer.
Molto impegnativo organizzativamente il convegno ha dato
grande soddisfazione per i riconoscimenti e l’interesse talvolta
attonito che trapelava dai volti delle/degli studenti e dei presenti.
Dato che la misura di quello che si fa lo si deduce dalle
reazioni di chi ne usufruisce, ci è sembrato interessante ascoltare le voci delle/degli studenti del Berchet che sono stati invitati a riflettere, dopo la partenza delle/degli ospiti, su questa
esperienza.
Questi sono, dalla voce dei ragazzi stessi, i principali temi
affiorati:
- occasione per svolgere e studiare programmi e contenuti
non tradizionali, riconsiderazione del valore della storia e della
memoria e del suo insegnamento per il presente.
- esperienza linguistica (propria conoscenza e abilità, uso
lingua dal vivo)
- esperienza di ‘conoscenza’ che ha ‘fatto saltare gli ostacoli’ della differenza (simile/diverso); esperienza della tolleranza
e accettazione; piacere della differenza e dello scambio; spostamento dall’illusione di essere ‘il centro del mondo’; spostamento del ‘punto di vista’: rivedere il proprio mondo con gli
occhi dell’altro; necessità -per incontrare il nuovo- di ‘fare posto’
non solo concretamente in casa, ma anche mentalmente
- orgoglio e apprezzamento del proprio patrimonio culturale
e artistico (visita di Roma e Venezia per ‘presentarle’ alle/gli
ospiti); sforzo collettivo di farlo apprezzare dallo ‘straniero’;
sentirsi di far parte di questo patrimonio, sentire che fa parte
delle proprie radici
- esperienza di una diversa relazione con le/i compagni di
classe e con professori coinvolti in un rapporto meno formale,
che si confronta su tanto tempo insieme e obiettivi comuni.
Positive scoperte
- dubbi sull’apprezzamento delle bellezze artistiche e culturali da parte delle/gli ospiti; si è notata una scarsa curiosità
verso la cultura in genere e quella del paese che si visita nella
fattispecie, uno scarso interesse a imparare; impressione di
poca conoscenza ‘indifferenza’ anche per la loro storia
- poco tempo per il confronto con studenti sudafricani sui
temi e le problematiche affrontate precedentemente in classe
-sarebbe stato utile per capire come sono vissuti in RSA, dal
loro punto di vista, di sudafricani e giovani.
StrumentiCres ● Agosto 2007
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Nuovo planetario italiano
Geografi
Geografiaa e antologia della letteratura
della migrazione in Italia e in Europa
Armando Gnisci (a cura di)
Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006, pp. 537
a cura di Gianluca Bocchinfuso
Non deve essere stato semplice per
Armando Gnisci, docente di Letteratura comparata all’Università di Roma,
curare l’edizione di questa ampia ed
esaustiva antologia sulla Letteratura
italiana (ed europea) della migrazione,
pubblicata con il titolo Nuovo Planetario Italiano. Geografia e antologia della Letteratura della migrazione in Italia e in Europa. Non è stato semplice
perché già quel Planetario del titolo testimonia la vastità dell’argomento, non
tanto in termini di pubblicazioni ma di
temi che intrecciano persone, lingue,
culture, bisogni, storie, tradizioni, migrazioni, linguaggi, incontri, integrazioni, che s’accomunano nella testimonianza dell’arte letteraria. Un lavoro complesso che si muove dentro e attorno ai tanti impliciti del temine migrazione: un vissuto che crea nuove
identità, cambia e arricchisce individualmente e collettivamente, definisce
nuove strade, plasma nuovi paesi, allarga i continenti. «La mia intenzione scrive Gnisci a proposito dell’immagine del Planetario - è stata quella di disegnare una carta del mondo che seguisse le rotte delle correnti umane che
si spostano da tutti i mondi verso la
nostra contrada/area euro-occidentale e che si versano nella nostra lingua.
Questa corrente di correnti cuce gli
oceani (‘l mare porta dovunque’, scrive Conrad nel finale de “La follia di
Almayer”) e i continenti, e trapana le
frontiere, le popola e le benedice, le trascende e le squaglia. CosÏ facendo, il
planetario che diventa possibile descrivere dalla prospettiva di ciascuna
contrada/paese europea diventa anche la mondializzazione che ora in essa,
e intorno ad essa, si va inscrivendo. La
prima mondializzazione italiana fu
fatta verso l’esterno dalla emigrazione in tutti i mondi, eccetto l’Asia, dei
nostri antenati. Ora ci mondializziamo
a casa, tra noi e loro, tra noi e (nuovi)
noi, tutti insieme. E operiamo perché
in Europa prevalga una coevoluzione
virtuosa di culture e bisogni, di creatività e di scambi. Una difficile comunità nuova la cui costruzione sconfigga
il triste esito del colonialismo europeo
che ha costretto le generazioni dei figli
e dei nipoti degli immigrati nella più
StrumentiCres ● Agosto 2007
disperata anomia dei luoghi del bando (banlieuses) e ha offerto come unica via di evoluzione l’odio e la ribellione. Noi operiamo per una nuova Europa creola e meticcia, cosparsa di crescenti zone di non inferno, come scriveva Calvino alla fine de ‘Le città invisibili’’(pp. 36-37).»
Un’antologia ragionata, ricca di scritture originali, informazioni e critica, che
segue due recenti lavori di analisi di alcuni testi e autori di questo canone, differenti tra di loro: quello di Raffaele
Taddeo, Letteratura nascente. Letteratura italiana della migrazione. Autori
e poetiche, Raccolto Edizioni, Milano
2006 e di Mia Lecomte, Ai confini del
verso. Poesia della migrazione in Italia, Le Lettere, Firenze 2006. Di entrambi i libri ci siamo già occupati nelle pagine di Strumenti1 .
La complessità dell’argomento e i
continui rimandi anche ad altre tradizioni letterarie ha spinto Gnisci e i suoi
collaboratori a dividere il volume in tre
parti specifiche, precedute da tre saggi
introduttivi dello stesso curatore (Scrivere nella migrazione tra due secoli),
di Maria Cristina Mauceri (Scrivere
ovunque. Diaspore europee e migrazione planetaria), di Franca Sinopoli
(La critica sulla letteratura della migrazione in Italia).
Il cuore del libro è nella prima parte
(Il Planetario) in cui i vari coautori
prendono in esame la Letteratura italiana della migrazione legando la produzione letteraria alla provenienza geografica dei vari scrittori, di cui sono
forniti anche riferimenti biografici e,
appunto, passi antologici delle loro opere. L’operazione di ripartire geografica-
mente gli scrittori stranieri in lingua italiana, sin da subito, permette di capire
la molteplicità di questo fenomeno culturale e letterario, che sta determinando un mescolamento non solo delle nostre identità, ma anche delle nostre
strutture linguistiche e dei contenuti
della nostra letteratura. Per capire bene
le singole parti di questa sezione - L’Europa venuta dall’Europa di Maria Cristina Mauceri, Maghreb di Amara
Lakhous, Africa nera oceanica e lontana di Gianluca Iaconis, Corno d’Africa. L’ex Impero italiano di Ali Mumin
Ahad, L’Asia Mediterranea o vicino
Oriente di Mia Lecomte, Continenti
asiatici e popoli dimenticati di Silvia
Camilotti, America latina in Italia di
Davide Bregola, L’editoria italiana della letteratura della migrazione di Silvia Camilotti - e per entrare consapevolmente nel cuore di una scrittura a
più voci molto interessante e articolata, per chi, docente o semplice appassionato di letteratura, non conosce bene
questo canone, è fondamentale avere
presente da dove e quando nasce la vocazione narrativa di questi scrittori che
oggi rappresentano una voce profonda
e interessante della nostra Letteratura
di cui Silvia Camilotti, nel suo saggio,
fornisce anche i riferimenti editoriali,
grandi e piccoli, che purtroppo, come
spiega l’autrice, non sempre sono
supportati da un progetto culturale specifico sulla Letteratura della migrazione.
I migrant writers prima di tutto permettono - a docenti, studenti, intellettuali, semplici appassionati e lettori di analizzare e studiare la Migrazione
attraverso la rappresentazione che “l’altro” ha del nostro paese - e non solo - e
che inevitabilmente tiene insieme storie individuali, racconti, vicende, situazioni personali, stati d’animo, sensazioni, progetti, paure, sofferenze. Questi
autori lasciano le loro terre e le loro famiglie - a causa di guerre, di fame, di
povertà, di assenza di diritti, di persecuzioni individuali - e raggiungono la
nostra penisola alla ricerca di una “nuova vita”.
In questo percorso di avvicinamento
e di arrivo nel nostro paese c’è un primo punto importante da analizzare:
questi autori scelgono di scrivere liberamente utilizzando la lingua del paese
ospitante - anche se inizialmente a
quattro mani con la collaborazione di
giornalisti italiani - e ciò rappresenta un
fenomeno culturale diverso da quello di
altri paesi europei, dove esiste già una
tradizione consolidata: basti pensare a
Tahar Ben Jelloum in Francia e Salman
Rushdie in Inghilterra, eredità anche di
un passato coloniale lungo e difficile
nella storia, rispettivamente, marocchina e indiana. La mancanza, in Ita1
Strumenticres 44, dicembre 2006,
pagg.40 e 45
37
Ma quando nasce la volontà degli autori stranieri di raccontare la loro vicenda in Italia? Una data importante - che
spinge autori come Pap Khouma, Salah
Methnani, Mohamed Bouchane a raccontare e raccontarsi, aprendo di fatto
la prima fase di questa Letteratura,
quella dell’autobiografia - è un fatto di
cronaca nera avvenuto la notte tra il 24
e il 25 agosto del 1989 a Villa Literno,
38
in provincia di Caserta, quando un giovane sudafricano, Jerry Masslo, impiegato nei mesi estivi nella raccolta di
pomodori, viene derubato e ucciso.
L’episodio di chiara matrice razzista e
xenofoba mette per la prima volta l’opinione pubblica di fronte al problema
dell’immigrazione. La reazione del momento è anche istintiva ed emozionale:
la Rai, il 29 agosto, trasmette in diretta
i funerali del ragazzo; il 7 ottobre successivo la città di Roma ospiterà una
manifestazione antirazzista con circa
duecentomila partecipanti. Si muove
anche la politica: il Parlamento nel 1990
approva la Legge Martelli - dal nome
dell’allora ministro di grazia e giustizia
- che è la prima regolarizzazione degli
stranieri in Italia, semplicemente attraverso la constatazione di essere residente nel nostro paese. Non si parla di chiari diritti e non sono messe in campo
esplicite politiche di integrazione.
Tahar Ben Jelloun, con l’aiuto di Egi
Volterrani, scrive un racconto in italiano ispirato alla morte del sudafricano
contenuto nella raccolta Dove lo Stato
non c’è. Racconti italiani. Ma anche il
primo romanzo del senegalese Saidou
Moussa Ba, La promessa di Hamadi,
(libro che uscirà nel 1991, scritto in collaborazione con Alessandro Micheletti),
parte da questo episodio di cronaca e si
rivolge soprattutto agli studenti, stimolandoli a conoscere la vita dei senegalesi
in Italia, la loro speranza di sopravvivere, i problemi del loro paese di origine, l’obbligo di partire per salvarsi e
sperare in un futuro diverso.
Pap Kouma.
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lia, di una significativa storia coloniale
- se si fa eccezione per gli scrittori di
origine eritrea come Brhan e Ribka
Sibhatu, di origine somala come Igiaba
Scego e Cristina Ubax Ali Fatah, di origine etiope come Martha Nasibù e Maria Abedu Viarengo - rende originale la
nostra situazione, perché l’italiano non
è lingua letteraria in nessun altro paese se non in Italia stessa e viene scelto
volontariamente. La ricerca di un piano linguistico-letterario per comunicare e farsi capire, diverso da quello di
origine, s’intreccia con il tema dell’identità pluriculturale, traducibile proprio
in un discorso letterario, in un immaginario letterario. In riferimento a questo, ha scritto Mia Lecomte: «Nella
migranza è sempre insita una doppia
componente: al dolore del distacco si
accompagna spesso la scoperta delle
proprie reali potenzialità, e la prigione, reale o figurata, viene a coincidere
con il luogo di incontro con il proprio
io più profondo, a cui si deve la rinascita di un’energia artistica fino ad allora insospettata. [...] Da qui il problema della scelta della lingua, il desiderio combattuto di staccarsi da quella
madre, che è in fondo misura della lontananza. Per lo scrittore, il poeta migrante, la scelta di adottare la lingua
del paese di accoglienza è sempre sofferta, ma l’adozione della nuova lingua
permette di uscire dall’astrazione, diventa strumento di liberazione. » interessante, a questo proposito, l’intervento di Jean Jacques Marchand nella seconda parte del volume, dal titolo E se
il nuovo Planetario Italiano fosse un
dittico?, in cui prende in esame il rapporto tra le opere scritte dagli emigrati
italiani in tutto il mondo e le opere scritte da immigrati in Italia da tutto il mondo e arriva alla conclusione - che è poi
quella dello stesso Gnisci, già espressa
nel volume La Letteratura italiana della migrazione del 1998, pubblicato
presso Lilith («La Letteratura italiana
della migrazione inizia con le migrazioni di intere popolazioni di italiani
verso tutto il mondo alla ricerca di lavoro a partire dall’immediato periodo
post-unitario e trova il suo completamento nella letteratura scritta dagli
immigrati, venuti in Italia da tutto il
mondo in cerca di lavoro, a partire
dall’ultimo decennio del XX secolo»,
pag. 79) e ripresa nel Nuovo Planetario Italiano - che vanno tenute insieme
e studiate come un unicum letterario
complementare e inscindibile (pp. 463472).
Il fatto di cronaca di Villa Literno,
dunque, fa nascere in Italia la figura dei
migrant writers, anche se negli scrittori dell’ultima fase del Novecento, la
presa di coscienza dell’importanza storica e antropologica della migrazione,
mossa da disagio e miseria, è diventata
sempre più decisa e forte. Ricorda nel
Nuovo Planetario Italiano Gnisci:
«Salman Rushdie - in alcuni saggi raccolti in Imaginary homelands, Patrie
immaginarie, pubblicati in Italia per la
prima volta nel 1991 da Mondadori scrive l’emigrante è forse la figura centrale o qualificante del XX secolo» (pag.
14).
Il processo di immigrazione in Italia
non comincia certo nel 1989. Nel nostro paese - come osservano sociologi,
antropologi ed economisti - inizia negli
anni ’70 quando termina l’emigrazione
di massa degli italiani verso l’estero.
Sono anni in cui i numeri degli stranieri sono molto bassi e limitati solo ad
alcune aree del paese, quelle più produttive del Nord Ovest. Successivamente, il nostro sistema industriale si accorge di loro e avvia una lenta ma graduale fase di decentramento produttivo, spostando la sua ossatura dalla
grande industria alla piccola e media
impresa. Ed è in questo settore che
l’85% degli stranieri regolari italiani
trova collocazione con mansioni di operai e simili. Negli ultimi quindici anni,
la domanda di lavoratori immigrati ha
trovato risposta in specifici settori: 1)
la piccola e media impresa; 2) l’edilizia, i servizi turistici e alberghieri; 3) il
settore terziario (trasporti, pulizie, manutenzioni); 4) l’assistenza e collaborazione domestica. Ma il lavoro degli immigrati - sia stagionale che continuativo - spesso s’intreccia con fenomeni di
sfruttamento e di lavoro in nero, fuori
anche da regole contrattuali e legislative, legate purtroppo alla fase iniziale di
clandestinità, quella che soffre il ricatto materiale ed umano.
In questo panorama, s’inserisce
l’esordio letterario dei primi tre autori
che vogliono raccontare la loro storia,
con la collaborazione di alcuni giornalisti italiani per rendere più fruibile, dal
punto di vista della forma e della struttura linguistica, il contenuto rigorosamente autobiografico. Siamo nel 1990,
con due libri: Pap Khouma, Io venditore di elefanti , oggi ripubblicato da
Baldini e Castoldi Dalai (scritto in collaborazione con Oreste Pivetta) e Salah
Methnani, Immigrato, scritto con Mario Fortunato, oggi riedito da Bompiani.
Seguirà nel 1991 Chiamatemi AlÏ di
Mohamed Bouchane.
Questo è solo il quadro iniziale per capire bene come nasce questa letteratura in prosa e poesia che, dal 1990-1991
in poi, si sviluppa in maniera progressiva fino a raggiungere il canone letterario maturo di cui oggi si parla e che
in questo volume di Gnisci trova la giusta collocazione e spiegazione, non solo
StrumentiCres ● Agosto 2007
tura della migrazione in Germania di
Immacolata Amodeo, Margine al centro. L’internazionalizzazione della letteratura inglese contemporanea di
Luisa Carrer, Francofonia in esilio. In
Francia di Pierangela Di Lucchio e il già
citato E se il Nuovo Planetario Italiano fosse un dittico? di Jean Jacques
Marchand che funge da cornice - è importante perché inserisce il piano italiano letteratura-migrazione all’interno
di un orizzonte più ampio ed europeo,
per definire momenti comuni e tracciare possibili piste unitarie di sviluppo e
di approfondimento.
L’ottica unitaria che muove Gnisci
l’ha spinto ad inserire una terza (e
ampliabile) parte - Cinema, teatro e
musica, con interventi di Angela Gregorini, Ad occhi aperti. Visioni e ascolti del nuovo cinema documentario italiano; di Marie Josè Hoyet, Voci afroitaliane in scena. Per una prima rico-
NOVITÀ DEL CRES
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dal punto di vista critico, ma anche divulgativo perché Nuovo planetario Italiano, come recita giustamente la quarta di copertina, «si propone come punto di riferimento attento a tutto il mondo, per chi vuole saperne di più della
cultura italiana e creola».
L’approccio interculturale e ampio di
Gnisci e dei suoi coautori permette di
entrare nella complessità di forma e
contenuto di questi scrittori e mette
anche a nudo e compara molti aspetti
sociologici, culturali e antropologici del
nostro paese con quelli di altre importanti nazioni europee. Su questo punto
verte la seconda parte del volume, La
Letteratura della migrazione nell’Europa occidentale, che, pur con tempi,
storie e anche in parte contenuti differenti, tiene insieme la recente esperienza italiana con quella consolidata di
paesi come Francia, Inghilterra e Germania. Questa seconda parte - Lettera-
Perché l’Europa ha
conquistato il mondo?
Massimiliano Lepratti, EMI, Collana Crescendo, 2006
a cura di Elena La Rocca
Agile, schematico nel senso positivo del
termine, il lavoro si propone di rispondere ad alcune domande e di confutare alcuni luoghi comuni.
Come dice l’autore stesso “Questo testo
nasce dal desiderio di fornire uno strumento di analisi a chi si pone il dubbio
che l’attuale situazione di enorme squilibrio tra il Nord e il Sud del mondo non
sia né giusta, né naturale, né superabile
con le virtù del capitalismo” (p.7)
Troppo spesso, soprattutto ai “non addetti ai lavori” sembra che l’Europa abbia
conquistato il mondo per una qual sua intrinseca superiorità, per una specificità
irripetibile. In effetti l’intreccio delle circostanze e delle cause che hanno portato
alla situazione attuale è molto complesso, si tratta di “un insieme di circostanze
che hanno legato in modo biunivoco
l’espansione del vecchio continente alla
nascita del capitalismo e al suo evolversi
come sistema mondiale” (p.7)
Proprio quest’insieme di circostanze il
testo esamina in modo organico e ben
strutturato; prima di tutto divide il processo espansivo in tre fasi fondamentali:
StrumentiCres ● Agosto 2007
l’espansione iniziale dal 1415 al 1521 (affermazione dei Portoghesi in Africa, conquista del Messico e delle Filippine da
parte degli Spagnoli), una seconda fase di
consolidamento territoriale che prosegue
fino a metà del 1700 ed una terza fase di
colonizzazione capitalista. Fatta questa
distinzione analizza i vari fattori che si
sono intrecciati tra loro per cui colonialismo, rivoluzione industriale, capitalismo appaiono fenomeni collegati, che si
gnizione; di Sonia Sabelli, Vibrazioni
da altrove: un’inchiesta sulla musica
dei migranti in Italia - che serve proprio a sottolineare l’interculturalità di
questo planetario che tocca diverse forme espressive e diversi linguaggi in
cammino e in crescita. Tutti concorrono - nella loro molteplicità - a capire in
che direzione si sta muovendo il nostro
paese, a quale tradizione si lega e quali
strade nuove traccia, per continuare a
leggere e capire una realtà in continua
definizione e crescita, non più comprensibile in termini nazionali e unitari, ma solo dentro orizzonti planetari,
multiculturali e creoli. Basti, per capirci, l’affermazione di Geneviève Makaping, giornalista e docente di antropologia culturale e sociologia all’Università della Calabria, che si definisce semplicemente «donna, africana, camerunese, bamiléké, italiana, calabrese»
(pag. 215).
possono spiegare molto meglio guardando il sistema mondo, piuttosto che la sola
Europa.
L’analisi viene condotta alla luce di
quattro domande che costituiscono il filo
conduttore del saggio:
“1) Perché l’Europa ha bisogno di conquistare altri continenti?
2) Perché riesce nel suo intento?
3) Perché la sua espansione da congiunturale diviene strutturale?
4) Perché la democrazia moderna nasce in Occidente? “ (p.12)
Nel complesso il testo risponde in modo
coerente alle domande che si era proposto come obiettivo da raggiungere e traccia da seguire, ma soprattutto illustra
bene i legami tra i vari fenomeni che troppo spesso tendiamo a considerare indipendenti uno dall’altro. Per esempio il
testo analizza come la rivoluzione industriale ed il capitalismo siano stati favoriti da due processi internazionali:
1) l’arrivo nel vecchio continente di una
grande ricchezza carpita all’America
Latina (metalli e prodotti agricoli di lusso) e 2) la conquista del grandissimo
mercato dell’Oceano Indiano (p.33)
ed il ruolo che in questo processo ha
svolto suo malgrado l’Africa che “ha dovuto fornire la forza lavoro affinchè lo
sfruttamento delle miniere e delle piantagioni americane fosse possibile…”
(p.38)
Europa/America/Oceano Indiano/
Africa, come dicevo, il discorso si sforza
sempre di muoversi tenendo conto della
complessità del “sistema mondo” e volta
per volta dichiara chiaramente la tesi sostenuta. Nel caso specifico “La tesi che
viene qui presentata attribuisce alla
colonizzazione dell’America l’accelerazione nell’espansione degli elementi
protocapitalisti già presenti in Europa.”
(p.35) Questa caratteristica di esplicitare
la tesi accompagna tutto il libro, e mi sembra costituisca un elemento di chiarezza
per il lettore; fin dall’inizio infatti l’autore prende chiaramente posizione: “L’idea
39
miei bisogni di lusso” (p.39) “Mutando i
nomi dei colonizzatori, dei colonizzati e
dei prodotti in questione ….si ottiene un
modello per la lettura di quasi tutte le
vicende” (ibidem)
Dal colonialismo al neocolonialismo,
dal passato al presente il testo sfocia naturalmente nell’analisi della situazione
contemporanea, di cui offre un quadro
d’insieme chiaro e sintetico.
Più sfocato rimane il discorso sulla democrazia (parte quarta: perché la democrazia moderna nasce in Occidente?): dalla storia politico/economica si passa infatti alla storia della cultura ed il discorso
diventa troppo ampio, per essere chiari
“mette troppa carne al fuoco”. Per esempio propone una nuova periodizzazione
che si concretizza in un lungo medioevo
che andrebbe dall’età ellenistica alla scoperta dell’America. Una proposta di questo genere meriterebbe da sola un trattato che la illustri e giustifichi, poche righe
Il cinema per educare
all’intercultura
Marina Medi, EMI, Collana Crescendo, 2007
a cura di Rita Di Gregorio
A fronte della pervasività di una cultura mediatica, anche nella scuola italiana si è abbastanza diffuso, con esiti
non sempre condivisi, il dibattito/riflessione sull’uso del cinema nella didattica e sulle potenzialità e i limiti dello
strumento filmico per affrontare le varie educazioni trasversali/interdisciplinari inerenti a problematiche ritenute rilevanti in questo particolare momento per la formazione degli studenti.
Il filone ricorrente di Educazione all’informazione e ai media si pone trasversalmente tra l’educazione linguistica, all’immagine, interculturale e alcune discipline geo-storico-sociali e scientifiche.
Secondo l’autrice, il cinema costituisce uno strumento molto valido nel processo formativo, una importante opportunità didattica per lo studio dei problemi del nostro tempo e, in particolare, uno strumento privilegiato nell’Educazione all’informazione, ai media,
all’intercultura e alle altre Educazioni
trasversali, a condizione che si seguano le opportune cautele metodologiche.
“L’uso che si può fare del cinema nelle
scuole – scrive Medi – è molto vario e
in genere valido, purché soddisfi alla
condizione di essere inserito all’interno di una progettazione didattica.”
Il cinema, oltre che essere utilizzato
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dell’autore è dichiarata in ogni capitolo:
lo squilibrio tra il Nord e il Sud del mondo è il frutto di un processo storico in cui
l’Europa ha svolto un ruolo particolarissimo, ma non tanto perché recasse in sé
il segno di un grande progetto divino o
umano, quanto per un insieme di circostanze che hanno legato in modo biunivoco l’espansione del vecchio continente
alla nascita del capitalismo e al suo evolversi come sistema mondiale.” (p.7)
Forse una tale chiarezza esalta l’aspetto divulgativo del testo a scapito di quello
saggistico, ma rimane una caratteristica
positiva che rende il lavoro più facilmente fruibile.
Il discorso affronta poi un’analisi del
colonialismo e delle sue fasi, intrecciate
naturalmente con i fenomeni toccati in
precedenza e ne definisce l’ipotesi economica di fondo: “tu colonizzato produrrai
prioritariamente non ciò che serve ai tuoi
bisogni essenziali …ma ciò che serve ai
come strumento rispetto ad altri contenuti, può divenire esso stesso oggetto di riflessione o contenuto di percorsi
didattici di insegnamento/apprendimento del cinema; attraverso la pratica della riflessione collettiva, si può
esercitare il senso critico per sfuggire
alla massificazione che è in atto. Può
risultare un esercizio utile e fecondo
guidare gli studenti ad analizzare contenuti e linguaggi (immagini, musica,
…) che un film usa, il senso che produce, la comprensione del suo significato
manifesto o sotteso, la molteplicità delle
sue letture, il modo in cui ciascuno di
noi interagisce con il cinema e la consapevolezza che un film, una fiction, e
persino un documentario, non sono la
realtà, ma rappresentazione/interpre-
non bastano. Se invece tale periodizzazione è già stata proposta e giustificata
da altri bisognerebbe fare riferimento a
questi ultimi citandone i testi. In questa
sezione il tentativo di dare un quadro d’insieme che tenga conto del “sistema mondo” pur essendo lodevole ed interessante
rimane un po’ debole, anche perché finisce con lo spaziare dalla religione alla linguistica, dall’economia alla filosofia ed è
difficile controllare una materia così ampia.
Nonostante questi limiti il lavoro nel
complesso è interessante e fruibile anche
come strumento didattico sia per quanto
riguarda la situazione attuale, sia per
quanto riguarda le interrelazioni e le influenze reciproche, che giustamente ci ricordano come la civiltà europea non sia
fiorita nel nulla, oasi nel deserto, ma si
sia sviluppata nel contatto e nello scambio e purtroppo anche nello sfruttamento.
tazione della realtà. E’ comunque opportuno evitare la tentazione tecnicistica delle osservazioni dettagliate/
classificatorie per non smarrire il senso dell’unitarietà del film in quanto prodotto artistico.
L’educazione all’informazione e ai
media deve essere inserita nella progettazione curricolare verticale come un
filone ricorrente per finalità e temi che
dovranno essere diversificati e opportunamente adeguati all’età degli studenti.
Non si può infatti esaurire il compito
di riflettere sui diversi ambiti tematici,
proponendo, in modo occasionale e
sporadico, percorsi di insegnamento/
apprendimento che utilizzino un film o
parlino di pubblicità.
Così come avviene per l’apprendimento della lingua parlata e scritta,
anche per il linguaggio audiovisivoinformatico il lavoro didattico deve iniziare presto e proseguire in modo sistematico e graduale nell’arco temporale
del percorso scolastico. Nella scuola
primaria, oltre ai primi approcci con
l’informatica deve essere prevista una
riflessione su cinema e televisione come
momento di alfabetizzazione linguistica, ma anche audiovisiva.
Marina Medi ha al suo attivo una consolidata esperienza di corsi di formazione rivolti a insegnanti e studenti; è
formatrice CRES (Centro Ricerca Educazione allo Sviluppo) e fa parte di IRIS,
un’Associazione di insegnanti di storia
che da anni realizza ricerche didattiche
e proposte formative sulla storia con un
taglio interdisciplinare.
In questo testo propone piste metodologiche e nuclei tematici gravitanti
fra cinema, storia, intercultura, educazione alla cittadinanza; presenta percorsi didattici e formativi già sperimentati che possono servire da stimolo agli
insegnanti – di storia, lingue e letterature italiane e straniere, linguaggi non
StrumentiCres ● Agosto 2007
INDICE:
Leggere il mondo e i suoi problemi attraverso il cinema
L’educazione ai media: un progetto
indispensabile per una formazione democratica.
Proposte ed esperienze
Immagini delle guerre del Novecento nella cinematografia statunitense e
italiana. Un laboratorio di quattro incontri per le classi quinte dell’ITIS
Molinari di Milano.
Appendice
Insegnare con il cinema: considerazioni di una formatrice del CRES.
Intervista a una formatrice del COE.
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verbali - per realizzare percorsi di ricerca, in modo autonomo e adeguato alla
particolare situazione delle loro classi
e agli strumenti/energie disponibili.
Il testo propone alcune riflessioni
metodologiche didattiche per un uso
critico e fecondo dei media nello studio
dei principali problemi di attualità; presenta in modo piano e esauriente modalità e fasi d’intervento di percorsi
educativi; è articolato e complesso, così
come esige la molteplicità/trasversalità
delle tematiche affrontate, riuscendo
comunque a mantenere fluidità di linguaggio e rigore espositivo.
E’ corredato da un’ampia bibliografia
e da una sitografia.
Di particolare interesse e gradimento, almeno per chi scrive, risulta essere
il blocco centrale del libro: “Proposte
ed esperienze” che, oltre a piste di
lavoro e possibili percorsi, presenta una
nutrita selezione di film della produzione occidentale del Novecento relativi a
problematiche molto diverse, ma collegate alle migrazioni internazionali
(incontro/scontro con la diversità,
interculturalità, frontiere ecc…). Per
ogni film è presente una scheda, completa di sinossi, breve commento, piste
di lavoro, indicazioni tecniche e storico-contestuali; schede che, nel loro insieme, costituiscono quasi una mini storia del cinema occidentale del secolo
scorso.
CINEMA E TEATRO
Media e terrorismo
nei paesi arabi
a cura di Rita Di Gregorio
Il 17° Festival del cinema africano,
d’Asia e America Latina che si è tenuto
a Milano dal 19 al 25 marzo, ha dedicato quest’anno una sezione speciale, e
una tavola rotonda, alla rappresentazione del terrorismo sugli schermi arabi,
presentando non solo film ma anche
produzioni televisive come le “musalsalat”, che esprimono il punto di vista
di autori mediorientali e nordafricani
sulle tematiche connesse al terrorismo,
sulle conseguenze che questo fenomeno ha sulle società arabe, sulla relazione tra Islam e Occidente.
I nostri media ci hanno abituati a riflessioni sull’impatto che il terrorismo,
soprattutto a partire dall’11 settembre
2001, ha sulle nostre società, mentre
ignorano l’aspetto spesso destabilizzante che esso ha sui paesi del Nordafrica
e del Medio oriente.
Nel novembre 1996 lo stato del Qatar
lancia al Jazeera, prima rete televisiva
araba, il cui motto è “l’opinione e l’opinione contraria”. Ben presto acquista
una reputazione mondiale non scevra
da numerose polemiche. Accusata da
parte araba di essere filoamericana (soprattutto dopo l’11 settembre) perché
alcuni suoi programmi userebbero toni
non troppo indulgenti nei riguardi capi
di stato arabi, o perché darebbe troppa
visibilità alle opposizioni dei regimi in
carica, dalla stampa occidentale è accusata invece di essere portavoce di Bin
Laden e del terrorismo.
La nascita di al Jazeera – sostiene
Donatella Della Ratta1 - ha avuto ricadute straordinarie sul mondo arabo dell’informazione ed ha generato una spinta decisiva verso la creazione di un mercato televisivo regionale delle news. Per
capire al Jazeera occorre dunque vedere anche lo sfondo, il contesto in cui
opera la rete, le finalità che si prefigge.
L’errore che spesso viene fatto è quello
di vedere questa rete come un momento di rottura nella storia dei media arabi mentre – a suo parere – rappresenta
il momento di definitiva maturazione
del sistema mediale regionale. Sicuramente al Jazeera ha inaugurato un
modo nuovo di fare informazione “all’araba” in grado di competere su scenari internazionali, fatto straordinario
se si pensa che la televisione globale è
storicamente presidiata da network di
lingua inglese.
Sbaglia l’Occidente a concentrarsi
unicamente su Al Jazeera2 , che rappresenta solo una piccolissima fetta di una
torta televisiva ben più grande. Sono
infatti oltre 300 i canali televisivi del
mondo arabo con moltissimi programmi, tra cui le “musalsalat” che affrontano argomenti di attualità come il terrorismo. I prodotti di intrattenimento, le
fiction – racconta il regista siriano
Najdat Ismaïl Anzour – esercitano
un’influenza nella vita quotidiana delle
persone, nel modo di vestirsi, nel modo
di porsi, nella rottura di alcuni tabù.
Proprio per questo sono forse quelli che
danno più il polso della situazione, illustrano meglio quello che sta accadendo nei paesi arabi. Le tv più seguite, che
fanno i maggiori ascolti e che guadagnano anche più soldi in termini pubblicitari, sono due tv libanesi e una saudita
con base a Dubai.
Le “musalsalat” sono un importante
elemento della cultura popolare, che
non va snobbato e archiviato come cultura trash – sostiene Della Ratta -. E’
vero che sono un po’ manichee ma la
modalità narrativa della soap opera è
quella di costruire i personaggi in bian1
Donatella Della Ratta è una giornalista
che si occupa di media arabi, ha ricevuto il
premio Ilaria Alpi 2000 quale migliore autore televisivo under 30. Ha pubblicato Primo piano su Al Jazeera e Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio,
Bruno Mondatori 2005. Ha partecipato alla
Tavola rotonda del Festival.
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In occidente ci si concentra sui comunicati di bin Laden senza guardare l’insieme
del suo palinsesto
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co e nero, di contrapporre il bene al
male, questa non è una caratteristica
esclusiva del mondo arabo.
La “musalsalat” è un genere televisivo nato in Egitto agli albori della tv egiziana, fortemente voluto da Nasser che
aveva una sua strategia lungimirante.
La “musalsalat” è simile alla nostra soap
opera ma non del tutto uguale. Nelle
nostre, tipo Beautiful, la centralità è
dell’intreccio amoroso, della love story,
mentre le prime “musalsalat” nascono
anche con lo scopo di inserire la love
story in un tessuto narrativo in cui l’elemento sociale e storico fosse molto presente. C’erano quindi opere che parlavano di capolavori della letteratura araba come Le Mille e una notte oppure
parlavano della lotta al colonialismo, o
di eventi storici molto importanti.
Nasser finanziò queste opere proprio
per aiutare a costruire, attraverso la
fiction televisiva, l’identità egiziana.
Queste opere vennero in un primo momento distribuite gratuitamente poi a
pagamento a tutte le altre tv arabe.
Con la firma degli accordi di Camp
David con Israele da parte di Sadat avviene una svolta: l’Egitto viene cacciato dalla Lega araba e tutti i prodotti
egiziani sono boicottati. Grazie al petrolio, l’Arabia Saudita acquista centralità
economica e politica e poiché le musalsalat non potevano più uscire col
marchio egiziano cominciano ad essere prodotte dall’Arabia con le sue regole (spesso islamizzate per cui non potevano comparire nella stessa scena un
attore e un attrice che non fossero sposati) ma con mezzi egiziani. Così l’Arabia Saudita ha finito per snaturare il
cinema egiziano.
Oggi siamo in un’altra fase perché
l’Arabia Saudita non solo ha i capitali e
i mezzi di produzione ma ha anche i
mezzi di distribuzione per cui attualmente le tv più seguite sono di proprietà saudita o controllate da essa. La maggior parte delle cose che passano sugli
schermi dei paesi arabi sono quindi
controllate dall’Arabia Saudita e poiché
si sa che la tv non è un media neutro,
vedere le trasmissioni, soprattutto quelle trasmesse durante il Ramadan, vuol
dire capire quello che gli stati arabi vogliono. Inoltre va aggiunto che per contrastare al Jazeera, che dava fastidio al
regime saudita, è stata creata al Arabia, nella speranza di sottrarre spettatori interessati all’informazione su
Jazeera.
Bisogna però anche dire che l’Arabia
Saudita ha un atteggiamento ambivalente o contraddittorio, ha una strategia ambigua perché da un lato finanzia
(attraverso alcuni magnati, spesso vicino alla casa reale, soci di Murdoch e
Berlusconi) un gruppo di canali televisivi che producono videoclip molto
ammiccanti, molto sexy, assolutamente simili a quelli fatti in occidente, allo
stesso tempo finanzia canali di intrattenimento, che preparano prodotti si-
mili a quelli delle nostre tv come ad
esempio i reality show, ma nel paese
non ci sono sale cinematografiche.
Per capire l’ambiguità saudita va anche ricordato che negli anni ’90 nel paese erano proibite le parabole ma contemporaneamente l’Arabia possedeva
tre network che facevano televisione
satellitare.
Najdat Ismaïl Anzour, regista di due
serial televisivi3 racconta che dal 1995
al 2006 le “musalsalat” più seguite nel
mondo arabo sono state quelle siriane.
Dopo 40 anni di colonizzazione del dialetto egiziano4 le produzioni siriane erano riuscite a penetrare con successo in
altri paesi arabi compreso il Maghreb,
ora invece l’Arabia Saudita sta cercando di ostacolare la produzione siriana
proponendo contratti che obbligano gli
autori siriani a recitare nel dialetto egiziano. Ne è una prova quanto è capitato al regista stesso, che sta girando una
nuova “musalsalat” intitolata Il tetto
del mondo (una storia che tratta delle
vignette satiriche danesi) che si è visto
proporre da altri canali televisivi5 , come
condizione per il preacquisto, di cambiare l’identità del protagonista da siriano a egiziano. La strategia – sostiene Aznour - è quella di cancellare l’identità siriana.
La condanna del terrorismo, contrario ai valori dell’Islam, è netta così come
è netta la denuncia del pregiudizio occidentale che considera tutti i musulmani potenziali terroristi o affibbia l’etichetta di terroristi anche a gruppi di
resistenza armata. La protagonista della
“musalsalat” Al Mariqoun (Gli ipocriti) è Yasmine, una ragazza siriana cresciuta in Gran Bretagna che viene accusata ingiustamente per gli attentati di
Londra del 7 luglio 2005. Alla fine l’accusa cade ma intanto “gli ipocriti” hanno assassinato anche suo figlio in nome
di Allah.
Le “musalsalat” – dice Najdat Anzour
– si rivolgono non tanto a quelli che
hanno già fatto la loro scelta, ma agli
incerti, quelli che oscillano tra moderazione e integralismo, cercando di convincerli a ripudiare la violenza in nome
dell’Islam. Si è constatato che dopo
campagne mediatiche come le “musalsalat“, il numero degli atti terroristici
si è notevolmente ridotto, se si esclude
l’Iraq.
Dopo il successo della serie Al Hour
Al Ayn (Le vergini del paradiso), sull’attentato di Ryad del 2003 che ha causato la morte di 17 persone, il cast è stato
minacciato di morte. La fiction voleva
denunciare chi usa la fede per giustificare il terrorismo ma è stata accusata
di ridicolizzare la religione.
Non tutte le “musalsalat” sono dello
stesso livello qualitativo, quelle tunisine
– sostiene – Nouri Bouzid – sono di cattiva qualità. Il problema è che in Tunisia la tv è statale e non vuole che si affrontino certi argomenti, ma il pubblico tunisino apprezza molto le “musalsalat” siriane, anche se il dialetto è diverso si sforza di capirlo. Piacciono perché parlano dell’integralismo religioso
con maggiore libertà dei telegiornali,
controllati dai governi – sostiene Nouri
Bouzid regista tunisino di Making of,
film che ha vinto il Tanit d’oro alle Giornate cinematografiche di Cartagine nell’ottobre 2006, e ha ricevuto un importante riconoscimento anche al Festival
di Milano.
Capofila del nuovo cinema tunisino6
Nouri Bouzid con i suoi film si è battuto e si batte contro i tabù e il non detto
della società araba contemporanea.
Making of è la storia di Bahta, giovane
ventenne, che con i suoi amici improvvisa gare di danza nella strada. Sorpresi dalla polizia mentre riempiono di
graffiti un sottopasso, vengono rilasciati
grazie a un cugino poliziotto di Bahta.
Bocciato alla maturità, in lotta con il
3
di questo regista il Festival ha proposto
alcuni episodi di Al Hour Al Ayn e di Al
Mariqoun che attraverso storie normali di
famiglie mediorientali raccontano l’impatto devastante del terrorismo sulle loro vite.
4
un film o prodotto televisivo egiziano –
dice Mohamed Challouf moderatore della
Tavola rotonda – va in tutti i paesi arabi
mentre un film tunisino non esce dalla Tunisia perché il dialetto tunisino non è capito
dagli altri
5
che hanno dei rapporti con l’Arabia
Saudita
6
La forza del cinema di Bouzid – ha dichiarato Tahar Chikhaoui dell’Università di
Tunisi nel corso della Tavola rotonda tenutasi all’Accademia di Francia a Roma l’8
aprile 2006 – consiste nel suo saper essere
molto popolare, ancorato al sociale, nel suo
saper parlare la lingua del popolo senza rinunciare ad essere poetico, segnando una
svolta nel rapporto del cinema tunisino con
il suo pubblico. Un cinema sempre attento
al presente anche quando parla del passato,
un cinema che ha contribuito a una riconquista della propria immagine da parte del
cinema arabo, porta lo spettatore arabo a
guardarsi allo specchio.
StrumentiCres ● Agosto 2007
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padre, il giovane è insofferente e sogna
di partire. Tenta di rubare dei soldi al
nonno ma viene scoperto dal padre che
lo punisce. Sempre più deluso e insoddisfatto, caduta anche l’illusione di poter partire (lo scoppio della guerra in
Iraq rende le coste più sorvegliate)
Bahta viene avvicinato da due integralisti che si offrono di aiutarlo. Lo conducono da Abdou, un artigiano che
scolpisce le pietre tombali, che lo accoglie come apprendista e gli impone regole cui Bahta non è abituato.
Abdou sfrutta il bisogno di fierezza di
Bahta facendo l’apologia dell’Islam di
fronte alla decadenza dell’Occidente, gli
parla delle umiliazioni che i musulmani
devono subire quotidianamente. Bahta,
insofferente a ogni potere, si ribella ma
si ribella anche l’attore che lo impersona. E’ la prima delle tre interruzioni del
film.
La narrazione viene interrotta a tre
riprese per mettere in scena la rivolta
dell’attore principale contro il ruolo che
il regista vuol fargli interpretare, per
farci vedere ciò che accade dietro le
quinte (making of).
L’attore che chiede al regista dove lo
sta conducendo diventa specchio e portavoce dell’interrogativo che il regista
vuol condividere con lo spettatore. Il
regista appare preoccupato di non riuscire a raggiungere il suo scopo che non
è solo quello di denunciare ma di far capire che le radici di certi atteggiamenti
affondano nell’immaginario, nell’affettività.
Le interruzioni, lo scontro tra attore
e regista servono a far cogliere la difficoltà del regista ad affrontare l’argomento, la sua paura che il film possa
essere considerato antislamico, e anche
a far capire la necessità di dubitare, di
reagire a qualsiasi indottrinamento, da
qualunque parte provenga, dal potere,
dal padre, dagli integralisti.
Lo scopo di Bouzid non è solo quello
di denunciare ma di far capire che lottare contro il terrorismo vuol dire lottare contro l’ideologia che ne è alla base,
lottare per la libertà d’espressione e per
un atteggiamento laico, che tenga separati religione e politica.
In molte interviste Bouzid ha sottolineato che per lui l’Islam è sacro, che la
religione è qualcosa di intimo, che il discorso sulla religione è delicato, serio e
complesso, ma è necessario dire a chiare lettere che non si può fare politica in
nome della religione.
Nel film sembra che la madre e la ragazza di Bahta siano le sole a cercare di
arginare la deriva del ragazzo, che cercano di fermarlo, mentre i personaggi
maschili (il padre, la polizia) sono repressivi e lo preparano alle scelte successive.
Il pubblico tunisino sembra aver perfettamente capito le intenzioni del regista ed ha apprezzato il film di cui sono
circolate perfino copie pirata. Non sono
mancate critiche da parte di alcuni giornalisti tunisini, che lo hanno attaccato
sul piano tecnico non avendo il coraggio di criticare il tema di fondo. Il pubblico si è mostrato più maturo delle autorità che per 9 mesi hanno bloccato il
film – ha dichiarato Bouzid7 - se lo avessi sospettato mi sarei spinto oltre nel
discorso sulla laicità.
Come talvolta capita alle opere di
fiction anche Making of ha anticipato
la realtà. Infatti un mese dopo la proiezione del film sono stati arrestati alcuni individui responsabili di esplosioni
avvenute in centri nevralgici, così i
tunisini che si credevano al riparo dal
fenomeno integralista hanno scoperto
di non esserne immuni.
7
Intervista a Radio popolare di Milano.
SEGNALAZIONI BIBLIOGFRAFICHE E WEB
Aimé Césaire, Negro sono e negro
resterò. Conversazioni con Françoise
Vergès, Città Aperta, Troina (EN) 2006
Sollecitato dalle domande di F. Vergès, Césaire ripercorre il suo lungo
cammino di scrittore e intellettuale, un
percorso di continua resistenza all’ordine coloniale che ha influenzato intere generazioni di scrittori delle Antille
e dell’Africa.
Padre della Negritudine è rimasto un
testimone attento e partecipe della realtà contemporanea dando un grande
contributo al dibattito sull’intercultura,
così importante per il futuro delle nostre società. Césaire non ha mai smesso di analizzare che cosa significhi nascere e crescere in una terra creata dalla colonizzazione e continua a proporre una riflessione che interroghi la storia coloniale e promuova un dialogo fra
le civiltà.
Amnesty International (a cura di)
Educazione informale. Esperienze
dal Sud del mondo e settori d’intervento, 2007
StrumentiCres ● Agosto 2007
Le riflessioni e le esperienze presentate attraversano i quattro continenti
con l’obiettivo di trasformare le persone e le comunità, che spesso vivono in
contesti politicamente o socialmente
difficili, e di ri-orientarle verso la piena
tutela dei diritti umani e l’acquisizione
di capacità che favoriscano la loro applicazione nella vita quotidiana
Cristina Morra, Globalizzati, ma
liberi e sviluppati? Le ricadute della globalizzazione odierna sugli squilibri planetari nel campo dello sviluppo e dell’ambiente e le possibili soluzioni, Letizia Editore – Arezzo, 2006
In un libro agile sia per dimensioni
che per modi comunicativi è condensato un quadro lucido e concreto sulle
problematiche del mondo contemporaneo. Partendo dai presupposti storicoeconomici della globalizzazione, l’Autrice, presidente della sezione aretina dell’Associazione Italiana Insegnanti di
Geografia e autrice anche di testi scolastici, esamina gli aspetti socio-economici, politici e ambientali del mondo d’og-
gi per approdare al concetto di ‘globalizzazione sociale’ e auspicare l’indispensabile formarsi di una coscienza
planetaria.
Nell’appendice vengono poi presentati due percorsi modulari suddivisi in
unità didattiche, utilizzabili per la scuola superiore
Roma a tuttoMondo Guida al
mondo che vive in città
SINNOS editrice, Roma, 2007
Tre quartieri della
città (Esquilino, Castro Pretorio e Pigneto) raccontati dai
sei guide particolari;
un nigeriano, un indiano, una cinese, un
eritreo, una somala e
una senegalese accompagnano il lettore a scoprire o riscoprire questi storici
rioni con gli occhi di chi li ha prescelti
come meta e come nuova casa.
Percorsi fotografici accompagnati da
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Cuori migranti a cura di Ingrid
Stratti e Lorenzo Dugulin, Cacit Editore, Trieste, 2007
Il Coordinamento delle Associazioni
e delle Comunità degli Immigrati della
provincia di Trieste propone una nuova raccolta di racconti e poesie; venticinque autori migranti ed autoctoni si
confrontano sul tema dell’amore nel
tentativo di rimuovere i tabù e i pregiudizi che circondano le coppie miste. Invece di essere vissuto come un evento
naturale della vita, l’incontro dell’amore e della migrazione spesso provoca
sentimenti contrastanti e confusi.
Per ulteriori informazioni: [email protected]
Piero Scarduelli Per un’antropologia del XXI secolo Tribalismo urbano e consumo dell’esotico, Squilibri edizioni, 2005
Non è semplice per
l’antropologia elaborare strumenti teorici adeguati a comprendere l’attuale
processo di integrazione planetaria, caratterizzato da complessi flussi migratori, che alimentano
nelle metropoli occidentali lo sviluppo
di identità etniche chiuse, e da una
mercificazione culturale in due direzioni. I beni provenienti dall’Occidente
raggiungono i mercati dei paesi poveri
dove sono oggetto di una ricontestualizzazione culturale mentre, sotto
l’impatto di un turismo in cerca di
esotismo, le culture indigene sono convertite in oggetti di consumo estetico.
Queste dinamiche sono esemplificate
dall’autore attraverso l’analisi dei casi
della comunità cinese di Milano e dei
Toraja di Sulawesi (Indonesia).
Gabriella Ghermandi Regina di fiori e di perle, Donzelli, 2007
Il lungo viaggio nel tempo e nello spazio della scrittrice italo etiope, in cui
scorrono la vita e le vicissitudini di una
famiglia etiope nel periodo della dittatura di Mengistu Hailè Mariam, e nel
decennio successivo dell’emigrazione.
Un romanzo che percorre oltre cento
anni di storia, dal tempo di Menelik ai
giorni nostri. Una narrazione che, come
scrive Cristina Lombardi-Diop nella
postfazione, “non riguarda solo la dimensione del passato etiopico, ma è
anche un modo di interrogarsi sull’identità della memoria coloniale italiana”.
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box di approfondimento su storia, curiosità e tradizioni, attività vecchie e
nuove, arricchiti dalle indicazioni sugli
eventi culturali annuali, i mercati, i negozi e i luoghi di culto dei neo-abitanti
di Roma.
ALCUNI RAPPORTI
PER CONOSCERE MEGLIO
IL MONDO DI OGGI
UNDP Lo sviluppo umano rapporto 2006
L’acqua tra potere e povertà
Acqua sotto chiave: milioni di persone nel
mondo non hanno accesso a una fonte d’acqua
sicura non perché questa risorsa scarseggi, ma
perché sono intrappolate in una spirale di povertà, disuguaglianza e fallimenti delle politiche governative. Ecco il senso della copertina
dell’ultimo rapporto di UNDP. All’inizio del secondo millennio, ci troviamo a vivere in un
mondo caratterizzato da una prosperità senza
pari. Eppure, milioni di bambini muoiono ogni
giorno per la mancanza di un bicchiere d’acqua
pulita e di un gabinetto. Il rapporto documenta
la sistematica violazione del diritto all’acqua,
identifica le cause che sono alla base della crisi e propone un programma per intraprendere i necessari cambiamenti.
Alla parte monografica segue la consueta, ricchissima serie di tabelle e dati statistici
Il rapporto può essere scaricato integralmente all’indirizzo:
http://hdr.undp.org/hdr2006/report_it.cfm
UNICEF La condizione dell’infanzia nel mondo 2007
Donne e bambine: il doppio vantaggio
dell’uguaglianza di genere
Il Rapporto 2007 è dedicato alla vita delle donne nel mondo nella
convinzione che uguaglianza di genere e benessere dei bambini vanno di pari passo. Quando le donne vivono pienamente e attivamente
la loro vita, i bambini crescono bene ma quando una società nega
alle donne pari opportunità, sono i bambini i primi a soffrirne. Il
rapporto è corredato da tabelle statistiche su mortalità infantile, nutrizione, salute, istruzione.
http://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/
IDPagina/2880
CARITAS/MIGRANTES
Dossier Statistico sull’Immigrazione
ISMU
Dodicesimo Rapporto sulle migrazioni
Franco Angeli
Due pubblicazioni che si integrano a vicenda nel dare un quadro
molto articolato e documentato sul fenomeno migratorio. Il primo è
strutturato, come di consueto, in cinque parti (il contesto internazionale ed europeo; gli stranieri soggiornanti in Italia; l’inserimento socioculturale; il mondo del lavoro; i contesti regionali) cui seguono la
parte statistica, con dati regionali e provinciali messi a confronto e
commentati, e un inserto sui rifugiati curato dall’Unhcr. Novità di
questa edizione un capitolo sui nomadi e due ricerche (sulla
sindacalizzazione degli immigrati e sui mediatori culturali). La pubblicazione dell’ISMU è costituita da saggi tematici; di particolare interesse per noi quello relativo agli adolescenti di origine immigrata e
quello sul fenomeno delle baby gang straniere in Italia. Alcune parti
sono consultabili in rete agli indirizzi
http://www.caritasroma.it/Prima%20pagina/Dossier2006.asp
http://www.iwww.ismu.org/default.php?url=http%3A//www.
ismu.org/
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PASSAGGIO A SCUOLA
VERSO UN’INFANZIA LIBERA
Lo sfruttamento del lavoro infantile e adolescenziale rimane uno dei peggiori effetti delle ingiustizie globali; dalle periferie del Sud del mondo
alle periferie della nazione in cui viviamo arrivano
dati, storie e problematiche che interrogano profondamente i modelli di sviluppo.
Nel mondo 218 milioni di minori sono sfruttati, e in
Italia 360 – 400 mila persone fra i 7 e i 14 anni sono
coinvolte in forme di lavoro precoce: povertà delle
famiglie, mancato accesso all’istruzione (specialmente per le bambine), delocalizzazione di multinazionali ben poco attente ai diritti sono le cause principali di un problema che continua a compromettere il
futuro di intere generazioni.
La scuola è un luogo importantissimo nella lotta
contro lo sfruttamento minorile. L’accesso all’istruzione è il primo, importante passo nel cammino verso una vita più degna e per un progresso sociale
tangibile. Si calcola ad esempio che ogni anno di fre-
quenza scolastica, oltre il quarto della scuola primaria, rappresenti per una bambina del Sud del mondo un incremento del 10 - 20% dei suoi stipendi
futuri e un aumento significativo della sua speranza
di vita.
Mani Tese da molti anni lavora contro lo sfruttamento del lavoro minorile con campagne di pressione politica e progetti di cooperazione concreta, individuando nelle scuole del Sud e del Nord del mondo
un elemento di appoggio fondamentale.
A novembre e dicembre 2007, in occasione dell’anniversario della Convenzione sui diritti dell’infanzia, Mani Tese proporrà alle scuole italiane il
coinvolgimento in una Campagna nazionale che
affronti lo sfruttamento minorile nelle sue cause profonde; la campagna sarà principalmente rivolta alle
scuole primarie e secondarie di primo grado e
prevederà un evento interattivo di sensibilizzazione
rivolto anche ai genitori di studentesse e studenti.
ANCHE LA VOSTRA SCUOLA PUÒ PARTECIPARE ALLA CAMPAGNA!
Se siete interessati, contattate il CRES di Mani Tese attraverso
Massimiliano Lepratti: 024075165, [email protected].
In Cambogia per i diritti dell’infanzia
S
ihanoukville è una delle più famose stazioni balneari
cambogiane, che ogni anno attrae molti turisti. Accanto alle
zone loro riservate, però, c’è il dramma di chi vive in estrema
povertà. In particolare l’infanzia è gravemente colpita dal degrado sociale ed economico, che colpisce l’intero Paese. Spesso i bambini vivono per strada, sopravvivono grazie all’accattonaggio e non hanno la possibilità di andare a scuola.
Mani Tese, sostenendo l’azione del suo partner locale M’ Lop
Tapang (un’organizzazione non governativa cambogiana il cui
nome significa “Sotto l’ombra protettiva dell’albero di Tapang”),
sta realizzando un progetto di cooperazione con l’obiettivo
del recupero dei bambini di strada di Sihanoukville, attraverso
attività volte a fornire loro un’istruzione e la crescita della propria autostima con il coinvolgimento attivo dell’intera comunità.
Nel progetto sono previsti programmi educativi in grado di
adattarsi alle necessità dei bambini e dei ragazzi di strada:
non per tutti è infatti possibile frequentare da subito la scuola, per cui vengono promossi anche l’istruzione informale e
corsi di recupero.
Il programma di reinserimento scolastico nelle scuole statali è pensato per i bambini la cui principale difficoltà nel frequentare è puramente economica; il sostegno consiste nella
fornitura del materiale necessario e in lezioni di supporto.
Inoltre tutti i bambini potranno frequentare presso il centro
permanente diurno corsi di recitazione, danza, musica, disegno, inglese e varie discipline sportive, mentre le attività artistiche e ricreative svolte in strada permetteranno di raggiungere anche chi non frequenta altri programmi educativi.
Affinché l’intervento sia sostenibile nel tempo e contribuisca allo sradicamento del problema, risulta necessario
sensibilizzare l’intera comunità sui diritti e sui bisogni di questi bambini. Per il raggiungimento di questo obiettivo M’ Lop
Tapang ha in programma varie attività: un programma
StrumentiCres ● Agosto 2007
radiofonico bisettimanale, la produzione di video e di libri educativi scritti e recitati dai bambini, l’organizzazione di 10 spettacoli nella comunità su ambiente, Hiv, diritti dei bambini, igiene
(i bambini scriveranno le storie e le reciteranno al mercato,
sulle spiagge e negli slum), azioni di sensibilizzazione nelle scuole e nelle università, l’organizzazione di 6 incontri con la comunità, la sensibilizzazione dei guidatori di mototaxi e degli operatori turistici per proteggere i bambini dallo sfruttamento
sessuale.
Inoltre i giovani volontari che cureranno le attività ricreative svolgeranno anche una fondamentale attività di educazione dei turisti e di protezione dei bambini più piccoli che sulla
spiaggia elemosinano e raccolgono lattine.
Per sostenere il progetto: ccp 291278, intestato a
Mani Tese, p.le Gambara 7/9, 20146 Milano, causale
“progetto n. 2130 - Cambogia”
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QUADERNI DIDATTICI
Nuova collana CRESCENDO CRES - EMI
1) Arcipelago Mangrovia Narrativa caraibica e intercultura
– Rita Di Gregorio, Anna Di Sapio e Camilla Martinenghi – pagg
256 - euro 12,00
Il quaderno cerca di fornire una panoramica della narrativa caraibica
insulare dell’ultimo secolo per favorire il superamento di stereotipi e
offrire chiavi di lettura e spunti di riflessione per l’educazione alla differenza. Le schede di presentazione degli autori e delle opere sono suddivise per aree linguistiche. Ipotesi di percorsi didattici. e strumenti utili
per gli stessi, completano il testo.
2) All’incrocio dei sentieri I racconti dell’incontro – Kossi
Komla-Ebri – pagg.192 - euro 10,00
I racconti di Kossi Komla-Ebri, ambientati in Africa, in Francia e in
Italia, attingendo al vissuto quotidiano, parlano di amore, di viaggi, di
nostalgia, di fierezza e di dignità e smascherano gli stereotipi con lo
strumento dell’ironia. I temi dei racconti sono approfonditi dall’autore
stesso nelle interviste e nei documenti della seconda parte, completata
da un apparato didattico per un’educazione interculturale.
3) Cittadini under 18 I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza - Daniela Invernizzi - pagg.213 - euro 11,00
Il testo presenta un approccio globale alle problematiche dell’infanzia
e dell’adolescenza e, dopo aver descritto lo scenario culturale generale,
propone esperienze di processi partecipativi locali e globali e suggerisce
stimoli educativi per lo sviluppo di attività di ricerca e di sperimentazione
centrate sulla tutela e la promozione dei diritti delle giovani generazioni.
4) “La tela del ragno” Educare allo sviluppo attraverso
la partecipazione – Michele Dotti, Giuliana Fornaro,
Massimiliano Lepratti – pagg.238 – 2005 - euro 13,00
Questo Manuale pratico-teorico, frutto dell’esperienza sul campo degli animatori e delle animatrici del CRES di Mani Tese, analizza e
decostruisce gli stereotipi più diffusi riguardo alla povertà mondiale e
illustra tecniche di partecipazionee di coinvolgimento attivo utili per accompagnare i ragazzi verso la conoscenza e la comprensione critica delle problematiche attuali.
5) “Terra è libertà” La questione agraria in America
Latina – Luca Martinelli, Annalisa Messina – pagg.144 – 2005
- euro 9,00
Terrà è il punto di partenza per riflettere sui concetti di latifondo,
riforma agraria, migrazione, libero commercio, diversità biologica, risorse naturali, diritti dei popoli indigeni, movimenti sociali, assumendo un
punto di vista interdisciplinare che spazia dall’ambito sociale a quello
politico, economico, culturale.
6. Uno, nessuno, centomila (ir)responsabili. Itinerari
didattici di educazione alla cittadinanza – Michele Crudo –
pagg.160 – euro 12 - 2006
L’Educazione alla cittadinanza, anche in rapporto ai controversi modelli sociali che la nostra società propone, può diventare una pratica
didattica per aiutare lo studente a capire l’universo degli adulti, a mediare tra gli opposti e arrivare ad un proprio punto di vista in un’ottica di
mondialità. Alcune esplorazioni didattiche realizzate attraverso l’uso sistematico dello strumento filmico completano il testo.
7) Ri/conoscersi leggendo Viaggio nelle letterature del mondo. a cura di Rosa Caizzi - pagg. 256 - 2006 - euro 13,00 - NOVITÀ
Un viaggio attraverso le letterature araba, nigeriana, sudafricana, indiana, afroamericana, cinese e la recente letteratura della migrazione
può aiutare ragazzi e ragazze del Nord a stimolare la curiosità nei confronti della diversità, a combattere gli stereotipi sulle altre culture, a
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LE NOSTRE
PUBBLICAZIONI
indagare la contemporaneità di altri paesi, a guardare con occhi nuovi
la loro realtà, a relativizzare il proprio punto di vista.
TÀ
8) Perché l’Europa ha conquistato il mondo?
NOVI
- Massimiliano Lepratti – pagg. 124 -2006 – euro 10
L’Europa non ha conquistato il mondo per investitura divina, né in
quanto civiltà superiore. Il capitalismo del Nord del mondo affonda le
radici nello sfruttamento economico e nei contributi di pensiero e tecnico-scientifici di aree lontane. Il testo indaga la storia della costruzione
di un sistema di squilibrio internazionale che non esisteva fino ad alcuni
secoli fa, attraverso un approccio che integra i livelli politico, economico
e culturale. I capitoli sono corredati da carte storiche e da un’appendice
didattica.
9) Il cinema per educare all’intercultura
TÀ
NOVI
- Marina Medi – 2007 – euro 10
E’ importante che l’educazione all’informazione e ai media trovi spazio in modo organico nella programmazione curricolare diventando strumento di cittadinanza e di comunicazione interculturale.
Il testo suggerisce una serie di riflessioni metodologiche per un uso
critico dei media, che parta da alcune cautele indispensabili quando si
propone agli studenti un lavoro che utilizzi il cinema, e presenta piste di
lavoro da realizzare nelle scuole e percorsi didattici già sperimentati
che possono servire da stimolo.
Collana CRESCENDO CRES - Ed. Lavoro
1) Le migrazioni a cura di D. Barra e W. Beretta Podini - pagg.158 –
1995 - euro 6,20
2) Percorsi interculturali e modelli di riferimento Michele Crudo
- pagg.53 – 1995 - euro 5,16
3) Educare al cambiamento M. Santerini, P. Scarduelli, P. Inghilleri,
D. Demetrio, G. Favaro, M. Crudo - pagg. 76 – 1995 - euro 5,16
4) Mediterraneo: il mare della complessità L. Alberti, G. Carlini,
A. Brusa, M. Gusso, C. Grazioli, D. Barra, M. Bocca, M. Crudo, M.
Peghetti - pagg. 114 – 1996 - euro 6,20
5) La conoscenza dell’altro tra paura e desiderio Michele Crudo pagg. 73- 1996 - euro 5,16
6) Lo straniero L. Grossi, R. Rossi - pagg. 158 – 1997 - euro 7,75
7) Letterature d’Africa. percorsi di lettura L. Bottegal, R. Di
Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi pagg. 87 – 1998 - euro 6,20
8) Penelope è partita Michele Crudo - pagg. 92 – 1998 - euro 6,71
9) Portare il mondo a scuola a cura di ONG Lombarde, IRRSAE
Lombardia, Provveditorato agli Studi di Milano - pagg. 220 – 1999
- euro 12,91
10) La gatta di maggio Rabia Abdessemed - pagg. 214 – 2001 - euro
12,91
11) La sfida della complessità Marina Medi - pagg. 144 – 2003 euro 8,00
Noci di cola, vino di palma. Letteratura dell’Africa subsahariana
L. Bottegal, R. Di Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi - pagg. 484 –
1997 - euro 23,24
La letteratura come strumento di conoscenza e di incontro tra culture per superare una visione stereotipata dell’Africa e arrivare a percepirne tutta la complessità.
OFFERTE SPECIALI (ispese di spedizione incluse)
● L’INTERA COLLANA (11 Quaderni + il volume Noci di cola, vino di
palma) 30 EURO
● 5 VOLUMI A SCELTA A 20 EURO
● Pacchetti TEMATICI: 3 QUADERNI A 10 EURO
a. Letteratura per conoscere le altre culture (Quaderni 6 – 7 – 10);
15 euro con il volume Noci di cola, vino di palma
b. Diversità e relazione con l’altro (Quaderni 3 – 5 – 8)
c. Educazione allo sviluppo e all’intercultura (Quaderni 2 – 9 – 11)
● Migrazioni (Quaderno 1 + cdrom Un Pianeta in movimento) 5 EURO
StrumentiCres ● Agosto 2007
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TESTI SCOLASTICI
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Fame e squilibri internazionali.
Introduzione alle problematiche dei rapporti Nord/Sud
Wilma Beretta Podini - pagg.160. euro 7,40 (edizione completamente rivista e aggiornata) 2003
Un approccio interdisciplinare al complesso tema dei rapporti Nord/Sud. Corredano il testo carte tematiche, grafici, dati
statistici, esercizi e un glossario.
Foreste tropicali. Quale futuro? D. Calati Boccazzi - pagg.
166. euro 7,15, 1992
Brasile. La terra degli altri D. Calati Boccazzi - pagg. 112+32.
euro 9,00, 1990
Rifiuti ieri Risorse domani Pietro Danise, Consolato Danise
- pagg. 110. euro 7,95, 1997
* incluse le spese di spedizione.
AUDIOVISIVI
Un pianeta in movimento nuova edizione - euro 10 (gratuito per le scuole su richiesta scritta)
Il cdrom, articolato in otto sezioni tematiche, si struttura attorno all’idea di un viaggio nella realtà migratoria, che consenta di contrastare luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi attraverso l’analisi della dimensione spaziale e temporale di questo
fenomeno.
E na wa gon Percorsi di sviluppo di Mani Tese in Benin DVD Mani Tese euro 10
Il DVD dà spazio alla vivacità della società civile beninese, alle
tante iniziative per contrastare le difficoltà e al sostegno offerto da Mani Tese. Approfondimenti su acqua, microcredito e lavoro infantile.
Tembè e Coloni La nostra casa è l’Amazzonia ‘ VHS 30’ Mani
Tese euro 10
MATERIALI SUL LAVORO INFANTILE
Gli indigeni Tembè e i coloni cercano di vivere in armonia con la
foresta amazzonica nel Nordest del Brasile. In questo contesto
Mani Tese sostiene l’azione dell’Associazione Lamparina per un
nuovo modello di sviluppo agro-ecologico.
LAVORARE PER PROGETTI LAVORARE SUI PROGETTI
1 “Burkina Faso e Benin” - euro 8 (gratuito per le scuole su
richiesta scritta)
Un ipertesto per conoscere il contesto, focalizzare il concetto di
sviluppo, analizzare l’attività di Mani Tese nella regione utilizzando la metodologia della “didattica per progetti”.
2 “Brasile” - euro 8 (gratuito per le scuole su richiesta scritta)
Un ipertesto per conoscere la vivacità culturale di questo Paese
Emergente, comprendere le cause delle sue stridenti contraddizioni, condividere l’impegno dei gruppi più attivi e di Mani Tese
al loro fianco per un futuro più giusto.
RIVISTA
Strumenticres
MATERIALI SUL LAVORO MINORILE
YATRA – In marcia per i diritti dei bambini Kit didattico
Mani Tese-CRES – Gratuito.
Il kit è articolato in 5 fascicoli (Bambini e bambine lavoratori
raccontano, Il lavoro minorile sulla stampa, Bambine e bambini al lavoro in Italia, Globalizzazione e lavoro minorile, Cambiare è possibile) autonomi ma ricchi di rimandi incrociati. Ciascun fascicolo contiene materiali di lavoro e suggerimenti didattici. Il kit è arricchito da una bibliografia ragionata, dal dossier Dallo sfruttamento all’istruzione e dalla rassegna
stampa La violazione dei
diritti dei bambini.
YATRA Dallo sfruttamento all’istruzione VHS 30’
Mani Tese euro 8
Il nuovo video contro lo sfruttamento del lavoro minorile
presenta la drammatica situazione dei bambini in Benin, Brasile, India e Romania ma anche
alcune proposte concrete per
contrastare il fenomeno: i progetti di sviluppo di Mani Tese e la
Global March.
Mostra fotografica in 8 pannelli 70 x 100 – euro 5
ALTRI MATERIALI
“I colori del mais”, Società, economia e risorse
TÀ
in Centroamerica, di Luca Martinelli,
N OVI
pagg.176, EMI, 2007, Euro 10
La terra delle donne e degli uomini di mais, che prova a rinascere
dalle macerie degli anni Ottanta e Novanta, dalla guerra dei contras e
dei marines e dal genocidio dei popoli indigeni, fa il conto con le sfide
della globalizzazione.
La ricchezza dei popoli del Centroamerica attraverso un lungo impegno sul territorio da parte dell’Autore e con il contributo del Centro di
ricerche economiche e politiche di azione comunitaria (Ciepac), partner
di Mani Tese.
“Tikki e l’onda” pagg. 12 – 2005. Offerta minina di euro 3,50
Questa delicata fiaba illustrata racconta come la catastrofe avrebbe
potuto essere meno distruttiva se si fosse mantenuto il contatto
con la natura e mostra quanto è stato fatto da Mani Tese a fianco
delle comunità indiane.
“Cittadini di nuove geografie: percorsi di volontariato
lungo l’asse Nord Sud” – pagg. 127 – 2006 – EMI - euro 10
Cittadini di nuove geografie mette al centro il mondo del
volontariato lungo un asse che pone in relazione un Nord e un
Sud del mondo finalmente sullo stesso piano. Ne esce una radiografia dell’homo planetarius, specie attenta e curiosa, che sa dialogare con la storia e la geografia, sa relazionarsi con altre culture, altre economie, altre politiche e sa rispondere alle sfide globali del nostro tempo con un senso di cittadinanza che travalica i
confini nazionali.
Quota annuale minima di 10 e per ricevere tre numeri
Per richiedere le pubblicazioni: utilizzare il C/C postale n. 291278 intestato a Mani Tese, Piazzale Gambara
7/9, 20146 Milano. Scrivere in stampatello il proprio nome e indirizzo. Nella causale indicare il titolo della
pubblicazione che si desidera. Aggiungere e 3 per spese postali.
Il ricavato servirà a sostenere finanziariamente le attività di Mani Tese in ambito educativo.
StrumentiCres ● Agosto 2007
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