Le ustioni

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Le ustioni
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Le ustioni
Frequenza
Sebbene lo studio e la conoscenza degli aspetti fisiopatologici della malattia da ustione abbia
consentito negli ultimi venti anni progressi sostanziali in termini di sopravvivenza e qualità di vita,
rimangono ancora complessi e necessari di attenzione i risvolti sociali, legati in particolare all'alta
mortalità (in Italia 600 pazienti per anno secondo dati ISTAT) e quelli umani legati alla gravità
degli esiti cicatriziali.
Attualmente le ustioni sono in Italia la quarta causa di morte violenta, dopo gli incidenti stradali, le
cadute e gli annegamenti.
Dati recenti provenienti dagli Usa (Burn Foundation, 2000) quantificano le ustioni negli USA in
1.000.000 di casi per anno con un trend in forte diminuzione rispetto agli anni precedenti e con un
rapporto che è passato da 10 casi/10.000 abitanti a 4,2/10.000. Allo stesso modo il numero dei
decessi per ustioni si è attestato a 4.500 per anno con una riduzione del 50% rispetto agli anni 19711998. I ricoveri per ustioni negli USA risultano essere di 45.000 casi per anno, la metà dei quali
presso centri grandi ustionati, anche per essi il trend risulta diminuito del 50%. La media per cento
di superficie cutanea ustionata, nei pazienti ricoverati presso centri ustione, è risultata del 14%
(54% con ustioni < 10%, 4% > 60%) con una mortalità pari al 6% dei pazienti ricoverati.
Un corretto approccio al paziente ustionato comporta quindi la conoscenza e l'approfondimento
degli aspetti epidemiologici dell'ustione, allo scopo di approntare validi schemi di prevenzione onde
ridurre la morbilità di questa patologia.
Uno studio è stato eseguito presso il Centro Ustioni di Catania su circa 3500 pazienti ricoverati e
provenienti da un bacino di utenza che interessa la Sicilia centro-orientale e la vicina Calabria.
In esso, gli adulti rappresentano il 49,2% di questa casistica, mentre i bambini di età compresa tra
15 giorni e 12 anni costituiscono il 50,8% del totale. Sono stati inoltre analizzati i parametri relativi
alla distribuzione per sesso con prevalenza di quello maschile (62,4%) ed età, alla professione dei
genitori, all'ora, al giorno, al mese, alla stagione e al luogo dell'incidente che hanno sottolineato una
maggiore frequenza degli incidenti nei primi anni di vita, nel sesso maschile, nelle famiglie con
madre casalinga e padre impiegato e livello di istruzione medio-superiore.
Risultano altresì maggiormente interessate le fasce orarie 8-10 e 12-14, la stagione estiva,
l'ambiente domestico in generale e la cucina in particolare.
È stato inoltre rilevato, negli infortuni sul lavoro, che il 33,7% dei pazienti avevano già subito
ustioni.
L'ulteriore studio epidemiologico ha messo in luce come i liquidi bollenti rappresentino la causa più
frequente di ustione in età pediatrica, mentre negli adulti sono più frequenti le ustioni da fiamma e
da alcool.
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Le aree anatomiche maggiormente colpite risultano essere gli arti superiori (91,1%) ed inferiori
(83%).
I decessi, rapportati alla superficie cutanea ustionata (SCU) e all'età, sono stati di maggiore entità
nella fascia 0-4 anni per ustioni superiori al 50% e prevalentemente a seguito di shock settico
imputabile nel 36,6% allo stafilococco aureo ed a quello meticillino-resistente e nel 18,3% dei casi
a pseudomonas aeruginosa.
L'analisi di questi dati fornisce l'opportunità per formulare ipotesi di ordine preventivo e considerare
innanzitutto le differenze epidemiologiche fra ustioni in età adulta rispetto a quelle pediatriche, in
particolare per quanto riguarda il luogo dell'ustione e l'agente ustionante. L'adozione di adeguate
misure preventive viene attualmente considerata prioritaria dai più autorevoli esperti mondiali e
consentirebbe di ridurre sensibilmente l'incidenza dell'evento ustionante.
Indici prognostici
In questi ultimi anni l'opportunità di poter mettere in relazione fattori quali l'età, il sesso, la
percentuale di superficie cutanea ustionata, le aree cutanee con ustioni di 3° grado, la presenza di
ustioni perineali, condizioni morbose preesistenti e/o concomitanti, il tempo trascorso tra l'incidente
ed il ricovero in ospedale, etc., ha fatto fiorire tutta una serie di studi allo scopo di approntare un
valido indice prognostico in grado di fornire, in maniera quanto più esatta possibile, al sanitario che
si appresta ad un caso clinico, un'idea chiara e precisa sulle difficoltà cui andrà incontro il paziente
in questione e predisporre le misure adeguate al livello di gravità calcolato. Ma l'utilità degli indici
prognostici è risultata anche dalla possibilità data ai diversi gruppi di ricerca di poter parlare lo
stesso linguaggio nel confronto dei dati clinici, o nel misurare il progresso clinico-terapeutico di un
determinato periodo rispetto ad un altro su una determinata popolazione rispetto ad un' altra.
Allo stato attuale diversi sono gli autori i cui indici prognostici vengono ritenuti validi ed allo stesso
tempo migliorabili dagli ustionologi di tutto il mondo.
In Italia, la Società Italiana delle Ustioni (S.I.Ust.) ha deciso, già da qualche anno, di adottare
l'indice prognostico messo a punto da Roy (1983), come linguaggio comune a tutti gli ustionologi
italiani allo scopo anche di verificare la sua validità in rapporto alla popolazione italiana ed ai
sistemi terapeutici in uso presso i nostri centri ustione.
Eziologia
Gli agenti responsabili delle ustioni sono classificati in rapporto alla loro natura, per cui possiamo
distinguere:
Agenti fisici
Liquidi o vapori bollenti
Metalli o corpi roventi
Fiamme
Elettricità
Radiazioni
Freddo
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Agenti chimici
Acidi
Alcali
Sali
Fisiopatologia
Nella letteratura, a seconda del meccanismo etiopatogenetico scatenante, sono stati descritti, sino ad
oggi, più di cento diverse forme di shock, in cui, sostanzialmente, l'alterazione finale è
rappresentata dalla insufficienza acuta del circolo periferico. Tale alterazione rappresenta il
momento finale anche dello shock ipovolemico da ustione, ma qui s'innesta, come concausa, una
catena di eventi determinati dalla diretta influenza del calore sulle cellule, Gli enzimi tissutali e
lisosomiali liberati dalla distruzione delle cellule per azione diretta del calore, indurrebbero
precocemente lesioni dei parenchimi a distanza del focolaio dell'ustione e modificazioni strutturali
delle molecole proteiche circolanti (Lorthioir J.). Gli aspetti emodinamici che caratterizzano la fase
acuta della malattia da ustione comprendono due fasi, una iperdinamica o compensata e l'altra
ipodinamica o scompensata.
Fase iperdinamica o compensata.
L'alterata ed abnorme permeabilità capillare, causata dal trauma termico, determina un'imponente
exemia plasmatica interstiziale. Tale exemia plasmatica, secondo le ricerche di Chambers e
Zweifach del 1946, confermate nel 1968 da Cotran e Remensnyder al microscopio elettronico,
avviene attraverso gli spazi intercellulari per distruzione della sostanza cementante ad opera di una
sostanza vasoattiva da individuare più in una frazione euglobulinica del plasma che nelle note
leucotassine, bradichinine, callidine o callicreine (Artz e Moncrief). Si calcola che le perdite idriche
siano particolarmente intense nelle prime 8-10 ore (Artz e Moncrief) e continuino sino alle 48-72
ore soprattutto per le ustioni di 2° grado; nelle ustioni più estese (oltre il 30% della superficie
corporea) tali perdite ammontano a 4,4 ml/Kg/h nelle prime 24 ore ed interessano anche quelle aree
non colpite dall'evento termico (Artz e Moncrief). Un particolare aspetto presenta il problema delle
perdite saline, interpretato in modo contrastante:
per Baxter il liquido perso nell'interstizio è isotonico al plasma e si mantiene tale, donde,
l'utilizzazione nella terapia di soluzioni isotoniche;
per Fox e Monafo l'essudato perduto inizialmente nella zona d'ustione è isotonico al plasma,
ma successivamente, a causa dell'assorbimento di Na+ nelle cellule lese, la tonicità del
liquido extracellulare (LEC) diminuisce e, per osmosi, le cellule integre s'imbibiscono di
acqua con ulteriore aggravio dello stato di ipovolemia.
Questa constatazione ha indotto a proporre l'utilizzazione terapeutica di soluzioni ipertoniche di
Na+ . Le perdite proteiche nell'essudato sono cospicue, dell'ordine di 4,5 g/100 ml, di cui la
maggior parte costituite da albumina le cui piccole molecole (150.000 PM) attraversano facilmente
gli spazi tra le cellule dell'endotelio capillare. Nella prima settimana dall'evento termico, le perdite
proteiche ammontano a 10-20 g/die, cui bisogna aggiungere 12-30 g per l'aumentato catabolismo. Il
grado di ipoalbuminemia così instauratosi porta rapidamente alla diminuzione della pressione
colloido-osmotica plasmatica (pressione oncotica) a favore del comparto extracellulare con
aggravamento dello shock ipovolemico. Fox sottolinea, però, che la sola plasmaferesi (rimozione
delle proteine dal plasma senza sali ed acqua) non è in grado di provocare lo shock, così come non
si determina nella sindrome nefrosica.
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Esso, secondo questo autore, sarebbe dovuto principalmente alla grave perturbazione
idroelettrolitica conseguente alla rimozione repentina e massiccia di sodio dal circolo. Allo stato di
ipovolemia descritto, cui si associano stimoli neurogeni indotti dal dolore e dallo stress, l'organismo
risponde con un'increzione massiccia di catecolamine, che conduce alla vasocostrizione
generalizzata. Questa condizione, riducendo l'irrorazione periferica, assicura un normale apporto
ematico agli organi vitali: cuore e cervello ("centralizzazione del circolo"). Infatti, come si rileva
dal modello semplificato di angiotettonica microvascolare descritto da Zweifach nel 1956
osservando al microscopio il mesoceco di ratto, la contrazione degli sfinteri precapillari costringe il
flusso ematico a transitare attraverso le arteriole preferenziali di Zweifach, shuntando il letto
capillare e consentendo, in tal modo, un efficace ritorno venoso.In assenza di opportuna terapia,
tutte queste alterazioni conducono come è inevitabile alla seconda fase dello shock o fase di
scompenso.
Fase ipodinamica o di scompenso.
L'insufficiente perfusione dei tessuti periferici con relativa ipossia determina uno stato di acidosi
metabolica. Il metabolismo cellulare in deficit di ossigeno, infatti, da aerobio diviene anaerobio con
aumento della produzione di acido lattico e di radicali acidi. Questa condizione annulla l'effetto
costrittore delle catecolamine sul segmento arterioso del capillare, mentre gli sfinteri venosi postcapillari permangono ancora contratti perché risentono più a lungo dell'azione delle catecolamine.Si
realizza, in tal modo, la cosiddetta "stagnation" degli autori anglosassoni, cioè il riempimento
stagnante dei capillari con aumento della superficie vascolare e successiva trasudazione plasmatica
per aumento della pressione idrostatica intracapillare. Il danno cellulare, che deriva. da questa
condizione del microcircolo, causa la rottura delle membrane lisosomiali e la liberazione degli
enzimi (ribonucleasi, fosfatasi, lipasi, aldolasi, ecc.) che, idrolizzando i costituenti stessi della
cellula, attivano nel torrente circolatorio il sistema delle chinine vasoattive: bradichinina e
callicreina. Queste, con la loro azione vasodilatatrice e permeabilizzante sulle pareti vasali,
aggravano ulteriormente le condizioni emodinamiche e metaboliche dello shock. Altri due fattori
aggravanti lo shock sono: le prostaglandine ed il myocardial depressant factor (MDF). Gli studi
sperimentali effettuati da Jonsson nel 1973, sul liquido linfatico della zampa ustionata di cane,
hanno accertato, nel focolaio d'ustione, un cospicuo aumento delle prostaglandine e precisamente
della frazione PGE2. Indagini sul liquido delle flittene delle ustioni umane hanno evidenziato
quantità di prostaglandine in alta concentrazione. Esse si formerebbero per attivazione del
precursore da parte di enzimi liberati dalle cellule lese. L'effetto del loro accumulo si tradurrebbe in
un incremento della permeabilità vasale ed in un ostacolo alla formazione di GMP e AMP ciclico,
essenziale alla omeostasi cellulare. L'osservazione che nel paziente ustionato la gittata sistolica cade
spesso al 30% dei valori normali a riposo e che tale caduta permane anche dopo infusione di
colloidi e cristalloidi, ha fatto sospettare l'esistenza di un fattore liberato nel territorio d'ustione a
diretta azione sul muscolo cardiaco. Tale fattore sarebbe stato identificato da Moncrief nel 1973 in
corso di shock sperimentale nell'animale e non nell'uomo e definito, per la sua azione, myocardial
depressant factor (MDF). Esso verrebbe liberato, durante lo shock, dal pancreas per azione di
enzimi sulle proteine pancreatiche intracellulari. Gli effetti dell'MDF sono più accentuati in ustioni
tra il 40 ed il 60% della superficie corporea (s.c.) o di superfici minori ma tutte di 3° grado. In
ustioni che superino il 60% della s.c. l'MDF rappresenta una delle cause fondamentali d'insuccesso
terapeutico.
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Nella fase terminale dello shock, si realizzano le tre condizioni enunciate da Virchow nel 1854, che
concorrono alla formazione di trombi:
1. l'ipercoagulabilità del sangue;
2. il danno della parete vasale;
3. il rallentamento della corrente sanguigna.
Numerosi autori (Meyers 1972, Branemark 1968, Cotran 1968) concordano sul ruolo del danno
vascolare provocato dalle ustioni, con liberazione dai tessuti di sostanze attivanti la coagulazione e
la trombosi, mentre il rallentamento della corrente sanguigna e la liberazione della tromboplastina
provocano il fenomeno dello "sludging" eritrocitario con ulteriore rallentamento del flusso ematico.
Tutti questi eventi portano alla formazione di una microtrombosi diffusa a tutto il territorio
vascolare periferico ("disseminated intravascular coagulation"- DIC) con gravi lesioni a carico dei
parenchimi nobili,che rendono irreversibile lo stato metabolico e che portano ineluttabilmente
all'exitus.
Quadro clinico.
Nella fase di shock conclamato il paziente presenta pallore della cute e delle mucose che appaiono
fredde ed aride; disorientamento psichico ed agitazione psicomotoria; sete intensa da disidratazione
per diminuizione del volume plasmatico. Nelle fasi successive, per l'aumentato contenuto in
emoglobina ridotta, il pallore si tramuterà nella cianosi tipica dell'anossia stagnante per vasoplegia,
mentre l'ipossia cerebrale condurrà ad obnubilamento del sensorio. La ridotta perfusione tissutale, le
influenze ormonali conseguenti (adiuretina, renina-angiotensina) la presenza in circolo, specie nei
folgorati, di sostanze nefrotossiche (emoglobina, emina, mioglobina), determinano una ridotta
perfusione renale con quadri di oligo-anuria. L'attività cardiaca è depressa e la pressione sistolica,
dopo un primo innalzamento indotto dalle catecolamine, si abbassa (70 mm/Hg) mentre il cuore
presenta tachicardia compensatoria. Il polso, parallelamente, presenta una tachisfigmia sino a valori
di 140 batt./m. A carico dell'apparato respiratorio si riscontra tachipnea, per l'aumento della PCO2
ematica e per l'acidosi metabolica (lattati, piruvati); nelle fasi tardive, per esaurimento dei centri del
respiro, si può giungere ad un respiro tipo Cheyne-Stokes. A carico del fegato è singolare il fatto
che alterazioni istologiche evidenziate attraverso epatobiopsie e costituite da lesioni aspecifiche di
tipo degenerativo e congestizio, si presentino in dissonanza con i parametri ematochimici ed inoltre
come essi siano ancora presenti, in un'alta percentuale dei casi, a distanza di un anno e talora, sia
pure in una piccola percentuale dei casi, peggiorati in senso precirrotico, rispetto alle lesioni rilevate
alla prima biopsia negli stessi pazienti esaminati (Catalano et al. 1981). Parallelamente all'evolversi
del quadro clinico, le alterazioni dei parametri bioumorali sono caratterizzate da:
1. aumento dei valori dell'ematocrito dal 45% sino al 70% per emoconcentrazione da exemia
plasmatica;
2. frequente emoglobinuria dovuta all'intensa emolisi per azione diretta del calore e di un
fattore plasmatico, ancora non ben individuato, presente in circolo nel paziente ustionato,
come dimostrato da Loebl e Baxter trasfondendo globuli rossi marcati con Cr51 di donatori
sani in pazienti ustionati. L'emolisi interessa, in media, una massa di globuli rossi pari al
10% dei valori iniziali, fino al 40% nelle profonde ustioni da liquidi bollenti e nei casi di
folgorazione;
3. diminuzione delle piastrine, fibrinogeno e fibrina con relativi prodotti di degradazione
(FDP) per le alterazioni della bilancia emostatica (DIC);
4. diminuzione delle proteine plasmatiche, soprattutto delle albumine con inversione del
rapporto albumine/globuline.
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5. Il tasso delle immunoglobuline, ridottosi temporaneamente nella fase iniziale, torna poi
rapidamente ai valori normali a meno che non sopravvenga una sepsi;
6. acidosi, dovuta all'ipoperfusione tissutale instauratasi in seguito allo shock e all'aumentata
richiesta di O2 , che determinano la conversione del metabolismo da aerobio in anaerobio
con accumulo di ac. lattico e piruvico. Tale acidosi metabolica può essere aggravata da
un'acidosi respiratoria nel caso in cui la ventilazione polmonare è stata in qualche modo
compromessa dall'evento termico;
7. variazioni della sodiemia e della potassiemia. Ricerche di Taylor e Monafo hanno accertato
che per ogni 1% di superficie corporea ustionata vengono accumulati nell'essudato 50 ml di
soluzione isotonica di cloruro di Na, cui si aggiungono le perdite nel caso di vomito e
diarrea. Alla iposodiema (da 140 a 120 mEq/1) fa riscontro una iperpotassiemia (da 4,0 a 5,4
mEq/1) indotta dalla liberazione del potassio intracellulare e dallo stato di acidosi.
Il sistema immunocompetente
In quest'ultimo decennio la terapia medica e chirurgica del paziente ustionato ha fatto segnare
progressi realmente considerevoli, tuttavia le infezioni costituiscono ancora oggi la complicanza più
frequente e la principale causa di morte dell'ustionato in condizioni critiche. I precisi meccanismi
etiopatogenetici alla base della spiccata suscettibilità alle infezioni dei tessuti danneggiati
dall'insulto termico non sono del tutto chiariti. Appare comunque evidente il concorso di fattori
locali e sistemici. Concettualmente i sistemi di difesa dell'organismo possono essere distinti in:
1. sistema di difesa locale: costituito da barriere meccaniche, quali cute e mucose;
2. sistema di difesa sistemico aspecifico;
3. sistema di difesa sistemico specifico che comprende:
o formazione di anticorpi specifici;
o azione citotossica diretta cellule mediata;
o interazioni cellula-cellula non citotossiche.
Sistema di difesa aspecifico. Il sistema aspecifico o risposta infiammatoria di difesa, che non
richiede una preventiva esposizione ad antigeni di origine batterica, rappresenta la risposta più
precoce a seguito di insulto termico. Inoltre la risposta infiammatoria mette in allerta il sistema
immune, informandolo che le barriere meccaniche di difesa sono state distrutte. Gli elementi
principali che contribuiscono a realizzare questa risposta infiammatoria aspecifica sono: le proteine
plasmatiche, i mastociti, i macrofagi tissutali, i neutrofili ed i monociti sistemici. Gli elementi
cellulari modificano il microclima locale al fine di limitare l'invasione batterica e rendere i batteri
maggiormente suscettibili alla fagocitosi. I mediatori non cellulari coinvolti in questa fase sono
essenzialmente componenti della cascata della coagulazione e del complemento, nonché amine
vasoattive. L'inizio della risposta infiammatoria si realizza attraverso un processo definito
"attivazione da contatto" che sostanzialmente consiste in un'attivazione del sistema della
coagulazione; nel paziente ustionato l'attivazione da contatto probabilmente si realizza attraverso
l'esposizione dell'endotelio danneggiato dall'insulto termico; questo attiva la risposta infiammatoria
e quindi il fattore di Hageman che innesca una trombosi locale, unitamente alla produzione di
numerose sostanze vasoattive. Una volta attivata la fase "di ricognizione" della lesione tissutale, le
componenti attivate del complemento (particolarmente C3a e C5a) amplificano la risposta umorale
a livello locale e reclutano ulteriori elementi fagocitici dalla circolazione sistemica. Come è noto,
C3a e C5a sono potenti anafilotossine, in grado di determinare vasocostrizione venulare ed aumento
della permeabilità. I fagociti reclutati dal circolo sistemico sinergizzano quindi l'attività dei fattori
umorali nel tamponare l'invasione dei batteri patogeni. Il granulocita polimorfonucleato è quindi il
principale effettore cellulare della risposta immune aspecifica (risposta infiammatoria), mediante i
processi di fagocitosi batterica.
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Appare quindi chiaro che un difetto in ciascuna delle fasi di attivazione e funzione dei fagociti
comporta inevitabilmente un maggior rischio di infezione batterica. È interessante rilevare che
l'azione antibatterica dei neutrofili è più efficace nell'eliminazione di microorganismi in condizioni
di flusso ematico lento (es. circolazione polmonare) o ridotto biochimicamente (es. sito
infiammatorio). I batteri presenti in circolo, invece, non sono particolarmente sensibili ai neutrofili
dal momento che il flusso ematico è troppo rapido al fine di consentire un tempo di contatto
neutrofilo-batterio sufficiente per attivare la fagocitosi. I batteri circolanti pertanto vengono
primariamente eliminati dai macrofagi fissi del fegato, della milza e dei linfonodi appartenenti al
RES o sistema reticoloendoteliale. Il sistema di difesa aspecifico umorale sinergizza il sistema
cellulare mediante l'opsonizzazione della parete batterica. Si ricordi che con il termine di opsonina
si intende una molecola proteica che, legata ad un antigene, ne aumenta la suscettibilità alla
fagocitosi. Concettualmente, quindi, le opsonine possono essere considerate l'anello di unione tra il
sistema aspecifico di difesa cellulare e quello umorale.
Sistema di difesa specifico. Esso è rappresentato da macrofagi, linfociti, plasmacellule e loro
prodotti umorali. Al contrario del sistema di difesa aspecifico, filogeneticamente più antico, il
sistema specifico risponde specificamente verso determinati siti della superficie batterica. Questa
risposta è caratterizzata dalla produzione di anticorpi antigene batterico-specifici. Tra l'altro, la
presenza di anticorpi sulla parete batterica attiva la cascata del complemento che, a sua volta, è in
grado di distruggere alcuni ceppi batterici. Per la gran parte degli antigeni, la fase iniziale di
induzione dell'immunità umorale (produzione di anticorpi) è la presentazione di un dato antigene
dai macrofagi ai linfociti T-helper timo-dipendenti. L'attivazione dei linfociti T-helper determina la
liberazione di mediatori solubili (linfochine) che "istruiscono" i linfociti B a proliferare e
differenziarsi in plasmacellule. L'immunità cellulo-mediata include poi tutta una serie di funzioni,
quali:
1. attivazione dei macrofagi alla fagocitosi;
2. attivazione di linfociti T "killer";
3. produzione di linfociti T citotossici "natural killer".
La completa espressione del sistema di difesa specifico richiede quindi la piena maturazione dei
suoi effettori cellulari (linfociti T e B, macrofagi) ed umorali (sistema complementare, properdina).
Numerosi studi hanno evidenziato che il neonato è immaturo sia per quanto riguarda il sistema
immune specifico, che per la risposta infiammatoria aspecifica. Per esempio, la capacità del neonato
di produrre anticorpi è qualitativamente e quantitativamente inferiore rispetto all'adulto. Il siero di
un neonato contiene approssimativamente il 10% dei livelli normali di IgM dell'adulto, livelli
normali di IgG, grazie al trasporto placentare ed infine assenza di IgA. All'età di 2 anni, la
concentrazione di IgM raggiunge i valori normali dell'adulto, mentre le normali concentrazioni di
IgG non vengono raggiunte prima dei 4-6 anni. Le IgA, infine, raggiungono i valori normali solo
alla pubertà.
Effetti delle lesioni termiche sui sistemi di difesa. È ben noto che a seguito di una ustione, si
evidenziano numerose alterazioni a carico del sistema immune. In particolare, si osservano
alterazioni nei livelli delle immunoglobuline, modificazioni nella concentrazione e nell'attività delle
componenti del complemento, ridotti livelli della fibronectina plasmatica, ridotta attività
opsonizzante del siero, inibizione dell'attività macrofagica, linfocitica, neutrofila e del RES. Dal
momento che nel paziente ustionato settico la più frequente sede di infezione è la piaga da ustione,
appare chiaro che il deficit della risposta di difesa locale costituisca il punto di partenza del
processo infettivo sistemico.
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In studi recenti si è provato a testare la capacità opsonizzante del liquido di flittene da ustione,
utilizzando come test batterico ceppi di stafilococco aureo e pseudomonas aeruginosa che, come è
noto, costituiscono la specie di microorganismi più frequentemente riscontrati in una piaga da
ustione. In effetti, si è visto che il contenuto liquido delle flittene presenta una capacità
opsonizzante, ai fini dell'eliminazione degli stafilococchi, del tutto simile a quella del siero.
Tuttavia, detto fluido non è parimenti in grado di garantire una sufficiente attivazione fagocitaria
dei neutrofili nei confronti dello pseudomonas. Questo rilievo spiega in parte la elevata incidenza di
colonizzazione delle piaghe da parte dei gram-negativi. Sembra che questa "opsoninopatia" sia
legata ad un deficit da iperconsumo di componenti del complemento nella sede dell'ustione. Inoltre,
l'accumulo locale di frammenti di C3 sarebbe responsabile della sregolazione, fino alla
soppressione, dell'attivazione e della mitogenesi linfocitaria, e dell'inibizione delle molteplici
funzioni dei neutrofili. Dal momento che tanto i linfociti quanto i macrofagi ed i neutrofili
esprimono recettori specifici per questi frammenti di C3, appare chiaro che i frammenti del
complemento modulano le funzioni immunitarie nella sede della piaga e che le modificazioni
biochimiche nel fluido flittenulare interferiscono negativamente nell'attivazione degli effettori
dell'immunità e pertanto predispongono il paziente all'insorgenza della sepsi. Tuttavia, le alterazioni
della risposta immune locale possono dar luogo ad infezione solo con il concorso di altri fattori, e
soprattutto dello stato immunitario generale del paziente. Quindi si può concludere che un deficit
dell'immunità locale è necessario, ma non sempre sufficiente, a determinare la sepsi.
Ruolo dei neutrofili. Esiste certamente una correlazione tra riduzione della funzione dei
polimorfonucleati e infezione batterica. Infatti, la completa eliminazione dei batteri nella sede
dell'ustione richiede una serie di risposte sequenziali da parte dei neutrofili. In particolare si è visto
che esiste una riduzione degli stimoli chemiotattici in seguito ad ustione e che tale riduzione è
direttamente proporzionale alla gravità della lesione. Non è chiaro da cosa dipenda questa
alterazione della chemiotassi, se sia cioè secondaria a:
1. fattori inibitori di tipo umorale;
2. tossine circolanti;
3. disattivazione cellulare ad opera di fattori circolanti del complemento.
Al contrario, non è stato possibile dimostrare un'alterazione evidente della capacità fagocitica dei
neutrofili dopo un'ustione. Alcune ricerche hanno evidenziato persino un aumento della fagocitosi
nel paziente ustionato e, parallelamente, una riduzione dell'attività battericida dei neutrofili
corrispondente ad un aumento del rischio di infezione.
Ruolo del sistema reticoloendoteliale (RES). Il RES è una componente essenziale del sistema di
difesa aspecifico. Esso infatti è in grado di eliminare detriti circolanti, quali proteine aggregate,
cellule danneggiate e fibrina, unitamente ai batteri presenti in circolo. D'altro canto un'efficiente
fagocitosi da parte del RES richiede la presenza di fattori bioumorali che opsonizzano le particelle
da eliminare al fine di promuovere il loro riconoscimento, l'attacco e l'ingestione da parte dei
macrofagi fissi del RES. Si è evidenziato come l'ottimale funzione del RES richiede la presenza di
concentrazioni ottimali di opsonine e fibronectina. I livelli di quest'ultima, in particolare, sono
notevolmente ridotti nelle grandi ustioni, inoltre essa si riduce ulteriormente durante gli episodi
settici. Si è altresì dimostrato, in pazienti con ustioni maggiori del 40%, che sia l'attività del RES
che i livelli sierici di fibronectina si riducevano immediatamente dopo l'ustione tendendo tuttavia a
ristabilirsi nel giro di pochi giorni. D'altro canto, se interveniva un evento settico si poteva osservare
una caduta verticale dei livelli di fibronectina, il che corrispondeva ad un elevato rischio di sepsi. La
fibronectina in effetti funziona come un'opsonina non solo nei confronti dei detriti non-batterici ma
anche nei confronti di alcuni ceppi batterici quale lo stafilococco aureus.
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Le conseguenze cliniche di una depressione dell'attività del RES coinvolgono secondariamente altri
organi, infatti a seguito di ipofunzionamento del RES la clearance dei detriti circolanti e dei batteri
viene deviata su altri organi, in modo particolare sui polmoni. Quindi un blocco del RES, in ultima
analisi, determina un deficit polmonare dovuto all'attivazione dei neutrofili sequestrati a questo
livello. Sulla base di questi rilievi appare chiaro che depressione del RES significa ridotta resistenza
alle infezioni e lesioni di organi a distanza. Sebbene questi rilievi siano incoraggianti, sono
necessari numerosi studi per determinare il preciso ruolo clinico di una terapia di rimpiazzo della
fibronectina nell'armamentario terapeutico dell'ustionologo.
Difese umorali. Nonostante vi siano numerosi fattori umorali, accanto alla fibronectina, importanti
nel controllo dell'infezione batterica, ci limiteremo, in questa sede, ad esaminare i due principali
sistemi di opsonizzazione presenti nei fluidi biologici, essi sono:
1. le immunoglobuline, termostabili;
2. le componenti del complemento, termolabili.
Nel sistema di difesa non immune la via alternativa di attivazione del complemento rappresenta il
principale sistema di opsonizzazione ed è attivato da endotossine, proteine del siero denaturate e
cellule danneggiate. Nella risposta immune con alti livelli di anticorpi specifici, il complemento
gioca comunque un ruolo di supporto come opsonina batterica. L'attività opsonizzante del siero è
stata studiata ampiamente nel paziente ustionato, il quale mostra una riduzione dell'attività
opsonizzante nei confronti di pseudomonas, escherichia coli e talora stafilococco aureus. Tuttavia
una riduzione dell'attività opsonizzante non sembra costituire un'affidabile indicatore di sepsi dal
momento che una riduzione di tale attività è stata osservata sia nel periodo settico che in quello non
settico. Questi fattori umorali comunque, oltre al ruolo sistemico come opsonine sono importanti
localmente. In particolare il C5a è il principale fattore chemiotattico per i neutrofili. Anche le
immunoglobuline, che si riducono transitoriamente dopo l'ustione per poi tornare alla norma
rapidamente, non possono essere considerate un indicatore fedele di aumentata sensibilità
all'infezione.
Sistema immune specifico. Partendo dall'osservazione che il paziente ustionato manifesta un ritardo
nel rigetto degli omoinnesti, sono stati effettuati numerosi studi al fine di valutarne l'immunità
cellulo-mediata. Non esiste consenso generale se l'immunità cellulo-mediata dopo l'ustione sia
normale, aumentata o diminuita. Analogamente vi sono controversie se le modificazioni della
risposta linfocitaria in vitro possa essere collegata, da un punto di vista prognostico, con la sepsi o
con la morte del paziente. Studi recentissimi hanno evidenziato un parametro di grande interesse ai
fini prognostici: la trasformazione blastogenica spontanea (SBT) dei linfociti. I risultati di questi
studi evidenziano come i livelli di SBT riflettono accuratamente lo stato clinico del paziente,
compreso il rischio di sepsi. Rimane tuttavia da puntualizzare come non sia noto ciò che realmente
avvenga a livello cellulare in seguito all'insulto termico.
Basi immunologiche della sepsi nelle ustioni (ipotesi teorica). Il primum movens dell'insorgenza
della sepsi potrebbe essere collegato alla saturazione del sistema di difesa aspecifico, sebbene una
disfunzione del sistema specifico sia anche importante, dal momento che uno dei ruoli principali del
sistema specifico sia quello di amplificare e focalizzare la capacità del sistema aspecifico di
controllare l'invasione batterica. La combinazione della ridotta attività chemiotattica dei neutrofili e
il deficit di opsonizzazione nel siero flittenulare, dà luogo ad una colonizzazione (contaminazione)
batterica dell'escara tale da invadere e propagarsi nei tessuti vitali perilesionali. Se i batteri vengono
regolarmente opsonizzati, fagocitati e distrutti dai fagociti tissutali in combinazione con i neutrofili
reclutati dal circolo, l'infezione viene controllata localmente.
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Se ciò non avviene, i batteri raggiungono una concentrazione tale da consentire loro di invadere il
torrente circolatorio. In questa fase interviene il RES con conseguente riduzione dei livelli
plasmatici di fibronectina; la saturazione del RES comporta, a sua volta, il coinvolgimento di altri
organi, particolarmente il polmone che rappresenta il primo stadio della insufficienza polmonare
acuta, cui fa seguito il "multiple organ system failure" (MOSF).
Opzioni terapeutiche. Da quanto detto, si evince chiaramente come l'insulto termico sia associato a
profonde modificazioni di numerose componenti dei sistemi di difesa locali e sistemici. Per quanto
la precisa importanza di ciascuna delle alterazioni immunitarie indotte dall'ustione non sia del tutto
chiarita, è ragionevole concludere che ciascuna componente contribuisce in qualche modo alla
"riserva immunologica globale" del paziente. Inoltre, dal momento che la sensibilità all'infezione
batterica non è soltanto correlata ad un determinato ceppo patogeno, ma piuttosto allo stato immune
del paziente, un approccio terapeutico corretto dovrebbe essere diretto non tanto all'eradicazione del
ceppo patogeno quanto al potenziamento dei meccanismi di difesa all'infezione. Negli ultimi
decenni in particolare sono state focalizzate le correlazioni tra malnutrizione-meccanismi di difesainfezione. Oggi sappiamo benissimo che la maggior parte delle turbe immunologiche che
intervengono dopo ustioni gravi sono assimilabili a quelle associate a malnutrizione caloricoproteica. Appare evidente quindi che un supporto nutrizionale adeguato, specie nel bambino e
nell'anziano, sia essenziale nel potenziamento dei meccanismi di difesa con conseguente
miglioramento delle condizioni generali e aumento della sopravvivenza. Pertanto la combinazione
di apporto nutrizionale, chirurgia precoce con escarectomia, unitamente alla immunostimolazione o
immunomodulazione rappresentano il più moderno e corretto approccio terapeutico per il paziente
gravemente ustionato. A dispetto dello sviluppo di "nuovi" antibiotici la sepsi rimane in una alta
percentuale dei casi la causa più frequente di morte, non solo del paziente gravemente ustionato, ma
anche di quelli con gravità media. Ciò non deve sorprendere, poiché, a lungo termine, è di scarsa
importanza stabilire quale microorganismo sia responsabile della sepsi, se le risposte di difesa
intrinseche del paziente non sono efficienti. È quindi chiaro che l'insulto termico si associa sempre
con multiple alterazioni delle componenti umorali e cellulari di entrambi i sistemi specifico ed
aspecifico. Tuttavia a tutt'oggi non si è raggiunto un consenso generale sul significato prognostico e
clinico delle alterazioni di ciascuno dei parametri che abbiamo in precedenza esaminato. Per
esempio in numerosi studi è stata valutata solo una delle molteplici variabili in gioco e, dal
momento che le alterazioni del sistema immune non si verificano isolatamente, è difficile stabilire
se una particolare anomalia costituisce un elemento di rilevanza clinica o è semplicemente
secondario ad un'altra anomalia non misurata. Pertanto è da ritenere che gli obiettivi futuri siano
quelli di chiarire quali deficit immunitari o meglio, quali costellazioni di deficit, sono dovuti allo
stress da trauma contro quegli altri che sono invece associati alla sepsi ed alla morte del paziente
ustionato. Ciò si può ottenere mediante studi in grado di misurare simultaneamente i molteplici
parametri dei sistemi di difesa. In conclusione, solo dopo aver pienamente compreso le complesse
interrelazioni tra le varie componenti umorali e cellulari di difesa, sarà possibile sviluppare specifici
immuno-modulatori che l'ustionologo potrà utilizzare per ridurre il rischio di sepsi e quindi di
morte, nel paziente ustionato.
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Anatomia della regione
Anatomia della cute
L'apparato tegumentario è costituito dalla cute e dagli annessi cutanei che in essa si distribuiscono
con diversa organizzazione e funzione. Gli annessi cutanei comprendono le unghie, i peli e
ghiandole di vario tipo (sebacee, sudoripare eccrine, sudoripare apocrine).
Le funzioni del tegumento comportano vantaggi non solo locali ma anche generali per tutto
l'organismo che dipendono, in massima parte, dalla natura della cute, organo di estesa superficie,
interposto tra ambiente esterno ed interno con funzioni primariamente difensive. I potenziali danni
esogeni di natura chimica i fisica (in particolare quelli meccanici, termici e luminosi) vengono in tal
modo limitati o annullati, così come molti degli insulti biologici dipendenti da microganismi di vari
natura (batteri, funghi, virus). L'apparato tegumentario svolge anche funzioni di assorbimento e di
escrezione (queste ultime principalmente attraverso la produzione di sudore).
A livello cutaneo, oltre alla sintesi di cheratine e di melanina, si svolge, sotto l'azione della luce
ultravioletta, la conversione di precursori inattivi in vitamina D. L'evaporazione del sudore, ma
soprattutto gli speciali meccanismi neurovascolari intracutanei, consentono una fine regolazione
degli scambi di calore con l'esterno; un valido aiuto in tale compito viene anche fornito dalle buone
proprietà di isolante termico caratteristica della cute. Sede di numerose terminazioni nervose della
sensibilità somatica, la cute forma il rivestimento esterno di tutto il corpo e costituisce il più esteso e
pesante organo di senso del corpo umano; nell'adulto essa presenta una superficie di circa 1,5-2 m2
e un peso totale di circa 15 Kg, con variazione legate al sesso e allo sviluppo somatico individuale.
Lo spessore della cute, apprezzabile alla palpazione, varia notevolmente, secondo le zone corporee
e in rapporto all'età e al sesso. E' minimo a livello del pene, della membrana timpanica, del meato
acutistico esterno e delle palpebre (0.5 mm) ; aumenta considerevolmente nel palmo delle mani,
nella pianta dei piedi, nella nuca e nel dorso (4 mm). Il colore della cute deriva da un complesso di
fenomeni fisici legati essenzialmente a tre fattori: il colorito del sangue nei vasi, la presenza nella
cute di sostanze colorate (pigmenti) e il colore proprio della cute stessa che è in grado di variare il
suo assorbimento specifico della cute. La cute è formata da tre strati diversi per localizzaione,
struttura, proprietà e derivazione embriologica. Lo strato più esterno di origine ectodermica
corrisponde all'epidermide, un epitelio pavimentoso stratificato che si rinnova mensilmente e si
differenzia. L'epidermide, in profondità presenta una complessa architettura (giunzione
dermoepidermica) e si pone in rapporto con il derma, uno strato connettivale. Ancor più
profondamente si trova l'ipoderma, anch'esso di natura connettivale, collegato al derma da travate
fibrose (retinacula). Nei diversi strati della cute si organizzano e si ditribuiscono gli annessi cutanei,
le terminazioni nervose e il dispositivo vascolare.
L'ipoderma o strato sottocutaneo è lo strato più profondo della cute ; esso continua un profondità il
derma, ponendolo in rapporto con le fasce muscolari, con il periostio o con il pericondrio. Il suo
spessore è vario, oscillando in media da 0,5 a 2 cm. In alcune sedi (naso, palpebra, padiglione
dell'orecchio) l'ipoderma è virtualmente assente, mentre in altre (regioni glutee, palmo della mano,
pianta del piede) il suo sviluppo è massimo. L'ipoderma mostra un' architettura più complessa per il
deposito, in esso, di adipe (pannicolo adiposo sottocutaneo). Il pannicolo adiposo, con delicati fasci
fibrosi (retinacula) che lo attraversano per disperdersi in profondità; più frequentemente, però, il
pannicolo si organizza in strati più ricchi di adipe. È possibile allora distinguere un primo strato
(strato superficiale) in cui i retinacula, disposti perpendicolarmente alla superficie cutanea,
circoscrivono lobi adiposi.
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Lo strato superficiale, in profondità, è spesso delimitato da una lamina di connettivo denso (fascia
superficiale). Al di sotto della fascia superficiale, i retinacula decorrono via via sempre più
obliquamente e infine quasi tangenzialmente alla superficie, dando luogo alla formazione di uno
strato profondo. Al di sotto dello strato profondo esiste generalmente una lamina connettivale lassa
che consente alla cute una mobilità varabile a seconda della sede. Il derma è una membrana
biancastra, distensibile ed elastica, di spessore variabile da 0,3 a 4 mm secondo le regioni; è
costituito da una sostanza amorfa in cui sono immerse, in varia misura, cellule e fibre connettivali.
Le cellule dermiche predominanti sono i fibroblasti; possono tuttavia reperirsi anche bastociti,
macrofagi, melanociti e leucociti di derivazione ematica. Nel derma, infine, si osservano fasci di
fibre muscolari sia lisce che striate (terminazioni di muscoli pellicciai), vasi sanguigni e linfatici e,
nella parte profonda, ghiandole sudoripare, ghiandole sebacee e formazioni pilifere. Il derma viene
distinto in due strati, uno profondo (strato reticolare) ed uno superficiale (strato papillare). Lo strato
reticolare, una lamina connettivale paragonabile alla tonaca propria delle mucose, è costituito da
fasci collagene ed elastici. La direzione dei fasci varia nelle diverse regioni corporee, costituendo il
substrato strutturale del cosiddette linee di Langer. Lo strato reticolare è attraversato da annessi
cutanei (peli e ghiandole) che si spingono in profondità. Lo strato papillare è formato dalle
sporgenze coniche delle papille dermiche. Le papille dermiche si ingranano con zaffi epiteliali che
derivano dalla sovrastante epidermide a costituire, con esse, la giunzione dermoepidermica.
Mediante tale giunzione dermoepidermica il derma aderisce saldamente alla sovrastante epidermide
con l'interposizione di una membrana basale. La membrana basale è costituita da una lamina basale
dello spessore di 50 nm, rinforzata profondamente da un delicato reticolo di fibre collagene con
funzioni di ancoraggio, lamina reticolare. La forza stabilizzante più importante della giunzione
dermoepidermica sembra dipendere dall'esistenza di un vero e proprio cemento viscoso tra derma
ed epidermide. L'epidermide è un epitelio pavimentoso stratificato il cui spessore varia da 50 nm a
1,5 mm.
La stratificazione dell'epidermide riflette i vari stadi maturativi che le cellule della sua linea
principale (cheratinociti) attraversano, passando dallo strato basale a quello corneo nel corso della
loro graduale conversione in lamelle cheratinizzate (citomorfosi cornea). Frammiste ai cheronociti
si osservano, nell'epidermide, altre linee cellulari, la più importante delle quali è costituita dai
melanociti, elementi responsabili della sintesi del principale pigmento cutaneo (melanina). Infine, le
cellule di Langerhans e le cellule di Merkel sono elementi specializzati per funzioni,
rispettivamente, immunologiche e sensoriali. I cheratinociti subiscono un'ordinata e progressiva
sequenza di trasformazioni da elementi a intensa attività mitotica e metabolica a lamine inerti
cheratinizzati.
A livelli più profondi (strati basale e spinoso), i cheratinociti sono prodotti per proliferazione
cellulare; nello strato spinoso, peraltro, essi iniziano già quel processo fisiologico di citomorfosi
che, con la progressiva ascesa verso la superficie cutanea, li porta a morte (strato granuloso) e
successivamente (strato lucido e corneo) alla definitiva trasformazione in lamelle di cheratina, una
scleroproteina fibrosa estremamente resistente. L'epidermide consta di cinque strati: lo strato basale
(germinativo), lo strato spinoso, lo strato granuloso, lo strato lucido e quello corneo. Lo strato
basale e quello spinoso formano nell'insieme lo strato germinativo di Malpighi, così detto per
l'intensa attività proliferativi delle cellule, destinata a compensare la continua perdita elementi
cellulari che ha luogo per la desquamazione dello strato superficiale.
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â–ºAnatomia patologica
Le modificazioni istologiche consistono nella denaturazione delle proteine e nella necrosi
coagulativa dei vasi e conseguente necrosi cellulare. Più in particolare, sia nelle ustioni a spessore
parziale che in quelle a tutto spessore possono essere evidenziate, secondo la teoria di Jackson, tre
aree concentriche:
1. una zona centrale di coagulazione, nella quale si evidenzia una necrosi coagulativa totale;
2. una zona intermedia di stasi, caratterizzata da danno cellulare e necrosi coagulativa
reversibile;
3. una zona periferica di iperemia, che va incontro a guarigione spontanea.
Quando la zona di stasi e di necrosi penetrano oltre il piano degli elementi epiteliali più profondi si
ha un'ustione a tutto spessore dove la guarigione per riepitelizzazione spontanea dal fondo non è più
possibile. Le ustioni che interessano vaste superfici corporee si caratterizzano inoltre per grave
sintomatologia clinica e per un complesso di alterazioni organiche che vanno sotto il nome di
"malattia da ustione".
Nell'ustione epidermica (1° grado) il quadro è dominato dalla vasodilatazione dei capillari del
plesso sub-papillare del derma, la fuoriuscita di essudato è modesta e così pure le alterazioni
cellulari. (Vedi fig. 1) (Vedi fig. 2)
Nelle ustioni dermiche superficiali e profonde (2° grado) si osserva una completa distruzione
dell'epidermide (picnosi, carioressi e cariolisi dei nuclei, vacuolizzazione del citoplasma,
interruzione dello strato basale). Vi è una separazione tra derma ed epidermide con formazione di
bolle, il derma appare necrotico a livelli variabili a seconda della profondità dell'ustione. Il tessuto
connettivo dermico è compatto e le fibre collagene sono rinfrangenti e perdono la loro eosinofilia.
Gli annessi, nella porzione interessata dall'ustione, presentano cellule epiteliali fluttuanti all'interno
dei lumi; alcuni capillari appaiono trombizzati, mentre altri sono dilatati abnormemente. (Vedi fig.
3) (Vedi fig. 4) (Vedi fig. 5) (Vedi fig. 6)
Nelle zone di ustione a tutto spessore (3° grado) si apprezza una coagulazione dell'epidermide e di
tutto il derma con interessamento dello strato sottocutaneo.Vi è compattezza tra derma ed
epidermide. Anche le cellule epiteliali degli annessi presentano aspetti necrotici con distruzione
nucleare e scompaginamento citoplasmatico; la trombosi vasale interessa il plesso dermico e
talvolta anche quello sottodermico. (Vedi fig. 7) (Vedi fig. 8)
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Fig. 1: Ustione 1° grado: la lesione è solo epidermica, superficiale (iperemia), molto dolorosa (le
terminazioni nervose sono intatte), la guarigione avviene in 5-10 gg., la sintomatologia dolorosa
cessa entro 3gg, non da esito a cicatrice
Fig. 2: Ustione 1° grado: evidenti le aree iperemiche e l'assenza di soluzioni di continuo della cute
(bolle o flittene)
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Fig. 3: Ustione 2° grado superficiale: : lesioni a spessore parziale, coinvolgono epidermide e derma
papillare, si presentano umide e/o con flittene, il dolore è presente, la guarigione avviene in 10-14
gg. se non intervengono fattori negativi quali l'infezione
Fig. 4: Ustione 2° grado profondo: : lesioni a spessore parziale, coinvolge epidermide e derma
profondo; si presentano bianche ed asciutte, sbiancano alla pressione, il dolore è ridotto; la
guarigione avviene in 10-14 gg., possono approfondirsi verso il 3° grado a seguito di infezione,
edema ed ischemia marcati; il trattamento varia in rapporto alla profondità; l'innesto cutaneo è
indicato nelle più profonde.
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Fig. 5: Ustione di 2° grado superficiale e profondo dell'emitorace e del braccio
Fig. 6: Il particolare del caso precedente mostra con chiarezza l'inizio della flittena, rotta, le aree di
2° grado, che appaiono più rosee, e le aree di 2° grado profondo con piccole zone di 3° grado,
centralmente, che appaiono più scure.
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Fig. 7: Ustione 3° grado: lesioni a spessore totale, rappresentano le ustioni più severe: presentano
necrosi ed aree avascolari, la superficie con escara appare dura, cerea, color cuoio, parzialmente
insensibile; gli innesti cutanei sono richiesti per la riparazione, spesso esita danno permanente
Fig. 8: Ustione di 3° grado: sono evidenti le aree più superficiali periferiche che si approfondano
nella zona centrale di ogni coscia con coagulazione completa della cute (escara)
Clinica
Classificazione
La gravità delle ustioni è determinata dalla profondità e dall'estensione della superficie coinvolta,
dall'età e dalle condizioni generali del paziente. I criteri clinici più comunemente utilizzati dividono
le ustioni in:
1. Ustioni superficiali, comprendenti il 1° grado (ustioni epidermiche: eritema solare) ed il 2°
grado superficiale (ustioni dermo-epidermiche: flittena).
2. Ustioni profonde, comprendenti il 2° grado profondo (ustioni dermiche) ed il 3° grado
(ustioni a tutto spessore). Sono state descritte ustioni di 4° grado allorché vengono
interessati anche i muscoli, i tendini, le ossa, i nervi ed i vasi profondi. Pure se nella
terminologia corrente le ustioni di questo tipo vanno comprese tra quelle di 3° grado,
tuttavia è opportuno accertare la compromissione più profonda e la sua estensione ai fini
funzionali e prognostici.
Le ustioni che interessano vaste superfici corporee si caratterizzano inoltre per grave sintomatologia
clinica e per un complesso di alterazioni organiche che vanno sotto il nome di "malattia da ustione".
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Sintomatologia locale
Nelle ustioni a spessore parziale superficiali, localizzate all'epidermide, è tipico l'eritema con
iperemia e una sintomatologia caratterizzata da iperestesia talora intensa. La guarigione è spontanea
e non lascia esiti. Nelle ustioni a spessore parziale profonde viene interessata l'epidermide ed il
derma a profondità variabile. Tipico è l'edema imponente e la presenza, sulla superficie cutanea, di
flittene con fondo rosso vivo nelle ustioni più superficiali o pallido e bianco nelle forme più
profonde. In simili casi, particolarmente intensa è l'essudazione plasmatica che, entro la prima
giornata, coagula formando una crosta. La sintomatologia è caratterizzata da dolore urente. Poiché
gli annessi cutanei sono, in buona parte, risparmiati, è possibile attendere la riepitelizzazione
spontanea anche nelle ustioni estese. Si comprende come particolare importanza assume il
trattamento topico al fine di evitare complicazioni infettive e, quindi, guarigioni ritardate. Nelle
ustioni di 3° grado la cute è distrutta in tutto il suo spessore e si presenta, già sin dalle prime ore,
rigida e pallida per necrosi coagulativa o marrone scuro se carbonizzata (escara). La necrosi può
estendersi al piano sottocutaneo, e talora, interessare anche il piano fasciale, muscolare e
osteoperiosteo. Questo tipo di lesioni sono state definite come ustioni di 4° grado. Pure se nella
terminologia corrente esse vanno comprese fra le ustioni di 3° grado, tuttavia è necessario accertare
la compromissione più profonda e la sua estensione ai fini funzionali e prognostici. A distanza di 48
ore dall'evento termico, si evidenzia la demarcazione, in superficie, del tessuto necrotico, cui segue,
di norma, la colliquazione entro tre settimane, la suppurazione ed il distacco dell'escara, sotto la
quale si va formando il tessuto di granulazione. Nelle ustioni circonferenziali degli arti, delle mani,
del torace e del collo, l'escara, inestensibile e costrittiva può determinare fenomeni di compressione
sul circolo e sulle strutture più profonde, ciò comporta la necessità di incisioni longitudinali
liberatrici (escarotomia). Le ustioni di 3° grado estese non guariscono spontaneamente.
Norme di pronto soccorso
Il tegumento, come abbiamo visto, viene variamente compromesso dall'ustione, pertanto, per
estensioni della superficie cutanea ustionata (SCU) del 10% nei bambini e del 15% negli adulti,
s'impone il ricovero, mentre per superfici ancora più estese, è necessario il trasferimento presso un
centro specializzato.
All'atto del pronto soccorso, che solitamente avviene negli ospedali più periferici, devono essere
approntate tutte quelle misure assistenziali e di rianimazione allo scopo di attuare una terapia che
contrasti precocemente tutte le turbe cardiocircolatorie ed emodinamiche tipiche dello shock.
Questa condotta, come afferma Wallace, costituisce la premessa indispensabile dalla regolare
evoluzione, sia immediata che a distanza, della malattia. Le norme di Pronto Soccorso si articolano
nei seguenti punti essenziali:
1. Garanzia delle funzioni vitali. L'esame clinico deve accertare la pervietà delle prime vie
respiratorie nei casi di inalazione forzata di vapori e delle condizioni emodinamiche e
provvedere se è il caso con carattere prioritario. Analogamente nelle ustioni del viso,
particolare attenzione sarà rivolta ad accertare eventuali lesioni corneali ed alla
concomitante presenza di politrauma. Lo studio clinico del paziente si completerà di altri
elementi anamnestici fondamentali e semeiologici (natura agente ustionante, età, sesso,
integrità dei vari organi ed apparati).
2. Rimozione degli indumenti ai fini della valutazione dell'estensione e della scelta del
trattamento locale dell'area ustionata.
3. Valutazione dell'estensione della superficie corporea ustionata che può essere ottenuta
utilizzando la "Regola del Nove" di Pulaski e Tennison, nella quale la superficie del corpo
viene suddivisa in settori fissi pari a nove o multipli di esso (Vedi fig. 9) .
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4. Questo schema indicativo deve essere modificato nei bambini, nei quali la testa, più
voluminosa, è bilanciata dagli arti inferiori più piccoli rispetto agli adulti (Vedi fig. 10) .
Esistono tuttavia schemi più dettagliati e descrittivi in grado di fornire una quantificazione
più precisa (Lund-Brower).
5. Reperimento di una grossa vena periferica (succlavia, femorale, giugulare interna) e
introduzione di catetere flessibile per la terapia infusionale continua.
6. Introduzione catetere vescicale per la registrazione del ritmo della diuresi.
7. Escarotomie longitudinali multiple nelle ustioni circonferenziali e costrittive degli arti, del
collo, del torace.
8. Sedazione del dolore.
9. Profilassi antitetanica.
Terapia infusionale
Lo scopo principale terapia sostitutiva, nella fase acuta dell'ustione, è il ripristino dell'omeostasi
circolatoria e la correzione in senso qualitativo e quantitativo degli squilibri concomitanti. Ottenuto
il valore della SCU, si calcola la quantità di liquidi da trasfondere mediante una delle tante formule
disponibili, ricordando che esse si basano soltanto sulla superficie delle ustioni di 2° e 3° grado. Le
quantità così calcolate daranno una utile indicazione sulle necessità idriche del paziente e dovranno
essere in grado di assicurare una diuresi oraria di 30-50 ml negli adulti e di 1 ml/kg/ora nei bambini.
La prima di queste formule fu descritta da Cope e Moore nel 1947: essa forniva il volume di liquidi
da somministrare ad un adulto medio nelle prime 24 ore dall'ustione con la seguente formula:
75 ml di soluzione isotonica salina + 75 ml di colloidi per ogni % di SCU
Ciò derivava dall'osservazione che il liquido della flittena conteneva una concentrazione di Na+ pari
a quella plasmatica ed una concentrazione proteica dimezzata rispetto al plasma. Nel 1952 Evans,
sulla base delle osservazioni effettuate nell'animale ustionato propose la sua formula:
(1 ml di plasma + 1 ml di soluzione fisiologica salina )/ % SCU /Kg. p.c.
Entrambi i metodi consigliavano di infondere la maggior parte dei liquidi calcolati entro le prime
12-18 ore. Inoltre le due formule prevedevano l'aggiunta di 2000 ml di destrosio 5% al giorno allo
scopo di compensare le perdite metaboliche, la perspiratio insensibilis, l'escrezione urinaria. Il
fabbisogno idrico delle seconde 24 ore viene calcolato, con entrambe le formule dimezzando il
fabbisogno del primo giorno. La formula di Evans è attendibile e di facile calcolo ed ha trovato
largo uso nella pratica clinica; il ringer lattato ha sostituito la soluzione fisiologica salina allo scopo
di ridurre il carico di cloruri e l'acidosi metabolica. La formula di Brooke (1960) è basata su una
modifica dei liquidi utilizzati nella fase rianimatoria e calcolati con la formula di Evans, essa infatti
prevede:
1,5 ml di ringer lattato + 0,5 ml di colloidi per il peso in kg per % di SCU.
A questo venivano aggiunti 2000 ml di soluzione di destrosio al 5%. Le quantità del secondo giorno
erano pari al 50% del primo rispetto al Ringer e colloidi + 2000 ml di soluzione di destrosio al 5%.
Successivamente Baxter e Shires (1968) osservarono che i colloidi vengono meglio trattenuti nel
distretto vascolare nelle seconde 24 ore, quando si è quasi del tutto ricostituita l'integrità capillare e
le grosse molecole non possono "sfuggire" negli spazi extravascolari. Pertanto essi proposero di
iniziare la rianimazione con ringer lattato (4 ml x kg peso corporeo x % SCU) con lo scopo di
ricostituire di fatto il volume plasmatico.
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Nelle seconde 24 ore si somministra una soluzione di destrosio 5% e colloidi. La quantità di questi
ultimi è pari a 0,3 ml x kg peso corporeo x % SCU. A causa della grande quantità di Na+
somministrata durante la fase rianimatoria, tale elettrolita non viene più infuso nelle 24 ore
successive a meno di specifiche indicazioni. Nel 1973 Monafo ed altri descrissero l'impiego di
soluzioni sodiche ipertoniche (250 mEq/l di sodio, 150 mEq/l di cloruri e 100 mEq/l di lattato) da
infondere inizialmente alla velocità di 200 ml/ora in un adulto medio. La velocità di infusione viene
quindi adattata in modo da assicurare una diuresi oraria di 30-40 ml. Dopo le prime 24 ore si
somministra una soluzione di destrano 5%. L'autore sostiene che questa formula consente una
notevole riduzione del volume dei liquidi da infondere rispetto alle formule precedenti; purtroppo è
frequente la complicanza dell'ipernatremia. Tutti questi metodi vanno benissimo a patto che
vengano impiegati dal medico in modo tale da ottenere un'escrezione urinaria di 30-50 ml/ora. Una
escrezione inferiore a 30 ml/ora indica una insufficienza renale, mentre escrezione urinaria
superiore a 50 ml/ora indica che il paziente sta ricevendo una quantità eccessiva di liquidi con
rischio di edema polmonare. Possiamo allora affermare la inopportunità di osservare regole fisse,
ma di garantire, caso per caso, il reintegro di quei valori alterati dallo squasso termico,
opportunamente orientati dal controllo periodico dei vari parametri bioumorali e clinici.
Attualmente le formule di maggior uso presso i centri specializzati sono quella di Evans per i
bambini e la formula di Parkland per gli adulti; quest'utima prevede:
ringer lattato 4 ml x kg peso corporeo x % SCU
Nelle successive 24 ore si infonde una soluzione di destrosio 5% in quantità pari a metà della quota
di liquidi infusi nelle prime 24 ore. I colloidi rappresentati da plasma e albumina, se necessari, si
somministrano in quantità pari a 0,3-0,5 cc/kg/% SCU in rapporto alla risposta del paziente, a
partire dalla 12a-18a ora post-ustione. Tra i farmaci che possono essere somministrati a
completamento della terapia ricordiamo: cardiocinetici, eparina calcica od a basso peso molecolare,
antiulcera (anti-H2) ed antiacidi, antidolorifici, vitamine.Il controllo delle costanti bioumorali, già
citate, deve essere praticato almeno due volte al giorno, specialmente nelle prime 72 ore dall'evento
termico. Questi dati potranno orientare sull'opportunità di confermare il programma infusionale
predeterminato o di modificarlo in rapporto al ritmo della diuresi, alla pressione arteriosa e venosa
centrale e anche al ripristino dei valori dell'ematocrito.
Terapia nutrizionale
Il trauma termico comporta, unitamente ad un grave squilibrio idroelettrolitico anche un aumento
del metabolismo in rapporto diretto all'estensione della superficie totale ustionata, sino ad un
massimo di 50-60% SCU. Traumi associati a sepsi contribuiscono ad ulteriore aumento del
dispendio energetico del paziente ustionato.Un apporto nutrizionale adeguato dell'ustionato
comporta la somministrazione di nutrienti, vitamine e minerali in quantità in eccesso rispetto alle
quote normalmente richieste da individui sani. Nell'ustionato grave è necessario per mantenere in
equilibrio il bilancio azotato (N introdotto-N escreto) somministrare circa 20-25 g di azoto/die nei
primi 10-15 giorni, 13-16 g/die di azoto sino al 40° giorno e 3-7/die di azoto durante la
convalescenza. È a tutti noto come dopo l'ustione inizi la fase catabolica che se non adeguatamente
corretta conduce a progressiva perdita di peso per depauperamento delle riserve energetiche
dell'organismo, distruzione delle proteine muscolari (autocannibalismo), utilizzate per i processi di
gluconeogenesi epatica, aumento dell'escrezione urinaria di azoto (fino a 300%), diminuita sintesi
proteica, alterazioni dei sistemi immunitari cellulo-umorali, rallentamento dei processi riparativi
tissutali, sino a quadri di vera e propria malnutrizione calorico-proteica. Nei pazienti adulti con
SCU > 30%, nei bambini e negli anziani con SCU > 15-20%, appare pertanto necessario instaurare,
il più precocemente possibile, una adeguata ed efficace terapia nutrizionale nell'intento di limitare le
perdite e realizzare una positivizzazione del bilancio azotato.
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Le formule più note per il calcolo delle richieste calorico-proteiche vanno da quella generica di
Harris-Benedict (basal energy expanditure BEE) alle formule specifiche di Muir e Barclay (1974),
Wilmore (1974), Curreri (1978), Hildreth e Carvajal (1982), Bell (1982), Wachtel (1987). Per il
calcolo indicativo del fabbisogno idrico, dopo la fase rianimatoria utilizziamo la seguente formula:
(25 + % SCU) x total body area/die anche se il bilancio idrico e la diuresi oraria saranno una guida
più precisa e sicura. La scelta della via di somministrazione prevede dopo 24/36 ore l'inizio di un
supporto parenterale (per via periferica o centrale) associato all'apporto enterale, sino al
raggiungimento delle quote calorico-proteiche previste. Potranno pertanto verificarsi le seguenti
possibilità:
nutrizione parenterale totale (NPT): se il paziente è impossibilitato a nutrirsi per via enterale
o se ha necessità maggiori rispetto a quelle ottenibili solo con la nutrizione enterale si può
mantenere un bilancio azotato equilibrato con la somministrazione parenterale di soluzioni
miste di glucosio ipertonico, aminoacidi ed emulsioni di grassi al 10-20%. Tale soluzione
essendo ipertonica deve essere somministrata attraverso una vena centrale (v. giugulare
interna, v. succlavia); sfortunatamente, l'uso di una vena centrale comporta, in un paziente
come l'ustionato un elevato rischio di complicanze settiche. Le complicanze legate al
catetere non sono rappresentate solo dalla contaminazione con batteri e miceti ma anche da
endocardite, pneumotorace, emotorace, lesioni del plesso brachiale, lesioni arteriose,
trombosi venosa (talora settica) e da fenomeni embolici. È bene pertanto osservare una
scrupolosa asepsi della zona di venopuntura, utilizzare filtri millipore, cambiare il catetere
ogni 5-6 giorni, monitorare quotidianamente i parametri ematochimici compresa l'osmolarità
ed osservare tempi di induzione e sospensione graduale. Le complicanze metaboliche legate
alla nutrizione parenterale sono: iperglicemia e glicosuria con conseguente diuresi osmotica,
che in casi gravi può determinare disidratazione iperosmotica non chetonica e coma;
iperammoniemia e iperazotemia legate ad alterato metabolismo degli aminoacidi,
ipofosfatemia per inadeguato apporto durante NPT; in ultimo, è bene ricordare che possono
insorgere, dopo lunghi periodi di NPT, alterazione degli enzimi epatici, ittero colestatico e
steatosi epatica;
nutrizione parenterale + nutrizione enterale (NP + NE): si inizia la terapia nutrizionale con
apporti per via venosa che verranno mantenuti fino al raggiungimento della quota enterale
prevista. Tale metodica è adottata anche nelle fasi di digiuno pre- e post-operatorio
immediato;
nutrizione enterale (NE): la somministrazione di alimenti per via enterale è la più
conveniente e la più efficiente oltre ad essere anche la più fisiologica. Tuttavia la mancanza
di motilità intestinale potrà rendere necessaria la somministrazione di sostanze nutritive e
caloriche per via parenterale. Infatti l'ileo paralitico che si può manifestare immediatamente
dopo un'ustione renderà impossibile un'alimentazione enterale; la stessa cosa avviene
quando per episodi settici si ha un arresto della motilità intestinale o durante i digiuni legati
a pratiche anestesiologiche. Per attuare l'alimentazione enterale, nel paziente ustionato si
utilizzano sondini naso-gastrici o naso-duodenali, di calibro ridotto (8-12 Fr),
autolubrificanti e nutripompe; miscele semielementari già pronte in grado di fornire rapporti
variabili ml/Kcal da 1:1, 1:1.5 a 1:2; a cui si possono aggiungere ulteriori quote glicidiche,
lipidiche e proteiche mediante l'uso di integratori specifici. Le complicanze della NE sono la
disidratazione con elevata osmolarità plasmatica, la distensione gastrica, la diarrea, i crampi,
la tensione addominale, il dislocamento del sondino ed il passaggio del cibo nelle vie aeree.
Si possono evitare queste complicanze sia somministrando cibo con sondino soltanto
quando l'aspirazione gastrica rivela una quantità bassa di residuo, sia con un eccellente
monitoraggio del bilancio idrico, sia mediante attento controllo del paziente.
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Supplementazioni alle comuni diete ospedaliere di cucina si possono ottenere con bevande
ipercaloriche già pronte e con gusti variabili o con i suddetti integratori; è ovvio come la
palatabilità di questi supplementi condizioni notevolmente tale scelta. È comunque sempre
importante, nell'alimentazione enterale, sia essa attuata mediante l'uso di sondino nasogastrico che non, valutare l'atteggiamento psicologico del paziente nei confronti del cibo,
permettendogli di effettuare pasti regolari in rapporto al senso dell'appetito ed a quello di
ripienezza.
Il monitoraggio antropometrico è costituito dal peso corporeo, dal peso ideale e dall'altezza. Il
monitoraggio biologico prevede il controllo periodico delle costanti ematiche ed urinarie più
comuni, oltre al magnesio, colesterolo, trigliceridi, TIBC (total iron binding capacity), sideremia,
prealbumina, urea urinaria. A questo proposito si ritiene la prealbumina l'indice nutrizionale
migliore quale parametro di monitoraggio per determinare l'adeguatezza dell'apporto nutrizionale.
Essa infatti è poco influenzata dalle variazioni di idratazione tissutale e mostra una rapida risposta
possedendo una emivita di soli due giorni. Il monitoraggio immunologico si basa sulla valutazione
degli skin test (quando possibili) e sullo studio delle sottopopolazioni linfocitarie con anticorpi
monoclonali.
Trattamento locale
La terapia topica delle ustioni superficiali viene attuata allo scopo di creare un ambiente ottimale
alla rigenerazione del mantello epiteliale; al contrario, nelle ustioni più profonde deve in prima
istanza favorire la detersione dei tessuti devitalizzati, svolgere un ruolo di protezione dalla
contaminazione batterica che nei tessuti necrotici trova, com'è noto, un ottimo pabulum per il suo
sviluppo. Ma anche questo è un problema complesso, in quanto le cicliche colonizzazioni batteriche
sulla superficie ustionata necessitano di un trattamento topico tempestivo ed efficace.
Il trattamento locale dell'ustionato prevede tre fasi sequenziali:
1. prime cure,
2. eliminazione dell'escara e preparazione dell'area ustionata,
3. ricostituzione della superficie epiteliale.
Appartengono alle prime cure tutte quelle manovre atte ad evidenziare e preparare alle fasi
successive le zone colpite da un evento ustionante. Pertanto si provvederà, dopo aver rimosso vestiti
e frammenti estranei, ad un'accurata detersione con acqua e sapone chirurgico in apposite vasche e
tricotomia. Tutto ciò dovrebbe essere eseguito nel più breve tempo possibile e successivamente il
paziente sarà ricoperto con lenzuola calde e sterili onde evitare la perdita del calore corporeo.
Eccetto che nelle ustioni chimiche, il cui lavaggio sarà abbondante con acqua o con soluzioni
specifiche atte a contrastare l'azione dell'agente lesivo, la rianimazione ha sempre la precedenza
rispetto al primo trattamento delle aree ustionate. Al fine di limitare l'eccessiva proliferazione
batterica, sull'ustione si applicano chemioterapici topici onde prevenire la sepsi sistemica ed
impedire la distruzione dei tessuti vitali da parte dell'infezione. Le preparazioni attualmente di uso
più comune sono: la crema di sulfadiazina d'argento, la pomata di polivinil-pirrolidoneiodio e gli
impacchi di nitrato d'argento. La prima di questa è una sospensione all'1% di argento sulfadiazina in
una crema base idrofila è batteriostatica, diffonde poco nell'escara e risulta particolarmente efficace
su Pseudomonas aeruginosa, Stafilococco, Escherichia coli, Enterobacter cloacae; non controlla
invece l'invasione fungina dell'ustione. La pomata di polivinil-pirrolidone-iodio contiene iodio al
10%, è battericida, diffonde poco nell'escara e risulta particolarmente efficace su Pseudomonas,
Corynebacterium, Klebsiella, Serratia, Stafilocco, Streptococco; è inoltre funghicida e sporicida.
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L'argento nitrato, veniva impiegato in passato, oggi il suo uso è raro; utilizzato in impacchi in
soluzione allo 0,5% è battericida; è molto efficace contro i germi gram-positivi e contro i funghi.
Non penetra l'escara e ciò ne limita il suo uso oltre alla sua tossicità per i tessuti vitali. Le
medicazioni con creme, in genere si effettuano ogni 1-2 giorni, previa detersione delle piaghe con
soluzioni antisettiche blande. In qualche caso e se necessario (trattamenti esposti) la crema può
essere applicata ogni 12 ore al fine di mantenere le lesioni sempre coperte. La terapia locale può
avvalersi, presso i Centri Ustione, del metodo esposto che favorisce l'essiccamento, la protezione e
la riepitelizzazione delle zone ustionate; anche se tale metodica non è condivisa da tutti. Altra
alternativa ai due metodi su esposti, è l'uso di sostituti cutanei da utilizzare come
medicazionibiologiche; a tal fine sono disponibili: omoinnesti ed eteroinnesti; i primi vengono
adoperati come sostituti temporanei della cute autologa nel trattamento di ustioni di 3° grado
interessanti più del 60% della superficie corporea. Vengono solitamente applicati dopo
escarectomia, in mancanza di autoinnesti, al fine di ridurre la termodispersione, la perdita di acqua,
elettroliti e metaboliti; ridurre la contaminazione batterica e la sintomatologia dolorosa; rispetto agli
eteroinnesti sono da preferire in quanto essi vengono invasi da gettoni vascolari, consentendo in tal
modo, un attecchimento temporaneo. Gli eteroinnesti vengono conservati mediante liofilizzazione,
che ne riduce il potere antigenico e ne permette l'uso come copertura delle piaghe. Esistono inoltre
in commercio materiali sintetci, biosintetici e naturali che possono essere utilizzati come copertura
temporanea delle ustioni in attesa della riepitelizzazione spontanea o della copertura definitiva con
autoinnesti.
Fig. 9: Regola del nove per il calcolo dell'area corporea ustionata: stabilisce una rapida
quantificazione delle regioni corporee interessate dall'ustione rapportandole a "9" o a suoi multipli
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Fig. 10: Nei bambini la "Regola del nove" sottostima l'area cutanea relativa alla testa e sovrastima
quella relativa agli arti.
Principi di terapia chirurgica
Principi generali
Già in fase di primo soccorso alcuni gesti chirurgici possono essere determinanti per garantire le
funzioni vitali e la sopravvivenza del paziente ustionato. Tra essi vanno ricordati l'incannulamento
di una vena preferibilmente centrale (v. giugulare interna, v. femorale, v. succlavia), l'escarotomia
nelle ustioni circonferenziali a tutto spessore del collo, del torace e degli arti, l'intubazione orotracheale o la tracheotomia; ma è nel trattamento specialistico del paziente ustionato in fase acuta
che la terapia chirurgica assume la massima importanza. Infatti, solamente le ustioni superficiali
non infette guariscono per riepitelizzazione spontanea dai margini e dai residui degli annessi
cutanei, mentre le lesioni profonde necessitano sempre del trattamento riparatore mediante
l'apposizione di innesti di cute. La guarigione spontanea di queste lesioni avverrebbe infatti in un
lungo periodo di tempo ed esiterebbe in una cicatrice patologica. L'approccio chirurgico
tradizionale consisteva nell'attendere il distacco spontaneo dell'escara e nell'apporre gli innesti di
cute sul tessuto di granulazione. La considerazione che la sintomatologia tossica in questi pazienti a
strettamente correlata al permanere dell'escara aveva indotto Jackson a proporre già dal 1960, la
rimozione precoce (2a"5a giornata) dei tessuti necrotici e la immediata riparazione con autoinnesti
di cute. Ma questi primi tentativi non migliorarono in maniera evidente la prognosi, per la
obbiettiva difficoltà di sottoporre ad intervento chirurgico pazienti non equilibrati dal punto di vista
metabolico ed emodinamico, per cui molti chirurghi negli anni successivi, hanno preferito attenersi
ad un criterio di attesa, praticando l'intervento non prima di 15-21 giorni, pur consapevoli che la
presenza del tessuto necrotico facilita l'infezione e l'inquinamento delle zone adiacenti con
conseguente approfondimento dell'ustione. Ma nel corso degli ultimi 20 anni, le più vaste
conoscenze della fisiopatologia dell'ustione, le migliori tecniche anestesiologiche ed i progressi
della tecnica chirurgica (Tab. I) hanno consentito di praticare l'intervento in fase più precoce
garantendo una riduzione delle complicanze e della mortalità soprattutto in età infantile (Burke,
1974).
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TAB.I - Fattori di progresso.
Terapia rianimatoria adeguata nelle prime 48 ore
Terapia topica mirata
Nutrizione enterale e parenterale
Adeguate tecniche anestesiologiche
Escissione tangenziale precoce
Utilizzo di omoinnesti da banca
Innesti a rete (mesh-graft)
Copertura temporanea (biologica e sintetica)
Colture di cheratinociti
Nonostante questi progressi, l'atto chirurgico nel paziente ustionato non è mai scevro da rischi, che
sono in relazione all'estensione della superficie ustionata, all'età ed alle condizioni generali del paziente e all'eventuale presenza di malattie concomitanti (Tab. II).
TAB.II - Fattori di rischio.
Malattie concomitanti
Alterazioni dell'equilibrio idroelettrolitico
Bilancio azotato fortemente negativo
Estensione della superficie ustionata
Problemi anestesiologici (difficoltà di intubazione, anestesie ripetute)
Per questi motivi, l'indicazione all'intervento chirurgico necessita di una attenta valutazione delle
condizioni generali del paziente per escludere le controindicazioni assolute all'intervento (Tab. III).
TAB.III - Controindicazioni all'intervento.
Gravi lesioni tracheo-bronchiali da inalazione
Alterazioni gravi dell'emogasanalisi
Squilibrio idro-elettrolitico grave
Anemia grave
Sepsi grave
Ulcera di Curling
Gravi patologie cardiache, polmonari, renali ed epatiche
Il trattamento chirurgico può essere classificato, a seconda del momento dell'esecuzione
dell'intervento, in precoce, eseguito entro i primi 7 giorni dall'ustione e tardivo, se praticato dal 15°
al 21° giorno (Tab. IV). Nel primo caso, la rimozione dell'area ustionata può essere eseguita,
mediante escissione tangenziale fino al tessuto sano o mediante escarectomia, mentre nel caso di
intervento condotto in fase tardiva, oltre all'escissione dell'escara residua, occorrerà asportare il
tessuto di granulazione esuberante. In ogni caso la copertura dovrà essere immediata con
autoinnesti, omoinnesti o medicazioni con funzione di sostituto cutaneo.
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TAB.IV - Tecniche di escissione
precoce: (entro 7 giorni) Escissione/Escarectomia tangenziale
tardivo: (dal 15° al 21° giorno) Escarectomia/Toilette del tessuto di granulazione
L'escissione tangenziale precoce fino al tessuto sano va eseguita con il dermotomo o con il
dermabrasore ed ha il vantaggio di allontanare il tessuto ustionato, fonte di infezioni e gli elementi
tossici. Comporta però un notevole sanguinamento e rischio di CID ed emorragie secondarie. Nelle
ustioni dermiche profonde l'escissione comprende tutto il derma necrotico e la superficie cruenta va
coperta con autoinnesti a medio spessore (Vedi fig. 11) (Vedi fig. 12) (Vedi fig. 13) .
Questa tecnica ha il vantaggio abbreviare i tempi di guarigione e di migliorare gli esiti cicatriziali.
Quando l'escissione tangenziale a estesa fino al sottocute, gli innesti vengono apposti sul grasso
sottocutaneo che, peraltro, non rappresenta un letto ideale per 1'attecchimento. In fase precoce sia
l'escissione tangenziale che l'escarectomia non possono estendersi a più del 25% della superficie
corporea, sia per la difficoltà di reperire aree di prelievo sia perché il trauma operatorio sarebbe
notevole e le perdite ematiche importanti. In proposito occorre ricordare la necessità di equilibrare
preoperatoriamente i valori dell'emoglobina con un numero adeguato di emotrasfusioni.
L'escarectomia tardiva va riservata ai casi nei quali le condizioni generali del paziente non abbiano
consentito l'asportazione in fase precoce. Nonostante le perdite ematiche siano ridotte, rispetto
all'escissione precoce, va considerata la possibilità di infezioni e la peggiore qualità delle cicatrici.
L'asportazione delle escare può essere eseguita, oltre che con dermotomo, anche con il laser CO2
(Hishimoto 1974, Dioguardi 1981). In questo caso, anche secondo la nostra esperienza, pur avendosi una riduzione del sanguinamento per una emostasi immediata dei piccoli vasi, si ha però un
allungamento dei tempi operativi pari a circa il 50%. Il laser CO2 può essere pertanto considerato di
valido aiuto soprattutto nelle ustioni profonde nelle quali sia necessario asportare il tessuto
necrotico fino alla fascia (Orlowski 1979).
Aspetti particolari
Alcune ustioni necessitano di un trattamento particolare in relazione alla sede od alla causa
responsabile. Le ustioni profonde del volto necessitano sempre il trattamento chirurgico precoce,
utilizzando la dermoabrasione per il debridment, ed autoinnesti prelevati dal cuoio capelluto per la
loro copertura; di fondamentale importanza nella riparazione del viso è il rispetto delle unità
estetiche della faccia, modellando all'uopo gli innesti da utilizzare (Vedi fig. 14) (Vedi fig. 15)
(Vedi fig. 16) .
Le ustioni delle palpebre, di solito secondarie a causticazioni, richiedono la riparazione con innesti a
tutto spessore prelevati preferibilmente dalla regione retroauricolare o sopraclaveare, mantenendo le
palpebre distese mediante tarsoraffia sulla rima palpebrale per 5-7 giorni, onde favorire il loro
attecchimento. Nelle ustioni profonde delle mani il problema più importante a conservare la
funzionalità ed evitare la guarigione spontanea che determina sempre esiti cicatriziali retraenti. Se
l'ustione interessa il solo piano cutaneo, l'escissione tangenziale precoce delle escare e la
riparazione con autoinnesti garantisce una buona guarigione. L'esposizione dei piani profondi
tendinei e scheletrico impone il ricorso all'uso di lembi. Nei casi di carbonizzazione delle dita o di
parte della mano, la terapia di scelta è la regolarizzazione dei segmenti interessati e la copertura con
lembi di vicinanza o a distanza.
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Le elettrocuzioni, in particolare quelle da corrente ad alta tensione (>1000 Volts), sono lesioni gravi
per il contemporaneo interessamento dei tessuti profondi (muscoli, tendini, osso) che vengono
distrutti dal1'azione diretta del calore. Inoltre il propagarsi della corrente lungo i fasci vascolonervosi determina spesso trombosi dei piccoli vasi ed estensione delle aree di necrosi ai territori da
essi irrorati. Per la prognosi severa ed anche per la grave mioglobinuria che determina spesso danni
renali, esse vengono paragonate da Artz ai traumi da schiacciamento. Nelle folgorazioni, spesso i
soli autoinnesti non possono garantire una riparazione adeguata, soprattutto nelle localizzazioni
all'arto superiore ed alla teca cranica dove e necessario ricorrere, già in prima istanza,
all'allestimento di lembi di vicinanza o prelevati a distanza: cutanei o composti (fasciali, muscolari,
miocutanei). Un notevole contributo alla risoluzione di questa patologia e costituito dalla possibilità
di utilizzare per la riparazione lembi mio-cutanei peduncolati o trasferiti con tecnica
microchirurgica, che garantiscono la riparazione in unico tempo di vaste perdite di sostanza.
Trapianti di cute.
Il trapianto di cute è un presidio chirurgico che si effettua mediante il distacco completo di un'area
cutanea dalla cosiddetta "zona donatrice" per essere trasferito in una "zona ricevente" priva di
tegumento, al fine di limitare il tempo di guarigione ed il grado di contrazione tissutale e
trasformare quindi un processo di riparazione spontanea lento e disordinato in una guarigione rapida
ed organica. I criteri di classificazione dei trapianti di tessuto o di organo sono molteplici in quanto
si basano sul rapporto tra ospite e donatore o sulle modalità di trasferimento del trapianto o ancora
sulle tecniche chirurgiche adottate.
Snell (1964) propose una classificazione dei trapianti di tessuto, basata sul rapporto tra donatore ed
ospite, ancora oggi attuale, per cui si distinguono:
Autotrapianto (trapianto autologo): prelevato e trasferito da un sito all'altro dello stesso
individuo (es: innesti di cute, mucosa, tendine, cartilagine, osso, lembi liberi vascolari).
Isotrapianto (trapianto isologo o singenico): donatore e ricevente sono geneticamente
identici (gemelli monoovulari, ceppi inbred).
Allotrapianto (trapianto allogenico o omotrapianto): viene effettuato tra individui della
stessa specie con diverso corredo genetico. In questo ambito il trapianto tra diretti
consanguinei (es: da padre a figlio) viene detto singinesico.
Xenotrapianto (eterotrapianto): donatore e ricevente appartengono a specie diverse. I
trapianti possono essere trasferiti liberi, sotto forma di innesti, cioè senza connessioni
vascolari con il sito ricevente, oppure possono essere dotati di un peduncolo (lembi piani) o
più peduncoli (lembi tubulati) oppure dotati di un asse vascolare che viene inosculato ai vasi
del sito ricevente (lembi liberi vascolari, trapianti di organi).
Inoltre, il trapianto viene definito:
1. isotopico, quando il tessuto viene trasferito da una sede ad un'altra topograficamente
coincidente (es: cute della coscia trasferita alla coscia controlaterale);
2. ortotopico, quando il tessuto viene trapiantato in un sito similare (es: cute utilizzata per
coprire perdite di sostanza cutanee in qualsiasi distretto);
3. eterotopico, quando il tessuto viene utilizzato per ricostruire altri tessuti (es: cute utilizzata
per riparare la mucosa, come nella atresia della vagina).
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Infine, i trapianti possono essere trasferiti freschi o conservati (cute congelata o liofilizzata). La cute
rappresenta il tessuto più frequentemente usato per finalità ricostruttive in chirurgia plastica. La
localizzazione esterna rende agevole 1'esecuzione di controlli clinici ed istologici che permettono di
seguire il decorso ed approfondire gli aspetti biologici correlati a questi trapianti.
Innesti autologhi di cute.
Gli innesti liberi di cute vengono classificati in rapporto allo spessore del prelievo. od anche con il
nome dell'autore che per primo li ha descritti. Distinguiamo pertanto l'innesto in:
1. epidermico: comprende tutti gli strati dell'epidermide e le cupole delle papille del derma
(Ollier-Thiersch);
2. dermo-epidermico a 1/3 di spessore: che, oltre all'epidermide, comprende 1/3 dello spessore
del derma (derma papillare e parte del reticolare) (Blair-Brown);
3. dermo-epidermico a 2/3 di spessore: il derma è compreso per i 2/3 del suo spessore (derma
papillare e reticolare) (Padgett);
4. a tutto spessore: comprende 1'epidermide ed il derma nella sua totalità (Wolfe-Krause).
Gli innesti dermo-epidermici possono essere prelevati a mano libera con il bisturi se di piccole
dimensioni come gli innesti a pastiglia tipo Reverdin (epidermici) o tipo Davis (dermo-epidermici),
oppure con appositi strumenti chiamati dermotomi che possono essere a funzionamento manuale,
elettrico od a aria compressa. Tra essi citiamo il dermotomo elettrico a lama circolare di Strycker,
quello elettrico a lama lineare di Brown, i dermotomi a mano di Padgett e Rees, Humby, Lagrot e
Dufourmentel. I dermotomi a mano di Padgett e Rees sono strumenti particolari perché costituiti da
una lama mobile ed un tamburo che aderisce ad una zona ben circoscritta di cute previamente
spennellata con una colla speciale. I dermotomi di Humby, Lagrot e Dufourmentel sono invece a
lama intercambiabile e muniti di una vite micrometrica che regola lo spessore del prelievo.
Attualmente i più semplici da utilizzare e adatti sia prelevare innesti di cute di larghezza variabile in
rapporto alla necessità che a prelevare grandi quantità di cute sono i dermotomi elettrici o
pneumatici. La tecnica di prelievo utilizzando il dermotomo manuale si avvale di alcuni semplici
accorgimenti che si debbono osservare scrupolosamente. Dopo aver regolato lo spessore della vite
micrometrica si unge con una pomata ad eccipiente grasso o paraffina liquida sia la zona di prelievo
che la parte di dermotomo a contatto con la cute. Prossimalmente e distalmente all'area di cute da
utilizzare va esercitata una certa tensione con il lato ulnare della mano e con una apposita spatola
metallica; nelle aree flaccide (es: la coscia) è utile esercitare una tensione circonferenziale. Il
prelievo inizia con un lento ed energico movimento di va e vieni del dermotomo che va azionato
con una inclinazione e pressione sempre costanti per mantenere uniforme lo spessore del prelievo.
Durante il prelievo, specialmente se si tratta di strisce di cute abbastanza lunghe, è utile tenere i
margini dell'innesto con due pinze, per evitare l'arrotolamento sulla barra di regolazione del
dermotomo. Alla fine del prelievo, dopo aver allentato la vite micrometrica, si sfila il dermotomo
con un movimento retrogrado e l'innesto, ancora attaccato nella sua porzione distale, viene tagliato
con le forbici. Il prelievo con dermotomi elettrici o pneumatici è molto più semplice ed intuitiva,
necessitando solo della distensione della cute da prelevare.
La durata della guarigione della zona donatrice degli innesti varia a seconda della profondità del
prelievo, con un minimo di 8-10 giorni fino ad un massimo di 15-21 giorni ed avviene per un
meccanismo combinato di riepitelizzazione centripeta dai margini e centrifuga dai dotti ghiandolari
e dai follicoli piliferi. Nei prelievi più spessi, la partecipazione del tessuto connettivo ai processi di
guarigione, può determinare la formazione di cicatrici inestetiche.
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In questi casi, se l'innesto è di piccole dimensioni, può essere effettuata la chiusura per prima. Se
necessario, la zona donatrice può essere riutilizzata per un secondo prelievo mediamente dopo 2-3
settimane; nel caso di prelievi dal cuoio capelluto la riepitelizzazione è completa dopo 4-6 giorni e
di conseguenza anche l'area donatrici è disponibile anticipatamente. Tutta la superficie corporea è
idonea a donare innesti a spessore parziale, tranne la cute del volto, del collo, delle mani, dei
genitali e le pieghe di flessione.
I vantaggi connessi con l'uso di innesti a spessore parziale sono:
1.
2.
3.
4.
la possibilità di prelievo di vaste superfici di cute;
la guarigione spontanea dell'area donatrice;
la rapidità di esecuzione;
la facilità dell'attecchimento.
Gli svantaggi sono invece collegati ad un risultato estetico non sempre soddisfacente per il
manifestarsi di discromie a distanza di tempo, per la possibilità di retrazione e per la insufficiente
copertura dei piani cutanei.
Un cenno particolare meritano gli "innesti a rete": si tratta di un artificio chirurgico che consente di
ampliare in vario grado la superficie dell'innesto mediante l'utilizzo di un apparecchio detto
"mesher" che trasforma l'innesto in una rete di superficie maggiore (da 1,5:1 fino a 9:1) (Vedi fig.
17) . L'epidermizzazione avviene tra le maglie della rete durante 1'attecchimento dell'innesto.
Questa tecnica viene usata comunemente nei grandi ustionati a causa della carenza delle aree
donatrici. Dal punto di vista estetico gli esiti cicatriziali sono poco soddisfacenti e pertanto gli
innesti a rete non vanno mai apposti sul viso, sulle mani e sulle pieghe di flessione. Gli innesti a
tutto spessore vengono abitualmente prelevati con il bisturi. La zona donatrice di un innesto a tutto
spessore non guarisce spontaneamente e va sempre suturata per prima intenzione Questi innesti
vengono prelevati preferibilmente dalle superfici retro-auricolare, sopraclaveare, interna del
braccio, della piega inguinale e dai quadranti addominali inferiori. Il risultato estetico a distanza a
generalmente soddisfacente per la minore possibilità di discromie e di retrazione. Essi inoltre
garantiscono una migliore copertura dei piani profondi, ma hanno un attecchimento più lento e
delicato.
Nell'apposizione di un innesto questo deve modellarsi esattamente sulla superficie da ricoprire e
deve pertanto essere di dimensioni adeguate a prevenire il cosiddetto "effetto tenda" e gli spazi
morti; particolare cura va posta, pertanto, nell'accostare i margini dell'innesto ai bordi della piaga
mediante punti di sutura. Nell'allestimento di un tampone compressivo, un capo del filo va tagliato
corto, mentre l'altro va lasciato di lunghezza sufficiente all'affrontamento al filo contrapposto, in
maniera da contenere e comprimere il tampone stesso (moulage).
E' buona norma far aumentare l'aderenza dell'innesto al fondo mediante punti di ancoraggio in
materiale riassorbibile e praticare delle piccole incisioni di drenaggio al fine di pervenire la
formazione di ematomi. Il tampone compressivo va confezionato con uno strato di garza grassa a
contatto con l'innesto e con soffici batuffoli di garza o di cotone imbevuto di soluzione fisiologica
per favorire il modellamento e la compressione sul fondo; va fissato legando ordinatamente i fili
contrapposti in maniera da esercitare una compressione uniforme. Dopo la disinfezione, ai margini
del tampone può essere applicata una pomata antibiotica e quindi la zona va coperta con garza
sterile in più strati. Nelle perdite di sostanza degli arti l'innesto va applicato con l'asse maggiore
perpendicolare all'asse dell'arto, al fine di ridurre le retrazioni e la compressione può essere
mantenuta per 5-7 giorni. La rimozione del tampone va effettuata delicatamente, per non staccare
l'innesto dal fondo, se necessario inumidendo la medicazione con soluzione fisiologica.
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L'attecchimento totale di un innesto libero è condizionato dalla perfetta sterilità, da un fondo ben irrorato, dall'assenza di raccolte ematiche, dalle buone condizioni generali del paziente (assenza di
malattie metaboliche, di stati di iponutrizione, di disturbi del circolo periferico).
Le cause più comuni del mancato attecchimento sono:
1.
2.
3.
4.
inadeguatezza del fondo;
presenza di ematoma o sieroma;
infezione;
insufficiente immobilizzazione.
L'innesto attecchito si presenta di colorito roseo uniforme. La presenza di piccoli ematomi o sieromi
impone il loro drenaggio. Vanno inoltre rimosse, all'atto di ogni medicazione, eventuali aree di
necrosi e foci infettivi.
Colture di cheratinociti.
Si tratta di un nuovo capitolo di biologia cellulare, per vero ambito da tanto tempo dai biologi, che
offre possibilità applicative pratiche nei grandi ustionati con prospettive ancora di grande interesse.
A questo proposito ricorderemo che gli epiteli di rivestimento sono costantemente rinnovati durante
la vita di un organismo. Intatti l'epidermide si auto-rinnova approssimativamente ogni mese. Il
processo di auto-rinnovamento è affidato alle cellule germinali presenti negli strati basali
dell'epidermide. Queste possono essere definite come cellule dotate di un'alta capacità di divisione
cellulare e inoltre capaci anche di generare una progenia differenziata. Tra l'altro il potenziale
proliferativo è considerato la caratteristica di base della cellula germinale (Pellegrini et Al., 1999).
Oltre alla cellula germinale ed al cheratinocita, che rappresentano gli elementi più importanti nel
processo di rinnovamento, il tessuto epidermico è abitato da altre cellule come i melanociti, le
cellule di Langherans e quelle di Merkel, che hanno tutte funzioni importanti per l'omeostasi del
nostro organismo, ma non partecipano direttamente alla organizzazione del tessuto epidermico (De
Luca e Cancedda, 1989). Inoltre l'epidermide non è direttamente vascolarizzata, ma riceve
nutrimento dai vasi sanguigni del plesso dermico sottostante. Queste caratteristiche hanno spinto i
biologi a intraprendere un sogno, ovvero la possibilità di poter ricostruire in vitro un organo umano.
Molti tentativi sono stati compiuti per mettere in coltura il cheratinocita umano ed oggi diverse
procedure sono state proposte per mettere in coltura le cellule epiteliali da differenti parti del corpo.
Si deve a Rheinwald e Green (1975) la standardizzazione della metodica attraverso la quale è
possibile far crescere in coltura, partendo da un innesto cutaneo di 2 cm2 prelevato dallo stesso
paziente, una quantità praticamente illimitata di cheratinociti che, dopo circa 15-21 giorni, possono
essere utilizzati come copertura definitiva di estese superfici ustionate.
Se Rheiwald e Green furono i pionieri della coltura dei cheratinociti, si deve a G. Gallico (1984) la
standardizzazione delle tecnica di utilizzo dei cheratinociti con l'aumento delle percentuali di
attecchimento dal 5% (Rheiwald and Green) ad una percentuale pari all' 80-90%, soprattutto nei
neonati o bambini poichè in essi il ciclo vitale della coltura cellulare (n° di Generazioni ) risulta
maggiore. Questa metodica ha permesso la sopravvivenza di grandi ustionati (0' Connor, 1981;
Gallico, 1984; De Luca, 1989). Ulteriori studi condotti per facilitare la crescita dei cheratinociti
mediante modifiche al terreno di coltura, grazie all'utilizzazione di EGF (Epidermal Growh Factor)
(Hennings, 1983) e di altri fattori ha ridotto ulteriormente i tempi di attesa e migliorato
l'attecchimento degli stessi. Tuttavia la tecnica di coltura descritta da Rheinwald nel 1975, rimane
quella tecnica a cui ancora oggi si fa riferimento.
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Rheiwald e Green intuirono che per iniziare la formazione di colonie cellulari si richiede la
presenza di fibroblasti. I fibroblasti sembrano essere le cellule meno specializzate nella famiglia del
tessuto connettivo. Sparsi nel tessuto connettivo del corpo dove secernano una matrice
extracellulare non rigida ricca in collagene di tipo I e III. Quando un tessuto viene danneggiato,
come nelle ustioni, i fibroblasti situati nelle vicinanze migrano nella ferita, proliferano e producono
grandi quantità di matrice extra-cellulare ricca in collagene che contribuisce sia a isolare che a
riparare il tessuto danneggiato. Tecnicamente, se si pongono cellule della pelle umana
opportunamente tripsinizzate, in modo tale da rompere i ponti cellulari, su terreni di coltura
specifici insieme a cellule 3T3-J2 (De Luca, 1989), la crescita dei fibroblasti umani è largamente
soppressa, ma le cellule epidermiche crescono da cellule singole a vere e proprie colonie (Rheiwald,
1975). Ogni colonia di cheratinociti si differenzia a tal punto da formare alla fine uno strato di
epidermide squamoso stratificato, ogni colonia è la progenia di ogni singolo cheratinocita. La
funzione delle cellule 3T3-J2, cloni di fibroblasti di origine murina letalmente irradiati, può
riassumersi in quella di stimolo e riordino delle neo-formantesi colonie di cherarinociti. I piccoli
cheratinociti presenti nello strato basale e non ancora differenziate posseggono il più alto potenziale
clonogenico, mentre le cellule con una maggiore diametria e più differenziate come quelle presenti
negli strati sovrastanti a quello basale, mostrano un minor potenziale clonogenico (De Luca,
Cancedda 1992 ). E' interessante notare che le cellule più voluminose presenti negli strati
sovrastanti, mostrano la capacità di dar origine a cloni con caratteristiche differenziative,
sovrapponibile alle cellule più piccole e meno differenziate che popolano lo strato basale;
suggerendo cosi la possibilità di recuperare o salvare cellule dalla differenziazione terminale. Per
cui il potenziale di crescita di una colonia non è relativo alla grandezza della cellula fondante bensì
all'iter differenziativo (De Luca, Cancedda 1992 ).
Dagli studi clonali effettuati sono emersi, tre tipi di cheratinociti che sono gli olocloni, merocloni e i
paracloni. Gli olocloni provengono da cellule germinali epidermiche e mostrano il più alto
potenziale di auto-rinnovamento proliferativo infatti ogni singolo elemento è capace di effettuare
più di centoquaranta duplicazioni prima della senescenza (invecchiamento), e sono ipoteticamente
considerate come cellule staminali (primogenie). Il meroclone è un tipo di cellula intermedia
considerata come riserva cellulare. Il paraclone invece è generato da una cellula transiente ampliata,
mostrano il più basso livello di crescita, il loro ciclo vitale infatti non supera le quindici generazioni
e di solito danno vita a colonie che arrestano il proprio sviluppo. Il passaggio da meroclone a
paraclone è un processo irreversibile, unidirezionale che avviene lentamente durante
l'invecchiamento (Pellegrini et Al., 1999). La percentuale di olocloni, presente negli strati basali del
terreno di coltura, può essere influenzata da condizioni di coltura non appropriate; danni ambientali
ai quali sono stati esposti gli strati basali degli innesti messi in coltura; utilizzo di nuovi substrati di
coltura oppure tecnologie non predisposte per la preservazione degli olocloni (Pellegrini et Al.,
1999). I passaggi cellulari in vitro e l'invecchiamento naturale in "vivo" determinano una
progressiva diminuzione degli olocloni ed una progressiva crescita di merocloni e paracloni (De
Luca, Cancedda 1992 ). Per cui la terapia cellulare è una strategia terapeutica che mira a sostituire o
riparare con le colture cellulari quei tessuti gravemente danneggiati.
La scelta della cellula che deve essere trattata nella coltura dipende necessariamente dalla funzione
che la cellula deve espletare dopo il trapianto assicurando in tal modo la persistenza e la funzione
del tessuto rigenerato durante tutto l'arco di vita del paziente. Per esempio, la completa sostituzione
ed il continuo ricambio del tessuto emopoietico richiede l'innesto di cellule progenitrici
emopoietiche prelevate dal midollo osseo. I cheratinociti epidermici umani trattati in vitro generano
foglietti di epitelio stratificato che mantengono le caratteristiche dell'epidermide, in tal modo i
cheratinociti autologhi messi in coltura sono stati usati per la copertura permanente di grandi ustioni
a tutto spessore salvando la vita del paziente.
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La coltura dei cheratinociti in vitro si è modificata nel corso degli anni, studi effettuati da De Luca e
Cancedda (1992) dimostrarono che il processo di differenziazione e stratificazione inizia dal centro
della colonia, le cellule migrano all'esterno per cui la colonia si espande radialmente fino a 2 mm al
giorno sotto l'influenza del fattore di crescita epidermica (EGF). Gli stessi Autori evidenziarono
come alla presenza di concentrazioni fisiologiche di calcio, le cellule cheratinocitiche lasciano lo
strato basale migrando negli strati sovrastanti, aumentano di grandezza, parimenti si assiste ad un
aumento dei desmosomi e dei tonofilamenti. Gli ioni calcio sono essenziali per la polarizzazione del
singolo cheratinocita e per la stratificazione ed organizzazione dell'epitelio in vitro. Inoltre, sempre
negli studi effettuati da De Luca e Cancedda venne dimostrata la presenza di una proteina di
differenziazione specifica chiamata involucrina, sintetizzata dalle cellule più superficiali dello strato
spinoso sia in "vivo" che in "vitro".
L'involucrina è una proteina che si ritiene essere il componente iniziale dello spesso involucro
corneificato che, durante il differenziamento terminale, si trova nella faccia interna della membrana
plasmatica di ciascun cheratinocita. Tale involucro viene completato, ispessito ed irrobustito dalla
presenza di un'altra proteina, successivamente secreta dalle cellule dello strato granuloso, negli
ultimi stadi del processo di cheratinizzazione, la loricrina. Questa è una proteina altamente
insolubile per la presenza di numerosi legami disolfuro, che giustificano la sua stabilità. Da cio'
deriva il nome (lorica in latino significa corazza). Durante la differenziazione terminale sia "in
vivo" che "in vitro" avvengono vistosi cambiamenti nella architettura del citoscheletro ovvero una
modifica della sequenza nucleotidica che codifica per la cheratina, scleroproteina principale
costituente dell'epidermide, dei peli, delle unghie e dei tessuti cornei; tale cambiamento causa un
incremento del peso molecolare della cheratina con conseguente cambiamento nella composizione
dei filamenti intermedi dell'epidermide. I filamenti della cheratina così modificati interagiscono con
una proteina basica la filaggrina, formando in tal modo la matrice della cheratina corneocita (De
Luca, Cancedda 1992 ).
Quando i cheratinociti sono fatti crescere alla presenza di una concetrazione critica di vitamina A, si
raggiunge in coltura una morfogenesi epidermica virtualmente ottimale. Questi dati suggeriscono
che, almeno nell'adulto, i cheratinociti posseggono nel loro genoma un programma di
differenziazione specifico, indicando cosi che i tessuti connettivi dermici o sottoepiteliali hanno un
ruolo di accesso e non di induzione nella espressione del gene epiteliale. Questa ipotesi fu
confermata da altri dati ed esperimenti clinici (De Luca, Cancedda 1992 ).
E' stato altresì dimostrato che i cheratinociti normali umani nella coltura posseggono una attività di
secrezione molto elevata, cioè essi sono in grado di sintetizzare e rilasciare nella coltura molti
peptidi quali:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
l'interleuchina-1 (Blanton 1989),
il fattore di crescita alfa (Coffey 1987),
il fattore di crescita beta (Kane 1989),
il fattore di crescita dei fibroblati basici (Halaban 1988),
la proteina simile all'ormone paratiroideo (Merendino 1986),
fattori multipli che stimolano il riassorbimento dell'osso,
fattore di crescita nervoso,
fattori di crescita rilasciati sempre dalle cellule epidermiche in coltura, non ancora
identificati, ma che possono avere diverse implicazioni nei meccanismi di guarigione delle
ferite (EDFs " Eisinger, 1988).
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E' interessante notare che il fattore di crescita alfa che agisce attraverso il recettore EGF, è in grado
di indurre una espressione del gene che codifica per il TGFalfa suggerendo cosi un meccanismo di
auto-induzione che puo' essere molto importante nella guarigione delle malattie iperproliferative
della pelle come ad esempio la psoriasi (Elder 1989). Inoltre l'interleuchina-6 può essere prodotta da
cheratinociti umani sotto la stimolazione dell'interleuchina-1 e puo' essere coinvolta nella
patogenesi della psoriasi (Grosman, 1989).
Un'ulteriore scoperta, effettuata da Fenjves nel 1989, dimostra che i cheratinociti umani normali in
coltura sintetizzano attivamente e producono apolipoproteina-E e gli innesti epidermici non umani
applicati su topi da laboratorio rilasciano in circolo apolipoproteina-E, suggerendo cosi un ruolo
nuovo ed interessante dell'epidermide come potenziale regolatore dell'omeostasi e dei processi
fisologici del corpo umano.
Uno studio condotto alla fine degli anni novanta, presso il Laboratorio di Ingegneria dei Tessuti di
Roma in collaborazione con il Centro Grandi Ustionati di Catania (Pellegrini et Al., 1999) dimostrò
che:
1) la percentuale relativa di olocloni, merocloni, e paracloni è mantenuta quando i cheratinociti sono
coltivati in fibrina ed inoltre essa non induce la conversione clonale e conseguente perdita di cellule
epidermiche germinali.
2) quando, gli autoinnesti di cellule germinali coltivati con fibrina, vengono applicati su ustioni
estese la "presa" o attecchimento dei cheratinociti è alta, riproducibile e permanente.
3) La fibrina permette una riduzione significativa del costo degli autoinnesti messi in coltura ed
elimina il problema relazionato al loro uso e trasporto.
I dati dimostrarono che gli autoinnesti che portano cellule germinali, messi in coltura possono
coprire rapidamente e permanentemente grandi superficie corporee. La fibrina è un utile substrato
per la coltivazione ed il trapianto di cheratinociti. Questi dati affermano che la percentuale di
successo inerente la terapia cellulare è influenzata dalla quantità di cellule germinali presenti nel
terreno di coltura. Tutto ciò ha suggerito come la proposta di un sistema di coltura che mira alla
sostituzione di qualsiasi tessuto auto-rinnovantesi ma seriamente danneggiato, dovrebbe essere
preceduta da una attenta valutazione della sua popolazione di cellule germinali. Per compiere il loro
processo di auto-rinnovamento gli epiteli di rivestimento fanno affidamento sulla presenza di cellule
germinali e cellule transitorie amplificate. Le cellule germinali possono essere definite come cellule
dotate di un'alta capacità di divisione cellulare e capaci anche di generare una progenia
differenziata. Il potenziale proliferativo è considerato la caratteristica di base della cellula
germinale. Le cellule transitorie amplificate, che si originano dalle cellule germinali hanno un tasso
proliferativo alto soltanto per periodi limitati e rappresentano il gruppo più ampio di cellule che si
dividono.
I cheratinociti autologhi messi in coltura sono stati usati per la copertura permanente di grandi
ustioni a tutto spessore e la rigenerazione epidermica ottenuta con gli innesti in coltura può
considerarsi tecnica in grado di salvare la vita dei pazienti gravemente ustionati.
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La "presa" o attecchimento permanente di autoinnesti in coltura è stata formalmente dimostrata
dalla riespressione di "markers" o segnalatori di differenziazione sito specifici in vivo. Il controllo
della ferita, dell'infezione, una buona preparazione del sito da innestare, permettono un ottimo
trasferimento di auto-innesti di cheratinociti coltivati sull'area ustionata. La riuscita di questa
tecnica di coltura è stata dimostrata dal graduale incremento dell'attecchimento di autoinnesti,
preparati in coltura e impiantati su una ferita preparata con omoderma, tecnica dimostrata pure
dall'adesione dei cheratinociti in un substrato naturale, dalla crescita e dalla loro differenziazione.
La perdita di ocloni epidermici in coltura può essere dovuto a:
condizioni di coltura non idonea;
danno ambientale dello strato basale esposto degli innesti in coltura;
uso di un nuovo substrato o tecnologie in coltura non testate per la prevenzione delle cellule
germinali. Quest'ultima ipotesi è particolarmente importante poiché vi è un bisogno
chirurgico continuo nell'utilizzo ed impiego delle cellule germinali; le colture
cheratinocitiche hanno un costo intrinseco elevato; e vi sono problemi tecnici nel trasporto a
lunga distanza in rapporto al mezzo di coltura.
Tra i differenti sistema di "consegna" dei cheratinociti De Luca e coll. hanno evidenziato quello
della fibrina isolante, poiché essa è disponibile facilmente in substrati naturali, è di solito
abbondante nelle ferite che si rimarginano ed è facilmente degradata dall'ospite (G. Pellegrini et Al.,
1999). Questi Autori hanno dimostrato, alla fine degli anni novanta, che l'abilità clonogenica dei
cheratinociti, il tasso di crescita ed il potenziale proliferativo a lungo termine non sono influenzati
dalla fibrina; le cellule germinali epidermiche umane si preservano quando i cheratinociti sono
coltivati su di un substrato di fibrina; la conversione clonale non è accelerata dalla fibrina. Questi
dati sostengono i requisiti più importanti per una coltura di cheratinociti usata per il trattamento
delle ustioni. Hanno pure dimostrato che quando gli autoinnesti di cellule germinali epidermiche
umane vengono trattati con fibrina in coltura, l'attecchimento finale dei cheratinociti è elevato
(100%), riproducibile e permanente. L'utilizzo della fibrina nella coltura di cellule epidermiche
umane ha permesso di ottenere dallo stesso numero di cellule clonogeniche, lamine cellulari di
dimensioni maggiori e più maneggevoli. La fibrina isolante o sigillante utilizzata (Tissucol) è
formata da due fibronogeni congelati e da soluzioni di trombina-I.
Tecnica di coltura Il metodo di coltura classico, sviluppato da Reinwald e Green, è stato
modificato nel tempo. Il prelievo di cute prelevato dal soggetto viene tagliato in strisce larghe 5 mm
ed incubato per 30 minuti alla temperatura di 37°C in una soluzione di tripsina (0,25%) ed EDTA
(0,1%) (Gibco, Grand Island, N.Y.) in modo da staccare l'epidermide dal derma.
L'epidermide così ottenuta viene sottoposta ad un bagno a vortice al fine di staccare le singole
cellule epidermiche che in seguito verranno raccolte attraverso la centrifuga e poste in sospensione
nel Dulbecco's Modified Eagle's Medium (DMEN) contenente il 20% di siero fetale di bovino,
penicillina (100 IU/ml), streptomicina (100µg/ml), anfotericina B (2.5 µg/ml), idrocortisone (1
µM), e la tossina del colera (0,1nM). Le cellule vengono quindi seminate in recipienti da coltura
tondi di polistirene contenenti un monostrato di mitomycin-C-treated Swiss 3T3 fibroblasti.
La densità di replicazione è di circa 5x105 cellule [n1] per ciascun recipiente. Le cellule sono
alimentate ogni due giorni fino ad essere quasi confluenti (da 10 a 12 giorni) a quel punto trasferite
in MCDB-153, un medium (terreno base) libero da siero, con supplementi e posti in recipienti
freschi in assenza di 3T3 "feeder layer". In questo passaggio, un recipiente della coltura primaria
fornisce un numero sufficiente di cellule per quattro recipienti di coltura secondaria, un rapporto
variabile di 1:4.
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Queste cellule diventano confluenti generalmente entro sei giorni e si dividono nuovamente con un
rapporto 1:4 nel medium in assenza di siero. Dopo altri sei giorni, le colture ora espanse in gruppi di
sedici vengono spinte a stratificarsi sostituendo MCDB-153 con la tossina del colera. Dopo altri
quattro giorni, questa coltura sono pronte per essere utilizzate come autotrapianti dell'epidermide.
Quando le colture di cheratinociti stratificati sono pronte per l'innesto, il medium viene rimosso e lo
strato di cellule staccato dal recipiente con Dispase, una proteasi neutra.
Tecnica chirurgica Il trattamento delle gravi ustioni con terapia convenzionale, adottata da Gallico
presso il Centro Ustioni di Boston, prevedeva che tutte le ustioni di terzo grado e quelle profonde di
secondo grado venissero escarectomizzate fino alla fascia muscolare, (rimuovendo in tal modo il
tessuto necrotico, ma anche tessuto vitale) e coperte con auto-innesti di pelle se disponibile oppure
temporaneamente con alloinnesti di pelle di cadavere umano congelato o con un foglietto di
Silastic, costituito da glicosamino-glicani, in modo tale da poter stimolare la ricrescita del cosidetto
"mantello dermico" considerato da De Luca e Cancedda una vera porta d'ingresso per gli strati
epidermici sovrastanti. Le ustioni superficiali di secondo grado venivano lasciate guarire
spontaneamente e successivamente utilizzate come siti di donazione per autoinnesti.
Cuono (1986) , evidenziò il significato del derma sulla ricostruzione ideale della pelle. Infatti da un
punto di vista funzionale, il compito dell'epidermide è quello di controllare le perdite di vapore ed è
utile per la sorveglianza immunologica, mentre il derma è il principale responsabile della durata.
Cicatrizzazioni patologiche e contrazioni della lesione sono inversamente proporzionali allo
spessore del derma residuo.
La copertura delle ferite nelle grandi ustioni, da piccole aree donatrice, è limitata da due fattori:
1. l'incapacità del derma di rigenerarsi in, modo spontaneo
2. l'insufficienza delle papille dermiche nello strato profondo del derma.
Il successo del trapianto di colture di cheratinociti autologhi direttamente nella lesione da ustione
rappresenta una pietra miliare nel trattamento delle ferite gravi, anche se questa tecnica non
restituisce il derma perduto. Sostituti acellulari biologicamente inerti derivati dal derma si sono
rilevati efficaci solo se utilizzati unitamente ad innesti cutanei sottili. Ma i sostituti dermici
acellulari forniscono soltanto una porzione nell'accrescimento dermico, essi dunque riducono, ma
non eliminano le richieste di derma nella zona donatrice.
Sulle basi dettate da Medawar, il quale si accorse nel 1945, che il derma dell'allotrapianto cutaneo
era meno immunoreattivo dell'epidermide, Cuono aveva intuito che il derma presente in un
allotrapianto di cute può essere reso immunologicamente inerte; egli descrisse la presenza di
almeno due potenziali meccanismi in grado di modulare la tolleranza immunologica dell'ospite.
Il primo meccanismo: è l'attenuazione dell'immuno-reattività dell'allotrapianto cutaneo,
mediante crioconservazione (-70°C per mezzo di un congelamento non programmato, lento
e controllato).
Il secondo meccanismo: agisce sugli antigeni di II classe del complesso maggiore di
istocompatibilità (MHC).
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Gli antigeni di classe I sono localizzati sulla superficie di tutte le cellule nucleate; gli antigeni di II
classe si esprimono sulla superficie di un gruppo ristretto di cellule come ad esempio quelle
linfoide, tra cui le cellule di Langerhans; queste, poste negli strati sovrabasali dell'epidermide,
appartengono alla linea dei monociti/macrofagi; derivano cioè da precursori emopoietici presenti
nel midollo osseo e possono considerarsi come parte della famiglia delle cellule capaci di
riconoscere, captare e rielaborare, mediante il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC II),
molecole "estranee" ad attività antigenica, per poi "presentarle" alle cellule immunocompetenti con
conseguente reazione immune verso l'alloderma.
Il derma dell'innesto cutaneo a spessore variabile (all'incirca 0,07mm) contiene fibroblasti, cellule
endoteliali e cellule di congiunzione epiteliali. Nessuno di questi tipi di cellule rileva antigeni di II
classe bensì rappresentano antigeni di I classe. Inoltre alcune cellule endoteliali rappresentano di
norma un unico gruppo di antigeni noto come antigeni E. Il loro ruolo non è noto né nei casi di
riconoscimento immune né in quelli di rigetto. L'assenza, rimozione o soppressione delle molecole
MHC di classe II dal tessuto innestato, rappresenterebbe un mezzo efficace per raggiungere una
sopravvivenza a lungo termine dell'alloderma trapiantato. L'attività funzionale delle molecole MHC
II, può essere modulata mediante la crioconservazione, alterazione favorita dalla criosuscettibilità
delle cellule di Langerhans.
Cuono dimostrò pertanto che:
la parte dermica di cute umana, vitale, allogenica e crioconservata, fornisce un sub-strato
ideale per cheratinociti autologhi
il derma allogenico e le colture di cheratinociti autologhi diventano strutturalmente integrate
formando una ricostruzione di cute permanente e duratura.
Il trattamento delineato da Cuono consiste nel coprire la superficie ustionata ed escarectomizzata,
con cute allogenica crioconservata e vitale. Successivamente l'epidermide dell'allotrapianto viene
rimossa per mezzo dell'abrasione. Secondo le teorie di Cuono la rimozione dell'epidermide
allogenica, elimina gran parte delle cellule che sostanzialmente rappresentano gli antigeni di classe
II, lasciando un strato allogenico vitale che non produrrà rigetto. Quindi il derma allogenico
rappresenterebbe un substrato favorevole al trapianto di cheratinociti autologhi ottenuti per mezzo
di coltura. Altro fattore da tenere in considerazione è da collegare alla proprietà dell'epidermide
umana che si auto-rinnova ogni mese, pertanto la persistenza a lungo termine del tessuto rigenerato
richiede il trapianto di cellule germinali. E' possibile allora ipotizzare che la mancanza di buoni
risultati clinici degli innesti in coltura o la perdita degli innesti dopo un primo attecchimento sia da
imputare alla mancanza di cellule germinali nella coltura.
Attualmente il moderno trattamento delle ustioni estese ed a tutto spessore, prevede l'escissione del
tessuto necrotico mediante dermotomi manuali od elettrici. Il sito della ferita viene coperto
utilizzando omoinnesti cutanei a rete amplificati con rapporto di 1:1,5, prelevati da un donatore
vivente o da cadavere (Vedi fig. 18) (Vedi fig. 19) (Vedi fig. 20) (Vedi fig. 21) .
Lo spessore di tali innesti deve garantire la presenza, nel loro contesto di uno strato consistente di
derma (0,60-0,80 mm.). Due settimane circa più tardi, l'epidermide del donatore che non è stata
autonomamente rigettata, viene rimossa, sempre mediante dermatomo (0,10-0,20 mm.) o
dermoabrasione allo scopo di mantenere sul letto della ferita l'omoderma, allogenicamente inerte, su
cui applicare gli autoinnesti coltivati di cheratinociti su supporti di acido ialuronico, fibrina o altro
(Vedi fig. 22) .
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Dopo la dermoabrasione il letto ricevente si presenta con un evidente aspetto di derma sano e
punteggiato di sangue. La biopsia di tale letto non evidenzia la presenza di elementi epiteliali.
L'emostasi è ottenuta grazie alla applicazione di soluzioni di epinefrina (1:200.000). I lembi di
cheratinociti e il materiale di supporto si applicano sul letto dermico allogenico. Le aree trapiantate
sono successivamente coperte con garze imbevute di petrolato o silicone e a riposo per circa sette
giorni.
Al primo cambio di medicazione dopo sette giorni, gli innesti appaiono con un caratteristico aspetto
opalescente ed aderiscono al derma sottostante. Il migliore indicatore, di innesto ben riuscito, è lo
sviluppo rapido dell'epidermide oltre il profilo marginale.
A dodici settimane dall'innesto la cute recupera la normale resistenza al taglio e mostra una normale
integrazione di fibrille di collegamento (Vedi fig. 23) (Vedi fig. 24) . Fibre collagene di IV tipo e
laminina, elementi caratteristici della lamina basale ovvero connessione dermo-epidermica (DEJ),
sono state dimostrate istologicamente a partire dal 14° giorno successivo all'innesto, entrambi
sintetizzati dai cheratinociti.
Alloinnesti di cute.
La necessità di disporre di grandi quantità di cute omologa in caso di gravi ustioni o di vaste perdite
di sostanza secondarie ad incidenti stradali, eventi bellici e disastri industriali ha stimolato le
ricerche su questo argomento al fine di conoscere, oltre alle problematiche connesse al rigetto,
anche gli aspetti clinici legati all'uso degli alloinnesti come copertura biologica temporanea. In
effetti molto progresso è stato realizzato grazie alle tecniche di conservazione per raggiungere una
maggiore permanenza nell'ospite. Gli alloinnesti di cute a spessore parziale vengono adoperati come
sostituti temporanei della cute autologa nel trattamento di ustioni a tutto spessore interessanti piu
del 60% della superficie corporea. Vengono solitamente applicati, dopo escarectomia, su zone
riceventi per le quali non sono disponibili innesti autologhi, allo scopo di ridurre la termo-dispersione, la perdita di acqua, elettroliti e metaboliti, la contaminazione batterica e la sintomatologia
dolorosa in attesa the si possano prelevare autoinnesti di cute a spessore parziale da zone donatrici o
si rendano disponibili sostituti cutanei permanenti quali le colture di cheratinociti, o autoinnesti per
la copertura definitiva delle piaghe. Le fonti degli alloinnesti di cute sono il prelievo dal cadavere,
da pezzi operatori (ad esempio arti amputati o tessuti di scarto ottenuti da dermolipectomie
addominali o interventi di mastoplastica riduttiva) e da donatori volontari che sono in genere
consanguinei del paziente ricevente. Comunque, i soggetti donatori devono essere esenti da malattie
infettive, oncologiche e dermatologiche e devono rispondere ai requisiti della vigente legge sulla
donazione degli organi.
In alcune comunità il prelievo di cute da cadavere e vietato o fortemente limitato per motivi di
ordine legale, religioso, etico o semplicemente logistico. Per i prelievi da cadavere in Italia, a
necessaria, secondo quanto disposto dalle leggi sui trapianti, 1'autorizzazione specifica del
Ministero della Sanità (Legge 644 del 2/12/75 e D.P.R. 409 del 16/6/77), recentemente tale norma è
stata derogata alle Regioni.
Le tecniche di prelievo degli alloinnesti non differiscono da quelle del prelievo di cute autologa. Dal
cadavere possono essere prelevati innesti di cute a medio spessore, sotto forma di strisce di cm 20 x
7, che possono giungere fino a complessivi 5.000 cm2. Gli alloinnesti possono essere impiegati
freschi o conservati, in quanto si è dimostrato che i vari metodi di conservazione hanno la capacita
di ridurre, in misura diversa fra loro, il potere antigenico degli allo- e degli eteroinnesti. Le tecniche
di conservazione possono essere a breve o a lungo termine.
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Per brevi periodi, dopo il prelievo, la cute viene di norma avvolta in garza grassa, in garza imbibita
di soluzione fisiologica ed in garza asciutta e quindi posta in busta di plastica e refrigerata alla
temperatura di normali frigoriferi (+4 °C). Se le manovre di prelievo, manipolazione e conservazione vengono eseguite sterilmente e la temperatura viene mantenuta costante, gli alloinnesti si
mantengono vitali per un periodo di 7-10 giorni (Waymack e Pruitt). Un'altra metodica di
conservazione a breve termine prevede l'immersione degli innesti in un mezzo di coltura prima
della refrigerazione a +4 °C. Normalmente si adoperano Soluzioni bilanciate di Earle e siero
umano, in rapporto di 9:1, addizionate con antibiotici e rosso fenolo, quest'ultimo utilizzato come
indicatore della presenza di metaboliti acidi. Quando il colorante si schiarisce e vira all'arancione, la
soluzione va sostituita. In questa maniera la cute può essere conservata per 6-8 settimane
(Mazzoleni). La vitalità e quindi la capacita di attecchimento degli alloinnesti refrigerati a +4°C
decresce in misura direttamente proporzionale al tempo di conservazione. Data la incostante
disponibilità di alloinnesti cutanei freschi e la ridotta sopravvivenza degli innesti conservati in
frigorifero, dalla fine degli anni sessanta sono state tentate diverse metodiche di conservazione
mediante congelamento, utilizzando temperature fino a -196 °C (Arhreya).
Successivamente è stata proposta una tecnica di congelamento a -70 °C, che consente una
conservazione degli innesti praticamente indefinita, a condizione che la sterilità e la temperatura di
congelamento vengano mantenute nel tempo, riducendo nel contempo i danni cellulari prodotti da
temperature troppo basse (Ninnemann). Al momento dell'impiego la cute è rigenerata mediante immersione in soluzione fisiologica a 37 °C. Due metodiche alternative di conservazione non votale
degli alloinnesti sono la refrigerazione a +4 °C previo trattamento dell'innesto con glicerolo all'85%
(Vloemans) e la liofilizzazione che determina la rimozione della componente acquosa dei tessuti e
non consente la sopravvivenza cellulare, mentre mantiene intatte le capacità e le proprietà fisiche.
Gli innesti di cute liofilizzata vengono rigenerati dopo immersione in soluzione fisiologica a 37 °C,
il loro uso dopo reidratazione può essere considerato come medicazione biologica. La stimolazione
immunologica provocata dall'alloinnesto nel ricevente è direttamente proporzionale alla vitalità, che
dipende dal tipo di donatore e dalle modalità di conservazione ed e quindi massima per gli
alloinnesti freschi, intermedia per quelli conservati a bassa temperatura e nulla per quelli liofilizzati.
Gli alloinnesti conservati a +4 °C, a "70 °C ed a -196 °C senza crioprotettori, attecchiscono al fondo
ed hanno aspetto roseo; mentre quelli conservati a -196 °C con crioprotettori e quelli liofilizzati
semplicemente aderiscono al fondo mantenendo un colorito biancastro. E' bene ricordare che le
proprietà antigeniche degli alloinnesti sono proprie della componente epidermica, più specializzata,
mentre il derma allogenico ha mostrato essere quasi del tutto inerte.
Allo stato attuale, l'impiego routinario degli omoinnesti come riparazione definitiva di perdite di
sostanza cutanee appare solo come una possibilità sperimentale, mentre è ben collaudato l'utilizzo
dell'omoderma come letto per l'attecchimento delle colture di cheratinociti, o il loro impiego come
"medicazione biologica". Infatti, l'impiego degli omoinnesti su vaste superfici escarectomizzate
riduce le perdite caloriche, proteiche, idro-elettrolitiche, prepara il fondo a ricevere il trapianto
definitivo e quindi contribuisce a migliorare le condizioni generali del paziente.
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Più in particolare, gli alloinnesti trovano indicazione in:
1. ustioni dermiche superficiali nelle quali la medicazione previene l'essiccamento e favorisce
una riepitelizzazione più rapida con risultati estetici migliori soprattutto alle mani ed al volto
inducendo una più corretta e fisiologica disposizione delle fibre collagene del derma (Miller,
1967);
2. ustioni dermiche profonde gli alloinnesti proteggono i gettoni epiteliali integri del derma
profondo e quindi favoriscono la riepitelizzazione spontanea;
3. ustioni a tutto spessore, invece, la protezione con alloinnesti va effettuata dopo
1'escarectomia con lo scopo di preparare il fondo deterso a ricevere la copertura con
autoinnesti o nell'attesa della crescita dei cheratinociti autologhi e come fonte
dell'omoderma; e comunque quando le zone donatrici risultano insufficienti a garantire la
copertura totale delle superfici ustionate;
4. medicazione delle zone di prelievo del grande ustionato, con lo scopo di diminuire le perdite
caloriche ed idroelettriche e favorire una più rapida guarigione.
Va ricordato comunque che storicamente l'utilizzazione di alloinnesti di cute in associazione con gli
autoinnesti fu descritta per la prima volta da Jackson nel 1954 come "tecnica delle strisce alternate"
di allo- ed autoinnesti di cute a spessore parziale. Questo procedimento, noto anche come tecnica di
Mowlem-Jackson, consisteva nell'applicare strisce di autoinnesti alternate a strisce di omoinnesti.
Questi ultimi non andavano suturati al fondo ma lasciati esposti per valutare tempestivamente la
comparsa dei processi infettivi. In questo modo, le strisce di autoinnesto attecchivano
definitivamente mentre le strisce di alloinnesto dapprima attecchivano e successivamente, verso la
7a-10a giornata, l'alloepidermide veniva rigettata mentre viene tollerato l'alloderma. Su queste
superfici alternate scoperte avanza lentamente la epidermizzazione degli autoinnesti già attecchiti,
completando la guarigione. L'aspetto clinico era tipicamente "zebrato" per l'alternanza dei tessuti e
dei fenomeni cicatriziali connessi. Una tecnica concettualmente similare è stata adoperata per più di
30 anni al Jui Chin Hospital di Shangai da Yang su circa 10.000 grandi ustionati. La metodica
prevede l'utilizzazione di alloinnesti freschi a spessore parziale nei quali vengono praticate delle
fenestrature di 0,25 cm2 alla distanza di 1,5 cm l'una dall'altra. Dopo la copertura delle piaghe con
tali alloinnesti, nelle fenestrature vengono posti autoinnesti a spessore parziale di 0,25 cm2.
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, gli alloinnesti cosi trattati non vengono, di norma,
rigettati. Viceversa, entro 30 giorni dall'intervento, si assiste alla desquamazione spontanea della
alloepidermide; simultaneamente si osserva la migrazione centrifuga di cellule autoepidermiche
dagli autoinnesti nell'interstizio tra l'alloepidermide in necrosi e l'alloderma che invece si mantiene
vitale, sino a formare uno strato continuo che successivamente si differenzia in una neoepidermide
multistratificata con un caratteristico aspetto clinico a "ciottolato".
Con questa metodica si riesce ad ottenere una espansione dell'autoepidermide di circa 1:20. Questo
fenomeno, detto "effetto sandwich", si differenzia notevolmente della tipica reazione di rigetto
sopra descritta. Infatti, mentre l'alloepidermide va incontro a necrosi, la matrice e gli elementi
cellulari dell'alloderma rimangono inalterati. Nel 1989 Kistler ha documentato in un modello
animale, dopo 111 giorni dall'intervento, la presenza nell'alloderma di un mosaico di elementi
autogeni ed allogenici. Nel tentativo di spiegare questo fenomeno di "tolleranza", Hufnagel e Coll.
(1989) ipotizzarono il ruolo di possibili immunosoppressori locali prodotti dall'autoepidermide, che
potrebbero facilitare la sopravvivenza dell'alloderma. Tuttavia si potrebbe addurre come possibile
interpretazione alternativa di questo evento, il precoce distacco dell'alloepidermide, determinato
dallo scivolamento del-l'autoepidermide al di sotto di essa.
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Tale distacco porterebbe all'allontanamento delle cellule di Langerhans e quindi impedirebbe
l'innesco della reazione di rigetto. D'altro canto, l'alloderma, caratterizzato in condizioni normali da
una ricca antigenicità, non sarebbe in grado da solo di indurre una reazione di rigetto e quindi
verrebbe tollerato e parzialmente ripopolato da gettoni fibrovascolari provenienti dal fondo.
Una indagine condotta nel 1989 da Kristel sulla distribuzione dei linfociti T-helper e T-suppressor
del paziente nei tessuti innestati, ha evidenziato una elevata concentrazione di cellule suppressor
negli autoinnesti, ed in particolare a livello della giunzione dermo-epidermica. Inoltre, è stata
documentata la presenza di un numero notevolmente ridotto di cellule di Langerhans
nell'autoepidermide migrata sull'alloderma. Al momento non è tuttavia possibile alcuna
interpretazione definitiva di questi dati. Una tecnica simile a quella di Yang e stata proposta da
Zhang e coll. (1986). Secondo questa metodica un innesto di cute autologa viene ridotto con le
forbici in minutissimi frammenti che poi vengono fatti aderire con la loro superficie epidermica alla
superficie dermica degli alloinnesti e successivamente applicati sulle zone riceventi. Gli alloinnesti
vengono rigettati normalmente ma al di sotto di essi l'autoepidermide migra dagli autoinnesti e
ricopre le piaghe prima che il rigetto della cute allogenica si completi. Si tratta di una tecnica molto
efficace, nonostante la metodica sia molto indaginosa, in quanto consente una espansione della
autoepidermide di circa 1:15.
Xenoinnesti.
A completamento va ricordato che la moderna tecnologia mette a disposizione del chirurgo plastico
numerosi materiali di copertura cutanei che possono essere classificati in: biologici, sintetici, biosintetici, naturali e cellulari, la cui composizione chimico-ficica è varia. II ruolo da essi svolto deve
essere la limitazione delle perdite caloriche, idro-elettrolitiche e proteiche dalla piaga, un migliore
detersione del fondo, una marcata riduzione del dolore ed una riduzione dei tempi di guarigione.
Essi derivano dal concetto di "sostituti della cute" o "cute artificiale" che da tempo affascina i
ricercatori. Una discussione esauriente sulle proprietà chimico-fisiche dei diversi prodotti
disponibili in commercio esula dagli scopi di questa trattazione e pertanto per ciò si rimanda a
specifiche pubblicazioni.
Anche gli xenoinnesti vengono considerati tra i sostituti cutanei temporanei (Bromberg). Essi
provengono in genere dal maiale, la cui cute ha affinità con quella umana, ma naturalmente, non
possono essere utilizzati freschi in quanto possono determinare, oltre alla inevitabile reazione di
rigetto, gravi reazioni anafilattiche. Pertanto gli xenoinnesti di cute di maiale vengono sottoposti ad
un trattamento di conservazione (liofilizzazione) che ne annulla i poteri antigenici e quindi
conservati a temperatura ambiente in contenitori di stagnola contenenti argento micronizzato,
sostanza dotata di potere antisettico. In tal modo essi possono essere disponibili immediatamente e,
dopo rigenerazione mediante immersione in soluzione fisiologica a 37 °C, vengono applicati sulla
superficie della piaga. Essi non attecchiscono neppure temporaneamente ed hanno una scarsa
aderenza al fondo, ma garantiscono la efficace copertura delle piaghe sottostanti qualora si abbia
l'accortezza di rinnovarli frequentemente per prevenire le infezioni che si sviluppano nell'interfacie
fra lo xenoinnesti ed il fondo. Questa complicanza ne limita, attualmente, la loro utilizzazione e la
loro scelta è spesso solo dettata dal basso costo.
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Fig. 11: Ustione di 3° grado in 10^ giornata post ustione, sono evidenti le aree periferiche guarite
spontaneamente e le aree centrali di distruzione dermica che necessitano di copertura chirurgica.
Fig. 12: Ustione di 3° grado: stato del fondo dopo l'escarectomia tangenziale eseguita con il
dermotomo elettrico
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Fig. 13: Ustione di 3° grado: guarigione dopo 7 giorni dall' autoinnesto di cute a medio spessore.
Fig. 14: Ricostruzione del viso con autoinnesti di cute, prelevati dal cuoio capelluto, rispettando le
unità estetiche. Visione destra
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Fig. 15: Ricostruzione del viso con autoinnesti di cute, prelevati dal cuoio capelluto, rispettando le
unità estetiche. Visione sinistra
Fig. 16: Ricostruzione del viso con autoinnesti di cute, prelevati dal cuoio capelluto, rispettando le
unità estetiche. Visione anteriore
Fig. 17: Innesto a rete: innesto ampliato (1:2) mediante utilizzo di mesh-graft in modo di ottenere la
copertura di una superficie fino a sei volte maggiore rispetto all'aera di prelievo.
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Fig. 18: Paziente con 12 ore di vita, esposto alla nascita ad acqua bollente con conseguenti ustioni
di 2° e 3° grado per il 50% della superficie cutanea (40% 3° grado). Il colorito rosso scuro delle
escare è dovuto al minimo spessore cutaneo.
Fig. 19: Visione delle regioni posteriori e laterali destre
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Fig. 20: Si esegue escarectomia chirurgica precoce in quinta giornata.
Fig. 21: Copertura delle aree cruentate dopo escarectomia precoce con omoinnesti freschi a rete.
Fig. 22: In diciannovesima giornata viene eseguita la rimozione chirurgica dell'omoepidermide e
l'apposizione delle lamine di cheratinociti coltivati.
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Fig. 23: Aspetto delle lesioni guarite dopo 6 settimane dall'ustione.
Fig. 24: Aspetto delle lesioni guarite a 6 settimane dall'ustione (particolare).
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Complicanze
Complicanze precoci
Le numerose complicanze che insorgono nel decorso della malattia da ustione possono essere sia la
conseguenza diretta dell'evento termico che secondarie alla prolungata immobilizzazione, ai disturbi
del metabolismo alle infezioni ed anche alle manovre terapeutiche, chirurgiche ed anestesiologiche.
La Tabella I ne riassume le principali. Le più gravi e frequenti sono l'infezione e la sepsi, it
polmone da shock, la coagulazione intravascolare disseminata (CID) e l'ulcera di Curling (ulcera da
stress).
Infezione e sepsi
Per un breve periodo dopo il trauma termico la superficie ustionata è sostanzialmente sterile. La colonizzazione batterica avviene per via endogena ed esogena dopo le prime 48 ore. Ancora oggi è
fonte di controversie quale fra i due sia il meccanismo predominante. Nel corso degli anni
l'introduzione di nuovi antibiotici e di antibatterici topici ha modificato l'incidenza della flora
patogena. Attualmente si assiste alla crescente incidenza delle infezioni da stafilococco aureo ed a
quelle da gram-negativi (Acinetobacter, Escherichia, Klebsiella, Pseudomonas, Proteus,
Providencia) ed all'aumento delle infezioni virali e micotiche. Holder ha evidenziato le fasi
batteriologiche che caratterizzano it decorso del grande ustionato: " iniziale colonizzazione di
germi gram+ (stafilococchi e streptococchi) " periodo della flora mista (gram+ e gram-): 4°-20°
giorno; " ricomparsa degli stafilococchi durante il periodo di guarigione nel quale permangono
aree di granulazione.
TAB. I. Complicanze.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
CARDIACHE: infarto, aritmie
DIGESTIVE: gastrite, ulcera di Curling, lesioni epatiche
EMATOLOGICHE: anemia, CID
POLMONARI: inalazione, broncopolmonite, embolia, edema, ARDS
RENALI: insufficienza renale acuta
URINARIE: cistiti, pieliti
MUSCOLO-SCHELETRICHE
SETTICHE: a focolaio, sepsi
CUTANEE: retrazione, cancerizzazione
TAB. II. Segni di infezione locale.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Aree di discromie focali (brune o nere)
Trasformazione di ustioni superficiali in ustioni profonde
Tessuto sottocutaneo con soffusione emorragica
Aumentata essudazione
Arrossamento e edema della cute sana circostante
Ectima gangrenoso
Essudazione azzurro-verdastra (infezione da pseudomonas aerug.)
Formazione di ascessi e colliquazione dell'escara
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Indagini batteriologiche condotte presso il Centro Ustioni di Catania confermano la comparsa dello
stafilococco patogeno prevalentemente in fase precoce, mentre lo Pseudomonas aeruginosa si
evidenzia con maggiore frequenza in fase tardiva, cioè dopo la II-III settimana. In tale indagine è
stata anche dimostrata la differente colonizzazione batterica nelle ustioni delle diverse aree
anatomiche, con prevalenza degli stafilococchi patogeni all'estremo cefalico, agli arti superiori ed
alla superficie posteriore del torace. All'addome predomina lo Pseudomonas, mentre nei glutei ed al
perineo vi è una netta prevalenza di Proteus mirabilis ed Escherichia coli.
I segni locali di infezione della superficie ustionata sono riassunti nella Tabella II. La setticemia si
manifesta quando la concentrazione batterica nelle aree ustionate è maggiore di 100.000 germi per
grammo di tessuto. In questo caso i germi si diffondono ai tessuti sani per via ematica e linfatica
determinando linfangiti, localizzazioni secondarie e metastasi settiche.
La sepsi generalizzata a pertanto la complicanza più frequente nei pazienti con ustioni superiori al
40-60% della superficie cutanea. Le manifestazioni cliniche insorgono in genere entro tre settimane
dall'ustione. Il paziente presenta iper- o ipotermia, pallore, prostrazione, anemia, ileo paralitico.
Nei casi di sepsi conclamata, particolarmente nei bambini, si possono osservare nella cute sana del
tronco e degli arti, tipiche lesioni ecchimotiche con piccole "escare", definite da Enlens nel 1890
come "ectima gangrenoso" o "eritema a coccarda", determinate da microtrombosi settiche nei
piccoli vasi.
L'insuccesso della terapia antibiotica, fenomeno abbastanza frequente nel paziente ustionato, è
influenzato da numerosi fattori che modulano l'interazione tra farmaco, microrganismo ed ospite, la
cui conoscenza costituisce la base di una moderna antibioticoterapia. L'orientamento attuale a
quello di praticare quotidianamente esami batteriologici su tamponi cutanei delle aree ustionate o su
biopsie di tessuto ustionato e, dopo aver tipizzato il germe, di saggiarne la sensibilità ed utilizzare
l'antibiotico più efficace. Attualmente sono di uso routinario, oltre all'associazione tra
aminoglicosidi ed i glicopeptidi, le cefalosporine della 3a e 4a generazione, i chinolonici ed i
fluorchinolonici.
Un ruolo essenziale è però oggi attribuito alla rigorosa profilassi volta ad impedire la
contaminazione batterica esogena, al potenziamento delle difese immunitarie, nonché ad un efficace
trattamento locale.
Questa complessa strategia che tende a ridurre la carica batterica poggia in gran parte
sull'educazione del personale di assistenza e sull'adeguata strutturazione dei Centri per grandi
ustionati che consente di diminuire la contaminazione crociata. L'ingegneria medica ha inoltre
consentito di risolvere molti dei problemi connessi all'ottimizzazione dell'assistenza nei centri di
terapia intensiva che ormai possono disporre di box a pressione positiva con porte automatiche, di
letti ad aria fluida che regolano un microclima ottimale e consentono 1'essiccazione delle superfici
ustionate (Fig.), di cappe a raggi UV, di flussi laminari, di sistemi di condizionamento con ricambio
frequente e totale dell'aria introdotta sterilmente. L'ossigenoterapia iperbarica (OTI) può trovare
valida indicazione nel trattamento delle infezioni sostenute da germi anaerobi. Questi moderni
presidi peraltro non esimono il personale dall'adottare scrupolosamente tutte quelle precauzioni
ormai codificate nel trattamento dell'ustionato (filtri millipore per i deflussi delle infusioni,
materiale di medicazione monouso, vestiario e biancheria sterile e disposable) che consentono di
diminuire ulteriormente le possibilità di infezione.
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Polmone da shock (ARDS)
E' una sindrome definita come "insufficienza respiratoria acuta progressiva" che, sempre più
frequentemente viene riscontrata a partire dalla 3a-4a giornata. E' caratterizzata dalla formazione in
sede intra-alveolare di un essudato ricco di fibrina che successivamente, organizzandosi, conduce
alla formazione di membrane ialine e ad una ridottissima compliance polmonare. L'eziologia
sarebbe da attribuire ad una CID distrettuale conseguente alle alterazioni emodinamiche dello
shock, spesso settico od a una sindrome da deficit multiorgano (MOFS).
La sintomatologia a caratterizzata da ipossiemia, alcalosi respiratoria e tachipnea e,
radiologicamente, dal reperto di "polmone bianco" o a "tempesta di neve" (Snow storm effect degli
autori anglosassoni), per la presenza di vaste aree di atelettasia. Il decorso spesso infausto a
rapidissimo. La terapia consiste nella correzione dello shock settico mediante infusione di liquidi ed
antibiotico-terapia, ossigeno-terapia in maschera o nei casi più gravi mediante intubazione orotracheale e PEPP (respiratore a pressione positiva), antitrombina III ad alti dosaggi; controverso è
l'uso dei corticosteroidi.
La MOFS è una sindrome distinta clinicamente caratterizzata da una sepsi secondaria precoce,
instabilità emodinamica, disfunzione renale, disfunzione intestinale, disfunzione epatica e
progressiva infezione; attualmente è da ritenersi come il risultato non compensato della risposta
immunologica dell'organismo al trauma severo (Goodwin, 1990), il mancato controllo
immunologico, in termini di inappropriato rilascio di citochine, può contribuire all'insorgenza di
questa sindrome (Meakins, 1990).
Coagulazione intravascolare disseminata (CID)
E' caratterizzata da una diffusa e progressiva coagulazione intravasale, soprattutto a livello del microcircolo. Le alterazioni della bilancia emostatica, susseguenti al trauma termico, con consumo dei
fattori della coagulazione, determinano una ipercoagulabilità più o meno marcata con emorragie
irrefrenabili nei focolai di ustione ed in altri distretti quale 1'apparato gastro-enterico, sino a quadri
di gastrite acuta erosiva. La causa più probabile è lo shock settico, prevalentemente da germi gram
negativi, per cui occorre istituire precocemente una terapia di prevenzione allo scopo di ripristinare
il microcircolo, somministrando eparina o antitrombina III e terapia antibiotica mirata. I tests della
coagulazione, effettuati routinariamente, possono svelare precocemente le alterazioni
emocoagulative.
Ulcera da stress
Le ulcere da stress che compaiono nell'ustionato sono conosciute come ulcere di Curling, e
comprendono le ulcerazioni acute che interessano sia il duodeno che lo stomaco. La formazione
delle ulcere si presta a varie interpretazioni patogenetiche si pensa infatti che esse siano dovute ad
alterazioni del muco gastrico, ad ipersecrezione di acido cloridrico, ad aumentata permeabilità della
mucosa gastrica conseguente a diffusione retrograda di ioni idrogeno, a riflusso di bile, ad ischemia
locale della mucosa da alterato flusso ematico.
I reperti piu significativi, nei pazienti affetti da questa patologia, sono la necrosi locale, osservabile
sia endoscopicamente che istologicamente e le alterazioni ischemiche della mucosa.
Tutto ciò dimostra che nella formazione delle ulcere di Curling, il ruolo maggiore viene sostenuto, a
livello della mucosa, dal flusso ematico.
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La terapia profilattica si basa sull'uso, sin dalla prima giornata, di farmaci H2-antagonisti o
modulatori della pompa ioni H+, antiacidi e sulla precoce ripresa dell'alimentazione enterale
precoce.
La terapia medica delle emorragie in atto, utilizza i normali presidi terapeutici delle emorragie
intestinali in pazienti non ustionati. Le misure terapeutiche prevedono emotrasfusioni, il lavaggio
dello stomaco con soluzioni ghiacciate, la nutrizione parenterale totale, gli H2-antagonisti, la
somatotropina. E' stata anche tentata la cateterizzazione regionale selettiva, con infusione arteriosa
o venosa di pitressina, tuttavia se la terapia medica si dimostra insufficiente (emorragia non
compensabile) è obbligatorio intervenire chirurgicamente.
La vagotomia con antrectomia o la gastrectomia subtotale con resezione dell'ulcera sono gli
interventi di scelta, anche se nel tempo e da diversi Autori sono stati proposti altri tipi di intervento
che vanno dalla gastrectomia totale alla vagotomia superselettiva e piloro-plastica. E' bene
comunque ricordare che la terapia chirurgica dell'ulcera da stress è gravata da una percentuale di
insuccessi variabili tra il 75 ed il 100% dei casi.
Complicanze tardive
La cicatrice patologica La cicatrizzazione patologica è rappresentata da tutte quelle forme cliniche
di riparazione cutanea, che assumono, dopo la guarigione, talora molto precocemente, aspetti
anormali rispetto al processo regolare di cicatrizzazione. (Vedi fig. 25)
E' ormai noto che nelle ustioni, tale tipo di patologia secondaria, trovi la sua più alta espressione per
la varietà e la gravità dei quadri clinici, presentandosi, a volte nello stesso soggetto, nelle forme più
diffuse di cicatrice ipertrofica, cheloidea e distrofica. Sebbene risulti difficile una netta distinzione
tra cicatrice ipertrofica e cheloidea, bisogna tenere presenti alcuni caratteri differenziali nosografici
e clinici, ai fini di un'esatta diagnosi e di un giudizio prognostico.
La cicatrice ipertrofica è caratterizzata clinicamente da una formazione fibrosa di colorito rosso,
rilevata sul piano cutaneo, a superficie irregolare, che si mantiene nei limiti della lesione e tende a
regredire spontaneamente. E' molto frequente ad osservarsi nei bambini ed è caratterizzata da una
sintomatologia pruriginosa insistente e molesta. L'aspetto istologico presenta un tessuto ricco di
fibroblasti e "miofibroblasti". Questi ultimi, evidenziati da Gabbiani nel 1971, sono cellule simili ai
fibroblasti ma contenenti fasci di elementi contrattili (filamenti di 40-80 A°) che si fissano alle fibre
collagene adiacenti. E'opinione diffusa che tali elementi siano parzialmente responsabili dei
fenomeni di retrazione cicatriziale e del disorientamento del collageno, caratteristico delle cicatrici
ipertrofiche.
La cicatrice cheloidea (dal greco chela), per la prima volta descritta dal dermatologo francese J.L.
Alibert nel 1817, è clinicamente caratterizzata da una placca rilevata e ben demarcata, spesso
pruriginosa e dolorosa che tende all'accrescimento laterale, non regredisce spontaneamente nella
gran parte dei casi e, se escissa chirurgicamente, recidiva. L'aspetto istologico a caratterizzato dalla
presenza di larghe bande collagene primitivo, vitree, ialine, acidofile, riunite spesso in strutture
similnodulari o a spirale, ricche di sostanza fondamentale (ac. ialuronico, condroitinsolfato) e assai
povere in componente cellulare fibroblastica.
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La cicatrice distrofica conseguente ad una epidermizzazione spontanea di vaste aree, si presenta
biancastra con sottile epitelio senza annessi, è facilmente sede di lesioni ragadiformi ed ulcerative,
soprattutto se posta in sedi di sollecitazione meccanica. Risulta pertanto imperativo riparare queste
cicatrici, sede di ulcerazioni croniche, spesso recidive, al fine di sostituire il tessuto cicatriziale con
cute normale. Ciò serve a prevenire la metaplasia tumorale (epitelioma baso- o spinocellulare,
sarcoma) che si osservano con una certa incidenza (ulcera di Marjolin).
Terapia. Il trattamento delle cicatrici ipertrofiche e cheloidee costituisce, ancora oggi, un problema
attuale nei suoi vari aspetti, sebbene numerosi presidi terapeutici siano a disposizione (Tab. VI).
TAB. VI. Trattamento locale delle cicatrici patologiche.
Iniezioni intralesionali
Radioterapia
Crioterapia
Chirurgia: plastiche a Z, innesti, trazione
Massaggio
Compressione
L'incostante risultato dei vari trattamenti proposti dipende dal fatto che, mentre essi agiscono
sufficientemente sulle cicatrici ipertrofiche, poca efficacia esercitano sulle cicatrici cheloidee.
Merita di essere segnalato il trattamento più attuale mediante indumenti che esercitino una
compressione elastica continua sulla cicatrice superiore ai 25 mmHg (pressione capillare) che, a
nostro avviso, va attuata molto precocemente nelle ustioni in via di guarigione spontanea, nelle
ustioni riparate con innesti per contrastare la retrazione tipica dopo l'attecchimento e nelle cicatrici
ipertrofiche. La elasto-compressione consentirebbe un riorientamento dei fasci di fibre collagene
linearmente e parallelamente al piano della superficie corporea, mentre l'ipoperfusione, conseguente
alla compressione dei capillari del tessuto cicatriziale, creerebbe un ambiente poco favorevole alla
moltiplicazione cellulare ed un'intensificarsi dell'attività collagenasica per aumento della pCO2 e
diminuzione del pH col risultato clinico di uno spianamento della cicatrice. Anche se il meccanismo
d'azione non è noto, buoni risultati si ottengono mediante l'applicazione, sulle cicatrici cheloidee, di
lamine di silicone medicale, utilizzate singolarmente o insieme all'elasto-compressione.
Recentemente sono stati messi in commercio preparazioni liquide di silicone che risultano più
pratiche per piccole aree ed in zone del corpo, quali il viso o il collo, di difficile gestione.
Trattamento delle cicatrici retraenti. Per comprendere il meccanismo di formazione delle
cicatrici retraenti, bisogna ricordare l'evoluzione del processo di riparazione delle ustioni di 2° e 3°
grado poste in particolari sedi, in corrispondenza cioè di pieghe naturali o articolari. In questi casi,
dopo la demarcazione del tessuto necrotico, la contrazione dei margini, con il concorso attivo delle
fibre connettivali, realizza cicatrici retraenti inestensibili ed invalidanti, che possono assumere
anche l'aspetto clinico delle cicatrici ipertrofiche o cheloidee. Le sedi più frequentemente colpite
sono le strutture nobili del viso (palpebre, labbra, vestibolo nasale), le pieghe della regione
cervicale, le ascelle in toto o isolatamente i suoi pilastri, il gomito, l'inguine, il poplite, le pieghe
della mano, la regione sternale o mammaria, dove le cicatrici, retraendosi, costringono o dislocano
le mammelle, talora contemporaneamente.
Pure se la condotta moderna del trattamento delle ustioni in queste sedi tende a prevenire o a ridurre
la formazione delle cicatrici retraenti, limitando gli atteggiamenti eclatanti di un tempo, tuttavia
ancora oggi, sia pure in grado minore, molti sono i casi che richiedono l'intervento correttivo. Si
tratta per lo più di esiti cicatriziali in pazienti estesamente ustionati o che abbiano presentato
particolari problemi nel decorso della malattia da ustione.
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Il trattamento delle cicatrici retraenti, come si può comprendere, varia a seconda della sede, della
gravità e delle condizioni della cute delle regioni contigue. Vengono infatti utilizzate tecniche
ricostruttive mediante l'impiego di autoinnesti spessi di cute, di plastiche a Z, o di mobilizzazione di
lembi monopeduncolati di vicinanza, lembi muscolo-cutanei, lembi liberi (free flaps), metodi
combinati.
Infine, vanno ricordate le notevoli possibilità offerte in questo campo dall'utilizzazione degli
espansori cutanei, possibile quando le aree contigue alla cicatrice retraente siano integre.
Posizionando adeguatamente l'espansore del volume e della forma desiderati, è possibile ottenere in
loco la quantità di cute necessaria al riparo. Questa procedura consente di ridurre l'entità delle
cicatrici residue nelle aree donatrici e, molto spesso, evita al paziente i rischi connessi ad interventi
maggiori e ripetuti nel tempo.
Fig. 25: Retrazione cicatriziale del pilastro anteriore dell'ascella destra