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Martin Jevnikar
AUTORI SLOVENI IN ITALIA
a cura di Neva Zaghet
Editore: Associazione Temporanea di Scopo
Jezik – Lingua
Testi e redazione: Neva Zaghet
Progetto grafico: Enrico Halupca - Trieste
Stampa: Grafica Goriziana
Edizione e tiratura: 500 copie
Trieste, 2014
ISBN 978-88-7342-218-1
Za vsebino publikacije odgovarja izključno
Ats - Czz JEZIK – LINGUA.
Martin Jevnikar
AUTORI SLOVENI IN ITALIA
izbrala in uredila Neva Zaghet
Založnik: Ciljno začasno združenje
Jezik – Lingua
Izbrala in uredila: Neva Zaghet
Oblikovanje: Enrico Halupca - Trst
Tisk: Grafica Goriziana
Izdaja in naklada: 500 izvodov
Trst, 2014
ISBN 978-88-7342-218-1
Martin Jevnikar
Autori sloveni
in Italia
a cura di Neva Zaghet
Introduzione
di Neva Zaghet
uesto libro sugli autori sloveni in Italia trae lo spunto dalla pubbliQ
cazione Slovenski avtorji v Italiji, curato da Marija Cenda e pubblicato nel 2013 nell’ambito del progetto “Jezik-Lingua” - Plurilinguismo
quale ricchezza e valore dell’area transfrontaliera italo-slovena.
Il saggio in questione presentava una parte dei contributi critici di Martin Jevnikar (1913-2004), eminente figura di saggista e storico della letteratura nonché docente universitario a Padova e a Udine. La sua attività
copre un arco di ben sette decenni, durante i quali il critico si è occupato
degli autori tanto in Slovenia quanto nelle diverse comunità slovene limitrofe (in Italia e in Austria) o della diaspora economica e politica (Argen­
tina, Stati Uniti, Canada, Australia). Ne è nata una messe notevolissima di
contributi critici e recensioni, pubblicati su riviste, in testi autonomi op­
pure trasmessi per radio, che attende di essere ulteriormente approfondita
(si vedano a riguardo gli Atti del Convegno su Martin Jevnikar organizza­
to dallo Slavistično društvo – la Società slavistica di Trieste-Gorizia-Udine
nel 2013, ed. Mladika, Trieste).
Nel testo citato, Marija Cenda ha raccolto una buona parte degli scrit­
ti di Jevnikar sugli autori sloveni in Italia, soprattutto le recensioni dei lo­
ro testi, fra i quali ci sono molte opere prime di poeti e scrittori che si
sono in seguito imposti all’attenzione del pubblico e della critica. Jevnikar
ha preso in esame un numero notevole di autori sloveni e, seguendo il fi­
lo della sua trattazione, si vuole offrire anche al lettore italiano la possi­bilità
di avvicinarsi alla letteratura slovena in Italia e di approfondirne i vari
aspetti.
L’impianto del testo in italiano è comunque alquanto diverso da quello sloveno: le singole recensioni sono state, infatti, ridotte e inserite nel
contesto di una presentazione più ampia degli autori, scelti fra quelli mag­
giormente rappresentativi della produzione letteraria in sloveno e suddi­v isi
in ordine cronologico: è stata comunque rispettata la scelta di Marija Cenda di presentare gli autori su base territoriale (del Triestino, del Goriziano,
della Benecìa).
In quale misura la provenienza degli autori influisca sulla loro produzione è riportato nelle singole presentazioni ed è trattato anche in varie
monografie dedicate all’argomento.
Le citazioni presenti nel testo, se non indicato diversamente, sono sem­
pre di Jevnikar.
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Per aiutare il lettore ad orientarsi fra le varie riviste, i quotidiani e i riconoscimenti menzionati nel libro sono state aggiunte delle brevi annotazioni esplicative: lo stesso è stato fatto anche con gli eventi storico-politici ricordati nel testo principale e che hanno interessato l’attività dei singoli autori o la loro ricezione nel contesto storico-culturale sloveno.
Di ogni autore viene riportata la bibliografia essenziale che comprende
tanto gli scritti in sloveno quanto le traduzioni in italiano o in altre lin­gue.
Nel libro sono menzionati, oltre a Jevnikar, anche altri saggisti e storici della letteratura slovena: l’intento è, infatti, quello di riportare un numero maggiore di contributi critici sui singoli autori e di presentare, co­sì,
al lettore i diversi punti di vista sulla loro opera. Nei vari capitoli, a lato,
sono riportate, perciò, anche le note fondamentali sui saggisti men­zionati
nel testo principale: anche in questo caso viene riportata la loro bibliografia essenziale in sloveno e in italiano.
L’impianto di Autori sloveni in Italia è, dunque, quello di un testo quasi didattico: sono riportati dapprima i dati essenziali sugli autori, sulle loro pubblicazioni e gli eventuali riconoscimenti; segue poi l’analisi della
loro evoluzione di contenuto e di stile. I contributi critici sono tratti da
Jevnikar e da altri saggisti per presentare una pluralità di riflessioni, mentre i dati bibliografici sulle traduzioni possono risultare utili per approfondire autonomamente la conoscenza degli autori e delle loro opere.
Si tratta, in sostanza, di un testo che si può leggere a vari livelli: c’è la
parte essenziale, documentaristica, e quella sull’evoluzione di un autore,
ma vi si possono trovare anche spunti di natura storica (ad es. sulla Benecia e la Val Resia, oppure sulla questione dell’uso dello sloveno nei secoli).
La bibliografia, inoltre, risulta interessante anche per motivi storicoartistici: la parte grafica di alcuni testi è stata, infatti, curata da illustri
esponenti della scena artistica slovena, molti dei quali ricordati anche fra
i collaboratori delle riviste per ragazzi Pastirček e Galeb.
Mi auguro, dunque, che il libro Autori sloveni in Italia stimoli la curiosità
del lettore e lo invogli ad approfondire ulteriormente questo argomento.
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Neva Zaghet
Martin Jevnikar
di Marija Cenda
1
M
artin Jevnikar nacque il
1°maggio 1913 a Spodnje
Brezovo presso Višnja Gora (Carniola Inferiore). Dopo aver concluso le elementari e le medie nel
luogo natio, frequentò il liceo classico di Šentvid, a Lubiana, dove
ebbe come insegnante il prof. Anton Breznik, che lo indirizzò verso
lo studio della letteratura e della
linguistica. Dopo la maturità, nel
1934, Jevnikar si iscrisse alla Facoltà di slavistica dell’Ateneo di Lubiana manifestando un particolare interesse per la storia letteraria. Argomento della sua tesi­, su consiglio del
prof. France Kidrič, fu lo scrittore tedesco Christoph von Schmid, autore
di opere per ragazzi, e la sua influenza sulla narrativa slovena: dopo la laurea, nel 1939, la tesi venne pubblicata dalla rivista specializzata Slovenski
jezik (La lingua slovena). Nei cinque anni successivi Jevnikar pubblicò
vari saggi sullo sviluppo della narrativa slovena nel 19° secolo. In un’intervista dichiarò: “Gli esordi mi hanno sempre affascinato perché sono i momenti più difficili.” (“A colloquio con Martin Jevnikar”, Dom in svet 1997, ripreso dalla rivista Mladika nel 1998).
Nel periodo 1940–1943 Jevnikar insegnò al liceo scientifico di Bežigrad,
a Lubiana, e in seguito, fino al 1945, al liceo classico. Dopo la guerra decise di emigrare. Trovò lavoro presso il liceo dei rifugiati di Monigo, nelle
vicinanze di Treviso, dove fu segretario e docente di lingua slovena. Per
quasi quarant’anni (fino al 1980) ricoprì il ruolo di docente di letteratura
slovena e di storia presso l’Istituto commerciale sloveno Žiga Zois di Trieste (in seguito ITC Žiga Zois).
Nel dopoguerra Jevnikar fece parte del gruppo di lavoro incaricato di
riorganizzare la rete educativa slovena nel Triestino: in quel periodo, infatti, a cura del Governo militare alleato, vennero riaperte le scuole elementari slovene (soppresse nel periodo fascista, N.d.T.) e vennero istitute
1 Traduzione di Neva Zaghet (adattamento sintetico della nota biografica pubblicata in Slovenski
avtorji v Italiji, 2013.)
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le scuole medie. Il compito di questo gruppo fu tutt’altro che facile. Da
docente di sloveno, il prof. Jevnikar si rendeva conto delle difficoltà linguistiche di molti studenti e comprese che la situazione richiedeva un approccio diverso e, soprattutto, dei libri di studio adatti. Collaborò pertanto alla stesura di molti testi per l’insegnamento della lingua e della letteratura slovena, nonché di libri di supporto alla didattica (da ricordare almeno i quattro fascicoli sulle principali opere letterarie slovene e sugli
errori grammaticali più frequenti nel Litorale).
Per cinque anni, dal 1949 al 1954, Jevnikar fu preside della Scuola media inferiore di San Giacomo a Trieste (oggi intitolata a Ivan Cankar): vi
cominciò a curare la rivista studentesca Literarne vaje (Gli esercizi letterari), alla quale collaborarono anche studenti di altre scuole; fra di loro molti futuri scrittori e poeti del Triestino e, in seguito, anche del Goriziano.
Nel frattempo, Jevnikar proseguì nell’attività di ricerca e di studio della letteratura slovena: i suoi saggi vennero pubblicati in riviste culturali
locali e dell’emigrazione slovena, in seguito anche in Slovenia. Nel 1961,
a Roma, gli venne riconosciuta la laurea conseguita a Lubiana e, nel decennio 1963-’75, Jevnikar potè ricoprire la docenza di Lingua e letteratura
slovena all’Università di Padova. Qui venne pubblicato il suo libro “Veronica di Desenice nella letteratura slovena”. Dal 1972 insegnò Lingua e letteratura slovena presso la Facoltà di lingue e letterature straniere dell’Università di Udine, dove rimase fino al pensionamento (nel 1975, Jevnikar
ricoprì, inoltre, la carica di docente di Lingua e letteratura serbo-croata
presso lo stesso Ateneo). Per alcuni anni Jevnikar diresse anche l’Istituto
di Filologia slava. Così viene ricordato dalla collega Lojzka Bratuž: “Il periodo udinese di Jevnikar fu lungo e con un numero notevole di studenti, fra i
quali molti del Triestino e del Goriziano, nonché di Udine e della Benecìa. Il
prof. Jevnikar si adoperò per far conoscere soprattutto l’attività letteraria e la
lingua degli Sloveni in Italia. Inoltre, favorì la ricerca e lo studio delle personalità meno note o addirittura dimenticate del nostro passato.” (Lojzka Bratuž,
“Iz primorske kulturne dediščine”, Gorizia, 2008, pag. 113).
Martin Jevnikar non trascurò mai l’attività di critico letterario, di mediatore culturale e di traduttore, nonché di annotatore di dati storici e
biografici. La sua attenzione si focalizzò sull’attività letteraria degli Sloveni
in Italia e nelle varie comunità slovene sparse nel mondo, che venne messa in risalto grazie ai suoi contributi per la radio oppure su varie riviste.
Fu particolarmente attento agli autori ignorati dalla critica ufficiale in Slovenia e i suoi giudizi tenevano sempre conto del contesto delle opere prese in esame. Rilevante fu anche la sua collaborazione con la rivista slovena
Meddobje, in Argentina, per la quale seguì l’attività letteraria in Slovenia.
I contributi radiofonici di Jevnikar comprendono un numero notevole
di testi linguistici e letterari, fra i quali molte drammatizzazioni di testi
sloveni e traduzioni di drammi italiani.
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Fin dall’inizio, Jevnikar fu anche tra i collaboratori del Primorski slovenski biografski leksikon (Enciclopedia biografica slovena del Litorale) della quale divenne il curatore.
Lo sviluppo della letteratura slovena in Italia rimase al centro della sua
attenzione fino alla fine. A partire dal 1967, sulle pagine della rivista Mladika, Jevnikar curò una rubrica sulla letteratura slovena contemporanea in
Italia, nella Carinzia austriaca e nella diaspora.
Martin Jevnikar è morto a Trieste il 10 gennaio 2004. Post mortem è
stato insignito di un’onorificenza per meriti culturali, conferitagli dal Presidente della Repubblica di Slovenia.
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Il cammino storico e culturale
degli sloveni di Trieste
di Marija Pirjevec
I
F
ino alla rivoluzione del 1848, le due etnie autoctone di Trieste, quella italiana e slovena, avevano mantenuto per più di un millennio rapporti di
pacifica e proficua convivenza, segnata da commerci e scambi di prodotti del
Carso e del mare. L’antico rapporto degli sloveni col mare è testimoniato dalle secolari comunità di pescatori insediate sul tratto di costa che va da Barcola a Duino, come pure da una delle più note ballate popolari, quella sulla Lepa
Vida (La bella Vida), che trae spunto dalle scorrerie saracene sulle rive mediterranee dal IX all’XI secolo. Vida, giovane moglie e madre, desiderosa di evadere da un’esistenza di stenti, cede alle lusinghe di un moro che la invita a
fuggire con lui, sale sulla sua barca e si lascia condurre lontano, presso la corte di Spagna, dove diventa nutrice del principino appena nato; ma la sua momentanea esaltazione per l’avventura diventa ben presto straziante rimorso e
struggente desiderio di riabbracciare il marito e il figlioletto abbandonati. La
ballata è ancor oggi uno dei topoi fondamentali della letteratura slovena, evocando in chiave simbolica il desiderio dell’uomo di evadere dall’angusta e monotona realtà quotidiana verso favolosi mondi lontani, che immancabilmente,
una volta raggiunti, non riescono a placare l’eterna irrequietezza del cuore.
Il risveglio culturale degli sloveni sorse appena nel primo Cinquecento, quando da Salisburgo giunse a Trieste Primož Trubar (1508 – 1586),
fondatore della lingua letteraria slovena. A sedici anni, egli entrò al servizio del vescovo Pietro Bonomo, da cui ricevette un’educazione umanistica di ampio respiro. Non deve stupire che nell’ambito di tale formazione trovasse posto, accanto al latino e all’italiano, anche lo studio dello sloveno: i registri parrocchiali di Trieste del 1527 attestano infatti che
una notevole parte della popolazione cittadina apparteneva a questa etnia, cui bisognava spiegare il Vangelo nella sua lingua. È certo in ogni
caso che senza l’esperienza triestina Trubar non sarebbe stato quel che
fu: compilatore dei primi libri stampati in lingua slovena (l550), prolifico scrittore di testi ecclesiastici, ispiratore della traduzione della Bibbia
e traduttore lui stesso del Nuovo Testamento (l582).1
1 Cfr. M. Pirjevec, Primož Trubar a Trieste, in Trubar, Kosovel, Kocbek e altri saggi sulla letteratura slovena, EstLibris, Trieste 1989, pp. 7-17.
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La Controriforma assestò un
colpo gravissimo alla nascente letteratura slovena d’ispirazione protestante, soffocandola senza pietà:
migliaia di libri vennero destinati al
rogo, centinaia di seguaci della Riforma furono costretti all’esilio o
all’abiura. Ma nonostante tale grande sfacelo culturale, nel Seicento
sono documentate alcune importanti testimonianze di attività culturale in lingua slovena nel Litorale e
la sua diffusione tra le diverse classi sociali, anche quelle più elevate.
Nel 1601, per esempio, il signore di
Duino affidò al piemontese fra Gregorio Alasia da Sommaripa (1578
ca.- l626) il duplice incarico di dirigere la comunità monastica presso San Giovanni in Tuba e di compilare un dizionario delle due parlate locali, che fu dato alle stampe
a Udine nel 1607 col titolo Vocabolario Italiano e Schiavo. L’uso dello
sloveno da parte del patriziato triestino trova ulteriore conferma nella
scoperta di alcune lettere inviate
verso la fine del Seicento dalla contessa Maria Isabella Marenzi a sua
madre, baronessa vedova Ester
Massimiliana Coraduzzi, proprietaria del castello di Koča vas (Hallenstein) nella Carniola Interna. Nonostante il contenuto banalmente
quotidiano delle lettere, la filiale
deferenza con cui la giovane si rivolge alla madre acquista a tratti auliche impennate di tono e di stile,
insolite per una lingua usata di regola nella comunicazione verbale.2
Marija Pirjevec
Fra le voci di spicco della critica letteraria slovena in Italia va annoverata
Marija Pirjevec (1941). Dopo le lauree all’Università di Trieste e di Ljubljana, ha intrapreso la carriera universitaria con la docenza prima alla
Facoltà di Lettere e Filosofia e in seguito presso la Scuola Superiore di
lingue moderne per Interpreti e Traduttori dell’Ateneo triestino. Ha pubblicato numerosi saggi e studi critici
in sloveno e in italiano: il suo interesse è rivolto all’evoluzione della letteratura dall’età della Riforma fino ai
giorni nostri, alle figure slovene di
spicco del passato e contemporanee
(Primož Trubar, France Prešeren,
Ivan Cankar, Srečko Kosovel, Edvard
Kocbek, Alojz Rebula, Boris Pahor,
Miroslav Košuta, ecc.), alla tipologia
della letteratura degli Sloveni in Italia
2 P. Merkù, Slovenska plemiška pisma družin Marenzi-Coraduzzi s konca 17. stoletja, in Slovenska plemiška pisma, Trst/Trieste 1980.
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nonché ai contatti tra letteratura slovena e
italiana. È anche traduttrice di Ivan Cankar (Hiša Marije Pomočnice - La casa di
Maria Ausiliatrice, 1983).
Ha curato inoltre l’edizione slovena
della Tržaška knjiga (Il libro su Trieste,
2001), in cui viene presentata l’attività letteraria e intellettuale slovena nella città
adriatica dal Cinquecento in poi. (il libro
è stato pubblicato anche in versione italiana col titolo L’altra anima di Trieste, 2008).
Nel 2012, Marija Pirjevec ha ricevuto da parte del presidente della Repubblica di Slovenia Danilo Türk un alto
riconoscimento per aver contribuito in
modo significativo alla divulgazione
della lingua e della cultura slovena. È
membro onorario della Società Slavistica Slovena.
Nel 1997, Jevnikar si sofferma sui saggi pubblicati in Tržaški zapisi (Scritti triestini), editi in quell’anno a cura della Casa
editrice triestina Mladika. L’autrice ha qui
preso in esame alcuni dei maggiori esponenti delle lettere slovene del XX secolo
(Srečko Kosovel, Alojz Rebula, Boris Pahor), nonché la cultura e letteratura slovena dell’età del Barocco (contatti fra l’Accademia Operosorum di Ljubljana e la
cultura italiana a cavallo tra il Seicento e
il Settecento), dell’Illuminismo e del Romanticismo. Due saggi di Marija Pirjevec
sono inoltre dedicati ad Alojzij Res e Luigi
Salvini: il primo è stato uno storico della
letteratura, che in occasione del 600° anniversario della morte di Dante ha curato
due raccolte sul poeta fiorentino, una in
sloveno e una in italiano (1921, 1923),
alle quali hanno contribuito vari saggisti
italiani e sloveni; lo slovenista Salvini, invece, nel 1951 ha curato la pubblicazione
di Sempreverde e rosmarino, importante antologia della poesia slovena.
Fra le opere dell’autrice si ricordano:
Srečko Kosovel. Aspetti del suo pensiero e della
sua lirica, Editoriale Stampa Triestina, Trieste,
1974
Saggi sulla letteratura slovena dal XVIII al XX
secolo, Editoriale Stampa Triestina, Trieste,
1983
Ivan Cankar, La casa di Maria Ausiliatrice, Studio Tesi, Pordenone, 1983 (saggio introduttivo
e traduzione dallo sloveno).
Trubar, Kosovel, Kocbek e altri saggi sulla letteratura slovena, Editoriale Stampa Triestina,
Trieste, 1989
France Prešeren, Poesie – Pesmi (selezione e prefazione a cura di Marija Pirjevec, traduzione di
Giorgio Depangher), Kranj-Trieste, EST, 1998.
Na pretoku dveh literatur (ZTT, Trst 1992).
Dvoje izvirov slovenske književnosti (Slovenska
matica, Ljubljana 1997).
Tržaški zapisi (Mladika, Trst 1997).
Tržaški kniževni razgledi (Mladika, Trst, 2011).
Pahorjev zbornik (1993).
Trubarjev zbornik (2009).
Alojz Rebula La vigna dell’imperatrice romana,
scelta dei testi e saggio introduttivo di M.P.,
Mladika, Trst, 2011.
Jevnikarjev zbornik (con Marija Cenda e Neva
Zaghet), Mladika 2013.
Silvana Paletti, Rozajanski serčni romonej – La
lingua resiana del cuore – Rezijanska srčna govorica, ed. ZRC, Ljubljana, 2003 (traduzione dal
resiano nello sloveno letterario di Marija Pirjevec e in italiano di Roberto Dapit).
L’altra anima di Trieste. Saggi, racconti, testimonianze, poesie, Trieste, Mladika, 2008.
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L’anno 1719 segnò una delle tappe fondamentali nella storia di Trieste:
per dare impulso alla propria politica mercantilista, l’imperatore Carlo VI
concesse alla città il porto franco. La decisione si rivelò assai felice, poiché
nella seconda metà del Settecento Trieste conobbe uno straordinario sviluppo, trasformandosi rapidamente da provinciale cittadina costiera con meno
di 4000 abitanti in grande e opulento emporio internazionale, in cui le franchigie economiche, la tolleranza religiosa e altre agevolazioni attirarono un
numero crescente di stranieri: armeni, greci, ebrei, serbi, croati, cechi, ungheresi, ma anche goriziani, carniolani, stiriani, carinziani, per citare solo gli
immigrati dai più vicini domini della casa imperiale, allettati da sogni di ricchezza o semplicemente in cerca di un’esistenza migliore. Una gran parte
degli immigrati d’origine slovena, per lo più di bassa estrazione sociale, incalzata com’era dalla lotta per la sopravvivenza, perse così in breve tempo
l’identità originaria. Soltanto nei primi decenni dell’Ottocento la diversificazione sociale degli sloveni acquistò caratteristiche più evidenti, grazie soprattutto all’affermarsi di un ceto medio di artigiani, commercianti, impiegati,
insegnanti e sacerdoti, sensibili a quella rinascita della cultura slovena, cui
diedero impulso decisivo l’Illuminismo e il successivo Romanticismo.
La stupefacente ascesa economica di Trieste nel Settecento non mancò
d’influenzare anche l’immediato entroterra. Significativo rappresentante del
fervido clima imprenditoriale e insieme culturale fu il barone SigismondoŽiga Zois, nato a Trieste nel 1747 nella famiglia di un intraprendente mercante di origine bergamasca.3 Divenuto uno tra i maggiori imprenditori della Carniola, Zois, pur avendo compiuto gli studi in Italia, a Reggio Emilia,
si votò appassionatamente alla promozione dell’idioma sloveno in campo
umanistico e scientifico. Per la seconda volta dopo Primož Trubar, nel tardo
Illuminismo Trieste dava dunque impulso, almeno indirettamente, al risorgimento intellettuale del popolo sloveno.
All’epoca delle Province Illiriche, istituite da Napoleone nel 1809, il risveglio nazionale sloveno diede i suoi primi frutti anche a Trieste. Per facilitare la comunicazione tra le sue due etnie autoctone, vi fu pubblicato infatti nel 1811, in ben 2000 copie, il Saggio grammaticale italiano-cragnolino.
Ne fu autore il consigliere municipale e notaio Franul de Weissenthurn, originario di Fiume. Con il ritorno del dominio austriaco (1813), caratterizzato dal repressivo governo del principe Metternich, l’emancipazione culturale
degli sloveni subì invece un forte contraccolpo, che ebbe conseguenze anche
di carattere sociale. Il percorso, tutto in salita, della fuga dalla miseria e dall’ignoranza per gli sloveni di Trieste (e non solo di questi) è testimoniato eloquentemente dalla vita di Josip Godina Verdelski (l808-l884), narrata nelle
sue memorie. Nato nel sobborgo triestino di Guardiella (Verdela) da genito3 M. Kacin, Sigismondo Zois e il teatro italiano in Žiga Zois in italijansko gledališče, Trst,
samozaložba, 2013, pp. 205-248.
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ri analfabeti, a otto anni fu mandato “in città” a guadagnarsi il pane. La sua
tenacia venne ripagata con il conseguimento a Graz della laurea in giurisprudenza, seguita nei decenni successivi da una brillante carriera e da un’intensa attività pubblicistica, il cui risultato più significativo fu, oltre all’autobiografia, l’opera Opis in zgodovina Tersta in njegove okolice (Descrizione e storia
di Trieste e del suo circondario, 1872).
II
La rivoluzione del marzo 1848 e la successiva “primavera dei popoli”
aprirono un nuovo capitolo nella storia della monarchia asburgica. In quel
periodo Trieste vide, accanto al sorgere del movimento risorgimentale italiano, la costituzione dell’associazione Slavjansko društvo (Associazione slava), che s’inseriva, in senso lato, in un vivace fermento intellettuale, volto a
rivendicare l’autonomia culturale e politica del popolo sloveno nell’ambito
della monarchia asburgica. Questo programma, elaborato principalmente
(ma non solo) a Vienna da gruppi di giovani di estrazione liberale, viene
ricordato soprattutto per la sua richiesta più audace: quella di una “Slovenia
unita”. Concepita come unità amministrativa autonoma in seno all’Impero,
essa avrebbe dovuto rompere le sette entità territoriali in cui era diviso il
popolo sloveno, abbracciando in una sola struttura statale la sua intera area
d’insediamento, inclusi il Litorale e Trieste. L’Associazione slava di Trieste
non nutriva in verità progetti così ambiziosi e si limitava a rivendicare parità di diritti linguistici nelle scuole e nell’amministrazione pubblica. Bastò
questo, tuttavia, per suscitare notevole allarme negli esponenti della borghesia di sentimento italiano che reggeva il Comune, che si opposero con decisione a qualsiasi aspirazione alla parità. Il risveglio della coscienza nazionale slovena suscitò nella popolazione italiana, o meglio, in quella parte di
essa che deteneva l’egemonia politico-economica sulla città, un sentimento
d’insofferenza che nei decenni successivi andò via via rafforzandosi. Eppure,
nonostante tutte le difficoltà, nel corso della seconda metà dell’Ottocento,
la borghesia slovena di Trieste continuò a prosperare, rafforzando la propria
posizione economica e politica di pari passo con la coscienza nazionale. Una
delle prime tappe di quest’arduo percorso fu la fondazione, nel 1861, della
Slavjanska čitalnica (Sala di lettura slava), con la quale i triestini sloveni precedettero la stessa Lubiana. Il suo primo segretario fu lo scrittore Fran
Levstik (183l-l887), raffinato prosatore originario della Carniola Inferiore.
Questi fu l’antesignano di numerosi intellettuali di rilievo, che arrivarono in
città in cerca di lavoro, infondendo notevole vigore alla rinascita culturale
slovena.
Al movimento nazionale impresse nuovo slancio l’associazione politica
Edinost (Unità), attiva dal 1874 al 1928, anno in cui le autorità fasciste ne
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proibirono l’attività. Orientata in senso liberale, quest’associazione attuò una
politica in cui si fondevano propaganda patriottica, impegno culturale e intraprendenza economica. Alle rivendicazioni dell’uso dello sloveno nel Consiglio cittadino e nelle scuole, che costituivano il nucleo del suo programma,
diede voce, a partire dal 1876, il periodico (e successivamente giornale quotidiano) Edinost, per mezzo secolo insostituibile strumento di risveglio della coscienza nazionale in tutto il Litorale, fino alla sua soppressione nel 1928.
Gli autori più rappresentativi della letteratura slovena della seconda metà dell’Ottocento – d’impronta ancora romantica – non furono prodighi di
riferimenti alle vicende triestine. Un’eccezione è forse rappresentata dal racconto Martin Krpan (l858) del già citato Fran Levstik. Il suo protagonista,
coraggioso, intraprendente e vigoroso contadino, è dedito al contrabbando
di sale inglese (salnitro) fra Trieste e la Carniola. Durante questa poco commendevole attività, egli finisce per incontrare l’imperatore in persona che,
in viaggio a Trieste, lo incrocia per caso e rimane favorevolmente impressionato dalla sua eccezionale forza fisica. Qualche tempo dopo, trovandosi a
Vienna un gigante turco di nome Brdavs, che duellando con i più grandi
eroi dell’impero riesce a sconfiggerli tutti, l’imperatore, disperato, si ricorda
di Krpan e lo fa chiamare in aiuto. Questi, giunto a Vienna con la sua fida
cavallina, dopo una serie di tragicomiche vicende, riesce a tagliare la testa a
Brdavs e, dopo aver rifiutato la figlia dell’imperatore, ottiene quale compenso il nullaosta ufficiale per il trasporto dei preziosi carichi di sale oltre frontiera. L’opera di Levstik, scritta in uno stile secco, ma brillante, riveste il
duplice carattere di divertente racconto per ragazzi e di narrazione ricca di
allusioni alla storia triestina e slovena, non priva di accenti critici nei confronti della dinastia asburgica, il cui rapporto con il popolo cominciava a
mostrare le prime crepe.
Nella poesia del secondo Ottocento, la presenza di temi legati alla realtà
triestina è invece costante, con una marcata predilezione per il castello di
Duino, visto ancora in un’ottica narrativo-descrittiva. Particolare attenzione
riservò al Litorale Anton Aškerc (l856-l9l2), vigoroso autore di versi di carattere epico e di una significativa raccolta dal titolo Jadranski biseri - Balade
in romance slovenskih ribičev (Perle adriatiche – Ballate e romanze di pescatori
sloveni, l908). Del tutto innovativo per la raffinatezza dell’espressione lirica
è invece, fin dagli esordi, il rapporto instaurato con Trieste da parte della
cosiddetta Moderna, la corrente letteraria che diede inizio, a cavallo del secolo, a una stagione di straordinaria creatività. A inaugurarla, fu Dragotin
Kette (l876-l899), che, giunto a Trieste nel 1898 per prestarvi il servizio
militare e congedato per malattia già l’anno seguente, ebbe appena il tempo
di tornare a Lubiana, dove si spense giovanissimo, minato dalla tisi e dalla
miseria. Kette compose fra l’altro un mirabile ciclo di sonetti, Na molu San
Carlo (Sul molo San Carlo), che portò nella poesia amorosa un’ondata di
esoticismo di sapore mediterraneo, cui il pubblico non era avvezzo.
16
Nel 1897 vide la luce la rivista femminile Slovenka (La slovena), supplemento dell’Edinost, curato da Marica Nadlišek Bartol (l867-l940), che ebbe
anche il merito di scrivere il primo romanzo d’ambientazione completamente triestina, Fata morgana, del 1898.
Alla fine dell’Ottocento, Trieste era, dopo Vienna e Praga, la maggiore
città austriaca con una classe proletaria importante, costituita in gran parte
da sloveni dell’entroterra trasferitisi in città per sfuggire alla crisi che aveva
colpito le campagne. Gli inizi del movimento operaio sloveno nell’area triestina risalgono agli anni Sessanta dell’Ottocento. Nel 1896, quando fu fondato il Partito socialdemocratico jugoslavo, Trieste divenne non solo il perno di tale movimento, ma, a partire dal 1902, la sede ufficiale del comitato
direttivo, coordinato dal pubblicista, critico e drammaturgo Etbin Kristan
(l867–l953).
Una delle tappe significative nel processo di maturazione del socialismo
triestino è rappresentata dalla conferenza dello scrittore Ivan Cankar
(1876-1918) Slovensko ljudstvo in slovenska kultura (Il popolo e la cultura
slovena), organizzata da Ljudski oder (Ribalta popolare) nel 1907 presso
la Casa dell’operaio in via Settefontane. Il testo di Cankar, il più autorevole rappresentante della Moderna, prende spunto da una triplice premessa: dall’intima connessione tra movimento socialista, cultura e arte; dalla
valorizzazione del lavoro fisico, affiancato a quello intellettuale, i cui frutti
dovrebbero essere, in una società matura, usufruibili da tutti, senza preclusione di classe; e infine dalla funzione fondamentale svolta dalla cultura nel processo di emancipazione sociale e nazionale degli sloveni. Più
tardivo rispetto al movimento operaio fu quello politico cattolico, che incominciò ad attecchire a Trieste solo dopo il Terzo congresso dei cattolici,
organizzato nel 1906. Il suo principale promotore fu Jakob Ukmar (1878–
1971), a quell’epoca fresco di seminario, ma già promettente pubblicista,
teologo e filosofo.4
La diversificazione sviluppatasi all’interno della società slovena di Trieste
a cavallo tra Ottocento e Novecento, era sintomo di una ormai compiuta
maturazione. Essa registrò notevoli progressi tanto in ambito economico
quanto a livello di consistenza numerica. Il censimento del 1911 rilevò la
presenza a Trieste di 56.916 residenti di “lingua d’uso” slovena, cioè poco
meno di un quarto della popolazione urbana. La floridezza economica e la
crescita culturale slovena assunsero nel 1904 la forma tangibile nel Narodni
dom (Casa nazionale), un elegante e imponente palazzo progettato
dall'architetto Max Fabiani (1865-1962), eretto in pieno centro cittadino. Si
trattava del primo esempio europeo di edificio polifunzionale di così vaste
proporzioni ed eterogenee finalità: una vera e propria città nella città, dotata di teatro, biblioteca, tipografia, scuola musicale, caffè, ristorante, palestra,
4 Cfr. A. Rebula, Jakob Ukmar, Studio Tesi, Pordenone 1992.
17
albergo Balkan nonché banche, uffici, sedi di circoli ecc. Di grande rilievo
fu soprattutto il ruolo svolto dal suo teatro, in particolare dal 1907 in poi,
quando, diventato stabile, diede il via all’allestimento di una serie di spettacoli del ricco repertorio europeo (Shakespeare, Tolstoj, Cechov, Ibsen, Strindberg, Cankar ecc.).
III
Il passaggio di Trieste e di un terzo dell’intero popolo sloveno sotto la
sovranità del regno sabaudo, alla fine della Grande Guerra, rappresentò una
drammatica frattura storica. Fin dall’inizio, l’impatto fu pesante. La violenza
e la corruzione delle nuove autorità militari e civili furono per gli sloveni
del Litorale un vero e proprio trauma. Trieste, strappata al suo retroterra
danubiano e balcanico, si trovò inoltre chiusa in un vicolo cieco, che ne minò la fiorente economia. Divenuta una sorta di avamposto al confine con
uno Stato, il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, percepito dall’Italia come
nemico, la città fu vista dall’opinione pubblica italiana, ma soprattutto
dall’amministrazione statale, come terra redenta da inglobare quanto prima
nel contesto nazionale, senza tanti riguardi per gli “alloglotti”, “allogeni” o
“slavocomunisti”, come gli sloveni furono allora definiti. Stava insomma profilandosi un’epoca di oppressione, che sarebbe durata fino alla fine della seconda guerra mondiale, costituendo per gli sloveni del Litorale l’esperienza
più drammatica di tutta la loro storia.
Il 13 luglio 1920 i fascisti, organizzatisi a Trieste subito dopo la costituzione del primo fascio a Milano, approfittando del tacito beneplacito delle
autorità, appiccarono il fuoco al Narodni dom. Tale incendio fu preludio di
una sistematica politica di distruzione della realtà associativa slovena, inaspritasi in modo particolare dopo l’avvento al potere di Benito Mussolini,
nell’ottobre del 1922. I partiti politici, le società culturali, gli istituti finanziari furono progressivamente soppressi; fu vietato l’uso pubblico della lingua; furono italianizzati i toponimi, i cognomi e i nomi;5 fu sottoposta a
censura la stampa periodica. Un colpo gravissimo fu inoltre inferto alla comunità slovena dalla riforma scolastica di Giovanni Gentile, con cui, a partire dall’anno scolastico 1923/24, fu progressivamente soppresso l’insegnamento nella loro madrelingua anche nelle scuole elementari. Nel 1927 fu
portata a termine la conversione di quattrocento scuole slovene e croate
della Venezia Giulia in scuole con lingua d’insegnamento italiana: tale processo comportò, inoltre, il licenziamento di un migliaio d’insegnanti, molti
dei quali emigrarono in Jugoslavia. Ivi si rifugiarono in quegli stessi anni
anche molti altri intellettuali, tra cui poeti, scrittori e pubblicisti come Alojz
5 Cfr. P. Parovel, L’identità cancellata, Trieste 1985.
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Gradnik, Igo Gruden, Bogomir Magajna, Ciril Kosmač, Ivan Rudolf, il fisico
Lavo Čermelj ed altri.
Nel 1926, fu soppresso a Trieste il periodico Učiteljski list (Il foglio dell’insegnante) che, edito dal 1920, aveva continuato, nonostante la rigida censura, a costituire un riferimento autorevole di pubblico dibattito per numerosi intellettuali. Tra loro, vanno menzionati Jože Pahor, Pavla Hočevar, Vladimir Martelanc e Srečko Kosovel.6 Quest’ultimo era nato a Sežana nel 1904,
e seppur legato a Lubiana da motivi di studio e d’impegno intellettuale,
radicò a tal punto la sua arte alla terra d’origine che oggi è principalmente
noto come “il poeta del Carso”, e non solo per ragioni meramente topografiche, bensì per l’intima adesione alla sua tormentata struttura fisica e spirituale. L’angoscia e l’orrore ontologico, che così potentemente segnarono la
breve vita di Kosovel, scaturiscono anche dall’intensa partecipazione alla
tragedia che colpì la sua gente nel Litorale. Egli dunque merita a buon diritto la palma di primo grande poeta sloveno triestino, iscrivendosi in quella schiera di artisti di talento, che nobilitarono la città nel primo Novecento.
La frattura tra Kosovel e Trieste, esclusivamente spaziale, prodotta dalla
guerra e dalle vicende che ne seguirono, spiritualmente non è mai esistita.
Non va inoltre dimenticato che la pressione costante della censura, cui era
sottoposta la comunità slovena, in quegli anni ebbe inevitabili ripercussioni
sulla politica culturale delle modeste case editrici che ancora sopravvivevano.
Le opere apparse in quegli anni, caratterizzate da contenuti divulgativi, lingua semplice e piana, appaiono distanti anni luce dalla ventata di modernità che all’inizio degli anni Venti aveva investito Trieste e Gorizia.
La resistenza degli sloveni del Litorale all’oppressione politica cui erano
soggetti, vigorosa fin dall’inizio, lo divenne ancor più dopo il trattato di Rapallo, con cui, nel novembre 1920, fu tracciata definitivamente la frontiera
fra l’Italia e la Jugoslavia. In un primo tempo – finché ciò fu possibile – si
ricorse alla protesta politica in ogni sede, soprattutto in Parlamento: il 21
giugno 1921, per esempio, il deputato liberale Josip Vilfan accusò il governo
di esser venuto meno a tutte le promesse fatte agli sloveni del Litorale nel
momento dell’occupazione militare.
Nel momento in cui gli sloveni persero la propria rappresentanza parlamentare – i deputati Vilfan e Besednjak dopo il 1927 furono costretti all’esilio – non restò loro altra possibilità che la lotta clandestina, non aliena dal
ricorso alla violenza. Condotta da gruppi di giovani – per lo più studenti
– essa godeva del sostegno di ampi strati della popolazione.
Nell’autunno del 1927 nacque l’organizzazione clandestina TIGR, così
denominata dalle iniziali dei territori di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka (Fiume), che si prefiggeva di strappare anche con l’uso delle armi all’Italia. Il
TIGR fu di fatto il primo movimento armato antifascista sorto in Europa.
6 Cfr. B. Pahor, Srečko Kosovel, Ed. Studio Tesi, Pordenone1993.
19
Fra le sue azioni, quella che ebbe la maggior risonanza, fu l’attentato del
febbraio 1930 alla redazione del quotidiano fascista Il Popolo di Trieste, che
causò tre feriti e un morto. In seguito a questo e ad altri attentati, il Tribunale Speciale per la difesa della Stato celebrò, dal 1 al 5 settembre 1930, il
cosiddetto Primo processo di Trieste, che si concluse con quattro condanne
capitali. La dirigenza del movimento antifascista del Litorale era costituita
da personalità di grande forza e levatura: tra i fondatori del TIGR, figurano
il valoroso medico-dentista Dorče Sardoč e lo studente Pino Tomažič, leader
dei comunisti del Litorale.
La reazione delle autorità fasciste alla resistenza slovena fu aspra. Nella
primavera del 1940, esse arrestarono più di trecento esponenti sloveni sospettati di essere contrari al regime. La maggior parte di essi fu inviata al
confino, sessanta personaggi di maggior rilievo furono invece sottoposti al
giudizio del Tribunale Speciale, che dal 2 al 14 dicembre del 1941 celebrò
il cosiddetto Secondo processo di Trieste. Anche in tale occasione le sentenze
furono durissime: 23 imputati furono condannati a 30 anni di carcere ciascuno; ben 9 alla pena capitale, che per quattro, tra cui Dorče Sardoč e Lavo Čermelj, fu commutata all’ultimo momento in ergastolo. Il 15 dicembre,
al poligono di Opicina, furono fucilati Viktor Bobek, Ivan Ivančič, Simon
Kos, Ivan Vadnal e Pino Tomažič.
La resistenza triestina, che all’inizio della guerra attraversò un periodo di
difficoltà anche a causa del vuoto creatosi in seguito alla crisi del TIGR, determinata dal Secondo processo di Trieste, andò gradualmente rinvigorendosi nel corso del 1942. Ne conseguì la recrudescenza delle rappresaglie,
prima fasciste e poi naziste, soprattutto dopo il crollo dell’Italia nel settembre 1943 e l’occupazione dei tedeschi della Operationzone Adriatisches Künstenland (Zona d’operazione militare del Litorale adriatico). In molti casi,
esse ebbero quale cupo sfondo la famigerata Villa Triste di via Bellosguardo,
“covo” di un manipolo di sadici aguzzini tristemente noti come “banda Collotti”, dal nome del loro capo. Fra le vittime dei torturatori di Villa Triste ci
fu anche la poetessa Ljubka Šorli, moglie di Lojze Bratuž, musicista e compositore goriziano, morto nel 1937 dopo esser stato costretto dai fascisti a
bere olio di macchina per aver diretto un coro che cantava in sloveno a una
messa di Natale.
Le rappresaglie nazifasciste non riuscirono tuttavia a soffocare la resistenza, che nel Litorale conobbe, dopo l’8 settembre 1943, un’impennata impressionante. Al movimento partigiano, guidato dal Fronte di Liberazione
sloveno (Osvobodilna fronta), si unirono anche numerosi soldati italiani dello sbandato regio esercito, che in seguito si organizzarono nella brigata Garibaldi. Durante l’occupazione tedesca, anche nel Litorale non mancarono
unità collaborazioniste di “domobranci”, costituite in loco o importate dalla
Provincia di Lubiana, le quali segnarono l’inizio di una tragica differenziazione politica e ideologica, estranea fino ad allora alla realtà del Litorale. È
20
significativa al riguardo la vicenda di Boris Pahor, arrestato a Trieste in quanto esponente del Fronte di liberazione proprio dai “domobranci” e da essi
consegnato alla Gestapo, che lo rinchiuse dapprima nelle famigerate prigioni di piazza Oberdan, per deportarlo successivamente nei campi di sterminio
di Dachau, Natzweiler, Dora Mittelbaue e Harzungen. Da queste tremende
esperienze traggono ispirazione i migliori romanzi di Pahor, tra i quali Nekropola - Necropoli, 1997), libro tradotto ormai in numerose lingue europee e
di vasta risonanza internazionale.7
Gli eventi del periodo bellico andarono ad intrecciarsi capillarmente nella già intricata matassa della storia di Trieste che nel 1944 cominciò ad assumere dimensioni internazionali. Nell’agosto di quell’anno, il premier inglese Winston Churchill e il maresciallo Tito si incontrarono a Caserta per
affrontare per la prima volta in modo esplicito la questione di Trieste e tracciare i dettagli della sua occupazione militare. Un anno più tardi, nel 1945,
Tito ordinò alle proprie truppe di marciare su Trieste, dove entrarono il 1°
maggio, dopo aspri combattimenti con le truppe tedesche sull’altipiano carsico. Dopo quaranta giorni di presenza in città, in cui fu insediato il “potere
popolare”, il 12 giugno 1945 l’esercito partigiano si ritirò da Trieste lasciando dietro di sé il tragico ricordo dell’orrore delle foibe, gli abissi carsici in
cui furono gettati i corpi non solo di agenti di polizia, carabinieri, guardie
di finanza e militari, ma anche di persone uccise per vendetta privata. La
pagina delle “foibe”, com’è genericamente definita la repressione jugoslava
messa in atto in quei quaranta giorni, ha suscitato e suscita tuttora uno strascico di polemiche non ancora spente.
IV
La fine della seconda guerra mondiale, vero e proprio spartiacque storico
per Trieste, fu l’inizio della sua storia contemporanea: una storia irta di profonde contraddizioni, e segnata dall’ambigua politica anglo-americana a
Trieste. Nonostante la loro sbandierata adesione a valori democratici, essi
non ripararono completamente i torti subiti dalla comunità slovena sotto il
regime fascista. È vero che l’amministrazione militare alleata di Trieste, protrattasi dal luglio 1945 al novembre 1954, concesse agli sloveni l’apertura di
scuole elementari e medie, istituì una stazione radio, permise libertà di stampa e di associazione, ma è anche vero che, a differenza degli ebrei, essi non
furono risarciti per le perdite economiche inferte loro dal vecchio regime,
né furono riconosciuti come parte autoctona della città e del territorio per
quanto riguarda l’uso della lingua negli uffici pubblici. Ciò era dovuto, peraltro, alla posizione politica della maggioranza degli sloveni del Litorale
7 M. Pirjevec, Boris Pahor: Necropoli, in Metodi e Ricerche, n. s., 27, n.1, 2008, pp. 3-9.
21
dopo il 1945, avendo essi abbracciato – clero compreso – la causa jugoslava:
fatto, questo, che in quel particolare momento storico veniva inteso come
adesione al comunismo internazionale.
Lo stato jugoslavo non restò comunque a lungo nella sfera di influenza
sovietica: già nel 1948, Stalin, insoddisfatto della politica fin troppo indipendente di Tito a livello interno e internazionale, decise di espellere la Jugoslavia dal blocco sovietico. Questo evento traumatico costrinse il maresciallo Tito e i suoi collaboratori a volgersi all’Occidente in cerca di aiuto. Tale
passo, valutato con favore a Washington e a Londra, influì in maniera decisiva anche sulla soluzione della “questione di Trieste”. Nel 1954, si decise
infatti di inserire fra l’Italia e la Jugoslavia un Territorio libero, costituitosi con
il trattato di pace del 1947 come zona cuscinetto tra i due paesi. Il passo
successivo verso la normalizzazione dei rapporti fra i due stati vicini fu compiuto col Trattato di Osimo del 1975, che comportò, tra l’altro, il riconoscimento definitivo del confine tra le zone A, sotto l’amministrazione di Roma,
e la zona B, assegnata a Belgrado.
Nonostante le condizioni così precarie in cui gli sloveni si trovarono a
vivere nella Trieste postbellica, essi ripresero a ricostruire quanto il fascismo
aveva distrutto nel ventennio precedente. Già nel maggio 1945, cominciò a
uscire il Primorski dnevnik (Il Quotidiano del Litorale), al quale si affiancarono più tardi numerosi fogli di diverso indirizzo ideologico. Nell’autunno
del 1945, prese avvio l’attività del Teatro stabile sloveno (Slovensko stalno
gledališče), cui seguì la costituzione della Biblioteca nazionale e degli studi
(Narodna in študijska knjižnica), dell’Editoriale Stampa Triestina (Založništvo
tržaškega tiska), della Scuola musicale (Glasbena matica), dell’Istituto sloveno
di ricerca (Slovenski raziskovalni inštitut), per citare solo le più rappresentative istituzioni culturali sorte in città.
La comunità, lungi dall’essere coesa, aveva assunto infatti nel secondo
dopoguerra la fisionomia di un organismo diviso tra interessi e orientamenti ideologici contrapposti. Un’ulteriore e grave divisione si ebbe nel 1948,
quando, in seguito all’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, la sinistra
si scisse nella corrente “titoista” e in quella “stalinista”, indebolendo, soprattutto nelle file del proletariato, l’orientamento filojugoslavo per favorire il
problematico “internazionalismo” del Partito comunista italiano. Per quanto
la realtà slovena della seconda metà del Novecento fosse segnata da fratture
ideologiche profonde, la logica politico-partitica degli schieramenti è stata
talvolta trascesa e superata grazie ad alcune riviste indipendenti, promotrici
di un dibattito culturale improntato a un consapevole dissenso nei confronti della destra e sinistra locali, ma soprattutto del regime al potere in Slovenia e in Jugoslavia. A questo importante filone della pubblicistica triestina
vanno ricondotte in particolare due riviste di carattere socio-culturale, e cioè
la rivista Most (Il Ponte, 1964-1988), diretta da Aleš Lokar e Vladimir Vremec, e Zaliv (Il Golfo, 1966-1990) di Boris Pahor. Sul versante cattolico
22
merita invece particolare menzione la Mladika (Il Germoglio), rivista culturale edita dal 1957 e affiancata dall’omonima casa editrice.
Alla fine del secondo conflitto mondiale spuntò una nuova era della letteratura triestina, che poté finalmente germogliare nella terra natia, fecondata dall’apporto di scrittori appartenenti alle varie generazioni, formatesi prima e dopo la guerra. Nonostante la marcata eterogeneità di esperienze, come pure di sensibilità, stile e talento artistico dei singoli autori, la produzione letteraria della Trieste postbellica presenta una notevole unitarietà e specificità, soprattutto per alcuni tratti significativi: essa è tenacemente radicata
nello spazio sociale e spirituale triestino, e insieme aperta agli impulsi culturali, spirituali e ideologici del mondo esterno. Le suggestioni maggiori le
derivarono dalla coeva cultura slovena e italiana, ma anche da influssi letterari internazionali, francesi e spagnoli in particolare. Tale risveglio letterario
favorì tutti i generi: poesia, drammaturgia, saggistica, e in primo luogo la
prosa narrativa. I suoi esponenti di maggior spicco furono Boris Pahor
(1913) e Alojz Rebula (1924) 8, considerati oggi veri e propri classici della
narrativa contemporanea triestina, e non solo. Nonostante il frequente spaziare tematico in ambienti e luoghi diversi, le loro opere sono profondamente radicate alla città natale, e in particolare all’epoca dell’oppressione fascista
e nazista e delle angustie dell’immediato dopoguerra. Ad accomunare i due
scrittori, diversi sia per stile che per ideologia, è il trauma infantile della madrelingua umiliata e negata, divenuta per entrambi oggetto di particolare
devozione. Tra le peculiarità comuni ai due scrittori, non va dimenticato il
loro costante impegno civile, che si esplica però in direzioni divergenti: se
infatti Boris Pahor, proteso con tutta la forza del suo temperamento verso
un umanesimo sociale e liberale, scrive e vive in un mondo affatto immanente, Alojz Rebula si proietta – con altrettanto vigoroso slancio – nella
trascendenza cristiana e nella predicazione laica dei suoi valori.
Nuovo e diverso è invece il cammino intrapreso dai prosatori delle generazioni più giovani. Vi si nota, nel complesso, un progressivo allontanamento dai traumi e dall’ansia generati da fascismo, guerra e dopoguerra, nell’apertura a un maggiore soggettivismo, a motivi a sfondo psicologico, come
pure ad argomenti spesso relativi alle problematiche esistenziali dell’uomo
contemporaneo. Tra questi autori figurano soprattutto Marko Sosič, Igor
Škamperle, Dušan Jelinčič e Ivanka Hergold. Ma accanto a costoro vanno
menzionati anche Zora Tavčar, Vinko Beličič, Evelina Umek, Boris Pangerc,
Sergej Verč, Miran Košuta, Marij Čuk e Vilma Purič.
In campo poetico, i due nomi di maggior spicco sono quelli di Miroslav
Košuta 9 e Marko Kravos, appartenenti entrambi alla generazione nata im8 M. Košuta, Lemmi rebuliani, in Scritture parallele, Lint, Trieste 1997, pp. 167-187.
9 Cfr. M. Košuta, Memoria del corpo assente, ZTT – Consorzio culturale del Monfalconese,
Trieste 1999.
23
mediatamente prima o durante la seconda guerra mondiale. La loro poesia
reca evidenti tracce del legame che unisce i due autori sia alla madrepatria
– conosciuta a fondo durante gli studi universitari a Lubiana – che alla produzione poetica europea contemporanea. Eppure, nonostante la forza di tali legami, a imprimere il proprio suggello alla lirica di Košuta e Kravos è in
primo luogo la città di Trieste, con il suo mare e il suo Carso. Differente è
invece la dimensione spirituale dei due poeti. La soffocante angustia dell’ambiente triestino e la tragicità dell’esperienza personale ispirano a Košuta una
percezione della realtà e del destino umano improntata a sentimenti di alienazione e di angoscia esistenziale, ai quali però si contrappone talvolta un’esuberante vitalità tutta mediterranea. Nelle liriche di Kravos, invece, l’inquietudine esistenziale tende spontaneamente a risolversi in umorismo, satira e
un paganeggiante erotismo. Tra i poeti triestini contemporanei di lingua
slovena si ricordano inoltre: Alenka Rebula Tuta Aleksij Pregarc, Bruna Marija Pertot, Irena Žerjal, Ace Mermolja, Boris Pangerc, Marij Čuk, Majda
Artač Sturman, Jurij Paljk ed altri.
Volendo tratteggiare, sia pur schematicamente, le caratteristiche che distinguono la produzione letteraria slovena di Trieste da quella della Slovenia,
è necessario sottolinearne soprattutto alcuni aspetti peculiari: in primo luogo, com’è naturale, viene il profondo radicamento nell’humus sociale e spirituale della città; oltre a questa caratteristica, ne va evidenziata un’altra, e
cioè la solida gerarchia di valori legati all’ethos linguistico, nazionale, esistenziale e ontologico di cui tale letteratura è fortemente permeata – quasi una
sorta di robusto contrappeso all’incertezza individuale e collettiva incombente sulla comunità d’appartenenza.10 Ciò spiega anche la relativa impermeabilità della letteratura slovena di Trieste al nichilismo, alle suggestioni
dello sperimentalismo delle correnti letterarie contemporanee, che hanno
invece attecchito nella vicina Slovenia. Eppure, nonostante queste particolarità, parlare di una vera e propria diversità rispetto alla produzione letteraria
della nazione madre è improprio, come lo è l’etichetta di “letteratura d’oltrefrontiera”, coniata in un passato ormai superato dagli eventi.
10 M. Pirjevec, Tipologia della letteratura slovena a Trieste, in “Litteratures Frontalières”, a. II,
n. 1, Bulzoni, Roma, 1992.
24
Le lettere nobiliari slovene
(Slovenska plemiška pisma)
L
a presenza e l’uso della lingua
slovena nel corso dei secoli,
nelle zone che oggi si trovano in
Italia o in Austria, è una delle questioni più affascinanti della storia
letteraria slovena. È noto, infatti,
che le lingue maggiormente usate
negli scritti religiosi e nei documenti amministrativi ufficiali furono il
latino (lingua della Chiesa) e il tedesco (la lingua ufficiale): lo sloveno venne usato in misura minore,
preceduto dall’italiano nel sudovest dell’impero.
Dopo i primi documenti in lingua
slovena (i Brižinski spomeniki o Monumenti di Frisinga, risalenti al X-XI
secolo)1, c’è uno iato di circa tre-quattro secoli, durante i quali non ci è stato tramandato alcun testo in sloveno.
Ovviamente, la lingua slovena veniva
usata quotidianamente, ma sottostava
alla gerarchia linguistica medievale,
secondo la quale venivano scritti soltanto i testi più importanti dal punto
di vista religioso o amministrativo e
per questi si è adoperato a lungo il
latino, mentre tutto ciò che non veniva considerato importante (principalmente la tradizione popolare in
“volgare”) in genere non trovava spazio nelle pagine scritte. Al periodo a
cavallo fra il Tre e il Quattrocento ri-
Pavle Merkù (1927-2014)
Nato a Trieste nel 1927, è compositore, etnomusicologo e linguista.
Formatosi in un ambiente familiare poliglotta (in casa si parlava
correntemente lo sloveno, l’italiano e il tedesco), Merkù conseguì
dapprima la laurea in Filologia slava all’Università di Ljubljana e in
seguito anche la laurea in Lettere
moderne a Roma. Allo studio letterario ha affiancato l’interesse
per la musica (il violino con Cesare Barison, la composizione con
Ivan Grbec e Vito Levi, il rapporto con Luigi Dallapiccola). Ha lavorato a lungo presso la sede regionale della RAI per il FVG (sezione slovena).
Dei numerosi riconoscimenti
ottenuti, si segnalano qui il premio
1 Cfr.: Jež Janko, Parovel Paolo, Monumenta Frisingensia - Brižinski spomeniki: la prima presentazione in Italia dei Monumenti letterari Sloveni di Frisinga del X-XI secolo coevi alle prime
tracce scritte della lingua italiana: con traduzione dei testi cenni di storia degli Sloveni e dati sugli
Sloveni in Italia, Mladika, Trieste - Vallecchi, Firenze, 1994 (prefazione ed appendici storiche
di Paolo G. Parovel).
25
della Fondazione Prešeren (1971), il
Premio Štrekelj per l’attività di ricerca
delle tradizioni popolari slovene
(2001), il riconoscimento della Repubblica di Slovenia per i meriti scientifici (2002), il Premio Kozina per l’opus musicale (2006) e il riconoscimento della Società slavistica slovena
per la sua attività di linguista fra gli
Sloveni in Italia (2007).
È stato membro dell’Accademia delle scienze e delle arti di Ljubljana.
La sua produzione si articola in ricerche di natura musicale, linguistica e storico-letteraria: Merkù è infatti noto sia
come compositore (di musica da camera, sinfonica e corale, nonché dell’opera
Kačji pastir - La libellula, rappresentata
al Teatro Verdi nel 1976), che per le ricerche svolte sulla musica popolare slovena della Benecia (Slavia veneta) e della Val Resia. Ha pubblicato inoltre numerosi saggi di natura linguistica e storico-letteraria.
Imena naših krajev, Trst, Mladika, 1987
Svetniki v slovenskem imenoslovju, Trst, Mladika, 1992
Toponomastika občine Zgonik, Gorica,
Občina Zgonik, 1995
Slovenska krajevna imena v Italiji: priročnik
- Toponimi sloveni in Italia: manuale, Trst,
Mladika, 1999
Ljudsko izročilo Slovencev v Italiji - Le tradizioni popolari degli sloveni in Italia. Vol. 2. Knj.
2, Tonanina tonanà, Udine, Pizzicato, 2003
Lik in delo Ivana Grbca - La personalità e la
produzione di Ivan Grbec, Škedenj, Slovensko kulturno društvo Ivan Grbec =-Servola, Circolo culturale sloveno Ivan Grbec,
2003 [traduzione Luisa Antoni]
Od babe do smrti: bogastvo slovenskega besedja, Trst, Mladika, 2005.
Krajevno imenoslovje na slovenskem zahodu,
Ljubljana, Založba ZRC, ZRC SAZU, 2006.
Il “Libro di perticationi” del notaro Giusto
Ravizza (1525): il testo e l’analisi dei nomi
personali, di istituzioni e di luoghi, Devin,
Trst, 1994
Ljudsko izročilo Slovencev v Italiji: zbrano v
letih 1965-1974 - Le tradizioni popolari degli
sloveni in Italia: raccolte negli anni 19651974, ZTT, Trst, 1997
Fra le opere si ricordano qui solo alcune:
Tersko narečje, Trst, Založništvo tržškega
tiska, 1972.
La toponomastica dell’Alta Val Torre, Lusevera-Bardo, 1997
Ljudsko izročilo Slovencev v Italiji: zbrano v
letih 1965 - 1974 - Le tradizioni popolari
degli Sloveni in Italia: raccolte negli anni
1965 - 1974, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1976 [notografia Silvester Orel e Marina Polanc]
Toponimi sloveni in Italia, Mladika, TrstTrieste, 1999
Nomi di persone e luoghi nei registri medioevali del Capitolo di San Giusto in Trieste,
Storia Patria Venezia Giulia, Trieste, 2013.
Slovenska plemiška pisma družin Marenzi Coraduzzi s konca 17. stoletja, Trst,
Založništvo tržaškega tiska, 1980
Poslušam, Trst, Založništvo tržaškega tiska,
1983
Pajčevina in kruh, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1987
26
salgono alcuni manoscritti recanti delle formule di preghiera in sloveno (l’Ave
Maria, il Padre nostro, il Credo, l’inizio di un canto pasquale, l’Atto di penitenza). Probabilmente, furono scritti da alcuni monaci di madrelingua tedesca
o céca, come si è ipotizzato sulla base della grafia di particolari suoni presenti nella lingua slovena. Di natura notarile è invece il manoscritto di Černjeja/
Cergneu. A un periodo di poco successivo (1490) risalgono gli importanti
affreschi di Hrastovlje, vicino a Koper/Capodistria, opera di Johannes da Castua (Kastav): i suoi affreschi nella chiesa parrocchiale della SS. Trinità rappresentano uno degli esempi più notevoli della cosiddetta Biblia pauperum, la
Bibbia degli analfabeti, e presentano scene tratte dall’Antico Testamento (la
Genesi) e dalla vita quotidiana (le attività rurali nei singoli mesi dell’anno);
ma la chiesetta è rinomata soprattutto per la celeberrima Danza macabra, unico esempio noto all’interno di una chiesa parrocchiale e non di una cappella
cimiteriale (come ad es. nell’Europa centrale o, più vicino a noi, a Beram (Vermo), nei pressi della cittadina croata di Pazin-Pisino (Istria). Johannes da Castua ha rappresentato la società dell’epoca ordinata gerarchicamente: la Morte
prende per mano tutti, dall’infante al papa, e li accompagna inesorabilmente
alla tomba e al giudizio finale.
L’introduzione della stampa da parte di Gutenberg, unita all’affermarsi
della Riforma anche in Carniola nel XVI secolo (ad opera di Primož Trubar e del suo gruppo di collaboratori, la cui importanza travalica l’aspetto
religioso, avendo influenzato fortemente l’attività culturale slovena nel suo
complesso), suscita una rivoluzione pure sul fronte della lingua slovena
scritta. Certo, per i protestanti l’uso della madrelingua era dovuto principalmente alla volontà di diffondere la nuova fede fra le masse che non
padroneggiavano il latino, ma è anche vero che le traduzioni in sloveno
dei testi religiosi prima disponibili solo in latino (la Bibbia nel 1584) e
delle opere di natura normativo-didattica (l’Abbecedario e il Catechismo nel
1550, la Regola della Chiesa protestante in Carniola, la grammatica Arcticae
horulae del 1584) gettarono le basi di una regolamentazione grammaticale dello sloveno, come pure dell’uso della lingua scritta nei testi ecclesiastici e quelli laici.
Una delle questioni più interessanti riguarda, però, la conoscenza e l’uso
della lingua slovena da parte delle famiglie nobiliari presenti in Carniola. La
regione conobbe uno sviluppo storico-sociale molto diverso da quello italiano e vale la pena delineare, a grandi linee, le differenze fondamentali: la
Penisola Appenninica si articolò, nel corso dei secoli, in comuni, signorie,
potentati e regni, ognuno con uno o più centri culturali, dove l’attività culturale dei comuni o delle corti dava lustro alla città e alla famiglia regnante.
(basti pensare all’intensa attività culturale della civiltà comunale e all’importanza delle corti rinascimentali degli Estensi, dei Medici o dei Malatesta,
solo per citarne alcune.)
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La lingua “volgare” (il fiorentino, il veneziano, il napoletano ecc.) fu a
lungo uno strumento di affermazione della propria individualità ed alterità nei confronti del potere imperiale o papale; accanto alla produzione in
latino, si affermò sempre più la produzione in volgare con una messe di
componimenti in onore dei nobili o delle personalità più in vista dell’epoca. Sembra una banalità, ma quegli scritti testimoniano pure la capacità
dei destinatari di comprendere il volgare (anche di adoperarlo, considerando che molti nobili furono anche autori di scritti in volgare).
La società slovena si articolò in modo differente: dopo il breve episodio di
un principato autonomo in Carantania, la popolazione entrò a far parte di un
regno multietnico a forte prevalenza tedesca. I centri di cultura non divennero i comuni o le signorie, bensì i monasteri (la certosa di Žiče, il monastero
di Stična) e in mancanza di una cultura prettamente laica, almeno fino all’Illuminismo, furono gli ordini religiosi i veri promotori culturali (i gesuiti, i
cappuccini, gli agostiniani): ovviamente, l’impronta data dagli intellettuali monaci aveva delle caratteristiche e delle finalità molto diverse da quella laica, che
si era sviluppata altrove in Europa. La storia slovena conosce molte famiglie
nobiliari con sede in Carniola: sicuramente la più importante fu la casata dei
conti di Celje, che alla fine del Quattrocento controllava un territorio che
comprendeva la parte meridionale della Slovenia odierna, nonché zone della
Croazia contemporanea fino all’Adriatico. Nel massimo del loro splendore, i
conti di Celje furono imparentati con le maggiori famiglie nobili dell’epoca,
fra cui gli Asburgo, che alla morte dell’ultimo conte di Celje (1456), privo di
eredi, inglobarono i loro possedimenti nei propri confini.
Le altre famiglie nobiliari presenti in Carniola e nel Goriziano (i
Turjačani-Auersperg, i Lantieri, i Coronini-Cronberg) erano di origini tedesca o italiana e a lungo si credette che non adoperassero lo sloveno nelle relazioni personali nel loro ambito: che, cioè, la parlata slovena venisse
usata solo nei contatti con i domestici e i servi della gleba, non in seno
alle famiglie dei nobili.
Questa tesi è stata respinta da Pavle Merkù nel 1971, quando pubblicò
il saggio Slovenska plemiška pisma (La corrispondenza nobiliare in sloveno). Lo studioso raccolse ed analizzò 31 lettere e vari biglietti appartenuti a Ester Massimiliana Coraduzzi e a sua figlia Isabella Marenzi. La genesi di questo ritrovamento epistolare è davvero singolare: lo storico triestino Pietro Covre trovò i documenti in una bottega antiquaria di Trieste e,
non conoscendo lo sloveno, li consegnò a Josip e Pavle Merkù, studiosi di
storia triestina, che li pubblicarono appunto nel 1971. Il libro fece scalpore per vari motivi: innanzitutto perché le lettere erano datate 1685-1700,
per cui le missive gettarono uno spiraglio importante sulla società dell’epoca e sulle norme in uso nella lingua slovena; in secondo luogo, le autrici delle lettere furono una madre e una figlia, appartenenti a due famiglie
nobiliari importanti (i Coraduzzi e i Marenzi): le lettere, scritte in sloveno,
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ricusarono la tesi di France Kidrič, secondo il quale la nobiltà di allora non
usava lo sloveno nei rapporti personali ma solo per rivolgersi ai subalterni.
Nel 1980, Martin Jevnikar pubblicò una riflessione sul libro di Merkù e
mise in risalto alcuni punti fondamentali: delineò la personalità delle due autrici (la madre di origini carinziane, ma residente a Koča vas nell’entroterra
della Carniola, di salute cagionevole; la figlia residente a Trieste già madre di
almeno uno degli otto figli avuti nel matrimonio), gli argomenti delle lettere
(gli affetti familiari, la salute, l’invio di generi alimentari di varia natura) e le
difficoltà incontrate dai Merkù nell’analisi delle missive (la grafia a volte di
difficile comprensione, l’influsso del dialetto parlato a Koča vas, la presenza di
vocaboli italiani e tedeschi). Jevnikar sottolinea l’ipotesi che fosse stato il parroco di Cerkno, Gregor Cervič, un noto intellettuale del tempo, ad insegnare
lo sloveno alle due figlie di Ester M. Coraduzzi, Isabella e Teresa, futura suora
di clausura: ciò dimostrerebbe la considerazione di cui godeva la lingua slovena almeno in certi ambienti nobiliari. Non sappiamo di che natura fosse l’insegnamento grammaticale di G. Cervič, dato che nessuna delle due autrici
usava la bohoričica – l’ortografia introdotta da Adam Bohorič – visto che essa
veniva spesso adattata e mutava da lettera a lettera.
Il nome dei Marenzi compare un’altra volta nella storia letteraria slovena
e vale la pena ricordarlo anche se non viene menzionato fra gli scritti di
Jevnikar pubblicati nell’antologia curata da Marija Cenda: del XVII secolo è
uno scritto in italiano, in cui viene ricordato il “cospicuo dono” del barone
Marenzi alla propria Confraternita. Nell’appunto si legge che il barone, recatosi a Lubiana, vi comprò dei libri “in cragnolino”, poi donati ai membri
della Confraternita, i quali ringraziarono per “sì cospicuo dono”. Il testo venne reso noto da Pavle Merkù che ne sottolineò alcune parti ancora aperte:
chi erano gli autori o l’autore dei libri in questione? La domanda non è di
poco conto se pensiamo che il periodo fra il 1615-1672 fu particolarmente
povero di opere letterarie in sloveno (del 1615 è il Catechismo di Čandek,
del 1672 la ripubblicazione dei brani tratti dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli di Schoenleben; solo a partire dal 1672 in poi è possibile parlare di una
nuova fioritura di opere in sloveno). È dunque possibile che Marenzi avesse
trovato dei libri in sloveno scritti dai protestanti? È noto che la Controriforma vietò l’uso dei testi protestanti (anche se alcuni vennero utilizzati dal
vescovo di Lubiana, Tomaž Hren, per le sue riflessioni sui Vangeli e gli Atti
degli Apostoli), molti testi furono bruciati e solo alcuni vennero portati nel
convento dei gesuiti, a Lubiana (fra i quali anche la Bibbia di Dalmatin), che
venne distrutto dalle fiamme nel ’600. Come si può vedere si tratta di una
questione non ancora risolta.
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Le omelie in sloveno
(Slovenske pridige)
M
a Jevnikar non mancò di soffermarsi anche su un altro saggio importante, quello della saggista e docente universitaria Lojzka
Bratuž, che nel 1993 pubblicò la raccolta Karel Mihael Attems: Slovenske
pridige (Le omelie in sloveno). Jevnikar sottolinea come “il libro rientri
per importanza nel novero dei saggi che dimostrano come, nel Medioevo, lo sloveno fosse presente a Trieste e a Gorizia, adoperato dal vescovo Pietro Bonomo e dalle famiglie Marenzi Coraduzzi, da Alasia di Sommaripa fino all’ arcivescovo conte Carlo Michele Attems” (Karel Mihael,
in sloveno). Attems, vissuto nel XVIII secolo, fu il primo arcivescovo del
Goriziano e si dedicò alla riorganizzazione del vescovado, che comprendeva gran parte del Litorale, della Carniola Inferiore (Dolenjska), della
Stiria (Štajerska), della Carinzia (Koroška) e della Carniola Superiore
(Gorenjska).
“Il 75% dei fedeli era di madrelingua slovena, mentre la parte rimanente era formata da fedeli italiani, tedeschi e friulani”, come ricorda
Jevnikar: “Attems parlava tutte le lingue dei suoi fedeli e ovunque si rivolgeva a costoro nella loro madrelingua”.
Lojzka Bratuž ha trovato nella Biblioteca del Seminario di Gorizia 61
testi/omelie in sloveno: 41 furono scritte da Attems di suo pugno, mentre le altre furono trascritte dagli scrivani. Per il saggio su Attems, fu
scelta una trentina di omelie riportate integralmente, mentre le altre vengono riassunte. L’autrice sostiene che Attems aveva imparato lo sloveno
già nella prima infanzia e non aveva mai smesso di arricchire il proprio
lessico anche più tardi, durante le proprie visite sul territorio “come dimostrano le espressioni dialettali e la quantità enorme di germanismi e
romanismi”.
Jevnikar non manca poi di sottolineare come Lojzka Bratuž abbia
mostrato, nel 1996, il suo interesse per gli aspetti poco noti della diffusione della lingua slovena nel Goriziano anche nella monumentale
antologia Gorica v slovenski književnosti (Gorizia nella letteratura slovena), dove sono riportati i dati su due manoscritti del XVI secolo che
testimoniano l’uso della lingua slovena nella liturgia e nelle solennità
pubbliche.
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Lojzka Bratuž
Nata a Gorizia nel 1934, è una degli
esponenti più importanti della linguistica e della storia della letteratura slovena. Dopo un periodo di insegnamento nelle scuole slovene di Gorizia,
ha ricoperto la cattedra di letteratura
slovena all’Università di Udine. Il suo
interesse è rivolto alla letteratura slovena dell’Ottocento (il poeta Simon
Gregorčič), al ruolo del Goriziano
nella cultura slovena e alle omelie del
primo arcivescovo goriziano Carlo
Michele Attems (Karel Mihael Attems).
Ha curato varie antologie e raccolte su Gorizia (ad es. Gorizia nella letteratura slovena, edito in italiano nel
1997), su Alojz Rebula e Boris Pahor.
Ha partecipato, inoltre, a seminari,
corsi e convegni tanto in ambito culturale italiano quanto sloveno.
Molti sono i riconoscimenti ricevuti per la sua attività: fra questi ricordiamo quello dello Slavistično
društvo Slovenije (la Società slavistica slovena, di cui è membro onorario), la Pro Ecclesia et Pontifice, il riconoscimento della Repubblica di
Slovenia per la sua opera di divulgazione e il titolo di commendatore,
conferitole dalla Repubblica italiana.
Manoscritti sloveni del Settecento: omelie di
Carlo Michele d’Attems (1711–1774) primo
arcivescovo di Gorizia, Istituto di lingue e letterature dell’Europa orientale, Udine,1993
Gorizia nella letteratura slovena: poesie e
prose scelte, Goriška Mohorjeva družba,
Gorizia-Gorica, 1997
Est Europa. Vol. 1, Miscellanea Slovenica: dedicata a Martin Jevnikar in occasione del Suo 70° compleanno, Università degli studi di Udine, Istituto di
lingue e letterature dell’Europa orientale “Jan I.N. Baudouin de Courtenay“,
Udine,1984
Simon Gregorčič: Canti scelti, a cura
di Lojzka Bratuž, Editoriale Stampa
Triestina, Trieste-Trst, 1990.
Ricordiamo qui alcuni dei suoi saggi:
Izgoriške preteklosti (SKD, 1993)
Iz primorske kulturne dediščine (GMD,
2008)
31
Boris Pahor
U
n testimone del nostro tempo. È
questa la definizione che in genere
accompagna il nome di Boris Pahor, uno
dei grandi esponenti della letteratura contemporanea. Triestino di nascita (1913),
Pahor sembra incarnare la storia stessa di
Trieste e del ventesimo secolo, che è stata in gran parte segnata dagli abissi in cui
è sprofondata la coscienza umana.
Pahor nasce in una famiglia modesta,
in quella via del Monte cantata anche da
Umberto Saba. È ancora un bambino
quando le fiamme devastano il Narodni
dom, l’edificio-simbolo della Trieste multi- linguistica e multinazionale; lo stabile,
costruito nel 1904 nell’allora Piazza della Caserma (oggi Piazza Oberdan)
su progetto dell’architetto Max Fabiani, era stato concepito come un centro culturale e commerciale d’avanguardia: sede di varie attività culturali,
della tipografia del giornale Edinost, nonché del Hotel Balkan, rappresentava l’apice delle aspirazioni delle varie comunità slave presenti a Trieste
all’epoca (slovena, croata, serba e céca). Per gli sloveni di Trieste e del suo
entroterra rappresentava, tra l’altro, il culmine di un processo di crescita
sociale, iniziato verso la metà dell’Ottocento, che aveva visto la nascita di
un nutrito ceto imprenditoriale, intellettuale e del cosiddetto terziario (le
famiglie Kalister e Gorjup, l’attività giornalistica ed editoriale, le numerose attività commerciali, un nutrito ceto di avvocati e politici). L’incendio
del 13 luglio 1920 non devastò soltanto l’edificio del Narodni dom, ma
divenne il simbolo della crescente aggressività dimostrata da certi gruppi
paramilitari e politici verso tutti i cosiddetti allogeni e alloglotti. Tra l’altro,
a farne le spese, dopo il Narodni dom, furono anche le Case della cultura
o Narodni domovi sparse nella periferia cittadina (si veda, ad esempio,
l’incendio del Narodni dom di San Giovanni nel 1921).
Le fiamme che distrussero il Narodni dom rimasero impresse nella memoria del giovanissimo Pahor, che certamente non afferrò del tutto il significato dell’avvenimento, ma venne colpito dalla reazione dei familiari e
da quanto seguì: la riforma Gentile con l’abolizione, fra l’altro, delle scuole slovene, il trauma subito dai bambini sloveni a causa del comportamento violento di molti maestri nei loro confronti, le difficoltà e le umiliazio32
ni incontrate nell’apprendimento dell’italiano. Tutti questi temi vengono
affrontati dall’autore nella raccolta di novelle Il rogo nel porto.
Dopo una parentesi al seminario di Gorizia, Pahor decide di dedicarsi
allo studio di letterature comparate all’università. Negli anni ’30 egli conosce alcuni membri dei gruppi sloveni di opposizione al regime, anche
se non collabora attivamente alla propaganda politica. Partecipa alle loro
gite sociali, un espediente per poter usare liberamente la lingua slovena
lontano da orecchi indiscreti (ad esempio sul monte Nanos), stringe amicizia con la famiglia Tomažič (Pino e Danica), con Stanko Vuk, esponente dell’ala cattolica goriziana di opposizione, e con altri giovani esponenti
dell’opposizione slovena di Trieste (Zora Perello). Sono anni intensi, in
cui Pahor segue il dibattito politico interno alle due anime slovene (quella comunista di Pino Tomažič e quella cattolica di Stanko Vuk, peraltro
cognati) e osserva l’ attivismo sempre più marcato del gruppo di opposizione Borba, in seguito TIGR (imputato al cosidetto “Primo processo di
Trieste” nel settembre 1930); ma sono anche gli anni delle prime esperienze sentimentali importanti e dei primi tentativi letterari: rilevante in
questo senso è stato il contatto, prima epistolare e, dopo la guerra, anche
personale, con Edvard Kocbek, uno dei grandi protagonisti della scena
politica e culturale slovena del Novecento. Fu lui ad incoraggiare Pahor a
proseguire sulla via della letteratura. Del periodo d’anteguerra resta come
documento vivo uno dei romanzi più intensi di Pahor, Zatemnitev (Oscuramento).
Nel 1940, Pahor viene chiamato alle armi e mandato in Libia, esperienza di cui parla nel romanzo Nomadi brez oaze (Nomadi senza un’oasi), nel
frattempo, però, la violenza fascista sembra non aver fine: Ferdinand Bidovec viene fucilato a Basovizza nel settembre del 1930, Lojze Bratuž,
compositore e maestro di coro, muore avvelenato nel 1937 (di lui Pahor
parla nella novella Rože za gobavca (Fiori per un lebbroso); nel dicembre
1941 viene fucilato Pinko Tomažič, nel 1944 vengono trovati morti i coniugi Danica Tomažič e Stanko Vuk; Zora Perello viene incarcerata e in
seguito mandata ad Auschwitz dove muore; gli amici di un tempo sono
scomparsi o vivono in clandestinità. Dopo l’8 settembre 1943, Pahor trascorre un periodo sulle rive del lago di Garda (Vila ob jezeru-La villa in
riva al lago), tornato poi a Trieste, viene prima incarcerato dalla Gestapo
nelle prigioni in piazza Oberdan e in seguito inviato in Germania, dove
conosce la triste esperienza del lager (Dachau, Dora Mittelzau, Harzungen,
Natzweiler-Struthof). Documento toccante di quel periodo è il romanzo
Nekropola (Necropoli), del 1966, in cui ripercorre alcuni avvenimenti di
cui è stato testimone nel lager alsaziano di Natzweiler-Struthof. La prigionia ha lasciato un solco profondo in Pahor: dal punto di vista fisico, ha
dovuto trascorrere un lungo periodo di convalescenza in un sanatorio francese; da quello psicologico, ha dovuto affrontare non solo il trauma di chi
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è sopravvissuto all’orrore, ma ha dovuto anche dare un senso alla propria
salvezza. Infine, dal punto di vista della scrittura, Pahor ha deciso di dedicare la propria attività agli ultimi, agli umiliati e offesi di dostoevskiana
memoria. Nascono così i romanzi Spopad s pomladjo (Una primavera difficile) e la già citata Necropoli.
Jevnikar mette in rilievo la struttura di Necropoli: la visita al campo si
mescola ai ricordi:
“Davanti ai suoi occhi sfilano gli esempi di annientamento della vita e
della dignità umana, l’orrore che può essere paragonato all’Inferno di Dante. Poiché Pahor ha avuto l’esperienza anche di altri campi di sterminio,
nella sua memoria si sovrappongono anche altri ricordi e, in questo modo,
la sua narrazione può essere paragonata a “un fiume di malvagità denso e
ampio.”
Nel delineare le caratteristiche dello stile di Pahor, Jevnikar sottolinea
la sua istruzione scolastica (Pahor ha frequentato le scuole in lingua italiana a partire dalla quarta classe delle elementari) e afferma che lo scrittore si è formato non dentro la tradizione letteraria slovena, bensì nell’ambito culturale italiano, leggendo soprattutto i neorealisti italiani (dopo la
guerra) e i grandi romanzieri contemporanei (Hemingway, Saroyan e Dos
Passos).
“Questa scuola si ritrova, assieme alla natura di Pahor, in tutta la sua narrativa, tanto nella forma che nel contenuto. (...) Pahor è cantore della sfera più
intima dell’uomo, della sua psiche, dei pensieri e dei sentimenti, egli è soprattutto un abile novelliere anche se scrive per lo più romanzi.”
Al centro dell’interesse di Pahor stanno alcuni temi fondamentali: la
difesa della propria nazionalità (e, di riflesso, del diritto di ognuno alla
propria), che lo porterà a sviluppare il tema anche in ambito europeo, in
veste di difensore delle minoranze; la dignità dei singoli che non può essere distinta dalla dignità e dal rispetto dovuto al corpo inteso in senso
fisico (la logica del lager si fondava, infatti, sull’annientamento del singolo
a partire dall’umiliazione del corpo attraverso il taglio dei capelli e le privazioni inflitte); il ruolo della donna che porta in sé la possibilità di procreare, dunque di salvaguardare la vita: uno degli episodi più emblematici
in questo senso viene narrato in Necropoli, dove viene ricordato il sacrificio
di un gruppo di donne e ragazze alsaziane, morte con grande dignità nel
lager di Natzweiler-Struthof; la loro fine scuote il torpore degli altri internati, uomini, che nell’uccisione dei corpi femminili vedevano soprattutto
l’annientamento della vita. E non è un caso che il ritorno alla vita dell’ex
deportato in Una primavera difficile avvenga grazie all’amicizia con Arlette,
una giovane infermiera, che però non può comprendere a fondo i traumi
subiti dall’uomo amato. Prova ne è l’episodio in cui viene narrato lo sconforto di Arlette a causa della morte del suo gatto. Come è possibile versare lacrime per la morte di un animale, si chiede stupito il giovane, dopo
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aver conosciuto lo sterminio di massa e dopo aver assistito alla morte straziante delle ragazze alsaziane?
Nella produzione successiva di Pahor, questo tema si apre a nuove interpretazioni: nel romanzo Zibelka sveta (La culla del mondo, 1999), i due
personaggi, pur tanto diversi per nazionalità, età ed esperienza di vita (lui
ex-deportato, lei giovane parigina), trovano un punto comune nell’esperienza della violenza subìta dal corpo, che nel caso della giovane è rappresentata dall’incesto. Il saggista Miran Košuta ha scritto, a proposito, di
alcuni romanzi più recenti di Pahor, che “questi continuano il filone dei
motivi topici di Pahor: dalla violenza fisica di cui è vittima il singolo e
dall’umiliazione del corpo alla questione sempre attuale della libertà individuale nel vortice dei fondamentalismi sociali o ideologici”.
Una menzione particolare merita la lingua di Pahor: Jevnikar sottolinea
la distanza che a volte corre fra le espressioni usate dallo scrittore e le norme dello sloveno letterario. A questo proposito, Jevnikar riprende le parole di Matjaž Kmecl, insigne storico della letteratura slovena:
“La struttura della frase non è monocorde, ci sono associazioni inaspettate, una spiccata capacità di registrare ed esprimere i sentimenti, la densità espressiva presente nelle descrizioni, soprattutto negli intermezzi lirici,
mentre nella lingua, soprattutto nella sintassi, ci sono frequenti regionalismi e italianismi.”
Ma l’attività di Pahor non si limita alla produzione letteraria: infatti, si
è trovato spesso al centro del dibattito politico e culturale degli ultimi decenni. Come non ricordare l’esperienza delle riviste culturali “Sidro” (L’ancora) e “Zaliv” (Il golfo), in cui lo scrittore affrontava la questione jugoslava e alcuni spinosi problemi culturali? Strenue difensore dell’identità
nazionale e della libertà dei singoli, Pahor ha polemizzato apertamente col
regime jugoslavo, reo di non considerare prioritaria la questione nazionale in nome dell’ideale proletario e di non garantire il diritto dei singoli
alla libertà, intesa anche come libertà d’espressione e di credo politico. È
stata la consorte di Pahor, Radoslava Premrl, a fare le spese di queste scelte politiche, venendo licenziata da un’impresa commerciale slovena di
Trieste, legata a doppio filo al regime jugoslavo dell’epoca.1 Ma lo scontro
più duro si ebbe nel 1975, quando la rivista “Zaliv” pubblicò l’intervista
fatta da Pahor e Alojz Rebula, altro grande esponente della cultura triestina contemporanea, a Edvard Kocbek in occasione dei 70 anni dell’intellettuale sloveno (1904-1981). Kocbek, che aveva aderito al personalismo
dopo un soggiorno a Parigi negli anni ’30, in patria divenne presto una
delle voci più importanti della cultura e della politica slovena antecedente
la seconda guerra mondiale, pubblicando anche una raccolta di versi
1 Cfr. Tatjana Rojc, Življenjska tovarišica- La compagna di una vita, in: “Artecultura”, Hammerle editori, Trieste, 2013 (numero monografico per i 100 anni di Pahor), pp. 10-13.
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(Zemlja - La terra). Esponente della corrente cristiano-sociale, si era imposto nel 1937, in piena guerra civile spagnola, con un articolo sulle connivenze della Chiesa cattolica spagnola con le posizioni di Franco e sulle
differenze fra le posizioni politiche dei sacerdoti più vicini al popolo e le
alte gerarchie. La “riflessione sulla Spagna” provocò una crisi profonda
Zaliv
La rivista “Zaliv” (Golfo) nasce a Trieste
nel 1966 come “rivista per la letteratura e
la cultura”. Nel comitato di redazione figurano alcuni degli autori più importanti
della letteratura e cultura slovena in Italia:
Marko Kravos, Danijela Nedoh, Igor Tuta,
Boris Pahor e, in qualità di direttore responsabile, Milan Lipovec. La rivista uscì
dapprima in quattro numeri all’anno, poi
dal 1982 al 1990 con un unico numero
annuale sotto forma di raccolta. Molti e
autorevoli furono i collaboratori della rivista: ricordiamo lo scrittore Alojz Rebula,
l’etnomusicologo e linguista Pavle Merkù
e il compositore Ubald Vrabec. Dal 1975
subentrarono nella direzione Lipovec e
Pahor, mentre un sostegno ad ampio raggio venne offerto anche da Radoslava
Premrl, la moglie di Pahor.
La rivista si occupò prevalentemente
di temi letterari, politici e nazionali
(guardando con interesse alle diverse minoranze presenti in Europa). Il collaboratore con cui la rivista si identificò maggiormente fu Boris Pahor che si occupò
principalmente di tematiche riguardanti
la democrazia, il dibattito politico nella
Jugoslavia socialista e le varie libertà
dell’uomo.
Nel 1974 la rivista si ritrovò al centro
di aspre polemiche, a causa di una coraggiosa intervista di Pahor e Rebula all’intellettuale sloveno Edvard Kocbek
(1904-1981). In quell’occasione, Koc-
bek parlò apertamente delle liquidazioni
sommarie nella Jugoslavia dell’immediato dopoguerra (la cosiddetta “questione
dei domobranci”) e questo provocò una
violenta reazione che investì tanto Kocbek quanto i collaboratori del “Zaliv”:
Kocbek subì un vero e proprio linciaggio
verbale e alcuni suoi collaboratori finirono in carcere in Slovenia, mentre i triestini Pahor e Rebula non poterono più
recarsi liberamente in Jugoslavia, essendo seguiti e interrogati più volte dagli
agenti dell’Udba (il servizio segreto jugoslavo). L’intervista venne poi ripubblicata in un volume nel 1975.
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nell’ambito della rivista cattolica Dom in svet. In seguito Kocbek aderì alla
lotta partigiana, convinto della necessità che anche il movimento cristianosociale collaborasse alla liberazione della Slovenia e della Jugoslavia.
Nell’immediato dopoguerra, a Kocbek furono affidati dei ruoli politici di
rilievo, che gli vennero tolti negli anni tra il 1948-1952, dopo la pubblicazione delle memorie di guerra Tovarišija (La compagnia), e soprattutto
della raccolta di novelle Strah in pogum (La paura e il coraggio), in cui
l’autore sottolineava la componente umana della lotta partigiana senza trascurare i dubbi, i timori e gli errori compiuti dai “compagni”. Entrambe le
pubblicazioni si discostavano dall’immagine agiografica della lotta di liberazione su cui si fondava anche il regime jugoslavo (i vertici, a cominciare
da Tito, erano stati tutti membri attivi del movimento partigiano) e provocarono l’allontanamento di Kocbek da tutte le cariche pubbliche e una
violenta campagna denigratoria nei suoi confronti durata fino ai primi anni ’60. Parte di quella polemica investì anche Pahor, che aveva recensito
Strah in pogum per il “Primorski dnevnik”, mettendone in luce le peculiarità storiche ed artistiche del testo. Quando, nel 1975, uscì l’intervista con
Kocbek, tanto Pahor quanto Rebula subirono pesanti ripercussioni. Kocbek, infatti, per la prima volta, aveva parlato espressamente dell’uccisione
dei domobranci avvenuta nell’immediato dopoguerra; il tema era stato un
tabù per tutti gli anni dopo il grande conflitto e, ufficialmente, l’eccidio
non si era mai consumato. Le affermazioni di Kocbek, che nel primo dopoguerra aveva ricoperto ruoli importanti e che dunque parlava a ragion
veduta, provocarono una tempesta che investì Kocbek stesso, Pahor e Rebula ai quali venne vietato di recarsi in Jugoslavia, i loro libri proibiti e
loro stessi vennero pedinati e interrogati dagli agenti della polizia segreta
jugoslava, l’Udba). Pahor riebbe il permesso di varcare il confine italojugoslavo appena dopo la morte di Tito (1980) e lo fece per partecipare
al funerale di Kocbek (1981).
Oggi, Pahor è uno degli intellettuali più noti a livello europeo, più volte menzionato anche fra i possibili candidati al premio Nobel. Buona parte di questa notorietà si deve alle traduzioni (a cominciare da quelle in
lingua tedesca e francese), che hanno fatto conoscere non solo lo scrittore,
ma anche – come lui stesso ama ripetere – la tragedia provocata dal fascismo e dal nazismo. E le molte onorificenze ricevute negli ultimi anni in
Europa e in Italia (fra cui ricordo soltanto, per il loro valore simbolico,
l’omaggio del Presidente della Repubblica di Slovenia e delle autorità del
Comune e della Provincia di Trieste) rappresentano per lui un omaggio
anche alle vittime dei totalitarismi che hanno insanguinato gran parte del
secolo scorso. Fortemente simbolico in questo senso rimane l’invito rivolto da Pahor durante la celebrazione del suo centesimo anniversario (tenutasi al Kulturni dom di Trieste il 28 agosto 2013) al pubblico presente di
applaudire non lui, bensì tutti gli umiliati ed offesi di un tempo che hanno
37
pagato con la vita la violenza fascista e nazista. Affinché nessuno dimentichi gli orrori del passato l’anziano scrittore viaggia ancora spesso e accetta volentieri di parlare ai giovani nelle varie scuole d’Italia. Per questo
motivo, è più che consona la definizione che lo accompagna di “testimone”
del nostro tempo.
Forse, a caratterizzare meglio Boris Pahor, sono proprio le sue parole,
che accompagnano il lettore nella lettura della monumentale biografia curata da Tatjana Rojc (2013):
“Come Camus invidio coloro che, quando non ci sarò più, ameranno i
fiori e le belle donne e, come Kosovel, invidio chi ascolterà ancora la bora fra i pini.”
Tatjana Rojc
razsežnosti slovenskega pesništva od
Prešerna do Kosovela (Riflessioni sui
nuovi orizzonti nella poesia slovena da
Prešeren a Kosovel, GMD 2005) e la
pubblicazione della corrispondenza
inedita di Srečko Kosovel.
Nel 2013, Tatjana Rojc ha curato
l’imponente biografia di Boris Pahor
dal titolo Tako sem živel (Così ho vissuto, Ljubljana) presentata in occasione
di Pahoriana, le celebrazioni in onore
del centesimo compleanno dello scrittore. Il volume è stato tradotto in italiano e pubblicato dalla Rizzoli.
Una delle maggiori interpreti della
produzione di Srečko Kosovel, Alojz
Rebula e Boris Pahor è sicuramente
Tatjana Rojc. Docente di Letteratura e
di Lingua slovena presso varie università (Roma, Udine, Trieste, Ljubljana,
Nova Gorica), si occupa principalmente di letterature comparate e di critica letteraria.
Nei suoi scritti ha valorizzato soprattutto la produzione letteraria slovena in Italia e contribuito alla sua conoscenza anche tramite la conduzione, presso la RAI, di varie trasmissioni radiofoniche di argomento letterario, la sceneggiatura di docu-film
(l’ultimo su Zora Tavčar) e varie opere monografiche.
Nella sua attività divulgativa, molto
ampia, rientrano svariate introduzioni,
saggi e interviste con i più importanti
esponenti della letteratura slovena. Qui
ricordiamo almeno il suo saggio Lettere
slovene dalle origini all’età contemporanea (GMD, 2004), rivolto al lettore italiano, il volume Pogledi na nove
Dei numerosi testi di Tatjana Rojc segnaliamo qui solamente alcuni:
Tako sem živel: stoletje Borisa Pahorja, Cankarjeva založba, Ljubljana, 2013.
Le lettere slovene dalle origini all’età contemporanea, Goriška Mohorjeva družba, Gorizia, 2005 (prefazione di Cristina Benussi).
Pogledi na nove razsežnosti slovenskega
pesništva od Prešerna do Kosovela, Goriška
Mohorjeva družba, Gorica, 2005.
38
Alojz Rebula
U
no degli intellettuali sloveni più importanti del nostro tempo. Alojz Rebula, nato nel 1924 a Šempolaj (San Pelagio) presso Trieste, rappresenta con Boris Pahor la figura simbolo della letteratura slovena in Italia: benché i due autori
siano profondamente diversi fra loro, non
mancano importanti punti in comune, ad
esempio la dimensione umanistica e il valore dato alla madrelingua.
Rebula nasce in una famiglia modesta.
Dopo gli studi compiuti nelle scuole italiane (avendo la riforma Gentile, nel
1923, cancellato tutte le scuole con la lingua d’insegnamento diversa dall’italiano), frequenta il ginnasio classico a Gorizia e Udine, dopodiché si iscrive
alla facoltà di Filologia classica dell’Università di Lubiana, dove segue i
corsi tenuti da alcuni filologi classici dell’epoca, fra cui Anton Sovré. Dopo la laurea (1949) comincia ad insegnare nelle scuole slovene di Trieste,
dapprima alle medie inferiori e successivamente al Liceo classico France
Prešeren, dove insegna latino e greco fino al pensionamento (1989). Rebula ha conseguito un dottorato anche all’Università La Sapienza di Roma
con una tesi sulla Divina Commedia nelle traduzioni slovene (1960). Nel
1995 ottiene il Premio Prešeren, il riconoscimento sloveno più importante, mentre per la sua riflessione di matrice cristiana Rebula è uno dei mem­
bri dell’Accademia pontificia di Roma. È anche membro dell’Accademia
slovena delle Scienze e delle Arti.
All’insegnamento, Rebula affiancò una ricca attività di romanziere, traduttore della Bibbia e di testi classici, condirettore di alcune fra le riviste
più significative del panorama sloveno in Italia negli anni ’50 e ’60: “Sidro”
(L’àncora) nel 1953; “Tokovi” (Le correnti), nel 1957; successivamente
“Zaliv” (Il golfo), con Boris Pahor e Milan Lipovec; oggi pubblica ancora
le proprie riflessioni in riviste di ispirazione cattolica (“Družina”, edito in
Slovenia), continua la propria attività di scrittore e partecipa al dibattito
culturale ed etico del nostro tempo prendendo parte, anche in veste di
relatore, alle giornate di studio Draga, che si tengono a Opicina (Trieste)
ai primi di settembre di ogni anno. I suoi scritti sono tradotti in varie lingue europee.
39
Jevnikar delinea così i tratti principali di Rebula: “Tutte le opere di Rebula sono frutto delle sue riflessioni e delle sue credenze personali e delle
aspirazioni personali e ogni testo nuovo rappresenta la loro maturazione.
I suoi personaggi vivono un forte dissidio interiore: la vita tradizionale di
paese e la fedeltà alle proprie origini nazionali si contrappone, in loro, al
fascino della grande città o del mondo.”
Al centro dei suoi scritti, come romanziere e come pensatore, ci sono
i temi fondamentali della storia umana: la solitudine del singolo davanti
all’imperscrutabile mistero della vita, di Dio e della morte. A ciò lo scrittore affianca la riflessione sulla questione nazionale e sulla responsabilità
di cui è investito l’artista. A questi dilemmi Rebula risponde con la ricerca tormentata del senso della vita umana: il cattolicesimo, di cui viene
sottolineato il valore salvifico, si afferma sì come il senso più alto delle
aspirazioni umane, ma a prezzo di laceranti tormenti interiori e mai come
valore scontato.
Questi temi permeano tutta l’opera di Rebula, in cui si contano più di
quaranta titoli solo fra i romanzi, ma vengono di volta in volta declinati al
passato classico, al medioevo millenarista, al rinascimento sloveno del Settecento oppure al Novecento, teatro di violenze totalitarie di varia natura.
Vediamo alcuni esempi.
Il nome di Rebula viene forse associato maggiormente al suo romanzo più noto, V Sibilinem vetru (Nel vento della Sibilla), del 1968. Sullo
sfondo della Roma di Marco Aurelio, si snoda la vicenda avventurosa di
Nemesiano, barbaro iapigo, che vede distrutto il proprio villaggio nei
dintorni di Poetovium (la città slovena di Ptuj) e, ancora bambino, viene portato a Roma come schiavo. Lì viene affrancato dalla schiavitù, può
studiare, è testimone della diffusione del cristianesimo nel mondo antico e dei progetti che miravano ad instaurare la repubblica al posto del
principato. Infine, dopo aver conosciuto anche la vita militare e la schiavitù, l’esistenza di Nemesiano si conclude nella natìa Iapighia con la
compagna Elettra. Nel romanzo, che è stato insignito del Premio Acerbi
per la traduzione in italiano (1997), Nemesiano vive la lacerazione di
chi ha visto i Romani distruggere il suo mondo e però deve agli stessi
Romani la possibilità di riscatto culturale e sociale vissuto in prima persona; ha dovuto rinunciare alla lingua materna e imparare il latino, ma
non ha mai smesso di ricercare le proprie radici; Nemesiano conta fra i
suoi amici anche dei cristiani e si addentra in riflessioni dove le posizioni cristiane vengono messe in discussione da diversi punti di vista filosofici. In sostanza, il romanzo rappresenta la summa degli interessi di
Rebula: il senso della vita umana, il mistero, la questione nazionale, il
valore del cristianesimo.
Jevnikar sottolinea come nel romanzo si possano tracciare dei parallelismi con la situazione contemporanea: la dittatura, la repressione subìta
40
dai piccoli popoli, la polizia segreta, il lavoro coatto, la repressione religiosa e la divinizzazione dei potenti:
“Ai vari personaggi, tanto schiavi che imperatori, ha saputo dare vita
tanto nella loro fisicità che nel carattere: davanti agli occhi del lettore si
ergono in tutta la loro umanità e pienezza.”
Anche in altri romanzi ritornano i temi principali dello scrittore. Nel
romanzo Jutri čez Jordan (Domani oltre il Giordano, 1988), la ricerca della patria, l’angoscia davanti al mistero dell’esistenza e la questione nazionale rivivono in due ebrei, padre e figlio, che nell’antichità biblica coltivano il sogno di attraversare il Giordano in cerca della Terra promessa, vivono la tensione costante verso Dio pur con tanti interrogativi e discutono sulla differenza fra la “lingua d’uso” (il greco) e la “lingua del cuore”
(l’ebraico), che soprattutto il figlio, cresciuto nell’ambiente cretese e inserito nella società greca del tempo, tende a sottovalutare. Il tema del romanzo richiama uno dei punti più importanti di Rebula, frutto della sua
esperienza autobiografica:
“I miei anni giovanili sono stati derubati della cosa più importante:
della scuola nella madrelingua. La scuola elementare e il ginnasio erano
italiani. Il dialetto familiare era alquanto scarso, impoverito fino all’osso
dal tedesco ferroviario e dall’italiano di fabbrica, per questo motivo dovetti imparare lo sloveno praticamente da zero.”
Maranathà ali leto 999 (Maranathà ovvero l’anno 999, pubblicato nel
1996) pone l’accento sul millenarismo presente nella cultura medievale
occidentale e sulle risposte che i singoli cercavano di dare alla propria paura di fronte alla fine del mondo incombente: il “mille et non plus mille”
diventa così la chiave attraverso cui i vari personaggi cercano di dare un
senso alla propria vita; chi ricerca l’edonismo, chi decide di implorare la
grazia divina in Terrasanta e chi decide di attendere la venuta di Dio nel
monastero di San Giovanni in Tuba (Štivan) presso la foce del Timavo,
vicino a Trieste. La scoperta che la “fine del mondo” è già passata (uno
dei monaci ha dato volutamente delle informazioni sbagliate sullo scorrere delle ore) dà sollievo solo temporaneo al personaggio principale, dato
che la questione di fondo sullo scopo ultimo della vita umana resta comunque ben presente nel suo pensiero.
Questi temi sono stati presentati sullo sfondo anche di altri periodi
storici, come a voler sottolineare l’universalità delle questioni poste in rilievo. In Zeleno izgnanstvo (Esilio verde, 1982) è intorno alla figura storica
del vescovo di Trieste Enea Silvio Piccolomini (futuro papa Pio II) che si
dipana la vicenda storica e psicologica sullo sfondo di una Trieste antecedente la riforma protestante, mentre in un romanzo più recente, Četverorečje
(I quattro fiumi, 2011), Rebula delinea la società slovena del Settecento,
all’epoca del rinascimento culturale promosso dal barone Žiga Zois e dai
membri del suo circolo culturale (Valentin Vodnik, Anton Tomaž Linhart,
41
Jurij Japelj e Blaž Kumerdej). Ma il
periodo storico scelto da Rebula
vide anche il cataclisma della Rivoluzione francese e il diffondersi
delle parole d’ordine della Rivoluzione (“Liberté, egalité, fraternité”), che infiammano il giovane
sloveno Norbert fino a portarlo
nella Parigi giacobina, dove finirà
ghigliottinato, ma senza aver perso
la fede negli ideali più alti della Rivoluzione: quelle parole d’ordine
che, così sperava, avrebbero portato alla nascita anche di un popolo
sloveno nuovo e di una società slovena nuova, profondamente mutata rispetto a quella aristocraticofeudale e cosciente di sé in quanto
nazione.
La Trieste postbellica del Territorio libero e delle polemiche sulla
zona A e B rappresenta, invece, lo
sfondo dell’altro romanzo più importante di Rebula, Senčni ples (Il
ballo delle ombre, 1960). Al centro
della vicenda si trova Silvan Kandor, un giovane insegnante presso
le scuole slovene riaperte a Trieste
dopo il ’45. La sua vita si divide fra
il lavoro (con scene realistiche di
vita scolastica) e la stesura di un
racconto sulla vicenda personale e
familiare di un imprenditore sloveno che dopo il trasferimento dal
paese natio a Trieste rinuncia alla
propria identità e alla propria lingua assimilandosi. Nel romanzo
Rebula intreccia la macrostoria (il
TLT, l’emigrazione in Australia, il
dibattito politico sui rapporti italojugoslavi, l’esodo dalla Jugoslavia)
e le vicende ai margini dei grandi
eventi (la composizione di un ro-
Miran Košuta
Fra gli esponenti più in vista della cri­
tica letteraria slovena in Italia va an­
noverato Miran Košuta, che all’attivi­
tà di studioso della letteratura affianca
quella di scrittore. Nato nel 1960, ha
studiato presso il Liceo classico France Prešeren di Trieste. Dopo la laurea
all’Università di Ljubljana e una pa­
rentesi come traduttore presso il Tri­
bunale di Trieste, ha intrapreso la
carrie­ra di docente universitario dapprima a Roma e oggi all’Ateneo triestino. Per un mandato è stato presidente dell’Associazione slavistica slovena (Zveza slavističnih društev Slovenije). Interviene regolarmente a varie
conferenze e giornate di studio nonché convegni di studi slavistici (Vilenica, Lituania, Zagabria, Klagenfurt).
È autore di numerosi saggi in lingua
slovena ed italiana, nei quali presenta
e approfondisce soprattutto alcune
questioni chiave degli autori sloveni
in Italia e in Slovenia (Vladimir Bartol, Alojz Rebula, Miroslav Košuta,
Ciril Zlobec, Srečko Kosovel, per ci-
42
manzo, la vita sentimentale di Kandor, le sue discussioni filosofiche e culturali con gli amici e il vecchio insegnante De Martinis). In questo modo,
il romanzo diventa uno degli affreschi più notevoli sulla Trieste del secondo dopoguerra e sul travaglio interiore di chi ha conosciuto l’aggressività
fascista e vede oggi svanire tanti sogni e aspirazioni, che non hanno retto
alla realtà dei tempi.
Fra i libri di Rebula tradotti in italiano, Nokturno za Primorsko (Notturno sull’Isonzo) è forse quello che ha avuto l’eco maggiore: pubblicato
nel 2004 e vincitore, l’anno dopo, del premio Kresnik per il miglior romanzo sloveno dell’anno, il libro è stato poi tradotto in italiano e l’autore
stesso è stato insignito del Premio Mario Rigoni Stern (2012). Il libro
prende lo spunto dall’esistenza di don Filip Terčelj, figura di spicco fra i
sacerdoti e gli intellettuali sloveni della prima metà del Novecento, che ha
conosciuto la violenza fascista, quella nazista, finendo poi assassinato da
tarne solo alcuni), i possibili dialoghi interculturali italo-sloveni e la diffusione della
letteratura slovena nell’ambito italiano
(Tamquam non essent?: traduzioni italiane di
opere letterarie slovene, 1992; Scritture parallele: dialoghi di frontiera tra letteratura slovena e italiana, 1997; Slovenica: peripli letterari italo-sloveni 2005;).
È inoltre lui stesso scrittore (Rapsodija
v treh stavkih, ZTT-EST,1989) e traduttore
(Franciska, 1999; Obiskovalka - La visitatrice, 2005: entrambi di Fulvio Tomizza).
Proprio del debutto di Košuta come narratore parla Jevnikar nell’antologia: di
Rapsodija v treh stavkih (Rapsodia in tre
parti) mette dapprima in rilievo la struttura, caratterizzata da tre gruppi di novelle, il che la rende simile alle rapsodie musicali; poi, analizza i vari racconti: alcuni
sono autobiografici, altri di impronta storica- come la vicenda della Dama bianca
di Duino, attualizzata sul tema dell’incomprensione fra i coniugi; infine, la vicenda
di un intellettuale diviso fra l’aspirazione
alla “grande opera letteraria” e il realismo
quotidiano e la storia di Ana, che per necessità finisce sui marciapiedi di Trieste.
43
Jevnikar sottolinea soprattutto il virtuosismo linguistico dell’autore, che spazia
dall’espressività barocca alle forme dialettali.
Fra le opere si ricordano qui solamente alcune:
Tamquam non essent? - traduzioni italiane di
opere letterarie slovene, in “Metodi e ricerche”
anno 11, n.. 1, 1992;
Lemmi rebuliani: 10 parole-chiave dal vocabolario artistico e ontologico di Alojz Rebula, scrittore
sloveno triestino, in “Metodi e ricerche”, N.S.
14,1 (gennaio-giugno 1995);
Scritture parallele, Lint 1997, Trieste;
Krpanova sol, Cankarjeva založba , 1996;
Cent’anni di inquietudine: per un bilancio delle
traduzioni italiane di poesia slovena, “Ricerche
slavistiche”, N.S., Vol. 1 (XLVII), Il Calamo,
Roma, 2003;
Slovenica: peripli letterari italo-sloveni, Diabasis,
Reggio Emilia, EST - ZTT, Trieste, 2005 (introduzione di Claudio Magris);
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin - Versi diversi: poeti di due minoranze, a cura di Miran
Košuta Unione italiana,; Capodistria - Italijanska unija, Koper, 2006 (introduzione di Ciril Zlobec).
quella comunista. Nel libro, Rebula tratteggia la figura di un uomo profondamente credente, ma consapevole che il vero credo sia rappresentato
da un cristianesimo militante, operante nella società, non rinchiuso nelle
chiese, quasi avulso dal tempo storico. Questa fede viene messa continuamente alla prova e provoca aspri travagli e dubbi nel sacerdote, risolvendosi poi nell’accettazione piena e cosciente del volere divino.
Di Rebula va ricordata, oltre ai romanzi, anche la sua produzione novellistica (ad es. Vinograd rimske cesarice - La vigna dell’imperatrice romana,
1956, trad. it. 2013; Arhipel - Arcipelago, 2002), diaristica (i diari “americani” Oblaki Michigana - Le nubi del Michigan, e Vrt bogov - Il giardino degli
dèi; i diari sui vari momenti della sua vita, ad esempio Previsna leta), le produzioni radiofoniche, le biografie (sui vescovi sloveni Anton Martin Slomšek
e Friderik Irenej Baraga) e i saggi presenti in varie riviste e pubblicazioni.
All’interno di questa attività, una menzione di rilievo spetta all’intervista
fatta, con Boris Pahor, all’intellettuale sloveno Edvard Kocbek (1975) che
provocò delle reazioni politiche e culturali assolutamente negative verso l’opera e la persona dei tre protagonisti (si veda il capitolo su Pahor).1
Duh Velikih jezer- Lo spirito dei Grandi laghi (1980) su Friderik Irenej Baraga (1797-1868),
missionario sloveno fra gli Indiani dei Grandi laghi e in seguito primo vescovo della diocesi
istituita sul territorio; autore delle prime grammatiche delle lingue indiane del luogo e dei
primi testi scritti in queste lingue.
Pastir prihodnosti - Il pastore del futuro (1999) su Anton Martin Slomšek (1800-1862), coevo di France Prešeren; trasferì la sede vescovile a Maribor e fu l’autore di libri dedicati all’istruzione nelle cosiddette “scuole domenicali”, rivolte ai bambini dei contadini, che spesso
non riuscivano a frequentare la scuola durante l’orario infrasettimanale. Slomšek fu attivo nel
dibattito politico, culturale e linguistico del suo tempo e molti suoi componimenti poetici
(profani e di natura religiosa) sono stati musicati e sono divenuti parte integrante della cultura letteraria slovena.
Srečko Kosovel, minatore del mistero (sul grande poeta sloveno, 1904-1926), in “Trieste fra
umanesimo e religiosità”, 1986, in Alojz Rebula, Da Nicea a Trieste, San Paolo ed., 2012.
Jakob Ukmar (sul sacerdote sloveno triestino, 1878-1971, grande figura di intellettuale, autore di un’importante omelia contro il fascismo nel 1931), Studio Tesi 1992.
1
44
Vinko Beličič
U
n poeta lirico, che ha saputo cantare
due patrie, la Bela krajina e il Carso
con la “gmajna”, il paesaggio brullo dell’Altipiano, con accenti di intensa partecipazione.
Nato nel 1913 a Črnomelj in Bela krajina, vicino al confine odierno con la Croazia,
Beličič si è affermato come poeta, scrittore
e traduttore. Dopo la laurea in slavistica
all’Università di Lubiana (1940), ha ulteriormente approfondito gli studi a Milano.
Per le sue posizioni anticomuniste, ha lasciato la Jugoslavia nell’immediato dopoguerra e si è stabilito a Trieste: qui è stato
per molti anni insegnante nelle scuole slovene, istituite nuovamente dopo la guerra, inserendosi nella vita culturale della minoranza. Ha collaborato con la Radio Trst A, la sezione radiofonica slovena della Rai regionale; è stato membro attivo della rivista Mladika e della
Casa editrice, dell’Associazione degli intellettuali sloveni (Društvo slovenskih
izobražencev) e ha partecipato per anni alle giornate di studio Draga, ad Opicina, presso Trieste. Fra i vari libri pubblicati da Beličič si segnalano le raccolte poetiche Češminov grm (Il cespuglio dei crespini, 1944) e Gmajna (1967),
mentre le riflessioni di attualità sono state pubblicate in Prelistavanje poldavnine (Lettura del passato prossimo, 1980) e Leto odmrznitve (L’anno del disgelo,
1992). Nel 1973, in occasione dei 60 anni dell’autore, è stata pubblicata l’antologia poetica Bližine in daljave (Vicinanze e lontananze), di cui Martin Jevnikar ha scritto l’introduzione e che riporta 54 poesie di Beličič.
A Beličič è stato assegnato il premio Vstajenje (Resurrezione) nella sua
prima edizione (1963). Alcune sue liriche sono state musicate da importanti
compositori sloveni (Marijan Lipovšek, Aleksander Vodopivec, Ubald Vrabec).
Jevnikar analizza la poesia di Beličič mettendo in risalto soprattutto l’amore che l’autore prova per la Bela krajina: “Beličič è figlio della Bela krajina, una regione povera, dotata di una bellezza particolare e dove sono ancora vivi gli usi e i costumi di un tempo. (...) I suoi anni giovanili sono stati caratterizzati dalla miseria e dalla solitudine: ad eccezione della madre non
aveva altra compagnia al di fuori degli animali selvatici, delle betulle bianche
e dei cespugli di crespini in fiore.” L’altro polo della poesia di Beličič è rap45
presentato dalla gmajna, il paesaggio brullo dell’Altipiano carsico: “Il poeta
vive la gmajna in tutte le stagioni dell’anno, è felice dei fiori primaverili, del
verde, degli uccelli e del loro canto come anche della gmajna in autunno ed
inverno, quando scende il silenzio e il suo cuore echeggia ancora di più”. E
ancora: la gmajna diventa l’approdo dei sentieri perduti, un luogo odoroso,
ricco di fiori, di ori autunnali e di pietre: “Nessun poeta sloveno ha assorbito così la sua bellezza, la sua immensità e la sua grazia e nessuno ha tradotto questi elementi in versi meditati, musicali, liberi, ma non “moderni” a
tutti i costi. La lingua di Beličič è, in tutti i suoi scritti, simile a un recipiente che risuona come il cristallo fra le
mani dell’artigiano.”
Jevnikar presenta anche i testi in
Fra le opere di Vinko Beličič si ricordano qui solamente alcune:
prosa di Beličič: dei racconti
Češminov grm, Ljubljana, Ljudska knji(Kačurjev rod - La stirpe di Kačur,
garna, 1944
1952; Med mejniki - Fra gli opposti,
Zelenica pod Krnom, Trst, 1947
1971, per citarne due) dice che sono autobiografici, per la maggior
Kačurjev rod, Gorica, Goriška Mohorjeva družba, 1952
parte ambientati in Bela krajina, con
Pot iz doline, Trst, Tabor, 1954
uno sguardo sulle vicende belliche
nella regione; la memorialistica, inDokler je dan, Buenos Aires, Tabor,
1958
vece – Prelistavanje poldavnine (Lettura del passato prossimo, 1980) –
Nova pesem, Buenos Aires, Slovenska
kulturna akcija, 1961
viene da Jevnikar paragonata a quelGmajna, Trst, Mladika, 1967
li di Alojz Rebula e Boris Pahor, dove i momenti autobiografici vanno
Med mejniki, Gorica, Goriška Mohorjeva družba, 1971
di pari passo con le riflessioni politiche e filosofiche, mentre Beličič
Nekje je luč, Opčine (Trst), Tabor, 1975
presenta soprattutto alcuni momenLeto borove grizlice, Celovec, Družba sv.
ti della propria vita, la famiglia, la
Mohorja, 1981
scuola, le amarezze e le gioie che ha
Človek na pragu, Celovec, Mohorjeva
družba, 1985
vissuto.
Jevnikar ricorda ancora che in
Pesem je spomin, Trst, Tabor, 1988
occasione
del centenario della morIzbrane pesmi, Trst, Založništvo
te di Alessandro Manzoni Beličič
Tržaškega tiska, 1991 (saggio introduttivo di Tone Pavček)
ha tradotto e commentato gli Inni
Bližine in daljave, Trst, Mladika:
sacri col titolo Svete himne (1973):
Knjižnica Dušana Černeta, 1993 (pre“Desideravo presentare al lettore
fazione di Martin Jevnikar)
sloveno il testo manzoniano in moNa vetrovni postojanki, Celje, Mohorjeva
do da far risaltare la profondità deldružba, 1997
la fede dell’autore, la bellezza della
Žolto-rdeči voziček, Trst, Mladika, 2000
sua poesia e la completezza della
sua costruzione poetica.” Beličič è
mancato nel 1999.
46
Mladika
Mladika (Germoglio) è il nome della
Casa editrice slovena di ispirazione
cristiana e della rivista omonima. Entrambe vengono fondate a Trieste nel
1957 grazie a un gruppo di intellettuali, fra i quali ricordiamo Jože Peterlin, Stanko Janežič, Maks Šah, Ljubka
Šorli e Vinko Beličič. In seguito collaborano anche Lev Detela, Martin
Jevnikar, Alojz Rebula, Zora Tavčar e
Vladimir Kos, tutti autori affermatisi
nel campo della prosa, poesia e drammaturgia.
Scopo principale del gruppo è la
promozione degli ideali di ispirazione
cristiana e il sostegno della vita culturale degli Sloveni in Italia, in Austria e
nella diaspora.
La rivista “Mladika” è oggi l’unica
rivista degli Sloveni in Italia sopravvissuta a molte altre (fra le quali ricordiamo almeno “Zaliv”) che erano sorte
negli anni ’50 e ’60. Si occupa principalmente di temi riguardanti la questione nazionale, l’aspetto spirituale e
la vita culturale, politica e sociale degli
Sloveni.
Dal 1973, la rivista promuove un
concorso letterario aperto a tutti gli autori, mentre dal 1982 i collaboratori
più giovani possono pubblicare i propri testi nell’allegato “Rast” (Crescita).
Per quanto riguarda più specificatamente l’attività della Casa editrice, il
primo titolo della Mladika è uscito nel
1961 con un contributo letterario di
Bruna Marija Pertot, seguita poi, da altri autori tra cui ricordiamo Boris Pahor, Miroslav Košuta, Marko Sosič,
Vilma Purič, Evelina Umek, Marija
Pirjevec, Pavle e Jasna Merkù.
Le scelte editoriali della casa editrice Mladika spaziano dalla letteratura
alla saggistica, differenziando la proposta culturale sia per un pubblico adulto
che per uno più giovane.
Per merito dei collaboratori della
Mladika sono sorte varie iniziative
culturali, tra cui ricordiamo le “Giornate di studio di Draga” (dal nome
della località Draga Sant’Elia dove le
giornate ebbero luogo in origine) che
oggi invece si tengono a Opicina nel
mese di settembre di ogni anno, e la
costituzione dell’Associazione degli
intellettuali sloveni (Društvo slovenskih izobražencev), molto attiva ancora oggi, con serate di approfondimento culturale e di stretta attualità
che si svolgono a Trieste nella sede
storica di via Donizetti.
47
Due casi letterari:
Marija Mijot e Vladimir Bartol
G
li anni ’60 e ’70 furono ricchi di stimoli culturali: agli esponenti già
presenti nell’ambito culturale sloveno degli anni precedenti (Ciril
Kosmač, per un periodo anche Edvard Kocbek) e ai giovani protagonisti
del cosiddetto nuovo filone intimista (Ciril Zlobec, Tone Pavček, Janez
Menart e Kajetan Kovič) si affiancarono le nuove avanguardie moderniste
da Veno Taufer, Gregor Strniša, Dane Zajc a Tomaž Šalamun, Svetlana
Makarovič, Franci Zagoričnik e altri.
Parte di questa vivacità culturale venne avvertita anche nell’ambito della comunità slovena in Italia, poiché alcuni suoi giovani intellettuali completarono gli studi universitari a Ljubljana e vissero dunque in prima persona i vari movimenti culturali, politici e sociali che caratterizzarono quel
periodo della storia jugoslava in genere e slovena in particolare (Miroslav
Košuta, Marko Kravos, Ivanka Hergold (nata però nella Carinzia slovena),
Ace Mermolja, Boris Pangerc, Marij Čuk, ad esempio). Parte della vivacità generata dall’incontro-scontro fra la tradizione variamente intesa e le
avanguardie venne rielaborata dagli autori locali e influì sulla nascita di
stilemi diversi da quelli tradizionalmente presenti nel discorso letterario
della comunità slovena, mentre il dibattito ad es. sulle avanguardie, sul
ruolo del sentimento nazionale e sul valore simbolico o meno della lingua
dette origine a una riflessione in molti sensi lontana da quanto si stava
affermando sulla scena slovena: in effetti, si trattava dell’espressione di una
comunità che vedeva nella lingua uno dei cardini dell’appartenenza nazionale, non solo uno degli obiettivi del discorso modernista.
Le varie avanguardie contestarono soprattutto la lingua letteraria e ciò
che essa rappresentava (la tradizione, l’ordine opposto alla sperimentazione, il rigore contro la libertà artistica). In questo dibattito, il dialetto
rimase piuttosto sottovalutato o ignorato del tutto. In questo si può notare una similitudine interessante con quanto stava avvenendo nell’ambito culturale italiano degli anni ’60 e in parte negli anni ’70.
Il valore del dialetto come “lingua del popolo” o dell’anima andò affermandosi solamente più tardi, in entrambi gli ambiti culturali, e per
questo motivo fu grande la sorpresa quando, nel 1962, la Casa editrice
ZTT di Trieste pubblicò la raccolta di poesie Souze jn smeh (Lacrime e
sorrisi) della poetessa triestina Marija Mijot. Nata nel rione triestino di
San Giovanni, Marija Mijot (1902-1994) espresse la propria vena poetica proprio nel dialetto sloveno di San Giovanni: il suo è un mondo
popolato di memorie personali, di feste popolari e religiose, di folklore
sloveno rionale. Recensendo le sue poesie, Martin Jevnikar pose l’accen48
to sulla volontà della poetessa di
preservare dall’oblio tutto un universo di personaggi, sentimenti, e
momenti salienti della comunità
slovena di San Giovanni che si ergono plastici proprio grazie alla
descrizione che ne viene data in
dialetto. In una breve nota introduttiva all’edizione del 1969, Filibert Benedetič, sottolinea, infatti,
come non sia rilevante se le poesie
di Marija Mijot corrispondano o
meno ai canoni poetici comprensibili: “questa poesia nasce dal popolo e ne è l’ espressione” (pag. 5,
ediz. 1969, ZTT-EST).
Fra le opere di Marija Mijot (nella foto) si
ricordano qui solamente alcune:
Vale la pena ricordare che anSouze jn smeh, Trst, Založništvo
che un intellettuale fine e comtržaškega tiska, 1962 (illustrazioni di
plesso quale fu lo scrittore VladiTončka Kolerič).
mir Bartol, nato anch’egli a San
Kar naprej trajati: šest tržaških pesnikov
Giovanni e autore del romanzo
(Marija Mijot, Vinko Beličič, Miroslav
Alamut, nell’introduzione alla priKošuta, Marko Kravos, Ace Mermolja,
ma edizione di Souze jn smeh
Alenka Rebula Tuta), a cura di Marija
Pirjevec, Trst, Devin, 1994 (saggio in(1962) pose l’accento sul ruolo
troduttivo di Boris Paternu).
avuto dal sistema scolastico anche
sloveno, a cavallo fra Otto e Novecento, nel promuovere la lingua
letteraria e favorire così l’emancipazione degli scolari da una situazione
sociale e culturale arretrata: cancellare il dialetto equivaleva però, secondo Bartol, a cancellare anche tanta parte della cultura arcaica che aveva
nel dialetto la sua unica forma di espressione. Per questo motivo, Bartol
sottolineò il valore della poesia di Marija Mijot: l’uso del dialetto è per
lei, infatti, irrinunciabile, in quanto non lo adopera a fini per così dire
di documentazione storico-linguistica: per lei si tratta di una lingua viva,
l’unico mezzo per esprimere appieno la propria anima e, di conseguenza,
anche l’anima slovena di quel rione di San Giovanni che (negli anni ’60)
stava lentamente mutando con nuovi stili di vita, di socializzazione e
addirittura con una nuova architettura (le vecchie case unifamiliari con
l’orto contrapposte alle palazzine di cemento).
Martin Jevnikar dedica la propria attenzione pure a Vladimir Bartol,
nato nel 1903 nel rione triestino di San Giovanni e morto a Ljubljana nel
1967. Gli scritti su Bartol, pubblicati in questo volume, sono interessanti
49
da più punti di vista: risalgono agli anni ’50, quando Bartol pubblicò le
proprie memorie sugli anni giovanili trascorsi a San Giovanni; lo studioso
vi si sofferma sul contenuto del romanzo Alamut (1938, ripubblicato nel
1959), ma senza approfondire l’analisi del lavoro; in questo contesto non
viene menzionata neppure la raccolta di novelle Al Araf (1935). Va detto,
però, che Bartol rappresenta un caso particolare nella letteratura slovena
e che molti suoi scritti sono rimasti a lungo inediti. Appena a partire dagli
anni ’60 l’opera bartoliana inizia a interessare i lettori e la critica letteraria
per diventare in tal modo un fenomeno letterario interessante e degno di
discussione.
Lo scrittore nacque come detto, in una famiglia slovena di San Giovanni: la madre, Marica Nadlišek, svolse la professione di maestra fino alla
nascita dei figli, dedicandosi poi alla scrittura (suo è il romanzo Fata morgana, apparso a puntate sulla rivista “Ljubljanski zvon” e poi pubblicato in
volume appena nel 1998), all’attività culturale-giornalistica (dal 1897 al
1900 fu l’anima della Slovenka, la prima rivista femminile slovena), alla
corrispondenza epistolare con lo scrittore sloveno Janko Kersnik e alla lettura dei classici russi in lingua originale.
Bartol si formò dunque in un ambiente culturale molto vivace e stimolante. Conclusi gli studi liceali a Trieste, si trasferì a Ljubljana dove approfondì gli studi di biologia e filosofia (Nietzsche), mentre alla Sorbona si
interessò soprattutto della psicanalisi (Freud, Jung, Adler). Nel 1935 pubblicò la raccolta di novelle Al Araf dove è forte l’idea dell’individuo smarrito nei meandri del fato, dove la sua volontà viene continuamente soggetta al capriccio della sorte.
Del 1938 è il romanzo Alamut, dal nome di una roccaforte in Iran.
All’inizio del romanzo Bartol pone un detto ritenuto ismailita: “La verità non esiste, tutto è consentito”. La vicenda si svolge nel 1092 ed è incentrata sulla figura di Seiduna, che volendo annientare il potere turco nella regione, inizia a tessere un piano sconvolgente. Dei giovani seguaci,
gli hashishin, dediti a lui anima e corpo, diventano la sua arma contro i
Turchi e lui, Seiduna, si pone come il grande indiscusso burattinaio di
giovani uomini e donne, incurante delle implicazioni etiche e psicologiche delle sue azioni.
Nel 1938 il romanzo venne inteso da parte della critica ufficiale slovena come un omaggio ai grandi dittatori dell’epoca (Mussolini, Hitler, Stalin) e per questo motivo per anni passò quasi del tutto sotto silenzio nonostante l’apprezzamento di alcuni lettori.
Appena negli anni ’80 si manifestò un nuovo interesse per questo romanzo che sfugge alle definizioni di genere (si tratta di un romanzo filosofico, storico o psicologico?) e che si presta a interpretazioni molto diverse (romanzo di stampo machiavellico o nietzscheano? Seiduna come
dominus o come vittima di se stesso e del destino? Gli hashishin furono
50
Don Lorenzo, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1985 (saggio introduttivo di Ivanka
Hergold, illustrazioni di Klavdij Palčič)
Med idilo in grozo - novele: 1935-1940, a
cura di Drago Bajt, Ljubljana, Književna
mladina Slovenije, 1988 (con saggi di Andrej Blatnik, Igor Bratož, Marko Crnkovič,
Miran Košuta, Luka Novak, Tadej
Zupančič)
Zakrinkani trubadur: izbrani članki in eseji,
Ljubljana, Slovenska matica, 1993 (postfazione di Drago Bajt)
Mladost pri Svetem Ivanu, a cura di Dušan
Jelinčič, Ljubljana, Sanje, 2003-2007 (in tre
volumi)
Mangialupi in drugi: humoreske, a cura di
Boris Paternu, Ljubljana, Sanje, 2003
Fra le opere di Vladimir Bartol (nella foto) si ricordano qui solamente alcune:
Zbrano delo, a cura di Tomo Virk, Ljubljana, Založba ZRC, ZRC SAZU, 2012
Lopez: drama v treh dejanjih (dvanajstih slikah), Ljubljana, Modra ptica, 1932
Traduzioni in italiano:
Al Araf: zbirka literarnih sestavkov, Ljubljana, Modra ptica, 1935
La cantata del nodo inesplicabile, in: “Trieste, ventisette racconti- La biblioteca del
Piccolo. Trieste d’autore”, Trieste, Editoriale FVG, Divisione di Trieste, 2004 (trad. di
Marija Cenda)
Alamut, Ljubljana, Modra ptica, 1938
Tržaške humoreske, Ljubljana, Cankarjeva
založba, 1957 (prefazione di Božidar Borko, illustrazioni di Bogdan Grom)
Alamut: la fortezza, Roma, Castelvecchi,
2013 (trad. di Arnaldo Bressan)
Čudež na vasi, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1984
dei giovani plagiati o piuttosto i primi a ribellarsi a Seiduna? Per non parlare del ruolo delle donne nel romanzo che è ben più complesso di quanto possa apparire a una prima lettura).
Le prime traduzioni di Alamut furono in lingua ceca (1946) e serbocroata (1954): dopo un lungo intervallo durante il quale l’opera venne
quasi dimenticata, si assiste negli anni ‘80 a una fioritura di nuove traduzioni che ne hanno fatto un bestseller in vari Paesi europei (Francia 1988,
Italia e Spagna 1989, Germania 1992, Polonia 2004, Ungheria 2005, Croazia 2006, Finlandia 2008 ecc.).
In questo modo Alamut è diventato una delle letture via via più stimolanti e interessanti anche per un lettore giovane, forse a causa degli avvenimenti storico-politici degli ultimi decenni che hanno suscitato un forte
51
interesse per il mondo arabo, nonché per la religione islamica e il contatto/scontro col mondo occidentale.
Ma cosa pensava Bartol della sua opera letteraria, “il drago” come lo
definì una volta? Leggiamo insieme il suo commento:
“Il romanzo venne scritto in gran parte a Kamnik, a 22 km da Ljubljana, in parte però anche a Ljubljana. Da nord si era sotto la minaccia
del dittatore nazista Hitler e delle sue fanatiche SS. Da ovest, verso la
Slovenia e la Jugoslavia, si stava avvicinando la minaccia del duce fascista Mussolini, che stava già seminando terrore tra un terzo degli Sloveni
e la gran parte dei Croati. A est l’ambiguo Stalin si era messo alla testa
della rivoluzione salvifica di Lenin e proprio in quegli anni aveva concepito i suoi terrificanti “monstre”- i processi. Il re jugoslavo Alessandro
era rimasto vittima di un attentato progettato, come si diceva, da Mussolini. (...) Alamut è dunque un affresco realistico degli inizi della storia
ismailitica nel 1092 e del fondatore della setta degli hashishin, Hasan
Ibn Saba, allo stesso tempo è però una metafora viva dell’epoca dei dittatori terrificanti fra le due guerre.”
“Se guardiamo all’idea di Alamut in sé, va detto che si tratta di un genere letterario nuovo. A prima vista, è un romanzo storico strutturato però come un testo teatrale. Se osserviamo la sua genesi, è qualcosa di molto simile ai ‘miti’.”
“Nelle mie Memorie ho scritto che Alamut è, per la sua origine, vicino
ai “miti”. Oggi oserei di più: Alamut è una specie di visione, meglio ancora
un simbolo, prodotto dalla memoria arcaica di specie nel senso dell’archetype
junghiano.”
“Il lettore di Alamut si è sicuramente reso conto di un fatto: i mezzi di
Hasan possono essere terribili e disumani, ma nelle persone che gli sono
subalterne le più nobili virtù umane non vengono mai meno. Tra i fedai
rimane vivo il senso di fratellanza e amicizia proprio come permane fra le
ragazze nei giardini. (...) E infine, anche Hasan è una figura tragica e solitaria, smarrita nelle sue cupe riflessioni. E se qualcuno volesse sapere quale sia stato il pensiero dell’autore durante la stesura del romanzo, allora gli
direi: Amico! Fratello! Ti chiedo: esiste qualcosa di più solido della fratellanza e dell’amicizia? Qualcosa di più profondo dell’amore? Qualcosa di
più elevato della verità?”1
1 Le riflessioni di Vladimir Bartol sono pubblicate nella postfazione alla seconda edizione
slovena di Alamut (Trieste, 1958, pp. I-VII).
52
Bruna Marija Pertot
R
iservata e severa nei confronti della propria poesia: così la descrive
la critica letteraria Marija Pirjevec nel
2011. In queste parole c’è la sintesi di
Bruna Marija Pertot, poetessa nata a
Barcola nel 1937, che dopo gli studi
universitari si è dedicata all’insegnamento senza trascurare l’altra sua grande passione: la lirica. In questo segue
due filoni, scrive infatti versi per ragazzi (pubblicati in gran parte nella rivista
“Pastirček”) e opere poetiche rivolte
ad un pubblico adulto.
La sua prima raccolta poetica Moja
pomlad (La mia primavera, 1961) è
Fra le opere di Bruna Marija Pertot si ricorstata la prima pubblicazione della Casa
dano qui solamente alcune:
editrice triestina Mladika nel periodo
Moja pomlad, Trst, Mladika, 1961
postbellico, che ha poi ripubblicato le
Bodi pesem, Trst, Mladika, 1975
sue poesie nel 2011. Già in quella priDokler marelice zorijo, Gorica, GMD,
ma raccolta del ’61 attirò l’attenzione
1981 (grafiche di Edi Žerjal)
di Jevnikar che sottolineò il carattere
Ko se vračajo delfini, Gorica, GMD,
intimo delle sue poesie, i temi legati
1993 (prefazione di Zora Tavčar)
all’amore, alla bellezza del Litorale e al
Pesmi iz pipe, Trst, Mladika, 1996 (ilpino, l’albero simbolo del Carso.
lustrazioni di Jasna Merkù)
Ma è con la raccolta seguente, Bodi
Mala otroška kronika, Trst, Mladika,
pesem (Sii canto, 1975), che Bruna Ma2002 (illustrazioni di Magda Starec
Tavčar)
rija Pertot raggiunge la maturità artistica:
Ti navdih in jaz beseda, Trst, Mladika,
nei tre cicli ritroviamo Barcola presso
2007 (prefazione di Pavle Merkù)
Trieste, la bellezza della natura che rapiČrnike dobre na nabrežju: izbrane pesce il cuore della poetessa, ma anche i
smi, Trst, Mladika, 2011 (a cura di Matemi legati alla solitudine, alla caducità
rija Pirjevec).
del tempo, all’amore maturo, alle figure
della sua infanzia che hanno saputo accettare anche le avversità della vita fino
all’incontro con un Dio umile e scalzo come loro. Infine, la poetessa svela il significato del titolo: Dio creò la poesia il settimo giorno e, nel farlo, sorrise.
Nel 1981, Jevnikar parla del libro per il quale la Pertot ha ricevuto il
Premio Vstajenje: Dokler marelice zorijo (Finché le albicocche matureran53
no). Nel libro vengono presentati 30 esempi di alberi e di frutta: l’autrice
parla delle loro virtù, ma non si limita all’aspetto botanico delle piante.
Scrive infatti Jevnikar: “Ci sono delle descrizioni realmente liriche della
natura e delle piante, delle metafore poetiche, la lingua è ricca e ricercata,
le storie sono lontane nel tempo oppure contemporanee. (...) L’autrice è
sempre presente e con un sorriso o con ironia commenta il nostro rapporto con la natura.”
Bruna Marija Pertot si è dedicata alla prosa anche nella raccolta successiva, Ko se vračajo delfini (Quando tornano i delfini, 1994), dove ritroviamo il tema dei mutamenti avvenuti nel corso degli anni: la vita non è
più semplice e tranquilla come un tempo, l’amore svanisce anche fra i
membri di una stessa famiglia, l’odio ha portato alla rovina due fratelli.
Secondo Zora Tavčar, che ha scritto la prefazione al libro, la scrittrice si
accosta con tale sensibilità etica alla sofferenza e alla solitudine di bambini e anziani, che la raccolta “non va letta come un’opera letteraria, bensì
come una preghiera.”
Appena nel 2007 Bruna Marija Pertot pubblica la sua terza raccolta
poetica, Ti navdih in jaz beseda (Tu l’ispirazione e io la parola), con la
prefazione di Pavle Merkù. Marija Cenda sottolinea come già col titolo
l’autrice dimostri di essere totalmente dedita alla poesia, mentre Marija
Pirjevec aggiunge: “La poetessa ha saputo creare un mondo poetico originale, a prima vista semplice e non impegnativo, in realtà profondo, complesso e pregno di espressività, lontano dagli abituali punti di vista. A
questo universo poetico la Pertot ha dato l’impronta della sua visione del
mondo e del luogo in cui è nata e dal quale non ha mai potuto né voluto
staccarsi”.
54
Zora Tavčar
L
’abilità della scrittrice Zora
Tavčar si manifesta soprattutto
nei racconti brevi nei quali dimostra
una notevole capacità di analisi psicologica con un linguaggio ricco di
significati: lo rileva Martin Jevnikar
fin dalle sue prime opere. Scrittrice e
saggista slovena, nata a Loka presso
Zidani most nel 1928, dopo gli studi
a Ljubljana e Vienna, si trasferisce a
Trieste nel 1953 e da allora ricopre
un ruolo di spicco tanto nell’ambiente scolastico (è stata a lungo insegnante nelle scuole statali slovene di
Trieste) quanto in ambito letterario e
culturale.
Molteplici sono i suoi interessi
letterari: è autrice di testi per ragazzi
(pubblicati in varie riviste, fra le quali ricordiamo “Galeb” e “Pastir-ček”),
di opere radiofoniche (suo è l’adattamento del romanzo Devinski sholar Lo studente di Duino, di Alojz Rebula, suo marito) e di narrativa (novelle,
racconti).
Jevnikar segue con attenzione le
varie fasi dell’opus letterario di Zora
Tavčar soffermandosi dapprima sulla
raccolta di novelle autobiografiche
Veter v laseh (La chioma al vento,
Celje, 1982), per la quale l’autrice è
stata insignita del Premio Vstajenje e
di cui Jevnikar ripercorre il contenuto: i primi anni di scuola, i maestri,
le vicende della seconda guerra mondiale e la Liberazione. Un testo particolare è Poklical si me po imenu (Mi
hai chiamato per nome, Koper,
Fra le opere si ricordano qui solamente alcune:
Aj, kaj ribič je ujel: mladinska igra, Trst, Slovensko stalno gledališče, 1980
Veter v laseh, Celje, Mohorjeva družba, 1982
(illustrazioni di Melita Vovk)
Poklical si me po imenu, Koper, Ognjišče, 1985
Ptice nočnega vrta, Trst, Slovensko stalno
gledališče, 1991
Slovenci za danes: 30 intervjujev z znanimi
Slovenci in Slovenkami v emigraciji in doma,
Ljubljana - Družina; Trst -Mladika, 1991
Slovenci za danes v zdomstvu in emigraciji,
Ljubljana - Družina; Trst - Mladika, 1998
Ko se ptički prebude: pesmi za otroke in otroške
duše, Trst, Mladika, 2001 (illustrazioni di
Magda Tavčar; con annesso CD)
Ob kresu življenja, Ljubljana, Družina, 2003
Kroži, kroži galeb: kratka proza, dramske humoreske, Celje, Celjska Mohorjeva družba Društvo Mohorjeva družba, 2008.
Žarenje: pesmi 1947-2007, Gorica, GMD,
2008 (prefazione di France Pibernik)
55
1985), dove l’autrice riflette sui nomi femminili e delinea un’ampia carrellata
di personaggi che hanno portato quei nomi: “Ovunque si nota quanto grande
sia la conoscenza delle singole figure femminili che spaziano dalle figure di
sante alle scrittrici fino alle amiche e alle parenti dell’autrice. Nel testo ritroviamo anche delle frecciate rivolte all’universo maschile: in effetti, si ha l’impressione che l’autrice si senta limitata in più aspetti proprio in quanto donna”,
osserva Jevnikar.
Nel 1989, Zora Tavčar pubblica una nuova raccolta di novelle Ob kresu
življenja (All’apice della vita, GMD) in cui l’elemento autobiografico si accompagna alla riflessione sul senso della vita, sul mistero dei sentimenti e sulle
tortuosità dell’esistenza: “È vivo il suo interesse per il destino dei singoli e per
le differenze sociali tra la gente che avverte come ingiuste. Accanto all’uomo
sta la natura in tutta la sua magnificenza, da quella primaverile a quella invernale, mai fine a se stessa, bensì spesso metafora degli stati d’animo dei singoli
personaggi.”
Ma il libro che forse desta di più l’interesse di Jevnikar è Slovenci za danes
- Gli Sloveni oggi (1991) in cui Zora Tavčar pubblica 30 interviste con gli
esponenti di punta dell’emigrazione slovena oppure della società slovena in
patria. La scelta delle persone da intervistare è caduta su coloro che sono “non
solo particolarmente affermati sul piano professionale, ma anche inseriti a pieno titolo nel mondo di oggi, specialmente in quello sloveno” afferma la Tavčar
nell’introduzione al libro. Alcuni di loro hanno lasciato la Jugoslavia dopo il
secondo conflitto mondiale e si sono rifatti una vita in vari continenti, altri
invece rappresentano la prima generazione di Sloveni nati all’estero, ma capaci di coniugare le proprie origini con la partecipazione alla vita sociale nella
nuova patria. L’elenco comprende vescovi, pianisti, scrittori, ricercatori, scienziati, architetti, politici e via dicendo. L’autrice li ha scelti e presentati anche
sulla base della parità sessuale: il numero degli intervistati è identico per gli
uomini e le donne.
Nell’Appendice, Marija Cenda analizza le opere di Zora Tavčar pubblicate
nell’ultimo decennio, a partire dal libro per ragazzi Kroži, kroži galeb (Vola,
vola, gabbiano) del 2008 alle poesie per i più piccoli Ko se ptički prebude (Quando gli uccellini si risvegliano, Mladika, 2001). Un posto particolare merita la
raccolta di liriche Žarenje (Il bagliore, GMD, 2009) dedicata al marito Alojz
Rebula per i cinquant’anni di vita in comune, come ha scritto l’autrice. Si tratta di una scelta antologica delle liriche migliori di Zora Tavčar, dove troviamo
le sue riflessioni sul significato dell’esistenza unite ai sentimenti suscitati dalla
natura e dall’amore. “Si tratta di quel genere di libri che suscitano l’entusiasmo
per la vita. Il vitalismo permea anche il lessico che si sviluppa in un gioco stilistico esteticamente compiuto”, come ha osservato la saggista Vilma Purič.
Nel 2013, è uscito il film-documentario Zora Tavčar: v žarenju besede (Il
bagliore della parola) in cui la scrittrice si racconta alla regista Tatjana Rojc in
occasione del suo 85° compleanno.
56
Galeb
“Galeb”(Il Gabbiano) è una rivista per
bambini, pubblicata a cura della Cooperativa Novi Matajur. La rivista viene
fondata nel 1954 a Trieste e da allora
si rivolge alla popolazione scolastica
slovena del Triestino, del Goriziano e
della provincia di Udine. Oggi, viene
pubblicata a Cividale del Friuli-Čedad.
Il fine è quello di promuovere la conoscenza della lingua e della cultura slovena, per questo motivo la rivista pubblica anche testi di noti autori sloveni,
arricchiti dalle illustrazioni di artisti
provenienti dall'ambito locale o dalla
Slovenia (Magda Starec Tavčar, Jasna
Merkù, Štefan Turk, Vesna Benedetič,
per citarne alcuni). I giovani lettori sono poi invitati a collaborare con la rivista, inviando i propri disegni, racconti o risolvendo uno dei giochi proposti
dalla redazione. Il Galeb segue
l’andamento dell'anno scolastico e conta dunque 9 o 10 numeri all’anno. Par-
te dell'offerta è rappresentata anche dal
pacchetto di libri per l’infanzia, che la
Cooperativa dedica ogni anno ai propri lettori.
Da circa vent'anni viene poi pubblicato il Galebov šolski dnevnik (il diario
scolastico del Galeb), che accompagna
nell'avventura scolastica tutti gli scolari
delle scuole slovene in Italia.
Nel 1979, Jevnikar pone l’accento
sui collaboratori importanti della rivista, che provengono soprattutto
dall’ambito culturale sloveno della Jugoslavia dell'epoca, non mancando
però di nominare anche gli autori più
in vista della letteratura slovena in Italia (Zora Tavčar, Miroslav Košuta,
Marko Kravos, Lojze Abram e il carinziano Valentin Polanšek). Sottolinea
come alcuni testi letterari possano ben
figurare in una pubblicazione autonoma e mette in risalto le illustrazioni che
accompagnano i testi.
57
Miroslav Košuta
“Negli ultimi tempi la poesia slovena in
Italia ha raggiunto l’eccellenza grazie a Miroslav Košuta, al quale nel 2011 è stato assegnato il Premio Prešeren alla carriera. Già
prima veniva considerato il maggiore poeta
sloveno di Trieste, ma nell’ultimo decennio
ha ulteriormente incrementato il prestigio
della sua opera”.
Inizia così lo scritto che Marija Cenda,
nell’Appendice, dedica a questo poeta sloveno: nato nel 1936 a Santa Croce - Križ, studiò a Trieste e si laureò all’Università di Ljubljana, dove entrò in contatto con la realtà
letteraria slovena dell’epoca. A questo periodo appartengono le poesie raccolte in Morje brez obale (Mare senza costa,
1963), dove “Košuta delinea appena i problemi esistenziali, mentre l’amore
è il cardine dell’esistenza”, come scrive Jevnikar.
Al rientro a Trieste, dove inizia a collaborare col Teatro Stabile Sloveno
come drammaturgo, Košuta continua a scrivere poesie: del 1969 è la raccolta Pesmi in zapiski (Poesie e note a margine), opera di un Košuta più maturo, che affianca alla produzione poetica per un pubblico adulto anche la
produzione per ragazzi, come si vede nella raccolta. Nella prima parte prevale la nostalgia per i luoghi natii, mentre nella seconda la voce narrante
appartiene a Košuta, che insegna al figlio alcune verità fondamentali sulla
vita. Poiché la raccolta è degli anni ’60, un periodo denso di ricerche stilistiche e di avanguardie artistiche, Jevnikar si sofferma su quanto la poesia di
Košuta possa definirsi figlia di quel movimento letterario contemporaneo:
“Nei due cicli principali Košuta si è avvicinato maggiormente alla poesia
slovena contemporanea, d’avanguardia e surrealista, che cerca febbrilmente
dei temi nuovi e delle vie nuove nella forma e nell’espressione. (...) Ma
Košuta non è tanto ermetico come lo sono molti dei suoi contemporanei,
anche se spesso ci troviamo di fronte a raggruppamenti/accozzaglie di parole e di concetti privi di un vero contenuto logico”. Eppure, già con questa
raccolta, Jevnikar pone l’accento su una delle caratteristiche salienti dello
stile di Košuta, la propensione a creare delle metafore nuove.
Nel 1976, quando viene pubblicata la quarta raccolta poetica di Košuta,
Pričevanje (Testimonianza, ed. Lipa, Koper), Jevnikar vi individua i tratti
peculiari del poeta e soprattutto dell’uomo ormai maturo, lontano dai sogni
58
Fra le opere di Miroslav Košuta si ricordano qui solamente alcune:
Morje brez obale, Koper, Lipa, 1963
Pesmi in zapiski, Koper, Lipa, 1969
Tržaške pesmi, Trst, Založništvo tržaškega
tiska; Koper, Lipa, 1974
Pričevanje, Koper, Lipa, 1976
Selivci: songi iz gledaliških del in preproste pesmi, Trst, Založništvo tržaškega tiska, 1977
Pesmi, Ljubljana, Državna založba Slovenije, 1978
Štirje fantje muzikantje: Vitez na obisku, Ljubljana, Mladinska knjiga, 1980
Robidnice in maline, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1983
Odseljeni čas, Ljubljana, Cankarjeva založba,
1990
Na hrbtu vala: kulturno politični članki in
govori, Trst, Devin, 1996
Pomol v severno morje, Trst,Mladika, 2001
Njune zgodbe, Ljubljana, Mladika, 2002 (illustrazioni di Adriano Janežič)
Mesto z molom San Carlo, Ljubljana, Mladinska knjiga, 2002 (saggio introduttivo di
Andrej Inkret)
Kriško kraške: avtobiografija z izborom
otroških pesmi o rodnem Križu, morju in Krasu, Čedad, Zadruga Novi Matajur, 2005 (illustrazioni di Klavdij Palčič)
Križada: izbrane pesmi za otroke, Ljubljana,
Mladinska knjiga, 2006 (saggio introduttivo di Niko Grafenauer, illustrazioni di
Marjan Manček)
Mavrična školjka: izbrane in nove
štirivrstičnice, Celje; Ljubljana, Celjska
Mohorjeva družba, 2011 (saggio introduttivo di Andrej Arko)
Drevo življenja: izbrane in nove pesmi, Trst,
Mladika, 2011 (saggio introduttivo di
Tatjana Rojc)
Memoria del corpo assente - Spomin odsotnega telesa, Trieste, ZTT - EST; San Canzian
d’Isonzo, CCM, 1999 (traduzione di Daria
Betocchi; introduzione di Elvio Guagnini;
saggio critico di Marija Pirjevec; illustrazioni di Claudio Palčič)
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin - Versi
diversi: poeti di due minoranze, Unione italiana, Capodistria, Italijanska unija, Koper,
2006 (selezione, prefazione e testi critici a
cura di Miran Košuta; introduzione di Ciril
Zlobec)
Milič Jolka, Omaggio a Miroslav Košuta:
una scelta di liriche del poeta triestino di lingua slovena, in: “Artecultura: Trieste arte &
cultura”, n°8, 2007
Poeti triestini contemporanei, Lint, Trieste,
2000 (antologia a cura di Roberto Dedenaro; postfazione di Ernestina Pellegrini).
giovanili e dall’irruenza tipica di quell’età, dal Carso e dal mare.Egli è ormai
preda di dubbi e angosce, che riguardano non solo la sfera personale, intima,
del poeta, ma anche l’universo nazionale, nonché la sopravvivenza stessa
degli Sloveni in Italia. Il sentimento del dolore raggiunge l’apice nella raccolta Odseljeni čas (Il tempo dislocato, 1990): nel primo ciclo si riscontra il
tema del declino di Trieste, mentre nel secondo il poeta ricorda il suo paese
natio, Santa Croce, come l’ha vissuta da bambino – i pescatori, i panni stesi al vento, le ragazze viste da lui simili a esseri soprannaturali. Nel terzo
ciclo poetico della raccolta l’angoscia nasce dalla tragedia che ha colpito il
poeta e la sua famiglia: l’“angelo della morte”, come viene definito da Košuta,
ha portato via uno dei due figli e la famiglia rimane come sospesa, muta at59
torno a un tavolo ormai troppo grande. Jevnikar riporta qui un passo di
un’intervista data da Košuta nel 1990, dove egli sottolinea che “nel momento in cui un poeta decide di scrivere versi, non può considerare se stesso
come un singolo individuo, ma deve cercare di esprimere tutto ciò che potrebbe coinvolgere il lettore. Si scrive sulla base di esperienze personali più
o meno tragiche, ma rese obbiettive il più possibile.”
Nell’ultimo decennio Košuta ha pubblicato una serie di nuove raccolte
ed antologie poetiche (Pomol v severno morje - Il molo nel mare del nord,
2001; Mesto z molom San Carlo - La città col molo San Carlo, 2002; Drevo
življenja - L’albero della vita, 2011; Mavrična školjka - La conchiglia arcobaleno, 2011), nelle quali è possibile rileggere le poesie nate in un lungo arco
di tempo e ritrovare così i temi principali della sua vena poetica.
Alle poesie per un pubblico adulto Košuta affianca anche i versi e i testi
teatrali scritti per i più giovani: in Štirje fantje muzikantje (I quattro ragazzi
musicisti) riprende con successo la vicenda dei musicanti di Brema, ma in
chiave musical; il testo Vitez na obisku (Un cavaliere in visita) presenta le
vicende tragicomiche di un cavaliere medievale che viene catapultato nel
mondo moderno. Oltre a questi lavori teatrali vanno ricordate le varie raccolte di versi per ragazzi e bambini sui topolini, gli orsi, le giraffe miopi, sul
mondo dell’infanzia pieno di giochi, di risate e di fantasia. “Nell’ambito
della letteratura slovena in Italia, Košuta ha dimostrato di essere il miglior
autore per bambini e ragazzi, ma ha un ruolo rilevante pure nell’ambito della letteratura slovena giovanile nel suo complesso. Il suo mondo poetico è
ampio, vivo e allegro, pieno di sole e di risate, di fantasia e gioia di vivere,
ma il poeta sa anche essere serio e ricordare ai giovani lettori qualche grande verità, ma senza risultare invadente.”
Fra gli illustratori dei libri di Košuta per bambini e ragazzi vanno ricordati almeno Klavdij Palčič, Marjan Manček, Milan Bizovičar, Karel Zelenko
e Kostja Gatnik, alcuni fra i pittori principali della scena artistica slovena.
60
Irena Žerjal
U
na delle voci più originali della poesia
slovena in Italia, Irena Žerjal, nata a
Ricmanje - San Giuseppe della Chiusa nel
1940. Dopo gli studi compiuti prima al Liceo
classico France Prešeren di Trieste e successivamente all’Università di Ljubljana intraprese
la via dell’insegnamento nelle scuole slovene
secondarie di Trieste. Autrice di molti libri di
prosa e poesia, ha pubblicato a proprie spese
vari testi come una forma di protesta verso
una politica editoriale che per ragioni non solo artistiche/letterarie privilegia certi nomi
poetici invece di altri.
A Ljubljana entrò in contatto con la generazione degli artisti che gravitava attorno alla
rivista Perspektive (Prospettive). Quella generazione ruppe con la tradizione e, in
ambito poetico, scardinò la forma tradizionale e il rigore logico: “Le poesie di Irena Žerjal sono un atto d’accusa della situazione contemporanea in Slovenia e fra
gli Sloveni in Italia. Fra i suoi temi ci sono la solitudine, l’incomprensione, la lotta
per la sopravvivenza” osserva Jevnikar già alla fine degli anni ’60 quando Irena
Žerjal pubblica le prime poesie. Nello stesso periodo è anche l’eminente storico
della letteratura e saggista Jože Pogačnik a sottolineare le caratteristiche dell’artista:
“Il suo mondo poetico è kafkiano: la sensazione dell’assurdità terrificante, della
solitudine e dell’alienazione totale dell’individuo, del timore di vivere, del terrore
davanti alla società e al mondo che minaccia l’esistenza umana come una piovra
malefica dotata di tentacoli burocratici e amministrativi”. Il suo dolore ha anche
almeno due spiegazioni oggettive: la separazione dal compagno e la sua condizione di madre ‘single’, nonché la nazionalizzazione della terra posseduta dai contadini sloveni nei dintorni di Trieste, in modo particolare a Dolina (la fabbrica Grandi
Motori Trieste, il gasdotto). Ma la forza vitale dell’autrice non viene meno e, come
dirà nella raccolta Let morske lastovice (Il volo della gallinella marina) del 1987, non
cambierebbe nulla della propria vita, bensì vorrebbe diventare solamente “un ibrido fra un coccodrillo e un leone”.
Tutti questi temi, che si ritroveranno pure nelle raccolte poetiche successive,
vengono espressi alla maniera tipica dell’avanguardia, dunque senza segni d’interpunzione, con dei versi densi di parole a prima vista slegate fra loro, anche con
delle espressioni e locuzioni pungenti e aspre (“La lingua è per lei solo un mezzo
espressivo, non un coppa preziosa dalla quale attingere, perciò adopera anche del61
le espressioni poco eleganti e non si cura granché della grammatica” scrive
Su Irena Žerjal segnaliamo:
Jevnikar agli inizi degli anni ’70).
Goreče oljke, Trst, s.i.p., 1969
La prima opera in prosa di Irena
Topli gozdovi, Maribor, Obzorja; Trst,
Žerjal è Tragedijca na Grobljiah (Piccola
Založništvo tržaškega tiska, 1972
tragedia a Groblje) del 1973, in cui l’auTragedijica na Grobljah, Maribor,
trice rappresenta i problemi degli SloveObzorja, 1973
ni di Trieste, la situazione politica trieKlišarna utopičnih idej, Trst, s.i.p., 1974
stina nel dopoguerra, l’emigrazione in
Morje, ribe, asfalt (coautrice Marija MiAustralia. Al centro della scena c’è un
slej), Trst,s.i.p., 1976
gruppo di giovani che non riesce a metPobegla zvezda, Trst, s.i.p., 1977
tere in pratica i propri ideali. Nel libro
Gladež, Trst, Založništvo tržaškega
a tre voci Burja in kamni (La bora e le
tiska, 1982
pietre), scritto con Nadja Švara e Marija
Alabaster, Trst, s.i.p., 1984
Mislej, l’autrice invece pone al centro
Let morske lastovice, Trst, Založništvo
dell’attenzione i ricordi della propria vitržaškega tiska, 1987
ta, ma senza l’intento di creare un’imBurja in kamni: proza in poezija l987
magine realistica veritiera delle persone
(coautrici Nadja Švara e Marija Mie delle vicende, bensì un mosaico di avslej), Gorica, s.i.p., 1987
venimenti e persone.
Magnetofonski trak, Trst, Slovenska goNel romanzo Kreda in hijacinte (Il
spodarsko-prosvetna skupnost, 1994
gesso e i giacinti) del 2006 i critici hanno
Kreda in hijacinte, Trst, Mladika, 2006
notato che la trama ha un’impronta più
(saggio introduttivo di Ester Sferco)
marcatamente autobiografica: nella viSumljive in abstraktne poezije, Trst,
cenda della triestina Verka si rispecchia
Mladika, 2013
la situazione sociale e politica della TrieDrugačni verzi: pesniki dveh manjšin ste del secondo dopoguerra; il suo arriVersi diversi: poeti di due minoranze,
Unione italiana, Capodistria - Italivo all’Ateneo di Ljubljana fa invece da
janska unija, Koper 2006 (selezione,
sfondo agli incontri-dibattiti di un grupprefazione e testi critici a cura di Miran
po di intellettuali sloveni, fra cui c’è anKošuta; introduzione di Ciril Zlobec);
che un dissidente di cui Verka s’innaOut of the melting pot: poetry from Triemora. La giovane si ritrova così a un
ste, in: “Prague literary review”, vol.2,
bivio fra la dura realtà della vita e l’aspi2003 (otto poeti sloveni di Trieste scelrazione a un’esistenza improntata all’arti a cura di Gerald Parks: Marij Čuk,
te. La critica ha letto la vicenda di Verka
Miroslav Košuta, Marko Kravos, Ace
Mermolja, Boris Pangerc, Aleksij Prein chiave autobiografica, poiché l’autrigarc, Ivan Tavčar, Irena Žerjal).
ce conobbe a Ljubljana il dissidente
Jože Pučnik, visse con lui per un periodo pure all’estero, ad Amburgo. Secondo l’opinione di Marija Cenda, nell’Appendice al libro di Jevnikar, i vari tentativi della critica slovena di rileggere la vicenda narrata coi veri nomi dei protagonisti dimostra che il libro ha saputo risvegliare l’interesse dell’opinione pubblica.
62
Ivanka Hergold
I
vanka Hergold (1943-2013) rappresenta un’ecce­zione nel panorama della
letteratura slovena in Italia: la scrittrice
è nata in­fatti nella Carinzia slovena e
so­lamente nel 1971, dopo aver studiato
slavistica all’Università di Ljubljana, si è
trasferita a Trieste, inserendosi nella vita
culturale e letteraria slovena della città,
dove è rimasta fino alla morte nel 2013.
Già nel 1967 l’autrice attira l’attenzione
della critica: in quell’anno pubblica, infatti, alcune poesie che mostrano chiaramente l’influenza delle correnti d’avanguardia e della poesia dell’assurdo.
Il suo primo libro è una raccolta di storie brevi, Pasja radost ali karkoli (Ljubljana, 1971), in cui la realtà travalica nel fiabesco: “Leggendo non ti accorgi del momento in cui la
realtà scivola nella favola - ma l’aspetto fiabesco serve all’autrice per
raccontare qualcosa di più su di sé, per liberarsi dell’angoscia esistenziale che rappresenta un legame fra lei e suoi personaggi.” (Ivan Potrč
nell’introduzione al libro). Jevnikar sottolinea inoltre come l’aspetto
fiabesco dei racconti (ad esempio quello su una coppia di contadini
che vive in alta montagna e vorrebbe trasferirsi in città) abbia un fondo di realtà, riguarda cioè il problema cocente dell’abbandono della
terra e della fuga nelle città.
Ivanka Hergold ha scritto che ciò che la colpisce maggiormente è la
questione della solitudine di chi non riesce a trovare un proprio ruolo
in città: un tema, questo, che viene affrontato nel romanzo breve Dido
del 1974. Al centro della vicenda c’è la tragica storia della regina Didone, fondatrice di Cartagine, ma ormai inutile alla città che vive una
vita propria e non ha più bisogno di lei. La sua solitudine è acuita
dall’incomprensione con la sorella. Per questo motivo Didone si abbandona completamente all’avventura amorosa con Enea, in cui riconosce l’energia e i numerosi progetti che lei stessa aveva coltivato in
passato. Ma la delusione è talmente forte da lasciare a Didone solamente una via d’uscita, vale a dire la morte. Jevnikar sottolinea come
Hergold abbia creato “una donna vivace che soffre a causa della sensazione della fugacità del tempo nonché della consapevolezza che Car63
tagine è diversa da come se l’era immaginata. La presa di coscienza
peggiore riguarda lei stessa, la sensazione di essere di troppo, di aver
svolto il suo compito e di non essere più necessaria a nessuno.”
Il tema della solitudine ritorna anche nella raccolta di prose brevi
Pojoči oreh (Il noce cantante) del 1983: in nove racconti l’autrice delinea l’esistenza di persone comuni, che vivono in balìa delle paure causate da traumi subiti oppure succubi degli abissi di sadismo che avvertono in sé, spesso con dei partner con cui vivono da estranei nella
stessa casa. Il noce cantante del titolo fa da sfondo a un racconto fiabesco: il nonno si arrampica su un noce, porta con sé una fisarmonica e
non ne vuole più sapere di scendere dall’albero. Mentre la casa e la
famiglia si sfasciano lentamente, il suono della fisarmonica rimane la
prova dell’esistenza del nonno, ormai invisibile fra il fogliame.
Un’importante novità per la letteratura triestina contemporanea rappresenta il suo romanzo Nož in jabolko (Il coltello e la mela, 1980), dove il racconto non è più ambientato nella Carinzia slovena o in una lontana dimensione storico-mitologica, bensì si svolge drammaticamente a
Trieste. Il romanzo presenta una giornata dell’insegnante Herta Jamnik,
con scene di vita comuni che vanno dalle semplici incombenze quotidiane alle chiacchierate coi colleghi, a una serata all’insegna della questione
dell’emancipazione femminile e il rientro a casa, durante il quale la protagonista è però vittima di un’aggressione sessuale. “Se escludiamo la
violenza, a Herta non è successo niente di particolare per cui l’autrice
avrebbe dovuto scrivere un romanzo. Eppure l’ha fatto: i piccoli momenti quotidiani vengono arricchiti di ricordi sull’infanzia, di riflessioni, di
sogni e di intermezzi lirici (...) Tutti i personaggi sono preda dell’angoscia e della paura della solitudine, perennemente in cerca di compagnia,
alienati dal frastuono cittadino e dalla confusione. Anche la casa non è
più un rifugio tranquillo: dal piano superiore si sente il pianto di un
bambino, i ladri entrano dalla finestra, un orafo morto fa una passeggiata
sotto le sue finestre. Le feste sono chiassose: ovunque soltanto parole,
cibo e bottiglie. (...) La vita di Herta scorre parallela a quella della città,
ma non nella sua completezza, bensì per segmenti: in autobus, al bar, a
scuola”. Un romanzo di impronta “reista”, vicino a quella corrente artistica che poneva al centro l’alienazione dei singoli e l’impossibilità, per gli
autori, di descrivere i loro personaggi nella loro completezza, bensì nei
singoli tratti. Possiamo dunque parlare della frammentazione dei personaggi e del loro mondo in particolari anche minuti, “tratti-aspetti” dunque di un tutto più ampio.
Un tassello importante alla conoscenza di Ivanka Hergold è stato
dato nel 2008 con la pubblicazione di Ponikalnice-Paracels: che potrebbe essere definito un libro “doppio”, come si evince dal titolo che allude ai fiumi che scompaiono nel sottosuolo e al medico rinascimentale
64
Paracelso. Nella prima parte
vengono raccolte le prime poeFra le opere di Ivanka Hergold si ricorsie di Ivanka Hergold, di cui la
dano qui solamente alcune:
saggista Vilma Purič sottolinea
Pasja radost ali karkoli, Ljubljana, Mlail dissidio come tema portante:
dinska knjiga, 1971
si tratta di un dissidio soprattutBeli hrib, Slovenj Gradec, Literarni
klub in Kulturna skupnost, 1973
to interiore, che però investe anche il mondo in cui l’autrice viVse imaš od mene, Maribor, Obzorja,
1974
ve; Paracels tratta invece la vicenda del medico scienziato alDido, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1974
chimista e filosofo del Seicento
Suha leta: TV igra, Ljubljana, RadioParacelso; la sua fierezza e onetelevizija, 1975
stà intellettuale contrapposti a
Nož in jabolko, Ljubljani, Cankarjeva
un sistema di conoscenze rigido
založba, 1980
e impermeabile ai cambiamenti.
Pojoči oreh, Trst, Založništvo tržaškega
Il dramma è stato messo in scetiska, 1983
na nel 1984 dal Teatro Stabile
Ponikalnice; Paracels, Trst, ZTT - EST,
Sloveno di Trieste.
2008 (saggi di Ace Mermolja e LoreRicordiamo ancora che Ivandana Umek)
ka Hergold è stata pure traduttrice di importanti testi italiani
teatrali e in prosa (Dario Fo, Dacia Maraini, Umberto Saba, Ettore Scola-Una giornata particolare),
nonché un’apprezzata saggista lei stessa e autrice di colloqui letterari
con alcuni degli esponenti maggiori della letteratura slovena in Italia
(Alojz Rebula, Boris Pahor, Pavle Merkù, Vinko Beličič), poi diffusi in
vari filmati di approfondimento culturale.
65
Aleksij Pregarc
F
ra il 1973 e il 1992 Jevnikar analizza
e approfondisce varie raccolte di poesie di Aleksij Pregarc, nato a Ricmanje San Giuseppe della Chiusa nel 1936, una
delle voci poetiche più originali della letteratura slovena in Italia.
Pregarc ha svolto dapprima la professione di attore teatrale a Trieste (Teatro
Stabile Sloveno) e Nova Gorica (Primorsko dramsko gledališče - Teatro del
Litorale, oggi Teatro Stabile); in seguito,
ha lavorato presso l’emittente radiofonica
Radio Trst A (RAI) senza trascurare, però, l’amore per il teatro: è stato, infatti,
anche regista, attore e mentore di vari
gruppi teatrali amatoriali. La molteplicità dei suoi interessi si riflette nelle
sue opere sia di natura poetica che più specificatamente teatrale. La sua
produzione abbraccia molti testi radiofonici e teatrali (tra i più importanti ricordiamo qui Na pragu niča - Sulla soglia del nulla, 1985; Črni galebi
- Gabbiani neri, 1992), nonché testi critici (ad esempio: Blagi izzivi: 30
let zapažanj - Sfide lievi: 30 anni di osservazioni, 1999).
Nel 2006 ha ricevuto il Premio Vstajenje (Resurrezione) per l’opera
poetica, mentre nel 2008 ha ricevuto la targa Srečko Kosovel, consegnatagli dal Comune di Sežana, in Slovenia.
A partire dai primi anni ’70, Jevnikar segue la carriera poetica di Pregarc
e prende in esame le varie raccolte pubblicate fra il 1973 e il 1999. Nel corso degli anni, il critico letterario si sofferma dapprima sulle caratteristiche
della poesia di Pregarc: “Un poeta triestino originale, che segue una via propria non solo nell’ambito poetico della letteratura slovena in Italia, bensì in
tutta la letteratura slovena” (1982); e a proposito dell’esperienza di Pregarc
come operaio in una fabbrica di Podgora, vicino a Gorizia, scrive che “nelle
liriche in cui tratta del mondo del lavoro, Pregarc è convincente. L’ambiente
di lavoro delle fabbriche ha spiritualmente distrutto gli operai e le operaie,
li ha resi simili alle macchine, senza la speranza in un domani migliore (...)
Anche fuori dalla fabbrica tutto è grigio e polveroso, dovunque solamente
una lenta agonia. Non c’è via di uscita.” Nelle liriche è evidente l’impronta
della poesia contemporanea: “La lingua è realisticamente semplice e diretta.
Pregarc ha eliminato tutte le metafore ormai ampiamente sfruttate e oggi
66
Fra le opere di Aleksij Pregarc si ricordano
qui solamente alcune:
1987 (con la traduzione in italiano, tedesco,
serbo-croato, ungherese, francese e inglese)
Moja pot do tebe, Maribor, Založba Obzorja,
1982 (postfazione di Irena Žerjal)
Samohodec - Il viandante solitario, Mihelač,
Ljubljana, 1992 (versione italiana di Jolka
Milič; prefazione di Carlo Milic; progettazione grafica di Boris Zulian)
Temelji mojega vrta, Ljubljana, Državna
založba Slovenije, 1985
Moj veliki mali svet - Il mio grande piccolo
mondo - My big little world, Mihelač, Ljubljana, 1999 (prefazione di Manlio Cecovini;
progettazione grafica di Hijacint Jussa, (con
la traduzione in italiano e inglese)
Na pragu niča, Trst, 1985
Duh po apnencu, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1986
Črni galebi: drama v 2 dejanjih in 2 slikah, Trst,
Slovensko stalno gledališče, 1992
Aleksij Pregarc, Solitudini; Gerald Parks, Il
naufragio Ibiskos, Empoli, 2003
Božji vitez na slovenski zemlji: (odrska lepljenka o škofu A. M. Slomšku), Trst, s.i.p., 1993
Blagi izzivi: 30 let zapažanj, Nova Gorica,
Branko; Ljubljana, Jutro, 1999 (prefazione
di Jože Pučnik)
a c. di David Terčon, Pet - Cinque, Kulturno
društvo Vilenica, Sežana, 2006 (raccolta delle poesie di cinque poeti, tra cui anche Pregarc)
(Ne)všečne obrobnosti: (2000-2004): zapiski,
glose, eseji, Ljubljana, Koščak, 2007 (prefazione di Drago Legiša)
Žlahtnost-Preziosità, Mohorjeva družba,
2006 (trad. di Jolka Milič; un dialogo poetico-artistico fra Pregarc e l’artista Edi Žerjal)
Odtenki vesti, Nova Gorica, Branko; Ljubljana, Koščak, 2007 (prefazione di Taras Kermauner)
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin - Versi
diversi: poeti di due minoranze, Unione italiana, Capodistria – Italijanska unija, Koper, 2006 (selezione, prefazione e testi critici a cura di Miran Košuta; introduzione
di Ciril Zlobec)
Amebno razkošje, Gorica, Goriška Mohorjeva družba, 2011 (saggio introduttivo di Vladimir Gajšek
Zavratna usoda - Subdola sorte, Hammerle,
Trieste, 2009 (traduzione italiana di Jolka
Milič; disegni di Edi Žerjal).
Poesie, Circolo culturale “G. Salvemini”, Gorizia, 1974 (trad. di Jolka Milič)
Jedra - Nuclei - Kerne - Jezgra - Magvak - Les
noyaux - Nuclei, stampato in proprio, Trieste,
improponibili. Le poesie sono destrutturate, senza punti, virgole e maiuscole: adopera solamente il punto interrogativo e il doppio punto.”
Del 1987 è l’analisi della raccolta Jedra-Nuclei, che riporta le liriche di
Pregarc in italiano, tedesco, serbo-croato, ungherese, francese e inglese. Il
poeta presenta qui sette cicli di poesie che trattano della ricerca di sé, del
senso dell’esistenza, dell’amore come follia che si traduce in noia, degli
operai nelle fabbriche, delle proprie origini e degli affetti familiari. A proposito di questa raccolta, Jevnikar scrive che “Pregarc presenta qui la sua
produzione dagli inizi ai giorni nostri. Molti sono i temi trattati e spaziano
dalla descrizione della realtà degli Sloveni in Italia ai grandi problemi mondiali, specchio della realtà di oggi, che è priva di anima. Lo stile è modernistico, senza le maiuscole, senza virgole e punti.”
67
A proposito della raccolta bilingue Samohodec - Il viandante solitario (1992),
Jevnikar sottolinea la pertinenza del titolo: “La raccolta di Pregarc si discosta
nettamente dalle altre raccolte poetiche slovene per motivi e forma. Pregarc
segue la propria via, scava in sé e nelle persone a lui vicine, cerca il senso profondo della vita. Ma è condannato alla solitudine, cammina per il mondo come
un viandante solitario, senza via d’uscita. (...) La lingua è ricercata, ma a volte
talmente compressa da risultare ermetica.”
L’ultima raccolta di Pregarc presa in esame dal critico letterario è del
1999: si tratta della raccolta trilingue Moj veliki mali svet - Il mio piccolo
grande mondo - My little big world. I temi spaziano dai luoghi caratteristici
di Trieste e del circondario, al giardino di casa e dalle conseguenze funeste
dell’odio al ricordo di Saša Ota, l’operatore RAI morto a Mostar nel 1994
assieme a Marco Luchetta e Dario D’Angelo, fino alle grandi personalità
che Trieste ha attratto o allontanato da sé ( Joyce, Rilke, Stendhal, Napoleone, il critico sloveno Fran Levstik, il regista Jože Babič). Infine, Jevnikar
riporta l’opinione di Manlio Cecovini che nell’introduzione al libro definisce Pregarc come uno dei poeti contemporanei più interessanti dell’intero panorama poetico triestino.
Nell’ultimo decennio Pregarc ha pubblicato altre raccolte poetiche,
“consolidando la propria fama di viandante solitario nell’ambito stilistico
e poetico” (Marija Cenda). Fra queste ricordiamo la raccolta bilingue
Žlahtnost - Preziosità (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Vstajenje,
e l’ampia raccolta Amebno razkošje (Sontuosità amebica, 2011) pubblicata
in occasione del suo 75°compleanno.
68
Evelina Umek
U
na delle autrici più rappresentative
della letteratura slovena in Italia è sicuramente Evelina Umek, la cui attività si
è sviluppata tanto in Slovenia quanto in
Italia, portando la scrittrice a coltivare generi letterari molto diversi tra loro.
Nata a Trieste nel 1939, l’autrice si è
diplomata al Liceo classico France Prešeren
di Trieste laureandosi poi all’Università di
Ljubljana. La sua attività principale è stata
quella di redattrice di varie Case editrici
slovene nonché di programmista alla televisione slovena nella sezione per l’infanzia
e l’adolescenza. Durante gli anni trascorsi
a Trieste ha collaborato pure con la sezione slovena della Rai e con la rivista Galeb, e pubblicato piccoli libri per
ragazzi e per i lettori adulti.
Evelina Umek è autrice di numerosi testi televisivi e di libri per giovani, alcuni dei quali dedicati anche alla storia di Trieste (Sprehod z baronom
in drugimi imenitnimi Slovenci- Una passeggiata col barone e con altri Sloveni illustri, 2000, che è poi diventato un film per la Televisione slovena, e
Malka gre v Trst-Malka va a Trieste, 2004). Nella letteratura per l’infanzia
vanno annoverate anche le sue traduzioni in sloveno di importanti autori
italiani quali ad es. Gianni Rodari, Marcello Argilli, Angelo Signorelli e
Italo Calvino.
Ma Evelina Umek è anche autrice di numerosi romanzi e novelle. In essi il più delle volte mette in rilievo la vita di gente comune che all’improvviso
viene sconvolta da problemi esistenziali, mentre sullo sfondo c’è Trieste, la
storia di una città plurietnica con tutti i suoi problemi e traumi. In questo
filone rientrano i romanzi Frizerka (La parrucchiera, 2005), Zlata poroka
ali Tržaški blues (Le nozze d’oro ovvero un blues triestino, 2010) e la raccolta Mandrija in druge zgodbe (La mandria e altri racconti, 2003) in cui Evelina Umek delinea le vicende di una famiglia slovena di San Giovanni a
Trieste. Per quest’opera ha ricevuto il Premio Vstajenje.
Nell’appendice, Marija Cenda si sofferma principalmente sul romanzo
Frizerka (La parrucchiera), dove viene narrata la storia di Romana, una
parrucchiera in pensione, che riceve all’improvviso la comunicazione di
un’eredità in Slovenia e deve fare quindi i conti con la propria identità:
per parte di madre Romana è infatti slovena, ma il padre non ha mai per69
messo che le venisse insegnata la
lingua slovena. Dopo un periodo di
Fra le opere di Evelina Umek si ricordano
travaglio interiore Romana decide
qui solamente alcune:
di non accettare l’eredità e, conseRadovedni taček ali Ta veseli dan v
guentemente, neppure la propria
gledališču, Ljubljana, Mladinska knjiga,
1995 (illustrazioni di Samo Jenčič)
identità mista.
Drevesna ulica, Ljubljana, DZS, 1997
Evelina Umek è anche autrice
(illustrazioni di Ksenija Konvalinka)
del romanzo Po sledeh fate morgane
Sprehod z baronom in drugimi imenitni(Inseguendo un miraggio, 2008) in
mi Slovenci, Trst, Mladika, 2000 (illuscui ha tratteggiato la biografia di
trazioni di Živa Pahor; fotografie di
Marica Nadlišek Bartol (1867Andrej Kajzer)
1940), madre dello scrittore VladiMandrija in druge zgodbe, Trst, Mlamir Bartol, ma anche una delle slodika, 2003
vene più acculturate del tempo. Il
Malka gre v Trst, Trst, Mladika, 2004
titolo della biografia riprende quello
(illustrazioni di Živa Pahor)
del romanzo scritto da Marica
Frizerka, Trst, Mladika, 2005 (saggio
Nadlišek nel 1898. Quando la Casa
introduttivo di Marija Cenda)
editrice triestina Mladika decise di
Hiša na Krasu, Trst, Mladika, 2006 (sariproporlo a cent’anni esatti dalla
ggio introduttivo di Marija Cenda)
prima pubblicazione, Jevnikar tracPo sledeh fate morgane: Marica Nadlišek
ciò la genesi del testo (nato come
Bartol 1867-1940, Trst, Mladika, 2008
feuilleton per la rivista “Ljubljanski
(saggio introduttivo di Alenka Puhar)
zvon”) e la trama (le vicende di una
Zlata poroka ali Tržaški blues, Trst,
famiglia benestante che ospita vari
Mladika, 2010 (saggio introduttivo di
intellettuali locali), arrivando alla
Loredana Umek)
conclusione che l’autrice non aveva
La parrucchiera: una storia triestina,
Mladika, Trieste, 2009 (traduzione di
avuto il tempo materiale per deliAlessandra Foraus; prefazione di Patrineare il carattere dei singoli persozia Vascotto).
naggi come avrebbe voluto: questi
infatti rimangono avviluppati nel
dialogo minuto sul senso della vita,
ma senza approfondire le questioni
politiche, economiche e sociali del tempo. La felicità rimane per tutti solo
un’illusione, un “miraggio”, ossia una “fata morgana”.
Nella biografia scritta da Evelina Umek viene presentata la vita di Marica
Nadlišek Bartol, che fu una studiosa della letteratura russa, italiana, inglese
e tedesca, a conoscenza delle correnti letterarie principali dell’epoca. La
Nadlišek fu in contatto epistolare con lo scrittore sloveno realista Janko Kersnik, fu inoltre scrittrice e traduttrice, nonché redattrice (1897-1900) della
prima rivista femminile “Slovenka”. Triestina di nascita trascorse gran parte
della sua vita nella città natale, il che permise all’autrice Evelina Umek di
illustrare nel testo citato l’ambiente cittadino nel periodo prebellico, durante la prima guerra mondiale nonché negli anni postbellici.
70
Ivan Tavčar
U
n poeta che esprime i propri sentimenti in sloveno, italiano e tedesco, ricreando così quella che è stata una caratteristica della Trieste
asburgica e mitteleuropea. Ivan Tavčar,
classe 1943, si forma in un ambiente
plurilingue, ricco di stimoli culturali,
ma la vita lo porta dapprima ad occuparsi di commercio: infatti, dopo il diploma di ragioniere presso l’Istituto
commerciale sloveno Žiga Zois di
Trieste, Tavčar trova un impiego in
una ditta triestina di import-export,
continuando però a coltivare la passione per la letteratura e la musica (è autore, infatti, di vari saggi su alcuni dei maggiori compositori italiani).
Alcune sue liriche sono state anche musicate (Patrick Quaggiato).
A Milano e Salerno pubblica alcune raccolte di liriche in italiano ottenendo un notevole riconoscimento della critica, ma è nel 1997 che la
Casa editrice Mladika di Trieste dà alle stampe la sua raccolta in sloveno
Ta mala zemska večnost (Questa piccola eternità terrena) con l’introduzione di Ivanka Hergold. “Le sue liriche esprimono i sentimenti, i pensieri e i desideri dell’uomo, ma senza aspre proteste; il più delle volte il
poeta si esprime attraverso le preghiere e gli inni, in uno stile biblico”,
osserva Jevnikar. I temi ricorrenti riguardano la tortuosità della vita, la
solitudine, i conflitti interiori nonché il sentimento religioso.
Questi temi vengono messi in rilievo anche nella raccolta Ko bisere
v očeh rojevaš (Quando fai nascere le perle nei tuoi occhi, Ljubljana,
1999), ai quali il poeta associa le immagini del Carso e del suo silenzio, la ricerca di se stesso, nonché i propri dubbi esistenziali. A proposito di questa raccolta il saggista sloveno Denis Poniž ha osservato che
la poesia di Tavčar “è fresca, tutt’altro che convenzionale, a volte pren71
de spunto da un fatto concreto, a
volte invece si abbandona a un
tempo avulso dalla realtà”, mentre
Jevnikar osserva che molte liriche
suonano come una vera e propria
preghiera.
Negli ultimi anni, il poeta ha
pubblicato varie raccolte in sloveno: Marija Cenda, nell’Appendice, si sofferma soprattutto sull’ultima, Odselitev (Trasferimento,
GMD 2012), che rappresenta una
sorta di summa della sua opera e,
già nel titolo, preannuncia un distacco graduale da tutto ciò che è
concreto e materiale. Uno dei temi portanti è il sentimento religioso, ma la studiosa sottolinea
anche la concezione che il poeta,
come un novello Orfeo, ha della
propria poesia. Per questa raccolta, Ivan Tavčar è stato insignito
del Premio Vstajenje.
Molte sono le raccolte di Tavčar in italiano e in sloveno. Di seguito ne elenchiamo solo una parte:
Odselitev, Goriška Mohorjeva družba,
Gorica, 2012 (introduzione di Majda
Cibic)
Dih večne besede, Družina, Ljubljana,
2005 (introduzione di Jože Zadravec)
Hoja v neskončnost, Društvo 2000, Ljubljana, 2004
Ko bisere v očeh rojevaš, Društvo 2000,
Ljubljana, 1999 (introduzione di Denis Poniž)
Il profumo dell’infinito, A.L.I. Penna
d’autore, Torino, 1997
Ta mala zemska večnost, Trst, Mladika,
1997 (introduzione di Ivanka Hergold;
illustrazioni di Štefan Pahor);
Qualcuno verrà: poesie, Salerno, La Piroga editrice, 1995;
Lo spessore del tempo, Milano, Nuovi
autori, 1995.
72
Marko Kravos
A
partire dalla metà degli anni ’60 una
voce nuova si aggiunge alla poesia
slovena: è quella di Marko Kravos, che
pubblica le prime liriche già nel periodo
in cui era giovane studente all’Università
di Ljubljana. Nato nel 1943 a Montecalvo Irpino (il padre Josip si trovava lì al
confino), ha poi concluso gli studi al liceo classico di Trieste e si è laureato
all’Ateneo di Ljubljana. A Trieste ha curato le edizioni dell’Editoriale stampa
triestina (ZTT, Založništvo tržaškega
tiska) ed è stato per qualche anno docente di lingua e letteratura slovena presso l’Ateneo triestino. Nel 1996 è stato
eletto presidente del centro PEN sloveno.
La sua produzione è ricca di opere poetiche, saggistiche, di letteratura per l’infanzia e di testi radiofonici. Kravos è anche traduttore dall’italiano, dal croato e dallo spagnolo, mentre i suoi testi sono stati a loro
volta tradotti nelle principali lingue europee.
È dai primi componimenti poetici che Jevnikar segue l’attività letteraria di Kravos: dagli inizi, “ricchi di un sentimento umanista, lontano
dal sentimento di alienazione tanto diffuso tra i contemporanei, con dei
versi scorrevoli e freschi”, disgiunti dalle derive ermetiche di alcuni poeti
del nostro tempo nei quali spesso si avverte l’influsso della poesia popolare. Nelle opere successive di Kravos i temi dell’attualità si mescolano
ai miti e alle storie legate all’Africa e all’America Latina (Trikotno jadro
- La vela triangolare, 1972). Ma è con la raccolta Tretje oko (Il terzo occhio, 1979) che il critico sottolinea il passo in avanti fatto dal poeta:
“L’uomo contemporaneo ha perso tutti i valori, anche la parola non è
più un mezzo di comunicazione, essa è morta, lontana dal valore e dal
senso datole un tempo dalle lettere.” E ancora: “La raccolta è lo specchio
73
del mondo di oggi, della maggioranza delle persone. (...) Il quadro è tetro, il poeta lo descrive così come lo vede. Pur sapendo di non poter
cambiarlo egli protesta lo stesso con l’unico mezzo che ha a disposizione: con sottile ironia accompagnata da una profonda desolazione e tristezza. Il poeta sceglie le espressioni ricercate e popolari e a volte la sua
poesia diventa un componimento poetico di tono semplice e popolare.”
Nella raccolta Ko so nageljni dišali (Quando i garofani odoravano,
1988) viene ripresa da Kravos proprio la poesia popolare, e lo studioso
sloveno sottolinea la novità
dell’approccio che ne deriva: ai
tradizionali temi popolari (la sereFra le molte traduzioni in italiano di
nata, la malinconia dell’addio, l’aMarko Kravos segnaliamo qui alcune
mante abbandonata) fa da contraldi poesia:
tare l’ironia, che fa rivivere i soliti
Sredozemlje = Mediterraneo = Mediterepisodi delle canzoni popolari
ran = Méditerranée, Trst-Trieste, TK
(l’amante abbandonata non si rasGalerija, 1987 (grafiche di Franko Vecsegna, ma augura al fedifrago la
chiet; saggio introduttivo di Matjaž
Kmecl);
morte; i due innamorati si confesIl richiamo del cuculo: poesie, Campasano l’amore reciproco, e dunque
notto, Udine, 1994
non resta che ingannare la madre
Le tracce di Giasone: poema in cinque
di lei e... allontanarsi in un posto
tempi con epilogo - Jazonova sled: pesniappartato).
tev v petih slikah z epilogom - Jazonov
Del 1992 è la raccolta Obzorje
trag: poema u pet slika s epilogom, Hefti,
in sled (L’orizzonte e l’orma) con
Milano, 2000 (disegni di Klavdij
i suoi cinque cicli, dei quali il più
Palčič; con la traduzione in italiano e
importante è Jazonova sled (L’orin croato; postfazione di Ernestina Pellegrini);
ma di Giasone), nel quale l’autore
si rifà al mito greco. In realtà, non
Sui due piedi, En plein officina, Milano,
2001;
è tanto importante la parte epica
del viaggio degli Argonauti quanto
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin Versi diversi: poeti di due minoranze,
il contrasto fra le battaglie e il deUnione italiana, Capodistria - Italisiderio di novità da una parte e il
janska unija, Koper, 2006 (selezione,
dolore e l’attesa dei familiari rimaprefazione e testi critici a cura di Miran
sti a casa, dall’altra. Lo storico e
Košuta; introduzione di Ciril Zlobec);
critico letterario Boris Paternu
Su pietra, su acqua: occidente senza un
sottolinea così i punti rilevanti del
dente, e il mio computer morente: versi
testo:
d’occasione per il settantesimo anniversa“(La poesia epica di Kravos) inrio, stampato in proprio, Trieste, 2013;
dica forse meglio della sua lirica il
Sol na jezik - Sale sulla lingua, ZTT, Trst
tema fondante della sua poesia,
- EST, Trieste, 2013 (grafiche di Avgust
Černigoj; saggio critico di Juan Octasoprattutto il suo contrappunto
vio Prenz).
esistenziale, vale a dire la posizione eternamente scivolosa fra l’es74
sere e il non essere poetico, fra la magnificenza e il nulla dell’esistenza
(...) L’epica è soprattutto un simbolo o una metafora, che porta in sé la
riflessione presente già nella lirica di Kravos. Si tratta sì di epica, ma in
realtà è la sua simulazione moderna.” Nelle altre ballate della raccolta
viene sottolineata la tragedia di quanti “hanno sacrificato la propria gioventù per gli altri e in vecchiaia vengono rispediti a casa, anche se una
casa non ce l’hanno più”, come viene sottolineato da Jevnikar.
Nelle ultime raccolte poetiche Kravos si allontana dagli strumenti tradizionali della poesia (la rima, l’assonanza, le maiuscole), mentre rimane
vivo il senso dell’ironia contrapposto all’inesplicabile mistero della vita,
che secondo il poeta merita –in ogni caso– di essere vissuta.
75
Sergej Verč
T
rieste: uno dei luoghi della letteratura gialla contemporanea.
La Trieste fredda e algida di austroungarica memoria, la Trieste dei
traffici illeciti, delle tenebre nascoste dall’apparenza un po’ sonnacchiosa della città. Ma anche la Trieste della difficile convivenza fra le
diverse etnie e la Trieste che cerca
di guardare al futuro.
Trieste come set ideale per lo
scrittore e regista Sergej Verč, triestino di nascita (1948), che pubblica il primo romanzo giallo nel 1991:
il titolo è Rolandov steber (La stele
di Rolando, tradotto in italiano nel
1991). Il libro diventa il capostipite
di un filone, quello giallo, fino ad
allora praticamente inesistente nella
letteratura slovena in Italia. Seguono i romanzi Skrivnost turkizne meduze (Il mistero della medusa azzurra, tradotto in italiano nel 1998),
Pogrebna maškarada (La carnevalata funebre, 2003, finalista del premio sloveno Kresnik per il miglior
romanzo dell’anno) e Mož, ki je bral
Disneyjeve stripe (L’uomo che leggeva i fumetti di Disney, 2009). I libri
riprendono alcune caratteristiche
topiche della letteratura gialla, arricchendole però con elementi che
li avvicinano al romanzo criminale
contemporaneo. Vediamone alcune
caratteristiche: il protagonista dei
romanzi è il commissario Beno Perko, uno sloveno di Trieste, che ha
però svolto gran parte della propria
Fra i lavori di Sergej Verč segnaliamo:
Kocka v kocki: drama v dveh dejanjih, Trst,
1967
Evangelij po Judi: igra v 14 postajah, Ljubljana, Zveza kulturnih organizacij Slovenije, 1986 (prefazione di Darka Čeh)
Rolandov steber, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1991
Samomor kitov, Trst, Slovensko stalno
gledališče, 1995
Skrivnost turkizne meduze, Trst, ZTT EST, 1998 (postfazione di Matjaž Kmecl)
Pogrebna maškarada, Ljubljana, Cankarjeva založba, 2003
Mož, ki je bral Disneyjeve stripe, Ljubljana,
Modrijan, 2009
Tradotti in italiano:
La colonna di Rolando, Roma, Robin,
2006 (trad. di Laura Sgubin)
Il mistero della medusa turchina: il commissario Perko e lo scheletro decollato, Roma,
Robin, 2007 (trad. di Laura Sgubin)
76
carriera in Polizia nel Mezzogiorno e torna quindi alla Questura di Trieste
in una veste particolare - un poliziotto sloveno di Trieste, che però guarda
alla città con gli occhi di chi non ci è vissuto da sempre. Un’attenzione
particolare merita, poi, un’altra considerazione: le lacerazioni storiche fra
la comunità slovena e quella italiana di Trieste fanno sì che la posizione
professionale ponga Beno Perko in una situazione anomala per entrambe
le componenti cittadine.
Perko è un gourmand, ha una relazione con la bella Jasmin Fortuna,
conosce più domande che risposte ai propri dubbi, discute i casi con i
colleghi più fidati (Ayala) e il medico legale: tutto questo rientra nel topos
del genere, ma è l’ambientazione a far emergere le particolarità: sullo sfondo c’è Trieste, una città fino a qualche anno fa non particolarmente presente nella letteratura gialla italiana o slovena. Quella di Verč è una Trieste
dalla doppia faccia: fredda, signorile e un po’ troppo tranquilla da un lato
e misteriosa, intrigante e piena di segreti dall’altro. La vicinanza del confine, le apparenze alto borghesi, gli intrighi politici e finanziari la rendono
lo scenario ideale per i libri di Verč come per quelli di Veit Heinichen,
scrittore tedesco trapiantato a Trieste, il cui commissario Proteo Laurenti
scopre pian piano come la città celi tanti misteri dietro l’apparente sonnacchiosità.
Del primo libro di Verč (La stele di Rolando) Jevnikar sottolinea l’aderenza ai canoni del genere poliziesco e l’ambientazione regionale (Marina
Julia, Trieste, il Carso): “Il libro è avvincente, anche i personaggi sono realistici e pieni di vita. In generale, si tratta di Sloveni sul Carso, che si sono arricchiti e hanno mutato ambiente, per questo motivo una storia criminale ambientata qui è plausibile.” Il critico spiega anche perché il romanzo giallo sia stato fino ad allora poco presente nella letteratura slovena:
“Mancavano i presupposti, una società sviluppata a tutti i livelli, anche a
quello criminale, ed ovviamente dei poliziotti adatti alle circostanze.”
Anche se Jevnikar non ne parla, mi sembra interessante anche l’ultimo
romanzo di Verč, L’uomo che leggeva i fumetti di Disney, dove la storia prende avvio con la bancarotta nel 1996 della Tržaška kreditna banka (Banca
di credito di Trieste), il principale cardine dell’economia slovena in Italia
nel dopoguerra. Proprio nell’ultimo libro, Verč si avvicina ulteriormente
alle caratteristiche del romanzo criminale: non solo una parte dei misteri
resterà tale anche dopo la risoluzione dei delitti, ma il lettore sa dalla prima pagina chi sia il colpevole: di più, è lo stesso omicida a rivelarlo, accompagnando poi il lettore per le vie della città e nei meandri della propria
follia. Un uomo tragicamente qualunque, vittima del crac della Kreditna
(ne era uno dei dirigenti minori), ma soprattutto vittima del cinismo di
chi allora stava al vertice dell’istituto. Ecco che allora i delitti sono, in fin
dei conti, solo una parte di un quadro più complesso: la tragedia professionale e umana dell’omicida fa sì che il racconto non si sviluppi come
77
una fredda sequenza di indagini e prove, bensì venga colto soprattutto l’aspetto umano del personaggio. Con questa sua umanità, Perko si colloca
fra gli altri commissari, ispettori e detective di tanta letteratura europea e
americana che alla fine di un caso si sono resi conto di aver risolto sì un
delitto, ma che il vero mistero rimaneva ben celato e che i veri colpevoli
non avrebbero pagato per le loro colpe.
Con Verč, Trieste entra nel gruppo delle città “criminali” della letteratura slovena, assieme, ad esempio, a Lubiana (il romanzo Cimre - Le coinquiline, di Maja Novak, 1995), Maribor (col commissario Martin Vrenko
di Avgust Demšar) e Klagenfurt/Celovec (col romanzo Umor v zaspanem
mestu - Delitto nella città sonnacchiosa, di Martin Kuchling, 2009).
Una nota ancora per quanto riguarda lo stile di Verč: la lingua è lo sloveno letterario, ma con tanti richiami allo sloveno e all’italiano parlati a
Trieste. Lo stile è descrittivo, tipico di tanta letteratura gialla classica, ma
fa anche riferimento alla professione e agli interessi dell’autore. Verč, infatti, si è diplomato in regia all’Accademia d’arte drammatica di Lubiana
(1982) e vanta una serie di collaborazioni importanti con il Teatro stabile sloveno di Trieste e la partecipazione a numerosi festival e rassegne in
Slovenia come nelle altre repubbliche ex-jugoslave.
E proprio in ambito teatrale Verč si fa notare già nel 1980, quando viene insignito della variante studentesca della Prešernova nagrada (il premio
sloveno più importante) per la regia delle Žabe (Le rane) del poeta contemporaneo Gregor Strniša. Da allora viene più volte premiato per la regia
e l’allestimento di opere teatrali e radiofoniche (ad es. il Premio Slavko
Grum nel 1988 e il Premio Prešeren ottenuto per la regia radiofonica della Divina commedia nel 1995). Nel 1999 viene insignito, in Slovenia, della Targa di bronzo per la sua attività fra i gruppi teatrali amatoriali. Rilevante è anche la sua attività di mentore nei corsi teatrali e di traduttore e
adattatore di testi teatrali classici e contemporanei (Carlo Goldoni, Dario
Fo, Aldo Nicolai).
78
Ace Mermolja
T
ra il 1972 e il 1992 Jevnikar si dedica
più volte alla lirica di Ace Mermolja,
nato nel 1951 a Ljubljana, che dopo gli studi compiuti a Gorizia e a Ljubljana collabora tuttora col “Primorski dnevnik”; nel
1986, è stato eletto presidente della Zveza
slovenskih kulturnih društev - Unione dei
circoli culturali sloveni.
La lirica di Mermolja è pregna di ironia
e si avvicina al surrealismo come è stato
notato da Jevnikar già nel 1972, anno della
pubblicazione della prima raccolta Pesniški
list št. 3 (Foglio di poesia n° 3, Lipa Koper ZTT Trieste). “Il suo mondo si allarga dal
Carso e il mare alla Benecia e in lui si nota
soprattutto l’attenzione per le piccole cose, per le quali ha una spiccata sensibilità, ma nell’opera poetica di Mermolja è presente anche l’angoscia e la solitudine del mondo moderno.”
Dopo le poesie pubblicate dal 1975 al 1979, Jevnikar nota un importante
passo in avanti nella raccolta Z zvezdami v žepu (Con le stelle in tasca, 1982): “Il
poeta avverte le difficoltà del quotidiano, che è privo di fantasia, di bellezza, di
sogni e di un legame con la natura. Tutto viene calcolato, meccanizzato, anche i
bambini non sono più spontanei come in passato e giocano con i carri armati.
Il poeta è preoccupato e triste: in lui c’è tanta bellezza, ha le stelle in tasca, ma
la gente non le capirebbe né le accetterebbe. Il pessimismo, però, non domina
su tutto: il poeta sa sorridere, scherzare, rompere “lo specchio numerato” dietro
al quale si nasconde la natura in fiore e l’universo pieno di vita.”
Dopo la raccolta pubblicata con Marij Čuk (Igra v matu - Scacco matto,
ZTT, 1984) in cui l’universo poetico di Mermolja ha perso la vivacità di un
tempo e lo stesso Ettore, eroe di una guerra epica, avverte soltanto stanchezza e ripugnanza per il sangue versato, Mermolja torna con una nuova raccolta poetica nel 1991 (Elegije in basni - Elegie e favole, ZTT). Jevnikar ne sottolinea l’originalità con queste parole: “Mermolja ha portato un nuovo mondo nella letteratura slovena. Dapprima c’è Roma antica, di cui hanno cantato, nella letteratura slovena, già Silvin Sardenko, Mihael Opeka, negli ultimi
tempi Vladimir Truhlar e Rafko Vodeb, ma la loro poesia era pregna di ammirazione per i monumenti della Roma pagana e cristiana, che venivano
cantati in odi e inni. Mermolja non si interessa di tutto questo, i suoi pen79
sieri sono solo per Clodia, solo lei rappresenta l’apice dei suoi desideri. Presto, però, si rende conto che il suo desiderio non potrà essere realizzato, la
ragazza è troppo giovane e si diverte soltanto a amoreggiare in modo superficiale con lui.” L’amore è presente anche nelle altre poesie della raccolta: è
un sentimento malinconico, senza parole, come lo è il fluire del tempo.
Negli ultimi anni Mermolja ha pubblicato due raccolte poetiche, Na
robu lista - A bordo pagina (con la traduzione in italiano, 2003) e To ni
zame - Questo non fa per me (2007). Marija Cenda riporta le conclusioni del critico Miran Košuta a proposito della prima: “Mermolja pone un
punto interrogativo accanto alla parola poetica, infatti non crede più al
V izpostavljeni legi: prostor in čas Slovencev v
Italiji (1996-2011), Trst, ZTT -EST, 2011 [fotografie di Damjan Balbi]
Bibliografia su Ace Mermolja:
Pesmi, Koper, Lipa; Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1972
Okruški, Trst, ZTT - EST, 2013
Prepletanja: posoška zbirka poezij o
zbliževanjih in razhajanjih - Intrecci: raccolta
poetica isontina di vicinanze e divergenze, La
Quercia, Gorizia, 2003 (prefazione di
Nadja Marinčič; traduzione di Aldo Rupel)
Nova pesmarica, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1975
Med kaktusi kuham kavo, Koper, Lipa, 1979
Pinko Tomažič in tovariši (dramma), 1981
Z zvezdami v žepu, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1982
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin - Versi diversi: poeti di due minoranze, Unione italiana,
Capodistria - Italijanska unija, Koper, 2006
(selezione, prefazione e testi critici a cura di
Miran Košuta; introduzione di Ciril Zlobec)
Premišljevanja na meji, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1989
Elegije in basni, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1991
Poeti triestini contemporanei, Lint, Trieste,
2000 (a cura di Roberto Dedenaro; postfazione di Ernestina Pellegrini)
Narod in drugi, Trst, ZTT - EST, 1998
Drobci na parketu, Trst, ZTT - EST, 1999
Minimalia (con incisioni di Franko Vecchiet), ZTT, Trst - EST, Trieste, 2002; (saggio introduttivo di Loredana Umek; traduzioni di Darja Betocchi, Taja Kramberger,
Michele Obit, Loredana Umek)
Znamenja (antologia di Ace Mermolja et
al.), Gorica, Zveza slovenskih kulturnih
društev, 2002 [a cura di Aldo Rupel]
Na robu lista, Trst, ZTT - EST, 2003 (traduzione in italiano di Daria Betocchi; saggio introduttivo di Miran Košuta)
To ni zame, Trst, ZTT - EST, 2007
80
canto di Orfeo, al potere messianico e escatologico della poesia. A differenza di Miroslav Košuta e Marko Kravos, non crede più di poter dare
un nome nuovo al mondo grazie alla propria espressione poetica e di
poter salvare l’uomo di fronte al caos ontologico del nichilismo contemporaneo.” Ma più avanti aggiunge: “Eppure, sotto la maschera del distacco ironico e a volte un po’ cinico dell’autore, batte il cuore del lirico
romantico, fragile, ostaggio del dissidio interiore”. Marija Cenda sottolinea, invece, come l’ultima raccolta di Mermolja (To ni zame, 2007) metta in rilievo la sensazione malinconica della sconfitta, della mancanza di
una via d’uscita, mentre il silenzio domina sulla parola.
Primorski dnevnik
Il “Primorski dnevnik” (Il quotidiano del Litorale), pubblicato a Trieste
dal 13 maggio 1945, è l’unico quotidiano della minoranza slovena nel Friuli
Venezia Giulia.
Il “Primorski dnevnik” si pone in
una linea di continuità della tradizione cominciata già alla fine dell’Ottocento: nel 1876, infatti, venne fondato
a Trieste l’“Edinost” (L’unità) che fu
una delle espressioni culturali più vivaci e importanti della comunità slovena nel Litorale e in Istria, allora parte dell’Austria-Ungheria. Dopo la prima guerra mondiale e l’avvento del
fascismo, l’“Edinost” attraversò una
fase molto difficile che culminò
nell’incendio della tipografia, ospitata
nel Narodni dom, il 13 luglio 1920. Il
giornale venne poi soppresso definitivamente d’autorità nel 1928.
Nell’aprile 1943, nella zona di
Cerknica, venne fondato il “Partizanski
dnevnik”, l’unico quotidiano antifascista e partigiano stampato nell’Europa
occupata. Gli ultimi numeri vennero
stampati a Trieste, dove nel maggio
1945 venne fondato il “Primorski
dnevnik”, che si ricollega così alla tradizione dell’“Edinost” e del “Partizanski dnevnik”.
Il quotidiano promuove i valori della tolleranza, dell’amicizia fra i popoli
e del rispetto, nonché la collaborazione
fra le varie comunità slovene in Italia,
in Austria, in Ungheria e nel resto del
mondo. Il giornale segue con attenzione i temi legati alla normativa internazionale in tema di minoranze e promuove i contatti e la conoscenza reciproca con le altre minoranze in Italia
ed in Europa: in tale veste, il “Primorski dnevnik” è membro del MIDAS, Minority Dailies Association o Associazione dei quotidiani in lingua minoritaria e regionale con sede a Bolzano, presso l’Accademia Europea di Bolzano (EURAC).
Il direttore attuale è Dušan Udovič.
81
Marij Čuk
“M
arij Čuk segue delle vie poetiche
autonome, cerca dei percorsi
nuovi verso la poesia.” È il 1993 quando
Jevnikar scrive queste parole mentre Čuk
ha appena pubblicato una nuova raccolta
di poesie, Sledovi v pesku (Orme nella
sabbia). È un artista ormai affermato e
Jevnikar lo segue a partire dai primi esercizi poetici agli inizi degli anni ’70, quando Čuk – poco più che ventenne – pubblica la prima raccolta, Pesniški list št. 13
(Foglio di poesia n° 13), EST e Lipa Koper).
Čuk nasce a Trieste nel 1952 e dopo
essersi diplomato all’Istituto magistrale
sloveno Anton Martin Slomšek prosegue gli studi all’Università di Ljubljana dove si laurea in slavistica e romanistica. Intrapresa la carriera giornalistica, Čuk è stato responsabile per i programmi in lingua slovena presso
la sede regionale della RAI fino al 2014.
Già con le prime poesie degli anni ’70 egli si avvicina al linguaggio
poetico d’avanguardia in cui esprime temi d’attualità sociale e politica,
di ripulsione nei confronti di chi cerca solo i beni materiali. “Il mondo
è pieno di contrasti e di ingiustizia e il poeta vorrebbe cambiare le cose,
ma è troppo fragile. Si sente condannato alla solitudine e all’incomprensione, simile a un mendicante; capisce che oltre le vette incantate c’è la
felicità della sua gioventù, questa, però, non è più raggiungibile”. I contenuti vengono espressi con un linguaggio poetico diverso da quello tradizionale: “Le poesie sono di impianto modernista e un po’ ermetiche,
non una vera confessione personale, bensì soprattutto dei simboli, dove
il più delle volte i pensieri si riducono a frasi brevi e dove ogni verso
genera un pensiero non dedotto logicamente da quello precedente. La
lingua è viva e curata anche se il poeta non cerca delle metafore nuove”.
Un passo in avanti viene segnato, secondo Jevnikar, dalla raccolta Suho
cvetje (Fiori secchi, 1982): se prima il poeta reagiva con ironia o indifferenza al male sempre presente, ora sono delle immagini opprimenti a descrivere il mondo e il poeta stesso, in preda ai dubbi, insicuro, mentre
tutto intorno a lui è dominato dal vuoto; anche l’amore è impossibile in
questo mondo caotico, mentre gli ideali giovanili del poeta sono svaniti
82
nella banalità della vita quotidiana. “Nulla è sacro e anche l’uomo è mutato, da solo ha portato il mondo alla deriva consumistica dove l’unico
ideale è rappresentato dai beni di consumo: dall’automobile, dalla televisione, da un buon stipendio e dalle ferie anno dopo anno. Eppure il poeta
conosce tante cose che potrebbero dare un senso alla vita: i boschi e i
prati, la pioggia e le stagioni, il riposo domenicale secondo le vecchie abitudini, la ricerca dell’altro, l’orgoglio nazionale, anche i poeti, i matti, i
bohemienne e altro ancora. Ma il poeta da solo si sente troppo debole e
per questo motivo cerca rifugio nel proprio mondo”.
Negli anni seguenti Čuk ha pubblicato altre raccolte di versi, maturando uno stile personale in cui l’ironia va di pari passo con il dolore di
chi vede intorno a sé un mondo sempre più freddo e distante. Nella prefazione alla raccolta bilingue di Čuk, Ugrizi-Morsi (EST, 2003), Miran
Košuta ha delineato lo stile del poeta con queste parole: “Marij Čuk è
fatto così: ironico e tragico, frivolo e profondo, tenero e acuto, realista
e sognatore, poeta e anti-poeta, lirico e giornalista.” Mentre la saggista
Vilma Purič ha sottolineato che la poetica di Čuk “è fondata sulla disar-
Razpoka v krogu (dramma), Trst, Slovensko
stalno gledališče, 2004
Si segnalano qui alcune pubblicazioni di
Marij Čuk:
Zibelka neba in dna, Trst, ZTT - EST, 2007
Nikar se ne hudujte na vreme, da je zmešano.
Vsak naj najprej pomete pred svojim pragom,
Trst,ZTT - EST, 2010 [fotografie di Erik
Franceschini]
[Pesmi], Trst, Založništvo tržaškega tiska;
Koper, Lipa, 1973
Šumenje modrega mahu , Ljubljana, Državna
založba Slovenije, 1974
Ugrizi-Morsi, ZTT - EST, Trst, 2003 (traduzione di Darja Betocchi; saggio introduttivo di Miran Košuta)
Zakleta dežela, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1975
Suho cvetje, Maribor, Obzorja, 1982
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin - Versi
diversi: poeti di due minoranze, Unione italiana, Capodistria - Italijanska unija, Koper,
2006 (selezione, prefazione e testi critici a
cura di Miran Košuta; introduzione di Ciril
Zlobec)
Igra v matu, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1984 [saggio introduttivo di Peter
Kolšek]
Lepo je v naši domovini biti... (satirična
nadrealistična farsa s srečnim koncem, v
dveh dejanjih, kjer se dogaja vse in nič. Pomemben je optimizem), Trst, Slovensko
stalno gledališče, 1989.
S příchutí mořské soli: šest slovinských
básníků z Terstu - Duh po morski soli: šest
slovenskih pesnikov iz Trsta, Slovenski PEN,
Ljubljana,1998 (traduzione di František
Benhart; a cura di Marko Kravos)
S trebuhi za kruhi (ali Poletna priredba “Lepo je v naši domovini biti ---”), Trst, Slovensko stalno gledališče, 1990
Ko na jeziku kopni sneg, Trst, Mladika, 2014
(saggio introduttivo di Boris Paternu).
Sledovi v pesku, Koper, Lipa, 1993
Pena majskega vala, Trst, ZTT - EST, 1998
83
monia, che ammette a volte dei rari sprazzi di luce. Con ironia il poeta
li mette alla berlina: il suo è l’atteggiamento proprio di Sisifo condannato per l’eternità a un lavoro inutile che trova una via d’uscita in un’accettazione rassegnata delle cose.”
Marij Čuk è autore anche di un romanzo, Pena majskega vala (La
schiuma dell’onda di maggio), pubblicato nel 1998. Al centro della vicenda vi sono lo sloveno Maks e l’italiana Luisa, protagonisti di un amore osteggiato dal padre di lei, fervente nazionalista. Intorno a loro l’autore delinea l’universo degli Sloveni in Italia, le aspirazioni e gli ideali di
alcuni contrapposti ai calcoli ideologici e politici di altri. “Un libro inusuale” lo definisce Jevnikar, “dove la narrazione è scorrevole, realistica e
convincente”.
Nell’appendice, Marija Cenda ricorda l’altro filone di Čuk, quello
giornalistico (è opinionista del quotidiano “Primorski dnevnik”), mentre
non va dimenticata anche la sua esperienza di autore teatrale: sua è la
commedia-farsa Lepo je v naši domovini biti (È bello vivere nella nostra
patria), messa in scena al Teatro Stabile Sloveno di Trieste nel 1990.
84
Boris Pangerc
L
a carriera poetica di Boris Pangerc
comincia quando il poeta è ancora
uno studente, ma la poesia rappresenta
per lui solo uno dei filoni della sua varia attività.
Nato nel 1952 a Dolina, Pangerc frequenta il Liceo scientifico France
Prešeren di Trieste e si laurea successivamente all’Università di Ljubljana. La
sua occupazione principale è l’insegnamento, ma da sempre è molto attivo
nella vita culturale e politica locale come membro del Circolo culturale “Valentin Vodnik” di Dolina, della Società
slavistica di Trieste-Gorizia-Udine, dello Združenje književnikov Primorske (Unione degli scrittori del Litorale) e della Zveza slovenskih kulturnih društev (Unione dei circoli culturali sloveni). A queste attività, Pangerc affianca l’ interesse per
la musica vocale (ha fatto parte di varie compagini canore) ma anche
per la tradizione olivicola di Dolina e della Provincia di Trieste. In
ambito pubblicistico, collabora regolarmente con varie stazioni radiotelevisive e scrive articoli per il quotidiano sloveno “Primorski
dnevnik”.
Pangerc si è cimentato anche in politica, egli viene dapprima eletto sindaco di Dolina (1995, riconfermato nel 1999) e successivamente (2006) nel Consiglio Provinciale di Trieste, divenendone il Presidente.
Come poeta e scrittore, Pangerc ha scritto o curato una ventina di
libri: nel 2005 gli è stato attribuito il Premio Vstajenje per la raccolta di poesie Odžejališče (Dissetatoio).
Nel 1972 è stata analizzata da Jevnikar la prima raccolta poetica
di Pangerc, Amfora časa (L’anfora del tempo, Mladika) della quale il
critico mette in rilievo i temi fondamentali: la natura del luogo natìo,
l’amore, i temi legati all’attualità e il rimpianto della madre, morta
quando lui era ancora bambino.
L’amore per i luoghi in cui è nato ritorna anche nella raccolta di
racconti Beg pod Daglo (Fuga sotto la Dagla, ZTT-EST, 1975): “La natura viene descritta con tutto l’amore di chi è nato in quei luoghi e ne
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conosce il valore economico, ma
anche nazionale. (...) Ora i giovani fuggono in città, mentre le fabbriche si allargano sui campi e sui
prati e distruggono tutto quello
che è stato creato dall’amore e
dalle mani callose. (...) Pangerc
adopera molte espressioni dialettali per far comprendere al meglio
il senso della narrazione”.
Marija Cenda osserva come
nella raccolta di novelle Šum vode
Glinščice (Il suono dell’acqua del
Rosandra, 1997), Pangerc si soffermi sulla gioventù locale, sempre più aliena alle tradizioni anche nel modo di esprimersi. E
benché non si possa parlare di una
idealizzazione della vita agreste,
nell’autore si avverte la nostalgia
di quel mondo: “Il suo mondo rurale è aspro, fatto di fatica, di ruoli ben precisi, senza pietà per nessuno e di poche parole, che sanno
essere aspre e dure.”
Questi temi si ritrovano anche
nelle raccolte seguenti (In legla je
tišina - E scese il silenzio, 1981;
Glas odznotraj - La voce da dentro, ZTT 1990; Pesem Brega - Il
canto del Breg, 1991; Črno zlato
- Oro nero, 1997), arricchiti dal
sentimento dell’angoscia per la
minaccia atomica, ma anche
dall’abbandono all’amore sensuale. Cresce, nel poeta, l’amarezza
per l’avanzamento e progresso
dell’industria nonché dell’oleodotto transalpino che stanno
cambiando l’aspetto del territorio come anche per lo stato di abbandono in cui versano i campi,
i prati e i sentieri che non vengo-
Fra le opere di Boris Pangerc segnaliamo le seguenti:
Amfora časa, Trst, Mladika, 1972 (cura
grafica di Walter Jerebica)
Beg pod Daglo, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1975 (illustrazioni di
Petja Grom)
In legla je tišina, s.l., 1981 (traduzione
in italiano di Jolka Milič)
Šum vode Glinščice, Trst,Založništvo
tržaškega tiska, 1986
Glas odznotraj, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1990 (saggio introduttivo di France Bernik)
Pesem Brega, Koper, Fontana, 1991
(prefazione di Marjan Tomšič)
Majenca, Ljubljana, Prešernova družba,
1992 (postfazione di Anaroža Slavec)
Bližanje, Koper, Lipa, 1993
Črno zlato, Koper, Fontana, 1997 (prefazione di Tone Partljič)
Grad v Kaličju, Trst, ZTT -EST, 2000
Odžejališče, Trst, Mladika, 2004 (postfazione di Zora Tavčar)
In legla je tišina, Castelnuvo, 1981 (traduzione in italiano di Jolka Milič)
L’incendio bianco, Loufried editrice,
Trieste,1990 (prefazione di Elvio Guagnini; disegni di Boris Zulian)
L’albero del maj, Campanotto Editore,
Udine, 1993 (traduzione di Maria Cenda)
Lasseme dir, Antony, Gorizia, 2003
(poesie in dialetto triestino; Introduzione di Claudio Grisancich)
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin Versi diversi: poeti di due minoranze,
Unione italiana, Capodistria – Italijanska unija, Koper, 2006 (selezione,
prefazione e testi critici a cura di Miran
Košuta; introduzione di Ciril Zlobec)
86
no più curati da nessuno. “Si sono presi la terra dei padri e degli antenati, che dava da vivere alle generazioni e, dopo la morte, li accoglieva nel suo grembo”. Segue l’amara constatazione del poeta che
presto, “della nostra stirpe, non ci saranno più conoscenti / né discendenti”.
Nella raccolta Odžejališče (Dissetatoio), per la quale ha ricevuto il
Premio Vstajenje, Pangerc focalizza tutti questi temi nel simbolo
dell’ulivo: le sue radici si stanno seccando, il Breg non è più quello
di un tempo, e allo stesso modo si stanno inaridendo anche le radici
di una comunità.
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Dušan Jelinčič
“U
no degli scrittori contemporanei
di maggior successo fra gli Sloveni
di Trieste” come viene definito da Jevnikar. In effetti, Dušan Jelinčič è senza dubbio uno degli autori sloveni contemporanei più letti e tradotti. Nato a Trieste nel
1953, dopo la laurea in Lettere moderne
all’Università di Trieste, è oggi giornalista
caposervizio alla RAI di Trieste.
È autore di testi pubblicati in volume,
portati in scena o presentati alla radio. Da
sempre, oltre alla passione per la scrittura,
Jelinčič coltiva anche quella per l’alta montagna: ha partecipato, infatti, a ben tre spedizioni himalayane nel 1987, 1990 e 2003.
Fra i suoi libri primeggia il filone alpinistico, tratteggiato a volte con le inquietudini del romanzo giallo e le atmosfere del romanzo mistico (ad es. nei
libri Zvezdnate noči - Le notti stellate, 1990; Biseri pod snegom - Perle sotto la
neve, 1992; Budovo oko - L’occhio di Buddha, 1998; Umor pod K2 - Assassinio
sul K2, 2000; Kam gre veter, ko ne piha - Dove va il vento quando non soffia,
2007); seguono la tematica esistenzialista (nel romanzo Tema na pomolu - Scacco al buio, 1996), quella storica (nei romanzi Martin Čemur, 2002, e Bela dama
Devinska - La Dama Bianca di Duino, 2010) e di formazione (Nocoj bom ubil
Chomskega - Stasera ucciderò Chomsky, 2013).
Le opere di Jelinčič sono state tradotte in varie lingue e hanno ricevuto numerosi premi: con Le notti stellate ha vinto nel 1991 il Premio Vstajenje (Resurrezione), nel 1995 il “Cardo d’argento” all’ITAS - Trento, il Premio speciale del
CONI ed è stato finalista del Bancarella Sport, mentre nel 1997 ha vinto a Castel Goffredo il secondo premio Giuseppe Acerbi per la narrativa internazionale.
Per Scacco al buio ha ricevuto il premio internazionale Scritture di frontiera
(2004).
L’attenzione di Jevnikar per Jelinčič risale al 1985, quando venne pubblicato il reportage Srečanje nikjer (Un incontro da nessuna parte) sull’esperienza di Jelinčič in un kibbutz israeliano: l’autore del saggio introduttivo, Pavel Stranj, osservò allora che i giovani viaggiatori in genere, più che
altro, “cercano se stessi e il loro viaggio è un percorso lungo e tortuoso di
ricerca e di ritorno a casa”. Jevnikar, da parte sua, sottolinea la schiettezza
dello stile con cui l’autore ha delineato le caratteristiche principali di
88
Fra le numerose opere di Dušan
Jelinčič si segnalano qui solamente alcune:
Kam gre veter, ko ne piha, Maribor, Litera, 2007
Zvezdnate noči, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1990 [prefazione di Marijan Krišelj]
Nocoj bom ubil Chomskega, Ljubljana,
Sanje, 2012
Bela dama Devinska, Ljubljana, Sanje,
2010
Biseri pod snegom, Maribor, Obzorja, 1992
[fotografie di Dušan Jelinčič e Janez Jeglič]
Kobarid ’38 - kronika atentata: drama, Trst,
Slovensko stalno gledališče, 2012
Prazne sobe, Koper, Lipa, 1995
Le notti stellate, Campanotto Editore, Udine, 1994 (traduzione di Paolo Privitera)
Tema na pomolu, Trst, Založba Devin, 1995
(saggio introduttivo di Igor Škamperle)
Perle sotto la neve, Vivalda Editori, Torino,
1997 (traduzione di Nadia Milievich)
Budovo oko, Koper, Lipa, 1998
Ljubezen v času samote, Koper, Lipa, 2000
L’occhio di Buddha, Antony, Trieste, 2009
(traduzione di Darja Betocchi)
Umor pod K2, Koper, Lipa, 2000
Assassinio sul K2, Vivalda, Torino, 2012
(prefazione di Paolo Rumiz; traduzione di
Paolo Privitera)
Legenda o človeku, ki je govoril z vetrom, Koper, Lipa, 2004 [illustrazioni di Miran
Kohek]
Dove va il vento quando non soffia: una spedizione da record nel Karakorum inquieto,
Vivalda, Torino, 2010 (traduzione di Alenka Možina; prefazione di Nives Meroi)
Martin Čemur, Koper, Lipa, 2002 (prefazione di Loredana Umek)
Eseji z zahodnega roba, Maribor, Litera,
2005
La dama bianca di Duino, Diabasis, Reggio
Emilia, 2010 (scritto in italiano dall’autore)
Oseka na robu gozdov: drama v dveh
dejanjih, Trst, Slovensko stalno gledališče,
2005
L’amore ai tempi della solitudine, Antony,
Trieste, 2010 (traduzione di Patrizia Vascotto)
Aleksander od kresnic, Sežana: Združenje
književnikov Primorske; Ilirska Bistrica:
Zveza kulturnih društev: Javni sklad RS za
kulturne dejavnosti, Območna izpostava,
2006 [prefazione di Marko Sosič]
Scacco al buio, Hammerle editori, Trieste,
2002 (saggio introduttivo di Igor Škamperle;
traduzione di Darja Bertocchi)
Israele e dei suoi abitanti, l’incombente minaccia di un nuovo conflitto e
la generosità amichevole della popolazione.
Dopo questa iniziale parentesi giornalistica, Jelinčič inaugura il proprio filone
alpinistico con Zvezdnate noči (Le notti stellate, 1990), cronaca della spedizione
jugoslava Karakorum 86, una delle più fortunate nella storia dell’alpinismo sloveno: la quasi totalità dei partecipanti ha raggiunto la vetta del Broad Peak,
Jelinčič è stato il primo alpinista del Friuli Venezia Giulia a conquistare un ottomila e Marija Štremfelj è stata la prima alpinista slovena a raggiungere questo
traguardo. Già in questo libro è evidente che l’autore è attratto più dalla dimensione umana della spedizione che dal desiderio di descrivere le fasi tecniche
delle ascensioni e Jevnikar non manca di sottolinearlo: “Tutto il libro è permeato di riflessioni sul valore dell’alpinismo, sui rapporti con gli altri alpinisti, sul
89
senso della vita e della morte. Jelinčič non si stanca di riflettere su se stesso e di
mettere a nudo senza pietà le proprie debolezze, alle quali cerca di trovare una
soluzione.” Anche l’autore del saggio introduttivo, Marijan Krišelj, è dell’idea che
il libro travalichi i confini della letteratura slovena per avvicinarsi agli esempi
migliori di letteratura di montagna a livello mondiale. Per questo libro Jelinčič è
stato premiato col riconoscimento letterario Vstajenje (Resurrezione).
Il filone alpinistico, arricchito dal reportage Biseri pod snegom (Perle sotto la
neve, 1992) sulla spedizione Sagarmatha 1990 sull’Everest, è stato in seguito
sviluppato da Jelinčič anche in chiave giallistica ed esistenziale (ad es. Budovo
oko – L’occhio di Buddha, 1998; Umor pod K2 – Assassinio sul K2, 2000;
Aleksander od kresnic - Alessandro delle lucciole, 2006; Kam gre veter, ko ne piha
– Dove va il vento quando non soffia, 2007) che hanno riscosso un grande successo fra i lettori soprattutto per l’attenzione dell’autore per le differenze di mentalità fra l’Oriente e l’Occidente che si rispecchiano anche nel rapporto con la
montagna.
Un altro filone importante della produzione di Jelinčič è rappresentato dai
libri con tematica esistenziale o storica. Jevnikar si sofferma innanzitutto sulla
prima, la raccolta di novelle Prazne sobe (Stanze vuote, 1995), nata come una
sorta di reportage, dove però al centro dell’attenzione sono le persone incontrate durante i viaggi, la miseria nella quale vivono, ma anche lo sconforto dell’autore davanti alla povertà e l’ipocrisia che accompagna tanti gesti di carità.
Del romanzo Tema na pomolu (Scacco al buio, 1996) il critico letterario sottolinea l’originalità nel contesto letterario sloveno: il protagonista, infatti, viene
accusato di un delitto non commesso ma a causa del peso della vita e dei sensi
di colpa decide di non difendersi, anzi, si autoaccusa dell’omicidio, interpretando così, secondo la critica, lo stato d’angoscia che attanaglia l’uomo moderno.
Jelinčič è anche autore teatrale: nei suoi testi focalizza soprattutto l’attenzione sul periodo fra le due guerre mondiali, con la ribellione antifascista della popolazione slovena della Venezia Giulia, la nascita del TIGR, la prima organizzazione antifascista in Europa, e il tentativo (realmente avvenuto nel 1938) di un
attentato, poi fallito, contro Benito Mussolini. Ricordiamo a questo proposito i
drammi Oseka na robu gozdov (2005) e Kobarid ‘38 (Caporetto ‘38 - Cronaca
di un attentato) messo in scena dal Teatro Stabile Sloveno di Trieste.
A chi gli chiedele ragioni della sua passione per la scrittura Jelinčič ama rispondere che scrive perché in questo modo si sente realizzato “e questo è secondo l’autore il primo passo verso la serenità interiore e la saggezza”.
90
Marko Sosič
“G
li artisti vanno amati se sono veri.
Difficilmente farebbero del male a
chiunque fuorché a sé. Bisogna invece avere paura di coloro che non sono tali e che
si presentano con la loro finzione, col loro
costrutto e la menzogna, dove non si riesce a trovare il vero senso delle cose.”
L’autore di questa riflessione è Marko
Sosič, scrittore, regista e drammaturgo sloveno, nato a Opicina (Trieste) nel 1958.
Dopo aver frequentato le scuole slovene
della città, si iscrive all’Accademia d’arte
drammatica di Zagabria, dove conclude gli
studi di regista teatrale. Da allora è uno
degli esponenti della vita teatrale contemporanea, in quanto autore di allestimenti e collaborazioni importanti con i
maggiori teatri italiani e dell’ex-Jugoslavia. Sempre in ambito teatrale, è stato direttore artistico del Teatro Stabile Sloveno di Trieste e di Nova Gorica.
In ambito letterario, invece, la sua prima pubblicazione importante è stata la
raccolta di brevi novelle Rosa na steklu-Rugiada sul vetro (1992), seguita dal
romanzo Balerina, Balerina (1997), che gli è valso riconoscimenti importanti e svariate traduzioni, nonché un adattamento teatrale. In seguito, Sosič ha
pubblicato il romanzo Tito, amor mijo (2005), la raccolta di novelle Iz zemlje
in sanj - Di terra e di sogni (2011) e il romanzo Ki od daleč prihajaš v mojo
bližino - Che da lontano arrivi a me (2012), definito da lui stesso il romanzo della maturità.
È stato insignito di vari premi per la regia di lavori per ragazzi e del
premio Vstajenje per il romanzo breve Balerina, Balerina, per il quale ha
ricevuto anche il riconoscimento speciale Umberto Saba ed il primo premio Città di Salò 2005.
Il Pen club sloveno di Ljubljana ha scelto il romanzo Balerina, Balerina
a rappresentare la Slovenia al Premio Strega europeo 2008.
All’esperienza di direttore artistico presso il Teatro stabile di Nova Gorica Sosič ha dedicato il libro-diario Tisoč dni, dvesto noči (Mille giorni,
duecento notti) del 1996.
Nella prima raccolta di brevi novelle, Rugiada sul vetro, lo scrittore si presenta con uno stile e una messe di motivi nuovi nel panorama letterario
sloveno in Italia: al centro dei suoi racconti c’è spesso una persona semplice,
91
a volte disadattata, che guarda la realtà con occhi diversi rispetto alla maggioranza della gente: è il caso, ad esempio, di Tina, affetta da una patologia
psichica, che riesce a stabilire un contatto vero solo con un cavallo; oppure
di un professore di geografia incompreso dagli studenti e dai colleghi che
riesce a dare una nuova dignità alla propria vita grazie ad una carta geografica; o ancora è una persona comune che si improvvisa passeur in ricordo
di un amore lontano. Lo stile è lineare, quasi scarno, per delineare lo scarto
fra la realtà e il mondo immaginario in cui vivono molti dei suoi personaggi.
Ma la fama di Sosič scrittore viene consolidata dal romanzo Ballerina,
Ballerina (1997), un’opera del tutto originale per stile e contenuto. La protagonista è una ragazza mentalmente handicappata, chiamata Ballerina per
l’abitudine di stare in punta di piedi. Il racconto copre un ampio spazio di
tempo, inglobando le varie innovazioni e avvenimenti di importanza storica che hanno segnato il secondo dopoguerra (la televisione, il primo uomo sulla Luna), ma tutto viene registrato attraverso lo sguardo e la sensibilità di Ballerina, che ha la funzione di una cinepresa accesa sulla realtà
di un paese del Carso triestino. Il lettore viene accompagnato nell’universo delle sue sensazioni e dei suoi affetti: i genitori, i parenti, la coscienza
dello scorrere del tempo attraverso il riconoscimento delle azioni quotidiane, addirittura l’esperienza della propria morte. La narrazione in prima
persona coinvolge fortemente il lettore e non gli permette di porre una
certa distanza fra sé e le parole di Ballerina. Vale la pena sottolineare che
tutto ciò che Ballerina registra (le frasi, le circostanze, le visite di cortesia)
appartiene al mondo delle convenzioni sociali, ma suona falso e distorto
appena viene memorizzato da chi non comprende le regole sociali e dunque mette a nudo tutto il vuoto (affettivo e di sensibilità) che si nasconde
dietro tante frasi di circostanza.
“Il mondo di Ballerina è costituito in gran parte dai suoi parenti”, sottolinea Jevnikar nella recensione del 1997. “Si tratta di persone semplici
che devono lavorare duramente per poter sopravvivere (…) Questo mondo limitato è circoscritto tanto più dal fatto che viene avvertito da Ballerina in base alla sua limitata capacità di conoscerlo. Chi non si trova nella
loro cucina per lei non esiste, non lo conosce e non ne parla. Anche lo
scorrere del tempo non esiste per Ballerina: sa che è mattina solo quando
si sveglia e vede la luce del sole nel cortile.”
Nell’estate del 2011, Sosič mi ha parlato in questi termini di Rugiada
sul vetro e della produzione letteraria di quel periodo:
“La coscienza del processo di creazione letteraria, la coscienza di sé e
della società di cui si fa parte, è per me uno dei momenti più affascinanti
dello scrivere, un momento difficile, ma allo stesso tempo liberatorio.
Guardando indietro, alla nascita di Rugiada sul vetro, o riflettendo oggi sul
mio rapporto con la scrittura, posso solo sottolineare che non ho mai vo92
Fra le opere di Marko Sosič si ricordano qui
solamente alcune:
Guido Scarabottolo; cura e traduzione,
urednik in prevajalec Michele Obit]
Rosa na steklu: novelete, Trst, Založništvo
tržaškega tiska, 1991 [prefazione di Ivan
Verč]
In italiano:
Verso dove: scritture di confine da Merano a
Trieste, Ravenna, Fernandel, 2003 (a cura
di Laura Mautone; scritti di Marco Aliprandini, Alessandro Banda, Beppe Bonura, Luciano Comida, Massimiliano Forza, Dušan
Jelinčič, Miran Košuta, Marko Kravos, Keka Lekovich, Francesco Locane, Sepp Mall,
Alojz Rebula, Marko Sosič, Pietro Spirito,
Paolo Valente)
Tisoč dni, dvesto noči: moj čas v Primorskem
dramskem gledališču, Nova Gorica, Branko,
1996 (prefazione di Dušan Jovanović)
Balerina, balerina: kratki roman, Trst, Mladika, 1997 [prefazione di Ivanka Hergold]
Tito, amor mijo, Maribor, Litera, 2005
Iz zemlje in sanj: kratke zgodbe, Maribor,
Litera, 2011 [prefazione di Petra Vidali]
Ballerina, ballerina: romanzo breve, Empoli,
Ibiscos, 2005 (prefazione di Susanna Tamaro; traduzione di Darja Betocchi)
Počitek v senci, Ljubljana, Delo, 2011
Ki od daleč prihajaš v mojo bližino, Ljubljana, Študentska založba, 2012 [prefazione
di Tina Kozin]
Parole d’avena - Ovsene besede, Trieste, Associazione temporanea di scopo Jezik - Lingua - Trst, Ciljno začasno združenje Jezik
- Lingua, 2011 (traduzioni di Darja Betocchi, Jasmina Gustincic)
Al di là degli alberi: diario della sua voce =
Onkraj dreves: dnevnik njenega glasu, Cividale
del Friuli: Cooperativa Novi Matajur; Čedad:
Zadruga Novi Matajur, 2013 (disegni, risbe
Tito, amor mio, Trieste, Comunicarte, 2012
(traduzione di Darja Betocchi)
luto comunicare alcunché. Dipende dal lettore se troverà in questa scrittura qualcosa che sia per lui degno di riflessione. Ho scritto Rugiada sul
vetro per un bisogno di documentare ovvero fotografare il mio ambiente
di quel periodo, per il bisogno di aprire delle questioni, che sono forse
vive ancora oggi in alcuni personaggi e in noi stessi, ma senza avere la
presunzione di rispondere ad esse o di volere, attraverso di loro, comunicare alcunché. Mi sembra importante porre delle domande che sono presenti in misura sempre maggiore nel nostro tempo e spazio. Il tempo che
viviamo e condividiamo con gli altri è comunque, nonostante la sua conflittualità, pur sempre un’esperienza unica del nostro esistere, dove è possibile ritrovare gli spazi infiniti dell’animo umano. In questo momento, mi
sembra necessario oltrepassare il tempo letterario riportato nei brevi racconti di Rugiada sul vetro e nei miei scritti successivi. Oggi mi sembra naturale e necessario osservare il mondo vicino e più lontano dal mio punto
di vista, non più con gli occhi di un bambino, bensì con lo sguardo di un
uomo adulto. Ma com’è l’uomo oggi, nella sua maturità? Quante cicatrici
conta il suo corpo, quante ferite che non si possono o vogliono rimarginare? Dov’è la strada in questo labirinto di pensieri dove possa con animo
aperto riconoscere i propri errori e scoprire il male che esiste in lui e la
93
luce persa chissà dove…? Forse sono proprio queste alcune delle questioni che mi affascinano di più mentre sto scrivendo nuovi racconti brevi, un
nuovo romanzo e un nuovo testo teatrale, che è oltretutto uno dei generi
più difficili del panorama letterario.”
In effetti, negli ultimi anni, Sosič si è allontanato dalla descrizione dei
suoi primi personaggi, in prevalenza bambini o gente semplice e modesta
nonché persone asociali e introverse che gli permettevano di gettare uno
sguardo puro su una realtà avviluppata in mille convenzioni e parvenze. I
suoi ultimi due libri, la raccolta Di terra e di sogni e il romanzo Che da lontano arrivi a me, presentano dei personaggi maturi: il loro tormento interiore e le domande che si pongono sull’esistenza e il senso della vita richiedono un approccio diverso, dove le risposte non sono garantite e dove la riflessione su di sé apre sempre nuovi abissi di dolore.
94
Igor Škamperle
“U
no scrittore di talento.” Così
Jevnikar definisce Igor
Škamperle nel 1992, anno della
pubblicazione del romanzo Sneg na
zlati veji (La neve sul ramo d’oro).
Škamperle, nato a San Giovanni
(Trieste) nel 1962, ha compiuto gli
studi dapprima a Trieste, poi a Postojna e infine si è laureato all’Università di Ljubljana in Letterature
comparate e Sociologia culturale.
Ha poi perfezionato la sua formazione a Firenze e a Perugia (con
uno studio su Giordano Bruno).
Oggi è professore ordinario all’UFra i lavori di Igor Škamperle segnalianiversità di Ljubljana.
mo:
Škamperle è autore di molti sagSneg na zlati veji, Trst, Založništvo
gi sociologici e filosofici (principaltržaškega tiska, 1992 (saggio introduttivo
mente sulle figure di spicco del Ridi Tomo Virk).Kraljeva hči, Trst, Devin,
nascimento, ad es. Pico della Mi1997
randola), traduttore verso lo sloveMagična renesansa, Ljubljana, Študentska
no ( Jacques Le Goff) e ha firmato
organizacija Univerze, Študentska založba,
le introduzioni alle versioni slovene
1999
di opere fondamentali: Il Principe
Dotiki pokrajine (coautore Igor Mezgec),
di Nicolò Machiavelli, Il Ramo d’oTrst, ZTT - EST, 2012
ro di James G. Frazer e Trieste, un’iEndimionove sanje: oblike imaginacije in
dentità di frontiera di Angelo Ara e
simbolne tvorbe: eseji in razprave iz sociologije kulture, Ljubljana, LiterarnoClaudio Magris, solo per citarne alumetniško društvo Literatura, 2013
cune.
Nella sua attività scientifica
Škamperle ha approfondito soprattutto i contributi della scuola storico-culturale italiana del Novecento, il pensiero di Carl Gustav Jung, il fenomeno dell’alchimia e la mitologia rinascimentale. In quest’ambito la sua
opera più importante è Magična renesansa (Rinascimento magico, 1999).
Come autore ha pubblicato i romanzi Sneg na zlati veji (La neve sul
ramo d’oro) e Kraljeva hči (La figlia del re, 2002) nonché il saggio Dotiki
pokrajine (I contatti del paesaggio, 2012, con Igor Mezgec).
95
Alpinista entusiasta fin dall’adolescenza, Škamperle debutta col romanzo di formazione Sneg na zlati veji (La neve sul ramo d’oro). L’autore vi
descrive la propria infanzia a San Giovanni, gli studi intrapresi poi a Postojna e la nascita dell’amore per le montagne e l’alpinismo: ogni sabato,
infatti, l’autore saliva in arrampicata sulle montagne slovene, riuscendo in
breve a superare delle difficoltà notevoli e coronando il sogno di arrampicarsi sulle vette più importanti del mondo (Aconcagua, Himalaya). “Le
montagne, però, non lo interessano tanto per la loro bellezza: esse rappresentano, invece, lo spazio dove l’individuo dimostra la propria forza, le
proprie capacità e abilità con l’unico scopo di raggiungere una mèta, per
la quale è disposto ad affrontare la fatica, la sofferenza, anche la morte per
assaporare in vetta dei brevi istanti di soddisfazione e di felicità, quel ‘di
più’ che supera i limiti della vita quotidiana.”
Jevnikar si sofferma anche sul secondo romanzo di Škamperle, Kraljeva
hči (La figlia del re), che rappresenta una novità nel panorama letterario
sloveno: il libro è, infatti, scritto seguendo due linee temporali distinte, il
Rinascimento e la Contemporaneità, in due paesi staccati, in Slovenia e
nella Repubblica céca. I protagonisti della vicenda sono alcuni personaggi
realmente esistiti (l’imperatore Rodolfo II) e altri di fantasia. Il racconto
prende l’avvio nel nostro tempo, con l’arrivo di Ernest Fabian a Praga e
l’intreccio politico-sentimentale che ne segue; la vicenda parallela si svolge invece nella Praga rinascimentale di Rodolfo II. L’autore ha scritto un
libro molto ricco dove “si discute di tutto, dall’alchimia alla panacea, fino
ai recenti movimenti politici in Europa.(...) Nonostante la presenza di tanti personaggi storici, nessuno di loro viene caratterizzato in modo chiaro
e dunque non è possibile dire chi rappresentino esattamente il personaggio
realmente vissuto. Tutti sono apparentemente dei personaggi storici, però
descritti in modo da rappresentare un’epoca e creare uno spaccato della
vita di oggi e di un tempo.”
Dopo una lunga parentesi come saggista, nel 2012 Škamperle è tornato alla letteratura d’autore pubblicando, assieme al fotografo Igor
Mezgec, il libro Dotiki pokrajine (I contatti del paesaggio), dove la presentazione dei vari tipi di paesaggio si accompagna all’analisi del significato mitico di alcuni alberi o luoghi e alla riflessione poetica sull’incontro fra l’uomo e la natura. Una pubblicazione, dunque, che è arduo
incasellare in un solo genere letterario poiché spazia dalla saggistica,
alla memorialistica, alla poesia e filosofia.
96
Alenka Rebula Tuta
“L
a sua raccolta Mavrični ščit (Lo scudo d’arcobaleno, 1983) rappresenta un evento imprevedibile, poiché l’autrice si è finora occupata soprattutto di
ricerca e soltanto negli ultimi anni ha
pubblicato qualche lirica. La seconda
grande sorpresa sta nel fatto che la raccolta non mostra segni di una giovanile
ricerca espressiva e di contenuti, bensì è
per forma e temi frutto della riflessione
di una donna matura, che avverte moltissimi problemi contemporanei, soprattutto quelli che riguardano gli Sloveni in genere e particolarmente quelli che vivono
in Italia”. Con queste parole Jevnikar presenta la raccolta poetica di debutto di Alenka Rebula Tuta, nata nel 1953.
Dopo gli studi secondari e la laurea in Psicologia all’Università di Trieste, Alenka Rebula Tuta si è dedicata all’insegnamento e alla ricerca
nell’ambito dello sviluppo infantile (Globine, ki so nas rodile - Le profondità che ci hanno dato vita, 1999), dimostrando una sensibilità e un calore che hanno colpito i lettori del libro. Questo filone della sua attività si è
ulteriormente arricchito nel corso degli anni con l’interesse per lo sviluppo interiore dei singoli, soprattutto delle donne: Alenka Rebula Tuta è
infatti una relatrice molto apprezzata ai corsi di formazione di auto-aiuto.
Da questa sua esperienza è sorto il libro Blagor ženskam (Beate le donne,
2007), un vero best-seller, “concepito come un’opera saggistica, ma scritto
col senso della letteratura e della solidarietà” (Marija Cenda).
L’opera che l’ha fatta conoscere come poetessa è Mavrični ščit (Lo scudo d’arcobaleno), un libro suddiviso in cinque cicli, dove ritornano i temi
della solitudine, dell’emigrazione, il tema dell’abuso di parole, delle donne
distrutte dalla fatica, e ancora il tema della magia del Carso e dell’amore.
Scrive Jevnikar: “La raccolta è ricca di contenuti, l’esperienza personale è
allo stesso tempo piena dei problemi della vita moderna. I sentimenti sono intrecciati con la ragione, come dimostra la forma regolare delle poesie
che sono comunque abbastanza ermetiche, ma tuttavia accessibili ed alquanto comunicative. Modernistico è anche il susseguirsi delle figure e
delle metafore slegate fra loro. La lingua è ricercata e ricca, molte metafore sono originali (ad. es.: ‘il latrare dei ricordi nelle orecchie’).”
97
L’autrice è tornata alla poesia nel 2009 con la raccolta V naročju
(Nell’abbraccio) dove “il legame d’amore, l’esperienza della maternità, i
rapporti fra le generazioni sono il tema portante dei cinque cicli della raccolta”, come ha scritto Maja Smotlak.
Nel 2010, Alenka Rebula Tuta ha ricevuto il Premio Vstajenje per il
libro Sto obrazov notranje moči (I cento volti della forza interiore), un insieme di riflessioni sulle varie vicissitudini della vita e sulla forza interiore
che va ricercata e coltivata in ognuno di noi.
Globoko dihanje - Deep breathing - Respiration profonde (Večer slovenske poezije iz Italije - Evening of Slovene poetry from Italy Soirée de poésie slovène d’Italie), Slovenski
PEN, Ljubljana, 2007;
Fra le opere di Alenka Rebula Tuta, segnaliamo:
Mavrični ščit, Trst, Založništvo tržaškega
tiska, 1983.
Kar naprej trajati: šest tržaških pesnikov,
Trst, Devin, 1994 (a cura di Marija Pirjevec; saggio introduttivo di Boris Paternu).
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin - Versi
diversi: poeti di due minoranze, Unione italiana, Capodistria - Italijanska unija, Koper,
2006 (selezione, prefazione e testi critici a
cura di Miran Košuta; introduzione di Ciril
Zlobec);
Globine, ki so nas rodile: zgodnje otroštvo v
otroku in odraslem, Celovec; Ljubljana; Dunaj, Mohorjeva založba, 1998.
Blagor ženskam, Trst, ZTT - EST, 2007 [saggio introduttivo di Bogdan Žorž; illustrazioni di Jasna Merkù].
S příchutí mořské soli: šest slovinských
básníků z Terstu - Duh po morski soli: šest
slovenskih pesnikov iz Trsta, Slovenski PEN,
Ljubljana, 1998 (selezione e traduzione in
céco di František Benhart, a cura di Marko
Kravos).
V naročju, Trst, Založništvo tržaškega tiska,
2009 (illustrazioni di Meta Wraber).
Sto obrazov notranje moči: meditacije, Ljubljana, Mladinska knjiga, 2010 [illustrazioni di Meta Wraber].
98
Majda Artač Sturman
“I
l valore aggiunto delle sue liriche
è rappresentato dalla forma, si
tratta quasi di bozzetti intrisi di sentimento, che travalicano il confine
dell’esperienza personale per diventare universali, patrimonio di tutti”: così
scrive Jurij Paljk nel 2002, quando
Majda Artač Sturman pubblica la prima raccolta poetica Žejni oleander
(L’oleandro assetato, GMD).
Di professione insegnante di Lettere presso il Liceo classico France
Prešeren di Trieste, classe 1953, la
Artač Sturman in quell’occasione scelse alcune delle liriche più significative
scritte in un periodo di tempo abbaDi Majda Artač Sturman segnaliamo:
stanza lungo e con l’opera prima sorprese gli amanti del genere poetico,
Žejni oleander, Goriška Mohorjeva
družba, Gorica, 2002 (illustrazioni di
come afferma Marija Cenda nell’ApEdi Žerjal; introduzione di Jurij Paljk)
pendice.
[email protected], Trst, Mladika,
Nella seconda raccolta, Svilenape2005.
[email protected] ([email protected])
Rapsodija o goriškem slavčku: biseri,
del 2005, l’autrice riprende i temi già
cvetje in antika v poeziji Simona
affrontati in precedenza, arricchendoli
Gregorčiča, Trst, Mladika, 2006.
e approfondendoli con nuovi argoDrugačni verzi: pesniki dveh manjšin menti che riguardano il dolore per
Versi diversi: poeti di due minoranze,
l’ingiustizia, la guerra e la morte. Di lei
Unione italiana, Capodistria - Italila saggista Vilma Purič dice che “l’ujanska unija, Koper, 2006 (selezione,
niverso poetico dell’autrice è fatto di
prefazione e testi critici a cura di Miran
Košuta; introduzione di Ciril Zlobec)
equilibrio rasserenante, ma al tempo
stesso abbastanza aperto da accogliere
Mozaik v kovčku, Trst, Mladika, 2012
(illustrazioni di Jasna Merkù).
non solo la gioia, ma anche lo sconforto, la delusione, la rabbia e la morte. Accanto all’elemento autobiografico troviamo anche la Natura, vissuta
nella sua quotidianità e avvertita come parte di sé”. Parole, queste, che si possono applicare anche all’ultima raccolta dal titolo Mozaik v kovčku (Un mosaico
in valigia, Mladika, 2012), dove le liriche si mescolano alla prosa per formare
99
una riflessione articolata sulla società, le generazioni, le aspirazioni dei vari personaggi, tutta giocata sulla simbologia dei colori. Un caleidoscopio di tinte, pensieri e constatazioni. Per questa raccolta, la poetessa si è avvalsa della collaborazione dell’artista triestina Jasna Merkù che ha tratteggiato con sensibilità i motivi più rilevanti del libro. Nel 2006, Majda Artač Sturman ha pubblicato un hommage a Simon Gregorčič nel centenario della morte. Nel saggio dal titolo Rapsodija o goriškem slavčku (Rapsodia sull’usignolo goriziano, Mladika) l’autrice si
sofferma su alcune parole-chiave della lirica di Gregorčič (le perle, i fiori e l’antichità) sottolineando il loro valore simbolico, che trae spunto dalla sua conoscenza dell’antichità classica.
Vilma Purič
Il suo nome ricorre qui solamente in
veste di saggista e di critica letteraria,
ma Vilma Purič è soprattutto una scrittrice, una delle voci nuove più interessanti della produzione letteraria slovena in Italia.
Nell’Appendice, Marija Cenda ripercorre le tappe principali della scrittrice: con il suo romanzo d’esordio,
Burjin čas (Il tempo della bora, Mladika 2009), ha saputo suscitare l’interesse dei critici. Nella recensione del libro
fatta da Irena Žerjal, ad esempio, Vilma
Purič è infatti elogiata come un’autrice
“lontana dalle banalità commerciali”
poiché “nel romanzo si intreccia una
molteplicità di storie innestata su un
periodo storico abbastanza sfruttato
come la seconda guerra mondiale, ma
i protagonisti sono di una novità assoluta”. A destare l’interesse dei critici è
stato anche lo stile particolare della sua
scrittura contraddistinta da un lessico
originale.
Nel 2011, la Purič pubblica il saggio
Pesniki pod lečo (Poeti sotto la lente
d’ingrandimento, Mladika) incentrato
sulla produzione di dodici poeti sloveni in Italia. Nella prefazione Irena No-
vak-Popov, docente all’Università di
Ljubljana, sottolinea come l’autrice abbia sì considerato i contributi critici già
esistenti, ma abbia anche saputo presentare il suo proprio punto di vista.
Del 2012 è il secondo romanzo della Purič, Brez zime (Senza l’ inverno,
Mladika), incentrato sul destino di una
donna insoddisfatta di sé e della propria vita che affronta i grandi mutamenti portati dall’amore, dalla maternità e dalla vita familiare. L’autrice ha
scelto il titolo prendendo lo spunto da
una riflessione presente nel romanzo:
come l’orso di un documentario non
sopravviverà fino all’inverno, così anche il marito di Lana, la protagonista,
capisce che la moglie non riuscirà a vedere l’arrivo della stagione fredda.
Di seguito i testi principali di Vilma Purič:
Brez zime, Mladika, Trst, 2012 (introduzione di Loredana Umek)
Pesniki pod lečo, Mladika, Trst, 2011 (introduzione di Irena Novak Popov)
Burjin čas, Mladika, Trst, 2009 (introduzione di Majda Artač Sturman; saggio introduttivo di Marija Mercina)
100
Ljubka Šorli
La fede nell’umanità e una spiritualità
profonda: sono questi i tratti salienti della poetessa Ljubka Šorli, una delle voci
più calde della letteratura slovena in Italia, che sta vivendo una stagione di riscoperta e rivalutazione della sua produzione artistica.
Nata a Tolmin (Tolmino) nel 1910, si
dedicò presto all’attività culturale, incoraggiata in questo anche dalla famiglia,
attenta e partecipe alle manifestazioni
della cultura slovena. Il 1933 segnò un
momento cruciale nella sua vita, destinato a imprimere nell’esistenza della Šorli
un cambiamento ben più forte di quanto
ci si sarebbe aspettato: in quell’anno, infatti, sposa il compositore e maestro di coro Lojze Bratuž. Avendo diretto alla messa di Natale del ’36 il
coro sloveno di Podgora, a Lojze Bratuž toccò una punizione esemplare:
bere dell’olio per macchina. La sua morte, sopraggiunta dopo un’agonia di
due mesi nel febbraio del 1937, destò una forte eco in Europa, dato che
Bratuž non era un politico e il suo ambito di attività era quello culturale
e musicale.1 La Šorli rimase sola con due bambini piccoli, Lojzka di quattro anni e Andrej. Venne indagata dal regime fascista e subì le torture della famigerata banda Collotti a Trieste, in seguito venne internata nel campo di Zdravščina (Poggio Terza Armata), presso Gorizia. Dopo la guerra,
intraprese la via dell’insegnamento e dal 1948 al 1975 insegnò nelle scuole elementari slovene del Goriziano. Morì a Gorizia nel 1993.
Dopo un lungo periodo in cui la Šorli venne avvertita come estranea
alle correnti dell’avanguardia poetica slovena degli anni ‘60 e ‘70, la sua
opera è oggi al centro di un notevole interesse della critica letteraria; per
la sua attività poetica e per la sua testimonianza di fiducia nel genere umano, pur dopo tante esperienze traumatiche. Recentemente in suo onore è
stato esposto un busto commemorativo nella via Erjavec, a Nova Gorica
(Slovenia), opera della scultrice Milena Braniselj (2013): il busto è stato
posto accanto a quello del marito, il compositore Lojze Bratuž. Molti suoi
1 Il racconto della morte di Lojze Bratuž è al centro di una delle novelle più note di Boris
Pahor, Rože za gobavca (Fiori per un lebbroso).
101
testi poetici sono stati musicati da
illustri compositori sloveni (Lojze
Fra le opere di Ljubka Šorli segnaliamo:
Bratuž, Zorko Harej, Vinko VodopiIzbrane pesmi, Gorica, Goriška Mohorjeva
vec, Humbert Mamolo, Mirko Filej,
družba, 1973 (saggio introduttivo di MaStane Malič e il figlio Andrej
rijan Brecelj).
Bratuž).
Veseli ringaraja: pesmi za otroke, Gorica,
Jevnikar sottolinea le caratteristiKatoliško tiskovno društvo, 1983 [a cura di
che della sua poesia: dapprima il ciMarijan Brecelj; illustrazioni di Edi Žerjal]
clo di sonetti Venec spominčic možu
Venec spominčic možu na grob, Gorica.
1957 (introduzione di Anton Kacin).
na grob - Nontiscordardime in memoria del marito (1957), nel quale la
Rumeni ko zlato so zdaj kostanji: pesmi
rodnemu Tolminu, Tolmin, 1985.
poetessa delinea la breve vita coniugale, la morte del marito e le tristi
Pod obokom čarobnim. [prefazione di
France Bernik], Trst, Založništvo
vicissitudini da vedova. “Il suo cuotržaškega tiska, 1987. Canti spezzati, Brazre ferito non accusa nessuno e quezano, Braitan, 1994 (presentazione di Celsto è un valore aggiunto della sua
so Macor; traduzione di Diomira Fabjan
poesia. (...) Il libro, non molto esteBajc).
so, presenta la vita di un idealista
Tolminske pesmi, a cura di Marijan Brecelj,
sloveno la cui tragica morte fa parte
Nova Gorica: Branko; Ljubljana: Jutro;
della storia difficile del nostro poGorica: Goriška Mohorjeva družba, 2003
polo. Il ciclo di poesie è dunque
(illustrazioni di Andrej Kosič).
un’opera artistica e un documento
Izbrane pesmi, Trst, Mladika; Gorica,
Goriška Mohorjeva družba, 2010 (saggio
storico insieme.”
introduttivo di Marijan Brecelj).
Nel 1972, anno della pubblicazione di Izbrane pesmi - Canti scelti,
Jevnikar delinea i motivi salienti
della poesia di Ljubka Šorli: il ricordo del marito, i luoghi natii (la zona
di Tolmino), Gorizia, la religiosità. Il linguaggio è ricco di metafore, molto personale, colorito.
Ljubka Šorli è stata anche autrice di poesie dedicate ai bambini (molte
furono pubblicate nella rivista “Pastirček”): Jevnikar sottolinea come la
poetessa sappia parlare ai bambini, raccontando loro della natura, delle
stagioni, dell’arrivo di San Nicolò, delle piccoli grandi storie di cui è ricca
la quotidianità (la scuola, i compagni di classe, i contatti). Il fine delle sue
poesie è quello di educare i bambini al rispetto verso gli altri e verso la
natura, alla bontà d’animo e all’amore.
102
Pastirček
Mohorjeva družba
“Pastirček” (Il pastorello) è una rivista
per bambini in età scolare, pubblicata
dalla Casa editrice Goriška Mohorjeva
družba (Società editrice di Sant’Ermacora), con sede a Gorizia. La rivista nasce
nel 1946 nel capoluogo isontino e, fin
dall’inizio, persegue il fine di accompagnare i bambini durante l’anno scolastico
affrontando i temi della lingua, dell’onestà, della laboriosità e del rispetto per la
natura. La redazione incoraggia i giovani
scolari ad inviare i propri disegni o le soluzioni ai giochi proposti dalla rivista.
Come tutte le riviste per bambini, anche “Pastirček” si caratterizza per le illustrazioni, create da artisti locali e dalla
Slovenia (Danila Komjanc, Paola Bertolini Grudina, Jelka Reichman e Walter
Grudina, per citarne solo alcuni), mentre
anche alcuni noti scrittori e poeti sloveni
hanno pubblicato i propri testi nella rivista (Zora Saksida, Ljubka Šorli).
La rivista viene pubblicata nel corso
di ogni anno scolastico.
La Casa editrice offre, poi, ai lettori
anche i libri della Pastirčkova knjižnica
(La biblioteca del Pastirček), adatti ad
un pubblico in età scolare.
Jevnikar pone l’accento soprattutto
sui tanti collaboratori illustri della rivista, fra i quali: Vinko Beličič, Ljubka
Šorli, Zora Saksida, Zora Tavčar, per
citarne solo alcuni. Con questi autori
e i loro testi per bambini e ragazzi
“Pastirček ha dimostrato che fra gli
Slo­veni in Italia ci sono bravi autori di
letteratura per ragazzi, cosa che spesso
viene dimenticata, poiché le varie sto­
rie della letteratura tendono a presen­
tare soltanto la produzione per un pub­
blico adulto.”
Mohorjeva družba o Società editrice di
Sant’Ermacora è la Casa editrice slovena prima per fondazione: venne istituita dal vescovo Anton Martin
Slomšek nel 1851 col fine di promuovere la letteratura adatta alle famiglie e
all’educazione spirituale e nazionale
dei lettori. Per decenni, i libri della
Mohorjeva (le cosiddette “večernice” o
“libri della sera” perché destinati ad esser letti a fine giornata) hanno rappresentato la lettura primaria per generazioni di Sloveni. A causa delle vicende
politiche del Novecento, la Mohorjeva
si è suddivisa in tre tronconi con sede
a Celje, Celovec-Klagenfurt e GoricaGorizia, da cui l’aggettivo Celjska,
Celovška o Goriška che accompagna il
nome della Casa editrice. Tutte e tre le
Case sono ancora attive nell’ambito
dell’editoria.
103
Aldo Rupel
“U
n esponente del genere
poetico satirico che nell’amFra le opere di Aldo Rupel segnaliamo:
bito della minoranza non è partiPogledi: [z vrhov, v stroko, s križišča],
colarmente ricco”: con queste paTrst, Založništvo tržaškega tiska,
1989.
role Martin Jevnikar recensisce la
raccolta di scritti satirici di Aldo
Bodice iz Gorice, Gorica, s.i.p., 1990
(illustrazioni di Hijacint Juša)
Rupel, Bodice iz Gorice (Strali da
Zaznave in odtenki, Gorica, 1996 (preGorizia, 1990).
fazione di Nadja Marinčič; illustrazioNato nel 1941 a Trieste, Rupel
ni di Silvan Bevčar)
ha concluso gli studi all’Isef di RoIskre in iskrice, Gorica, Cooperativa
ma e all’Università di Udine. Dopo
San Sergio, 1996 (saggio introduttivo
un periodo di insegnamento, si è
di Miran Košuta; prefazione di Stojan
occupato di ricerca e traduzione per
Spetič; illustrazioni di Zonta Mitja)
l’Istituto di ricerca sloveno di TrieSkice Gorice, Gorica, Isonzo - Soča,
ste (slori) ed è stato un relatore
1997 (illustrazioni di Hijacint Jussa).
apprezzato anche nell’ambito sloveNočitve pod zvezdami, Gorica,
no più ampio. Oggi continua ad esTransmedia, 2002
sere uno degli esponenti di spicco
Premisleki, Gorica, s.i.p., 2004
della vita culturale, politica e sporŠportno pohodništvo, Gorica, Transmetiva di Gorizia.
dia, 2005 (illustrazioni di Andrej PaPer la sua attività sportiva di alto
hor).
livello, nel 1989 è stato insignito
Skice Gorice, Isonzo-Soča, Gorica,1997
della Bloudkova plaketa (Targa di
(con disegni di Hijacint Jussa)
Bloudek), il massimo riconosciPrepletanja: posoška zbirka poezij o
mento sloveno in ambito sportivo,
zbliževanjih in razhajanjih - Intrecci:
che prende il nome dallo sportivo
raccolta poetica isontina di vicinanze e
divergenze, La Quercia, Gorizia, 2003
sloveno Stanko Bloudek (18901959).
Nei suoi scritti, Jevnikar si sofferma sulla raccolta Bodice iz Gorice (Strali da Gorizia) del 1990 ponendo in
rilievo i temi legati all’attualità politica e sociale: il ricambio generazionale
politico, i nostalgici della destra fascista, i conflitti in Medio Oriente, i co104
gnomi italianizzati. “L’autore è sensibile e rispettoso degli altri, perciò i suoi
strali non sono velenosi” osserva Jevnikar.
Marija Cenda, nell’Appendice, riporta anche i dati sulle altre opere letterarie di Rupel: Skice iz Gorice (Schizzi di Gorizia, 1997), una sorta di vademecum storico-letterario lungo le vie della città isontina; Nočitve pod zvezdami
(Notti sotto le stelle, 2002) in cui riporta vari avvenimenti accaduti durante le
sue attività sportive all’aperto; la raccolta Znamenja (Segni, 2002), di cui è sta­
to il curatore dove presenta dodici autori sloveni goriziani contemporanei.
Novi glas
Il settimanale “Novi glas” (La voce
nuova) è nato nel 1996 dalla fusione di due settimanali distinti, il
“Novi list” (Il foglio nuovo) di
Trieste e il “Katoliški glas” (La voce cattolica) di Gorizia. Il bacino
di lettor i ai
quali si rivolge
comprende
tutta la comun i t à s l ov e n a
del Friuli Venezia Giulia ,
ma anche le
varie comunità
slovene nel
mondo.
La sua Società editrice è
la
Goriška
Mohor jeva dr užba (Soc. coop.
Goriška Mohorjeva), la stessa che
pubblica la riv ista per ragazzi
“Pastirček” (Il pastorello).
Il settimanale promuove i valori
legati ai princìpi cristiani, alla fedeltà alla lingua e al pensiero de-
mocratico. Gli articoli riguardano
l’attualità, la politica, la cultura e
lo sport e vengono firmati d una
rete molto vasta di collaboratori.
Nell’editoriale del primo numero, pubblicato l’11 gennaio 1996,
si è posto l’accento sul simbolo del settimanale, l’uccello del paradiso: “È il
simbolo della
luce, della resurrezione,
della primavera . (…) L a
caratter i st ica
principale di
questo uccello è la voce meravigliosa, di cui
non è possibile stancarsi. Questa
sarà anche la guida ideale per il
Novi glas, che vuole essere chiaro,
libero e con una grande eco.”
Il direttore attuale della rivista
è Jurij Paljk (vedi a pag. seguente).
105
Jurij Paljk
P
oeta, giornalista, critico d’arte e narratore: Jurij Paljk, è nato nel 1957 a
Velike Žablje, nella valle del Vipacco. Studiò a Trieste negli anni ‘70, prima di trasferirsi a Terzo d’Aquileia dove vive
tutt’oggi. La sua attività principale è quella di giornalista (è il direttore del settimanale “Novi glas”).
Paljk ha scritto varie raccolte poetiche.
Della prima, Soba 150 (Stanza 150, 1986),
Jevnikar sottolinea il carattere autobiografico: Paljk ha lasciato i luoghi d’origine per
studiare a Trieste e in lui è cresciuto il senso del vuoto, dello sradicamento, dei dubbi esistenziali. “Trieste è bellissima di notte/, di notte non c’è nessuno” scrive il poeta che intorno a sé avverte soltanto parole vuote di senso e il freddo della solitudine. Jevnikar sottolinea
come in Paljk sia viva la ricerca dell’Assoluto, di una religiosità che vorrebbe
pura e semplice come quella dei bambini, ma Dio sorride e sfugge senza
rispondere alle incessanti domande del poeta. Lo stile delle liriche di Paljk
a volte ricorda gli aforismi, nota Jevnikar: le poesie sono stilisticamente prive di orpelli e il lessico è chiaro e scarno (pag. 363).
Questi temi si ritrovano anche nelle due raccolte seguenti, Nemir (L’inquietudine, Ljubljana, 1995) e Nedorečemu (All’ineffabile, GMD, 1997):
nella prima l’amarezza e la delusione si approfondiscono e l’amore rimane
come un miraggio sullo sfondo, mentre l’aspirazione maggiore riguarda il
silenzio, irraggiungibile nel frastuono assordante della vita moderna. Nella
seconda, il silenzio assume un valore quasi mistico: è il silenzio della Croce,
del pane e dell’acqua come simboli della vita autentica, interiore, mentre la
realtà esterna viene simbolizzata dalla parola, assordante e vuota.
Nell’Appendice, Marija Cenda analizza anche la raccolta poetica antologica di Paljk, Kako je krhko - Com’è fragile (GMD, 1999) dove il testo
sloveno viene presentato anche nella versione italiana a cura di Jolka Milič.
Le opere successive di Paljk rientrano nella saggistica-narrativa: nel
2001 ha pubblicato una serie di riflessioni sul proprio ruolo di padre e
sull’educazione dei propri figli in un ambiente multilingue (Očetovstvo malo drugače - La paternità da un diverso punto di vista, GMD), mentre nel
2005 ha pubblicato le proprie riflessioni sugli aspetti della vita che gli sem106
brano fondamentali a dispetto dell’opinione corrente della società (O
kruhu in naših stvareh - A proposito del pane e delle nostre cose). Alcune
sue liriche sono state musicate (Patrick Quaggiato).
Di Jurij Paljk si segnalano:
O kruhu in naših stvareh, Gorica, Krožek
Anton Gregorčič, 2005 (prefazione di Erika Jazbar, fotografie di Vili Cigoj).
Očetovstvo malo drugače, Gorica, Goriška
Mohorjeva družba, 2001 [illustrazioni di
Davorin Devetak].
Kako je krhko: dvojezična antologijska zbirka
pesmi - Com’è fragile: scelta antologica di poesie con testo a fronte, Gorica - Gorizia,
Goriška Mohorjeva, 1999 ([scelta e versione italiana di Jolka Milič; disegni di Patrizia
Devidè, pubblicato su iniziativa dello
SMReKK].
Nedorečenemu, Gorica, Zadruga Goriška
Mohorjeva, 1997 (saggio introduttivo di
Otmar Črnilogar, opere artistiche di David
Faganel).
Nemir, Ljubljana, Pegaz International,
1994. Soba 150, Gorica, Smrekk, 1986 [a
cura di Ivan Sirk; illustrazioni di Davorin
Devetak]
Drugačni verzi: pesniki dveh manjšin - Versi di-
versi: poeti di due minoranze, Unione italiana
Capodistria, Italijanska unija, Koper, 2006
(selezione, prefazione e testi critici a cura di
Miran Košuta; introduzione di Ciril Zlobec)
Globoko dihanje - Deep breathing - Respiration profonde - Večer slovenske poezije iz Italije
- Evening of Slovene poetry from Italy - Soirée
de poésie slovène d’Italie, Slovenski PEN, Ljubljana, 2007 (a cura di Elza Jereb)
Celso Macor e Jurij Paljk, Flun - Fiume Reka, “Sen. Antonio Rizzati” - “Nuova Iniziativa Isontina”, 2003 (con i testi in sloveno, italiano e friulano)
Prepletanja: posoška zbirka poezij o
zbliževanjih in razhajanjih - Intrecci: raccolta
poetica isontina di vicinanze e divergenze, La
Quercia, Gorizia, 2003 (traduzioni di Aldo
Rupel; prefazione di Nadja Marinčič)
Kako je krhko: dvojezična antologijska zbirka
pesmi - Com’è fragile: scelta antologica di poesie con testo a fronte, Gorica - Gorizia,
Goriška Mohorjeva, 1999 (a cura di Jolka
Milič, disegni di Patrizia Devidè)
107
David Bandelj
uella di David Bandelj è una delQ
le voci poetiche più interessanti
del panorama letterario sloveno in
Italia. Nato a Gorizia nel 1978, ha
completato gli studi presso il Liceo
classico Primož Trubar della città
isontina laureandosi poi all’Università di Ljubljana.
Dopo una parentesi da insegnante
presso le scuole slovene di Gorizia ha
intrapreso la carriera accademica presso l’Università di Nova Gorica. Il suo
ambito di ricerca scientifica spazia
dalla memorialistica alle letterature
minoritarie che approfondisce in saggi pubblicati in varie pubblicazioni di settore (“Primerjalna književnost”, “Jezik in slovstvo”, “Acta
Neophilologica”, “Zborniki Slavističnega društva Slovenije”, per citarne alcune). Ha partecipato a convegni in Italia, Austria, Inghilterra, Canada ed Estonia. Tra i suoi testi scientifici più rilevanti ricordiamo la prima antologia completa della poesia contemporanea slovena in Italia (Rod lepe Vide - La stirpe della bella Vida, 2009).
L’attività di Bandelj non si limita però solo alla saggistica e alla
poesia, bensì ingloba anche la passione per la musica (diploma in
pianoforte presso la Scuola di musica Emil Komel di Gorizia, seminari di direzione musicale e di canto solista, è membro attivo e maestro di coro di varie compagini musicali in Italia e Slovenia).
Jevnikar analizza la poesia di David Bandelj prendendo in esame
la sua prima raccolta di liriche, Klic iz nadzemlja (La chiamata dal
trascendente) del 2000. Il poeta introduce le proprie liriche riflettendo sul ruolo della poesia oggi e sul significato da dare al termine
“letteratura” in un momento culturale dominato dalle forme più diverse e non sempre elevate della scrittura. Eppure, per l’artista, la
poesia ha senso poiché il suo fine principale è di dare un nuovo valore a se stessa e alle cose in attesa della Verità alla fine dei tempi.
Jevnikar nota come siano molti i temi nella raccolta e come si noti
la ricerca estetica e di contenuto del giovane artista, ma sottolinea
anche il suo entusiasmo e la preparazione teoretica presente nelle
108
varie forme poetiche (ad es. il
sonetto caudato).
Nell’appendice, Marija Cenda
presenta l’evoluzione poetica
successiva di Bandelj: la raccolta
Razprti svetovi (Mondi socchiusi) del 2006, in cui troviamo i temi della quotidianità, oltre i quali, però, come sottolinea la saggista Vilma Purič, si apre la riflessione sul senso delle cose, sull’esistenza e sugli abissi nascosti
nell’animo umano: “Nella descrizione di fatti oggettivi si
aprono degli spiragli che permettono alla ragione di scivolare
nella sfera irrazionale nascosta.”
Una nuova raccolta poetica di
Bandelj è uscita nel 2012 col titolo Odhod (Il distacco), in cui il
tema scelto nel titolo si pone al
centro della riflessione: in ogni
sua manifestazione, il distacco
provoca dolore per ciò che non
c’è più, ma apre anche a nuove
possibilità esistenziali. Nel libro
si avverte che il poeta ha ormai
acquisito uno stile maturo, in cui
è presente l’eco del linguaggio
poetico moderno.
109
Fra i lavori di David Bandelj segnaliamo:
Klic iz nadzemlja, Trst, Mladika, 2000.
Razprti svetovi, Trst, Mladika, 2006
[prefazione di Ivanka Hergold].
Razbiranja žarišča: razmišljanja o meji
in literaturi, Trst, ZTT - EST, 2008.
Rod Lepe Vide: antologija sodobne poezije Slovencev v Italiji, Ljubljana,
Študentska založba; Javni sklad RS za
kulturne dejavnosti, 2009 (saggio introduttivo e scelta dei brani di David
Bandelj).
Odhod, Trst, Mladika, 2012 (saggio introduttivo di Meta Kušar).
V iskanju jaza: teorija in praksa
dnevniške književnosti, Koper, Univerza
na Primorskem, Znanstveno-raziskovalno središče, Univerzitetna založba
Annales, 2013.
Prepletanja: posoška zbirka poezij o
zbliževanjih in razhajanjih - Intrecci:
raccolta poetica isontina di vicinanze e
divergenze, La Quercia, Gorizia, 2003
(traduzione di Aldo Rupel; prefazione
di Nadja Marinčič)
Quotidianità del futuro: 7 giovani poeti
sloveni contemporanei, in: “Le Voci della Luna”, No. 42 (2008) (traduzione di
Jolka Milič)
Benecia e Val Resia
Molti fra gli scritti di Martin Jevnikar sono dedicati alla presenza slovena nella Benecia e nella Val Resia: si tratta di zone che hanno conosciuto uno sviluppo socio-culturale diverso che nel Triestino e nel Goriziano.
La Benecia (le Valli del Natisone), la Valle del Torre e la Val Resia rappresentano, dunque, un momento particolare della cultura slovena, ognuna
con un suo percorso specifico.
La Benecia fu parte integrante del Patriarcato di Aquileia, poi, nel 1419,
entrò a far parte della Repubblica di Venezia e infine, nel 1866, del Regno
d’Italia. Jevnikar ripercorre le alterne vicende che la investirono: durante
il dominio veneziano, infatti, la Benecia conobbe un’ampia autonomia con
l’istituzione del “Grande arengo”, una sorta di parlamento delle valli, e la
suddivisione in due grandi gruppi di paesi, una con sede a Landar e l’altra
a Marseu di Sopra. Una volta all’anno si teneva l’incontro degli esponenti di entrambe a Ponte San Quirino. L’esperienza dell’arengo si concluse
formalmente nel 1804, all’epoca delle conquiste napoleoniche.
Oltre all’arengo, Jevnikar menziona le “banche”, una sorta di tribunale,
formato da 12 giudici popolari, che trattavano tutte le questioni di giustizia,
dalle civili alle penali (la pena più frequente era la condanna alla gogna).
L’insegnamento scolastico in sloveno era retto dai sacerdoti sloveni, spesso fra i pochi a vantare un certo livello di cultura, fino al Regno d’Italia e
all’arrivo degli insegnanti italiani. In effetti, la popolazione slovena non ebbe
accesso all’istruzione ufficiale in sloveno fino al 1980, anno dell’istituzione
della scuola bilingue di San Pietro al Natisone (Špeter Slovenov), parificata
in seguito. Per questo motivo, Jevnikar ricorda che gli intellettuali sloveni,
dovendo formarsi nell’ambito scolastico italiano, usarono la lingua italiana
per esprimersi nei loro scritti, mentre più rari furono gli intellettuali che
scrissero nel dialetto sloveno (Ivan Trinko Zamejski) e pochissimi conobbero lo sloveno letterario. È evidente che le figure di spicco, quelle più impegnate nella difesa dei valori dell’identità nazionale, nel corso del tempo e
almeno fino agli anni Ottanta, furono i sacerdoti sloveni, definiti anche
“čedermaci” dal titolo di un romanzo di France Bevk nel 1938 in cui è descritta la via crucis di un prete della Bnecia, costretto a lottare in difesa del
suo popolo contro le autorità civili ed ecclesiastiche.
La società della Benecia, come anche della Valle del Torre e della Val
Resia, è stata caratterizzata da una forte emigrazione, dapprima stagionale (soprattutto verso le miniere del Belgio e della Germania) e in seguito definitiva (verso i centri della Pianura friulana (Udine, Cividale).
I paesi abbandonati o con sempre meno abitanti sono i temi frequenti
111
in tanta poesia slovena della Benecia (Anton Birtič, Roman Firmani, Rinaldo Luščak, ricordati anche da Jevnikar).
Oggi, la situazione è molto diversa. Dopo il terremoto del 1976, sono
aumentati i contatti con gli Sloveni del Triestino e del Goriziano, il dialetto viene percepito sempre più non come una lingua “minoritaria”, bensì
come lo strumento più idoneo ad esprimere lo spirito degli Sloveni della
Benecia ed è comune ritrovarlo nei periodici sloveni accanto all’italiano e
allo sloveno letterario (ad esempio in “Novi Matajur”, “Dom”). Vale la pena di riportare qui le parole, ricordate anche da Jevnikar, di Jole Namor,
esponente di spicco della vita culturale e politica degli Sloveni della Benecia a proposito di Izidor Predan (1932-1996), a lungo direttore del “Novi Matajur” e autore di brevi racconti in dialetto sloveno, con lo pseudonimo di Petar Matajurac. Così Predan viene ricordato da Jole Namor:
“(Predan) non ha mai nascosto alcun torto subìto dagli Sloveni della Benecia e ha sempre sottolineato il loro diritto a una tutela il più ampia possibile”. E ancora: “I racconti di Petar Matajurac sono scritti in una forma
sovradialettale perché siano accessibili a tutti, dunque anche a coloro che
non avevano avuto alcuna possibilità di istruzione nella lingua slovena
letteraria.” Predan viene ricordato da Jevnikar anche come il fautore della
manifestazione Dan emigranta (Il giorno dell’emigrante), che si tiene ancora il 6 gennaio.
Oggi sono frequenti i testi, poetici e in prosa, scritti in dialetto, la Stazione Topolò - Postaja Topolove è diventata un appuntamento fisso della scena
culturale non solo regionale e i bambini si possono avvicinare alle tradizioni slovene locali e al dialetto anche nell’ambito della Scuola bilingue.
Un momento particolare di rinascita culturale è rappresentato dal
Senjam beneške pesmi - La fiera della canzone della Benecia, la manifestazione canora che si tiene a Lese dal 1971: l’idea venne alla Società culturale Rečan e divenne nel tempo un punto fermo non solo per l’aspetto
musicale, ma soprattutto perché diede l’opportunità a tanti parolieri e cantautori di esprimersi nel dialetto sloveno e di sperimentare nuove forme
musicali (fra gli autori si ricordano Francesco Bergnach, Aldo Clodig, Luciano Chiabudini, ma sono tanti i musicisti e i poeti che hanno fatto la
storia del Senjam). Secondo molti, il Senjam ha realmente contribuito al
nuovo corso culturale nella Benecia: oltre alla manifestazione estiva, la
Società culturale Rečan ha promosso, infatti, anche delle rassegne natalizie
di canti popolari in dialetto sloveno e contribuito così al rinnovato interesse per le proprie tradizioni; la stessa Società culturale ha pubblicato
alcune raccolte di poesie in dialetto e ha contribuito alla diffusione della
lingua slovena nelle singole valli.
Negli ultimi anni si nota la nascita di ensemble musicali vocali e strumentali di musica classica e contemporanea, unita a una ricca attività teatrale in dialetto.
112
Jevnikar parla anche delle chiesette votive della Benecia (oltre 40) il
cui aspetto definitivo risale all’arte gotica, e dei primi documenti sloveni
della Benecia, a partire dal più antico, l’Oratio Dominicalis Sclavonice, risalente alla fine del Quattrocento e oggi conosciuto anche come Manoscritto di Castelmonte: il testo riporta il Padre nostro, l’Ave Maria e il
Credo e venne scritto per i bisogni della Confraternita slovena che organizzava dei pellegrinaggi al Santuario di Castelmonte. Il manoscritto venne ritrovato nel 1973 da don Angelo Cracina, un sacerdote sloveno nativo
di Faedis-Fojda. Il ritrovamento travalica l’importanza formale del testo:
infatti, dello stesso periodo, ma in Carniola, sono noti altri manoscritti
sloveni di natura simile. Il manoscritto di Castelmonte è però importante
dal punto di vista storico e politico: non va dimenticato che la Benecia
conobbe, dal 1866 in poi, una pressione crescente dello Stato italiano culminata nel fascismo e nel divieto di usare lo sloveno tanto in famiglia
quanto in pubblico (al 1933 risale il divieto di usare lo sloveno anche in
chiesa); di quel periodo fa fede il romanzo Kaplan Martin Čedermac,
scritto da France Bevk, uno degli scrittori più in vista dell’ambito culturale sloveno, nel 1938.
Dopo la seconda guerra mondiale, con la guerra fredda, la popolazione
slovena venne considerata come una quinta colonna della Jugoslavia e
pertanto sottoposta a varie forme di controllo e intimidazione (Gladio).
Per questo motivo, il ritrovamento del Manoscritto di Castelmonte, nel
1973, assunse un significato storico (la presenza stabile dei pellegrini sloveni della Benecia al Santuario di Castelmonte almeno dal Quattrocento)
e politico (la popolazione slovena poteva vantare un importante documento letterario che testimoniava la presenza slovena nelle Valli da secoli e
non era più possibile considerarla un elemento estraneo alla zona, come
voleva la propaganda ufficiale dell’epoca).
Jevnikar si sofferma anche sulle valli del Torre e sulla Val Resia: l’etnomusicologo Pavle Merkù, che ha contribuito fortemente alla valorizzazione del patrimonio musicale della Benecia e della Val Resia, ha pubblicato
nel 1972 un saggio sul dialetto della Valle del Torre, in cui riprese gli studi di altri linguisti del passato ( Jan Baudouin de Courtenay, Fran Ramovš,
Ermacora Vidoni e altri) arricchendoli con le proprie osservazioni dei fenomeni linguistici presenti nella zona (soprattutto i termini usati per le
attività rurali quotidiane, che indicano la ricchezza espressiva della lingua).
Jevnikar non li cita, ma vale la pena ricordare anche la traduzione di alcune Letture nel dialetto del Torre (Bardo-Lusevera, “Boava beseda”, Le
Sacre scritture), che permette di integrare il dialetto anche in un momento tanto solenne quale la S. Messa. Ma anche l’antologia Mlada lipa (2010)
curata da Bruna Balloch è un documento importante della ricchezza dialettale slovena del territorio: molte novelle nell’antologia sono presentate
anche nella traduzione italiana e dunque accessibili a un pubblico molto
113
ampio, con le illustrazioni di Luisa Tomasetig e le osservazioni critiche di
Roberto Dapit e Michele-Miha Obit.
L’interesse di Martin Jevnikar si rivolge, però, anche alla Val Resia, “unica regione slovena dove il canto popolare è ancora vivo”. Il canto popolare nasce, infatti, fra le persone umili, perlopiù donne anziane che compongono canti e storie da raccontare. Dapprima, Jevnikar delinea le caratteristiche geografiche di questa vallata, separata dalle altre regioni slovene, che
ha mantenuto una variante particolare dello sloveno, conservandone molte forme arcaiche; ma la Val Resia è anche la patria di molte manifestazioni folcloristiche che hanno risvegliato la curiosità di insigni linguisti, etnografi e storici ( Jan Baudouin de Courtenay, Milko Matičetov, Pavle
Merkù).
Il critico ripercorre a grandi linee la genesi della letteratura resiana che
si è formata grazie alla volontà dei sacerdoti sloveni, coscienti del fatto che
i fedeli erano sprovvisti della conoscenza dello sloveno letterario (le scuole non ne prevedevano l’insegnamento) e che dunque non potevano servirsi dei catechismi e di altri scritti liturgici perché la popolazione non li
avrebbe compresi. Per questo motivo avevano compilato alcuni manoscritti, in seguito ampliati da altri sacerdoti e laici.
Jevnikar ricorda che il primo a scoprire la letteratura resiana fu il conte polacco Jan Potocki (1791), che donò al conte Ossolinski di Lvov alcuni testi di dottrina cristiana, ma purtroppo tutto questo materiale è andato perduto. In seguito, nel 1875, il linguista polacco Jan Baudouin de
Courtenay pubblicò due testi resiani a Varsavia e San Pietroburgo: un Catechismo (che potrebbe essere quello rinvenuto da Potocki) e un altro
testo di dottrina cristiana. Alla fine dell’Ottocento, Courtenay fece più
viaggi in Val Resia e pubblicò vari saggi sull’argomento.
A metà dell’Ottocento ci fu una svolta importante nella produzione
letteraria resiana, poiché a partire dal 1845 i sacerdoti cominciarono a venire da altri luoghi: impararono sì il dialetto resiano, ma non furono autori attivi in questo idioma. Jevnikar ricorda come, lentamente, il resiano
cominciò a scomparire anche dalla Chiesa e come agli inizi del Novecento solamente in un unico paese (Osojanci) venisse ancora usato a fini liturgici. I canti in resiano, però, si sono mantenuti in forma orale per alcune solennità o occasioni particolari (Natale, Pasqua, i funerali, le lunghe
serate invernali). Alcune donne resiane li avevano trascritti perché non
andassero perduti (si vedano i ritrovamenti di Matičetov negli anni ‘60).
Nel 1972, è stata pubblicata una raccolta importante di canti popolari
resiani a cura di Milko Matičetov, etnologo presso l’Università di Lubiana.
Il titolo è Rožice iz Rezije (Fiori dalla Val Resia) ed è dedicato alla memoria di Jan Baudouin de Courtenay. All’interno vi sono riportate integralmente 60 liriche resiane con la traduzione nello sloveno letterario a fronte. I testi parlano delle pene d’amore, della natura resiana, della vita mili114
tare e dell’emigrazione, piaga della vallata: Jevnikar riporta i versi di una
ragazza affranta, poiché il suo amato è dovuto partire “oltre le cime di
Bovec (Plezzo) per riparare le pentole vecchie, la padelle incrostate e gli
ombrelli rotti”. Egli inoltre sottolinea come il dialetto resiano non sia di
facile comprensione per i frequenti arcaismi e la contrazione di alcune forme lessicali.
Nell’antologia di Jevnikar non viene menzionato un altro testo importante curato da Matičetov, vale a dire la raccolta di novelle Zverinice iz Rezije (Gli animaletti della Resia, 1973) Nel testo viene presentata parte
della ricchezza folcloristica della vallata con le storie in cui si parla del
rapporto fra la popolazione resiana e la natura, nonché delle credenze in
esseri soprannaturali, quali le krivopete, sorta di streghe col piede rivolto
all’indietro (da cui il nome: “kriv” significa storto e “peta” è il calcagno).
Anche questa raccolta ha contribuito a far conoscere le peculiarità di una
vallata a lungo sconosciuta.
Ricordiamo che i canti resiani sono stati raccolti e analizzati anche
dall’etnomusicologo Pavle Merkù, che ha trascorso molto tempo in Resia
e in Benecia registrando sul campo i canti locali: spesso, la sua registrazione ha salvato dall’oblio svariati componimenti che sarebbero altrimenti
scomparsi con la morte delle ultime persone che li conoscevano. Merkù
ha presentato questi componimenti in numerose pubblicazioni e in seguito li ha adattati per i cori maschili, femminili e a voci miste. Grazie al suo
interessamento, i canti resiani e beneciani sono entrati nel repertorio fisso
di molti gruppi canori sloveni e sono stati presentati anche a livello internazionale (ad es. Ta hora ta Caninowa, Jnjenčena jti gna, Tana Sarte).
Ma la letteratura resiana non è soltanto memoria e tradizione popolare: esiste, infatti, anche una produzione d’autore che risale ai giorni
nostri. Come si è potuto vedere per la Benecia, anche in Val Resia sono
molte le persone che parlano il resiano, ma non conoscono lo sloveno
letterario: per loro, il dialetto è “la lingua”, quella nella quale esprimere
parte di se stessi e della propria esperienza. Fra gli autori resiani contemporanei, Jevnikar ricorda Renato Quaglia, interessante figura di intellettuale impegnato nella rinascita della cultura resiana, che conosce l’italiano, il francese e il latino, ma non conoscendo lo sloveno letterario scrive
in dialetto. I suoi componimenti trattano della triste realtà della Val Resia, spogliata delle sue ricchezze, abbandonata, mentre l’anima del poeta
aspira a poter un giorno rivedere i sentieri abbandonati che portano al
cuore della Resia, lasciando così le strade di cemento che conducono in
un mondo privo di umanità. Quaglia è stato presentato da Merkù (1980)
e tradotto da Marko Kravos(1985, Baside).
Benché Jevnikar non ne parli nell’antologia, va ricordato che fra le voci poetiche della Val Resia va annoverata anche la poetessa Silvana Paletti
(1947): la sua opera principale è la raccolta trilingue Rozajanski serčni ro115
monenj/La lingua resiana del cuore/Rezijanska srčna govorica (Ljubljana,
2002), dove i componimenti poetici vengono presentati nel dialetto resiano, nello sloveno letterario e in italiano. La traduzione in sloveno è stata
curata dalla storica della letteratura Marija Pirjevec, quella in italiano da
Roberto Dapit.
Al fine di tutelare la vita culturale della vallata è stato fondato, nel 1983,
il Circolo culturale “Rozajanski dum” (La casa resiana), al cui interno opera il gruppo folcloristico “Val Resia”, che esiste già dal 1838 e si esibisce
con gli abiti tradizionali e con l’ausilio degli strumenti musicali tipici del
territorio, mentre il gruppo vocale “Rože majave” (I fiori di maggio) porta il canto resiano fuori dai confini della vallata.
Il dialetto resiano anima poi la “Šmarna miša”, la Messa di Ferragosto
che si tiene a Ravanca-Prato di Resia e che è diventata uno degli appuntamenti più suggestivi della vallata.
Nel corso del tempo la Val Resia si è trovata al centro di polemiche
politiche, che traevano origine dalla questione linguistica, vale a dire se il
dialetto resiano fosse uno dei dialetti sloveni ( Jan Bouduin de Courtenay,
Pavle Merkù), se fosse una lingua a sé o addirittura imparentato col russo.
La questione è viva ancora oggi e si manifesta con le manifestazioni pubbliche e le polemiche a mezzo stampa di chi non accetta la genesi slovena
della lingua e di tutte le manifestazioni (culturali, sociali, musicali, folcloristiche) che vi trovano espressione.
116
Novi Matajur
Il Novi Matajur è l’unico settimanale
degli sloveni della provincia di Udine.
Il periodico viene pubblicato dal 1950,
dapprima come Matajur e, dal 1974,
come Novi Matajur. All’inizio, esce come bimensile, dal 1985, invece, la cadenza è settimanale.
Il giornale nasce dalla consapevolezza che generazioni di sloveni della
provincia di Udine, non avendo potuto
frequentare le scuole slovene, si esprimevano solamente in uno dei vari dialetti della Benecia, della Val Torre e
della Resia: per questo motivo, il carattere del periodico fu, fin dall’inizio,
plurilingue – gli articoli vengono pubblicati, infatti, in sloveno, in italiano e
nei vari dialetti del territorio. Il Novi
Matajur svolge, così, un’importante
opera di informazione culturale, politica e sociale, nonché di formazione in
senso linguistico e nazionale.
La Cooperativa Novi Matajur pubblica anche la rivista per bambini Galeb (Il gabbiano).
Dom-kulturno verski list
Il quindicinale di natura culturale e religiosa “Dom” viene pubblicato in Benecia
a cura della Cooperativa Most. Quest’ultima risale al 1998 e ha la propria sede a
Cividale del Friuli. Il suo presidente è da
allora Giuseppe Qualizza. La Cooperativa persegue il fine di valorizzare la cultura, l’attività sportiva e l’economia degli
Sloveni che vivono in Friuli Venezia Giulia con particolare attenzione per gli Sloveni della provincia di Udine. Attraverso
strumenti quali il quindicinale “Dom”,
nonché l’agenzia informativa Slovit, che
opera sul web, promuove la conoscenza
e il rispetto reciproco fra le genti del territorio.
“Dom”, in sloveno, significa “casa”:
non l’edificio concreto (che in sloveno
si dice “hiša”), bensì il luogo che affettivamente sentiamo più vicino. Dalla
stessa radice viene, infatti, anche la parola “domovina” che significa “patria”.
“Dom” può indicare, allora, tanto l’abitazione che la regione che si sentono
più vicini. Il termine italiano che, forse,
potrebbe avvicinarsi di più a “dom” è
“nido” (ad es. nella locuzione “questo
è il mio nido”), ovviamente però la vicinanza fra i due termini viene meno
quando il “dom” sloveno viene a significare anche “regione”. Da qui l’ampia
gamma di significati racchiusi nel titolo
del quindicinale.
117
Sommario
Introduzione................................................................................................................ 5
di Neva Zaghet
Martin Jevnikar............................................................................................................ 7
di Marija Cenda
Il cammino storico e culturale degli sloveni di Trieste......................................11
di Marija Pirjevec
I ...............................................................................................................................11
II...............................................................................................................................15
III.............................................................................................................................18
IV.............................................................................................................................21
Le lettere nobiliari slovene (Slovenska plemiška pisma)..................................25
Pavle Merkù................................................................................................................25
Le omelie in sloveno (Slovenske pridige)............................................................30
Lojzka Bratuž.............................................................................................................31
Boris Pahor.................................................................................................................32
Zaliv.........................................................................................................................36
Tatjana Rojc...............................................................................................................38
Alojz Rebula...............................................................................................................39
Miran Košuta ............................................................................................................42
Vinko Beličič..............................................................................................................45
Mladika...................................................................................................................47
Due casi letterari: Marija Mijot e Vladimir Bartol.............................................48
Bruna Marija Pertot..................................................................................................53
Zora Tavčar.................................................................................................................55
Galeb .......................................................................................................................57
118
Miroslav Košuta.........................................................................................................58
Irena Žerjal ................................................................................................................61
Ivanka Hergold..........................................................................................................63
Aleksij Pregarc...........................................................................................................66
Evelina Umek ............................................................................................................69
Ivan Tavčar..................................................................................................................71
Marko Kravos.............................................................................................................73
Sergej Verč..................................................................................................................76
Ace Mermolja............................................................................................................79
Primorski dnevnik..................................................................................................81
Marij Čuk....................................................................................................................82
Boris Pangerc.............................................................................................................85
Dušan Jelinčič............................................................................................................88
Marko Sosič................................................................................................................91
Igor Škamperle...........................................................................................................95
Alenka Rebula Tuta..................................................................................................97
Majda Artač Sturman...............................................................................................99
Vilma Purič.......................................................................................................... 100
Ljubka Šorli............................................................................................................. 101
Pastirček............................................................................................................... 103
Mohorjeva družba............................................................................................... 103
Aldo Rupel............................................................................................................... 104
Novi glas............................................................................................................... 105
Jurij Paljk.................................................................................................................. 106
David Bandelj.......................................................................................................... 108
Benecia e Val Resia................................................................................................ 111
Novi Matajur ...................................................................................................... 117
Dom-kulturno verski list..................................................................................... 117
119