Vere bugie false verità
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Vere bugie false verità Il gusto dell’inatteso. La moderna tendenza del racconto cinematografico e i suoi film simbolo tra rivelazione e ribaltamento della verità di Flavia Costa 1 Circolo Familiare di Unità Proletaria Cineforum del Circolo Viale Monza, 140 – Milano [email protected] www.cineforumdelcircolo.it Marzo 2008 2 VERE BUGIE FALSE VERITÀ I film di questo ciclo rappresentano una tendenza che si è sviluppata in particolare negli ultimi quindici anni. Questi film raccontano una verità che nel corso della narrazione verrà completata, con l’effetto di sorprendere lo spettatore. Da cui il titolo “vere bugie false verità”: cosa sarà vero? Cosa falso? Cosa omesso? Lo sapremo solo alla fine del film. Facciamo un patto? Ogni volta che decidiamo di vedere un film, sappiamo che stiamo per assistere a una finta realtà, ovvero ad una realtà creata da un autore, che può dare una rappresentazione verosimile, realistica o anche di fantasia, ma che comunque soggiace a delle regole di verosimiglianza. Quindi scegliamo implicitamente di accettare queste regole, purché esse siano coerenti con la realtà rappresentata e vengano giustificate durante la storia. Questa sorta di accordo tra chi racconta la storia e il destinatario di questa storia (che può essere direttamente lo spettatore o un personaggio con cui lo spettatore si identifica) ha trovato una definizione esplicita nel 1986: Greimas, padre della semiotica strutturale1 lo chiama “patto di veridizione”. Nonostante precedenti illustri nella storia del cinema, come Shining (The Shining, 1980, Stanley Kubrick) o La donna che visse due volte (Vertigo, 1958, Alfred Hitchcock), negli ultimi quindici anni si assiste alla presentazione di film che, violando questo patto di veridizione, costituiscono una vera e propria tendenza; essi fanno credere ad una realtà e la maggior parte delle volte tramite omissioni più che tramite menzogne, per poi ribaltare il punto di vista. Se pensiamo che la stessa parola fiction, finzione, deriva dal latino fingere che significa sia immaginare sia plasmare, possiamo dire che gli autori di questi film plasmano la realtà per poi dimostrare come la realtà sia plasmata. Ma in che modo? Citando gli studi del 2001 di Antonio Santangelo, semiotico, possiamo parlare di quattro modalità diverse: 1. sia chi racconta la storia, sia il soggetto di tale storia credono nella realtà rappresentata. A questa tipologia appartengono Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999, M. Night Shyamalan) e Memento (2000, Christopher Nolan). 1 Scienza che studia i fenomeni di significazione e comunicazione. 3 2. chi racconta la storia crede falsa la realtà rappresentata, mentre il soggetto la crede vera. Esempio nella nostra rassegna è Mulholland Drive (2001, David Lynch). 3. chi racconta la storia crede nella realtà rappresentata, mentre il soggetto la crede falsa. Emblematico è I soliti sospetti (The Usual Suspects, 1995, Bryan Singer). 4. sia chi racconta la storia, sia il soggetto sanno che la realtà rappresentata è falsa. A questa tipologia si può ricondurre Match Point (2005, Woody Allen). Questa suddivisione è volutamente schematica conoscenza dei film in questione. Svelare il meccanismo rovinerebbe la visione dei film. poiché presuppone la Postmoderno La tendenza data dall’infrangere il patto di veridizione, si inserisce nel quadro più ampio definito Postmoderno. La nascita del postmoderno viene collocato dalle varie discipline in momenti diversi e rappresenta il momento in cui i capisaldi del moderno (razionalità, funzionalità ed efficienza) non sono più sufficienti a rappresentare o comprendere il mondo. Con il crollo di questi capisaldi si crea un panorama da dopo catastrofe in cui nasce il postmoderno, partendo appunto dalla destrutturazione delle forme su cui la cultura occidentale aveva fondato gli ultimi due secoli il proprio sapere. Per quanto riguarda l’ambito cinematografico Laurent Jullier, studioso di cinema, indica il film Guerre stellari (Star Wars, 1977, George Lucas come momento di passaggio al Postmoderno. Per quale motivo? È il primo esempio di racconto semplice e trasparente, l’uso degli effetti speciali e della computer graphics è significativo ma nondimeno il film ha un suo stile ben definito. Inoltre è il primo film distribuito con il sistema sonoro Dolby-stereo. Infine inaugura un tipo di marketing esteso che coinvolge etichette discografiche, canali televisivi, merchandising (come magliette, gadgets, giocattoli). Per spiegare meglio queste particolarità, è necessario definire il Postmoderno e le sue caratteristiche principali. Lo stesso termine postmoderno è emblematico: post significa ciò che viene dopo e moderno ciò che è ora; ma cosa viene dopo ciò che è ora? L’idea è proprio questa: la coesistenza degli opposti. Questo si contrappone al Moderno, che era caratterizzato da elementi che si contrapponevano l’uno all’altro. Francesco Casetti, teorico di cinema, li riassume in: visibile/invisibile, sensibile/sensato, oggettivo/soggettivo, totale/parziale, prossimo/distante, individuale/collettivo, libero/vincolato, attivo/passivo, naturale/artificiale, originale/derivato. Ma vediamo come Fredric Jameson, critico letterario americano, noto per i suoi studi sulle tendenze culturali, descrive il postmoderno. 4 Ibridismo: crolla la distinzione tra cultura d’élite e cultura di massa: collassano le distinzioni gerarchiche ed emerge un pluralismo del tutto funzionale alle esigenze dell’industria culturale. Sintomo di ciò è la scomparsa dei generi a favore della commistione di essi. Spesso nel dare risposta alla domanda “questo film a quale genere appartiene?” rimaniamo spiazzato o iniziamo a elencarne almeno tre. Frammentarietà: l’individuo prima riusciva a programmarsi a autoformarsi sebbene in stato di angoscia, lacerazione, sdoppiamento e alienazione. Ora il soggetto postmoderno non è più in grado di farlo ma vive in uno stato di frammentazione schizofrenica, ovvero la psiche umana si adatta alla nuova esperienza di presentazione di sempre nuovi punti di vista in mancanza delle precedenti forme identitarie (Nazione, Partito, Stato). In altre parole, essendoci diversi stimoli, senza dei punti di riferimento comuni, ognuno cerca di costruire la propria esperienza attingendo da questi stimoli diversi in modo non strutturato. Superficialità: la mancanza di profondità viene tralasciata a favore dell’intertestualità (la mescolanza e giustapposizione di testi diversi, un collage). Riprendendo l’esempio di Guerre stellari possiamo notare come questa nuova forma di marketing estensiva si avvalga appunto di canali diversi rispetto a quelli prettamente cinematografici. Presentificazione del tempo: si cancella la storia, non ci sono più temporalità, memoria e durata a favore di un eterno presente e il passato diventa un serbatoio di immagini da ripescare di volta in volta con atteggiamento nostalgico o ludico (emblematico in questo senso è Memento). Inoltre l’invenzione della realtà virtuale porta anche ad un diverso modo di concepire il cinema. Immersività: con l’immersione totale nell’ambiente si giunge alla fine della lontananza tra sguardo e oggetto, tra spettatore e storia del film. Ricollegandoci a Guerre stellari la stessa tecnologia del Dolby-stereo permette allo spettatore di sentirsi immerso nella scena. Inoltre, spesso siamo portati a identificare il nostro punto di vista con quello di uno dei personaggi, elemento su cui si fonda anche il meccanismo dei film presentati in questa rassegna. Interattività: lo spettatore non si limita ad assistere a eventi decisi e creati da altri, ma viene chiamato a partecipare attivamente alla formazione della storia. Naturalmente il tutto viene limitato dalla narrazione, ma vediamo in film come Memento, come lo spettatore con la sua attenzione partecipa alla costruzione della vicenda, che altrimenti non potrebbe comprendere. Proteiformità: tutto è infinitamente instabile, deformabile. Questa è un’altra caratteristica su cui si basano i film di questo ciclo: essendo tutto instabile e deformabile, lo stesso regista gioca su questo per dare forma alla storia. Faticità: in semiotica si intende che la ragione della comunicazione non è più l’urgenza di esprimere un contenuto, un’informazione, bensì il comunicare in se stesso. Questo è il motivo per cui i film appartenenti a questa tendenza non giocano più solo sul contenuto della storia da narrare ma anche sul modo in cui presentarla, che diventa parte integrante della storia e quindi anche la sua peculiarità. 5 La narrazione Ed ecco che giungiamo alla narrazione. Il cinema classico hollywoodiano è caratterizzato da un tipo di narrazione forte in cui azione e trasformazione svolgono un ruolo cruciale. I personaggi si identificano con ciò che fanno e ciò che fanno porta avanti l’azione e la trasforma portando avanti la storia. Un esempio possono essere i personaggi impersonati da Humphrey Bogart. Nel cinema moderno, caratterizzato dalle nouvelles vagues, la più famosa è quella francese (Godard, Truffaut, Rivette, Chabrol, Rohmer), si parla di narrazione debole poiché i personaggi e gli ambienti sono privi di interazioni reciproche e le situazioni si concatenano in modo incompleto e provvisorio. Infine nel cinema contemporaneo abbiamo l’antinarrazione in cui dominano la sospensione e la stasi: le trasformazioni procedono a rilento, le relazioni logicocausali tra gli eventi sono sostituiti da giustapposizioni casuali, tempi morti o dispersivi (come in Pulp Fiction, 1994, Quentin Tarantino). È possibile riscontrare questo nei nostri film. Spesso non abbiamo una scansione temporale precisa, o viene attualizzata (come vedremo ne I soliti sospetti), lo stesso accostamento degli eventi viene poi ribaltato dimostrando come esso possa essere manipolato, oppure manca la logica causa-effetto, come in Mulholland Drive. Un piccolo pensiero da spettatore Trovo che Matteo Columbo in Attualità cinematografiche esponga in modo adatto la posizione dello spettatore: «Il rischio è quello di innamorarci di una verità e leggere ogni indizio come una conferma della nostra immagine mentale. Ma questi pericoli non sono forse i tranelli in cui caschiamo volentieri in quella rischiosa abitudine che è guardare un film?» Flavia Costa Per approfondimenti: Sul Postmoderno: Gianni Canova, L’Alieno e il Pipistrello, Bompiani, Milano, 2000 Sul Patto di veridizione: Guido Ferraro, Antonio Santangelo, Semiotica: nel testo e oltre, Arcipelago, Milano, 2002 6 7 IL SESTO SENSO (The Sixth Sense, 1999, M. Night Shyamalan) Bruce Willis (Malcom Crowe), Haley Joel Osment (Cole Sear), Toni Collette (Lynn Sear), Olivia Williams (Anna Crowe), Donnie Wahlberg (Vincent Grey), Mischa Burton (Kyra Collins) Vedo la gente morta Il sesto senso è uscito nel 1999, terzo film diretto da M. Night Shyamalan. La storia parla di uno psicologo infantile di successo, Malcolm Crowe, il quale dopo essere stato ferito da Vincent Grey, suo ex-paziente, che lo accusa di non averlo aiutato, decide di prendere in cura Cole, una bambino che presenta le stesse problematiche. Se il rapporto con Cole si approfondisce, sino a rivelare aspetti che Malcolm non aveva considerato nel caso precedente, il rapporto con la moglie Anna ne risente. Nonostante ciò, Malcolm e Cole riusciranno ad aiutarsi a vicenda nell’affrontare i relativi problemi. Il film è ambientato a Filadelfia, come tutti i film di Shyamalan, città in cui egli è cresciuto. Per quanto riguarda gli interni, elemento comune è il seminterrato in cui hanno luogo scene importanti del film: in questo film, Malcolm fa un’importante scoperta su Vincent Grey. Il regista, come Hitchcock, appare in tutti i suoi film, con la differenza che lo vediamo non solo in cammei, bensì impersona dei personaggi: in questo film lo vediamo nel ruolo del Dr. Hill, il medico dell’ospedale che ha visitato Cole. Altro elemento tipico del regista è la presenza di un incidente stradale che assume un ruolo importante nella trama: ne Il sesto senso Cole rivela alla madre il suo dono. Per quanto riguarda i temi cari al regista, innanzi tutto la maggior parte dei suoi film riguardano individui con abilita straordinarie o eventi che accadono e questi personaggi sono o hanno contatti con bambini. In questo film sono presenti entrambe le tipologie. Il giovane Haley Joel Osment mostra la sua bravura nella recitazione che porta anche a riconoscimenti importanti. Riguardo a ciò Shyamalan racconta il perché abbia scelto proprio lui alle audizioni. Primo: era il migliore. Secondo: era l’unico che indossasse la cravatta. Terzo: rimase sorpreso quando chiese ad Osment se avesse letto il suo ruolo. Egli rispose, “l’ho letto tre volte ieri sera”. Shyamalan ben impressionato “wow, hai letto tre volte il tuo ruolo?”. Osment rispose: “no, ho letto tutto il copione tre volte”. Questo film appartiene al primo gruppo di questo ciclo, poiché sia chi narra la storia sia il personaggio principale credono a ciò che viene narrato, fino alla rivelazione finale, segno tipico dei film di Shyamalan. Da notare: • l’uso del colore rosso • l’uso delle superfici riflettenti 8 Essendo due elementi caratteristici del regista, in seguito vi è la descrizione del rapporto tra Malcolm e la moglie Anna e il rapporto tra Malcolm e Cole. Rapporto con la moglie Spesso nei film di Shyamalan, il personaggio che è legato nella storia ad un bambino, ha problemi coniugali. Malcom Crowe è un esempio di ciò; lo vediamo come dopo la sparatoria le scene con la moglie mostrano una certa distanza tra i due: qui lui ritorna e lei è già a letto addormentata. Successivamente vediamo Malcolm raggiungere Anna al ristorante, giustificandosi per il ritardo. Lei non risponde, non lo guarda nemmeno e risponde solo “Buon Anniversario”. Qui Malcolm è nel seminterrato e suonano alla porta: chiede alla moglie, che è al piano superiore, se va lei ad aprire, ma non riceve risposta. Anna apre la porta e si sente una voce maschile. Un nuovo ritorno a casa, dopo una giornata di lavoro; Malcolm raggiunge la moglie che è sotto la doccia, ma lei nemmeno accenna un saluto. Ora sembra si giunga al culmine della crisi: Anna abbraccia un amico e si sente un rumore di vetri rotti. Malcolm si allontana non visto. Ennesimo ritorno a casa di Malcolm, che vede questo amico uscire da casa sua. Tenta di chiamarlo ma questi si allontana in auto ignorandolo. Ultimo momento con la moglie: Malcolm decide di parlarle nel sonno e finalmente comprende impossibilità a comunicare. la natura della loro Rapporto con Cole Il rapporto con Cole inizia dopo la sparatoria. Vediamo come il profilo sia di molto somigliante a quello di Vincent Grey, il paziente che ha sparato a Malcolm accusandolo di non averlo aiutato. Per Malcolm è una buona occasione di riscatto. Il primo incontro avviene in una chiesa. Cole è lì a giocare con dei soldatini. 9 Cole ritorna a casa da scuola. Malcolm lo aspetta in soggiorno insieme a sua madre. Malcolm propone un gioco a Cole per farlo confidare con lui. Vediamo che Malcom ha comunque guadagnato la fiducia di Cole e vanno insieme a scuola. Si ritrovano di nuovo a casa di Cole, mentre la madre ne approfitta per i lavori di casa. Cole ha una forte reazione verso un professore e subito dopo si incontra con Malcolm. Cole non si dimostra propenso a parlare dell’accaduto. Dopo essere stato rinchiuso in un armadio dai compagni di scuola, Cole è ricoverato in ospedale. La madre e Malcolm vengono a sapere dal pediatra che Cole ha dei segni sul corpo e sospettano dei maltrattamenti. Cole confessa a Malcolm di riuscire a vedere le persone decedute. Malcolm ritiene di non potere più aiutare il ragazzo con la semplice terapia, ma di doversi appoggiare a una struttura di sostegno. Li rivediamo insieme dopo una recita scolastica, in cui Malcolm dimostra il suo sostegno a Cole, che si sente sempre escluso dai compagni di scuola. Malcolm dopo aver assistito all’abbraccio tra la moglie e l’amico, decide di non avere più in cura Cole, per dedicarsi maggiormente ai suoi problemi personali. Cole si sente abbandonato, ma soprattutto capisce che Malcolm non crede che possa vedere i defunti. Successivamente, dopo una scoperta che fa cambiare idea a Malcolm, vediamo come gli incontri inizino nuovamente in chiesa e Malcolm consiglia a Cole di provare a comunicare con i defunti. In seguito vediamo come Malcolm accompagni Cole ad un funerale, proprio per offrire il suo sostegno. L’ultimo incontro avviene a scuola, dopo un’altra recita, in cui si vede come Cole abbia superato il suo problema fondamentale. Egli capisce che ora la presenza di Malcolm non è più necessaria e che non si vedranno più. È qui che Cole dà a Malcolm un consiglio, che poi si rivelerà utile, per risolvere i suoi problemi coniugali. Notiamo quindi come se per Malcolm, Cole è un’occasione per rimediare agli errori passati, per Cole la presenza di Malcolm è utile non solo come psicologo, ma anche 10 come figura paterna. Lo vediamo infatti presente al suo ritorno da scuola, all’ospedale e in occasione della recita scolastica. M. Night Shyamalan M. Night Shyamalan, il cui vero nome è Manoj Nelliyattu Shyamalan, nasce nel sud dell'India, a Mahé. I genitori sono entrambi medici e Manoj nasce in India perché sua madre vi si trasferisce per gli ultimi mesi di gravidanza per avere l'assistenza dei suoi genitori Dopo sei settimane Shyamalan giunge a Filadelfia. Formatosi in scuole cattoliche, si trasferisce poi a Manhattan dove nel 1992 si laurea alla Tisch School of Arts (TSOA). All'età di otto anni prende per la prima volta in mano un Super 8 e capisce presto cosa vuole fare da grande. Il padre preferirebbe per lui un futuro come medico, mentre la madre asseconda la sua passione. A 17 anni ha già realizzato 45 filmini fatti in casa. Si noti come a partire da Il sesto senso, Shyamalan includa in ogni sua pellicola una scena di questi filmini, e in particolare di quello che lui reputa che gli abbia ispirato il film in oggetto. Il primo vero lungometraggio di Shyamalan è Praying with Anger girato quando è ancora uno studente universitario, e finanziato prendendo soldi in prestito da parenti e amici. Il film partecipa al Toronto International Film Festival e viene proiettato in una sala per una settimana. Alcuni critici vedono in lui le potenzialità per un grande futuro e la televisione canadese lo acquista e lo trasmette. Girato in India, resta tuttora l'unica sua opera girata al di fuori della Pennsylvania. Nel 1993 sposa Bhavna Vaswani, psicologa indiana conosciuta ai tempi dell'università e con la quale vive a Wayne, Pennsylvania, insieme alle loro due figlie. Nel 1998 scrive e dirige Ad occhi aperti. I suoi genitori figurano come produttori associati e si devono attendere tre anni perché il film venga distribuito. Girato in una scuola cattolica che frequentò da bambino, riceve una buona critica ma non raggiunge il grande pubblico. In questo periodo scrive anche la sceneggiatura di Stuart Little. Nel 1999 arriva il grande successo con Il sesto senso. Prima grande produzione, con la star Bruce Willis e un giovane attore, Haley Joel Osment che si impone all'attenzione del mondo intero. 40 milioni di dollari di budget e 660 milioni incassati in tutto il mondo. Uno dei 25 maggiori successi commerciali di sempre. Tra i tanti riconoscimenti anche sei candidature all'Oscar, tra le quali proprio quella alla regia. Nel 2000 esce Unbreakable con Bruce Willis e Samuel L. Jackson. Un altro grandissimo successo commerciale è Signs (2002) con Mel Gibson. Presentato come un film di fantascienza e lanciato anche dalla curiosità sorta attorno ai cosiddetti misteriosi "cerchi nel grano", il film in realtà è più che altro un'opera intimista e sentimentale. The Village (2004) vanta un gran cast (William Hurt, Sigourney Weaver, Adrien Brody, Joaquin Phoenix e la bravissima esordiente Bryce Dallas Howard), un'ambientazione suggestiva ed una storia ancora una volta originale, che stavolta non bastano per soddisfare la critica e anche il riscontro al botteghino, seppur buono, non è all'altezza delle aspettative. Il suo ultimo progetto Lady in the Water è molto travagliato, segno anche di un momento non proprio felicissimo in una carriera che lo ha portato al grande successo giovanissimo e che fa sì che ora abbia su di sé una grande pressione. Dopo una lunga collaborazione con la Disney, passa alla Warner Bros dopo uno scontro con la casa di produzione proprio per questo suo film, una favola pensata per i propri figli, così la descrive Shyamalan che ha dovuto incassare un'altra batosta dai critici, pur reggendo ancora discretamente al botteghino americano. 11 Come regista è divenuto celebre in ogni caso grazie alla sua capacità di creare atmosfere suggestive, sempre al limite tra la realtà e la fantasia, e per i suoi caratteristici finali ad effetto con il disvelamento di elementi che spesso ribaltano l'intera lettura del film, ormai una sorta di "marchio di fabbrica" che forse presenta il limite di condizionare in una certa misura la visione di ogni suo nuovo film. Filmografia Praying with Anger (1992) - A occhi aperti (Wide Awake, 1997) - Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) - Unbreakable – Il predestinato (Unbreakable, 2000) - Signs (2002) - The Village (2004) - Lady in the Water (2006) - E venne il giorno (The Happening, 2008) Riconoscimenti Nel 2000 Premio per la musica nel cinema e nella televisione: migliore trai i film successi di incasso James Newton Howard Premio dell’Accademia dei film di fantascienza, fantasy e horror, Usa: miglior film horror, miglior interpretazione di un giovane attore Haley Joel Osment Premio dell’Academy giapponese: miglior film straniero Premio Blockbuster: miglior attore emergente Haley Joel Osment; miglior attore - suspense Bruce Willis; miglior attrice non protagonista - suspense Toni Collette Premio Bogey d’oro, Germania Premio Bram Stoker: sceneggiatura M. Night Shyamalan Premio dell’Associazione critici di film in televisione: premio della critica, miglior interpretazione di un giovane attore Haley Joel Osment Premio Cannes Film Festival: premio per DVD Design Premio dell’Associazione critici cinematografici di Dallas-Fort Worth: miglior attore non protagonista Haley Joel Osment Premio Empire, UK: miglior regista M. Night Shyamalan Premio dell’Associazione critici cinematografici della Florida: miglior attore non protagonista Haley Joel Osment Premio Golden Screen, Germania Premio dell’Associazione critici cinematografici di Kansas City: miglior attore non protagonista Haley Joel Osment Premio dell’Associazione critici cinematografici di Las: miglior attore non protagonista Haley Joel Osment; miglior promessa Haley Joel Osment Premio MTV: Interpretazione maschile emergente Haley Joel Osment Premio dell’Associazione critici cinematografici: miglior attore non protagonista Haley Joel Osment Premio della scelta di People, USA: miglior film; Favorite Motion Picture Premio Satellite d’oro: miglior montaggio Andrew Mondshein; migliore sceneggiatura originale M. Night Shyamalan Premio Scrittori americani di fantascienza e fantasy: miglior sceneggiatura M. Night Shyamalan Premio dell’Associazione critici cinematografici del Sudest: miglior attore non protagonista Haley Joel Osment Premio scelta di Teen: miglior interpretazione emergente Haley Joel Osment Premio dei giovani artisti: migliore interpretazione di un giovane attore Haley Joel Osment Premio YoungStar : miglior interpretazione di un giovane attore Haley Joel Osment 12 Recensioni Un piccolo miracolo cinematografico merito del regista Night Shyamalan. Il protagonista simpatico ma incolore. Con tutto il turbamento e l’angoscia che procura, Il sesto senso dà anche qualche speranza: che, dopo anni di effetti grossolani e di violenza gridata, si possa fare del cinema “di genere” capace, sotto la scorza del genere, di comunicare emozioni anche a un pubblico adulto. Il piccolo miracolo cinematografico è merito di un regista indiano da anni trapiantato in America, Night Shyamalan, che scrive e dirige un film di genere sì – perché almeno nel punto di partenza Il sesto senso potrebbe ricordare i classici dell’horror infantile, da “L’esorcista” in qua-, ma lo sviluppa con ritmi all’antica, non fa strane sperimentazioni e tratta con straordinaria sensibilità il tema dell’infelicità infantile. […] Di solito è bene diiffidare dei bambini attori, che sanno comunque rubare la scena ma non saranno necessariamente degli attori. Non si può che essere conquistati, invece, dall’undicenne Haley Joel Osment che incarna il piccolo e infelice Cole: una attore con una straordinaria capacità di trasmettere disagio e sofferenza senza mai gigioneggiare. E il suo rapporto prima diffidente poi quasi appassionato con lo psicologo […] è raccontato con pudore e finezza. […] Shyamalan […] sa come usare i materiali dell’horror mentale, come dosare al minimo gli effetti e gli ingredienti, come rendere inquietante e misteriosa la vita quotidiana. […] Di lì a dire che si tratti di un grande film ne passa: ma è già una consolazione avere un buon film per i grandi. Irene Bignardi, La Repubblica, 30 ottobre 1999 Dopo aver visto "The sixth sense - Il sesto senso" si puo' dubitare dell' intelligenza di Bruce Willis, ma non del suo fiuto per l' affare. In poche settimane il film ha infatti introitato 300 milioni di dollari e ne incassera' ancora. Scritto e diretto dall' oriundo indiano M. Night Shyamalan e concepito come "un incrocio" fra "Gente comune" e "L' Esorcista", il film non mette in mano a Willis la pistola ne' gli concede spazi per cazzottaggi o momenti di autoironia. Irriconoscibile per la masochistica sobrieta' di accenti e gesti, ma con un parrucchino che grida vendetta, il divo e' qui uno psicologo dell' infanzia che nella prima scena finisce impallinato da un ex paziente cresciuto e deluso. Tutto il film e' tra parentesi: e non rivelo come va a finire perche' se si smonta la sorpresa dell' ultimo rullo non resta proprio niente. La scena del ferimento di Willis e' solo un modo per introdurre il duetto del protagonista risanato con il ragazzino prodigio Haley Joel Osment (fisicamente e' un sosia di Susanna Tamaro) che si crogiola nel terrore con buoni motivi: e' assillato dai fantasmi dei trapassati vicini e lontani, porta sulla pelle le cicatrici degli incontri a rischio e paventa il peggio. La cura che il trepido psicologo suggerisce e' quella di affrontare gli spettri, non tutti cattivi o malintenzionati, e sentire cosa vogliono. Prometto di attenermi senz' altro alle istruzioni di Bruce appena mi comparira' davanti un fantasma, ma nell' attesa concedetemi di considerare "Il sesto senso" una stupidaggine. Resta davvero difficile spiegarsi il trionfo di un thrilling oscurantista, scritto male e girato al buio, che il divo Willis attraversa con il passo reverente di un turista in una cattedrale credendosi dentro a chissa' quale opera d' arte. Tullio Kezich, Corriere della Sera, 30 ottobre 1999 Bruce Willis nella parte d'uno psicologo per l'infanzia è un po' come Valeria Marini nella parte di Madre Teresa o Schwarzenegger in quella di Freud: l'inespressività dell'attore è infatti marmorea. A Filadelfia il dottor Willis cura un bambino di nove anni dotato di poteri paranormali, terrorizzato da visioni 13 di fantasmi, morti e anime in pena. Le terapie sono soprattutto affetto, comprensione, rassicurazione: il bimbo va meglio, per il dottore c’è poco da fare, la storia si conclude con un espediente. Negli Stati Uniti, incassi strepitosi: gran successo ovunque, oltre duecentonovanta milioni di dollari. Lietta Tornabuoni, La Stampa, 31 Dicembre 1999 Da Edgar Allan Poe e Ambroce Bierce in poi, la letteratura americana può vantare una notevole tradizione nel genere gotico. Il film con Bruce Willis si ricollega, contando più sulle suggestioni della storia che sulle risorse dei soliti trucchi visivi. […] “American Gothic” di grande successo con finale a sopresa (ma lo sarà ancora per qualcuno, dopo tanto parlarne?). A starci un po’ attenti, per la verità, l’epilogo non è imprevedibile come pretenderebbero gli estimatori. Meglio – comunque – che Haunting e tanti altri film, dove gli effetti speciali finiscono per vedersela tra loro. E le star stanno a guardare. Roberto Nepoti, La Repubblica, 26 luglio 2000 […] Shyamalan, che è anche autore della sceneggiatura, ha dimostrato di saper manipolare benissimo le paure che può provare un bambino di fronte alla visione di fantasmi, ne intuiva, evidentemente, quanto fosse facile trasferire questa paura sul pubblico adulto. […] Antonio Monda, La magnifica illusione, 2003 Clamoroso successo in tutto il mondo, affascina per il rigore narrativo con cui racconta la storia di un bambino che vede i morti e del suo psicologo, ma anche per una non trascurabile carica di riflessione narratologica. Gianni Canova, le garzatine Cinema, 2005 […] Enorme successo globale a sorpresa per un film scritto e diretto con qualche ingenuità. […] Ma bisogna ammettere che il regista – anche sceneggiatore – riesce a creare un’atmosfera al tempo stesso inquietante e catartica, con un messaggio new age e consolatorio (Shyamalan unisce l’origine indiana all’educazione cristiana) che però tocca tasti profondi. La celebrata sorpresa finale è arzigogolata e poco originale (vedi Una pura formalità di Tornatore): ma è anche un bello shock per lo spettatore che si era identificato con Crowe. […] (**½) Paolo Mereghetti, Dizionario del film 2006 […] 3° film del regista-sceneggiatore M.N. Shyamalan che già in Wide Awake (1998) aveva raccontato la storia di un bambino in qualche modo tramite con l'aldilà. Da prendere o lasciare, questa storia di fantasmi. Se la si prende, superando ogni pre-giudizio sulla provvisoria permanenza, o immanenza, dei morti nel mondo dei vivi, si possono apprezzare le qualità del film che pur “soffre di un certo sovraccarico simbolico e di qualche sbavatura nella coerenza dell'impianto” (Mauro Gervasini): la recitazione sotto le righe di B. Willis e del piccolo H.J. Osment, la tensione verso un'atmosfera onirica, la fotografia antinaturalistica di Tak Fujimoto. Più di 600 milioni di dollari d'incasso sul mercato internazionale. (**½) Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2007 […] Il giovane Osment è straordinariamente bravo; il film è sinuoso e sinistro senza essere ricattatorio. […] (***½) Leonard Maltin, Guida film 2007 14 Il mio punto di vista Leggendo le recensioni emerge la bravura del regista- sceneggiatore nel rappresentare le paure e nel coinvolgere il pubblico. Gli viene anche riconosciuta, seppur con qualche obiezione, l’innovazione nel campo della narrazione, che è la peculiarità del film; se fosse stato narrato in modo diverso, probabilmente non avrebbe sortito lo stesso effetto di sorpresa. Flavia Costa 15 MEMENTO (2000, Christopher Nolan) Guy Pearce (Leonard Shelby), Carrie-Anne Moss (Natalie), Joe Pantoliano (Teddy Gammell), Larry Holden (Jimmy), Jorja Fox (Moglie di Leonard) Rewind Memento è il secondo film di Christopher Nolan ed è stato girato in soli venticinque giorni. La storia parla di un investigatore assicurativo, Leonard Shelby, che indaga sulla morte della moglie, cercando di trovare il colpevole per vendicarla. L’ostacolo principale è un disturbo di cui soffre dal momento dell’aggressione: perde la memoria a breve termine dopo una manciata di minuti. Particolarità di questo film è la narrazione: la vicenda è presentata a ritroso. Ciò è reso chiaro dalla prima scena che viene mostrata in “rewind”. Molti critici hanno spiegato questa tecnica, paragonandola al procedimento che segue un’indagine. È anche vero che questa narrazione ha come precedente Tradimenti (Betrayal, 1983, David Hugh Jones) tratto da un’opera di Harold Pinter, segue l’ordine a ritroso per ripercorrere il percorso che la nostra memoria segue nel ricordare. Notiamo inoltre che ci sono due linee di racconto che poi si ricongiungeranno: la prima, a colori, rappresenta l’indagine di Leonard per trovare il colpevole ed è narrata a ritroso; la seconda, in bianco e nero, riguarda la scoperta di ciò che è successo prima dell’incidente e segue l’ordine cronologico. Questa sensibilità nell’uso del colore o del bianco e nero può essere ricondotta al fatto che Nolan sia daltonico: lo ritroviamo anche negli altri suoi film. Queste due linee sono a loro volta frammentate dai ricordi di un caso simile a quello di Leonard e dai ricordi della moglie. Tema principale è quindi la memoria e il suo valore: le nostre azioni hanno senso, se poi non le ricordiamo? Può essere un bene a volte dimenticare? Un altro tema caro a Nolan e presente nei suoi film è quello dell’ossessione che porta i personaggi a rischiare la loro salute fisica e mentale: in questo caso Leonard è ossessionato nel trovare l’assassino della moglie. Infine altro denominatore comune a tutti i suoi film è il protagonista come uomo che si fa o fa giustizia da solo o con metodi discutibili dalla morale comune. Leonard decide di indagare personalmente anche per vendicarsi della moglie. Analizzando il film, vediamo come Nolan, come negli altri suoi film, inizi con un particolare delle mani del protagonista. In particolare in questo film vediamo le mani di Leonard con in mano una foto. Non solo: sua caratteristica è iniziare con una scena che ritroveremo alla fine. Inoltre nei suoi film collabora con attori preferibilmente non statunitensi per impersonare ruoli di statunitensi. Infatti Guy Pearce, attore protagonista, è nato in Inghilterra ed è vissuto in Australia, Carrie-Ann Moss, che impersona Natalie è invece canadese e Larry 16 Holden, presente in molti film di Nolan, qui nel ruolo di Jimmy, proviene dall’Irlanda del Nord. Una curiosità è il numero di telefono di Teddy: 555-0134 è lo stesso di Marla Singer, personaggio di Fight Club (1999, David Fincher). Ricordi di Sammy Jankins Alle due linee di narrazione principali si aggiungono altre due linee. Una di queste è il racconto della storia di Sammy Jankins, un caso su cui Leonard ha indagato prima dell’incidente. Possiamo considerarla una storia nella storia. È in bianco e nero e raccontata in ordine cronologico, così come la linea narrativa in cui essa è contenuta. Come lo stesso Leonard afferma, la storia di Sammy ci aiuta a capire meglio Leonard stesso e il suo disturbo alla memoria. Inizalmente ci spiega anche che i ricordi precedenti all’incidente, non vengono scordati e soprattutto si possono anche intraprendere azioni complesse se sono state apprese prima dell’incidente: ad esempio l’iniezione di insulina alla moglie diabetica. Id’altra parte ci introduce la nozione di “condizionamento”, spiegato come il modo in cui apprendiamo attraverso l’istinto piuttosto che con la memoria. Ciò spiega anche come può essere possibile a Leonard avere un metodo per “ricordarsi” ciò che la memoria non trattiene. infine, da non trascurare è cosa questo disturbo comporta alle persona che circondano Sammy e quindi Leonard. Vediamo come la moglie di Sammy ha davvero bisogno di sapere se questo disturbo è di natura fisica o psicologica per accettare questa nuova condizione del marito. Ricordi della moglie La seconda linea di storia nella storia riguarda i ricordi di Leonard di sua moglie. Come la storia in cui essa è contenuta, viene presentata a colori e in ordine non cronologico. Questi ricordi si alternano tra i ricordi della moglie da viva, nelle immagini a destra, e quelli dell’aggressione, nelle immagini a sinistra. Come Leonard dice, si ricorda di dettagli. Ed è quello che vediamo. Le immagini scorrono spesso veloci e si soffermano su alcuni particolari. 17 Successivamente i ricordi della moglie sono legati a come Leonard vi partecipa. Per esempio gli oggetti che decide di bruciare, oppure il momento in cui lui si alza per difendere la moglie dall’aggressione in corso e quindi colpito, batte la testa e subisce il trauma che gli causerà il disturbo alla memoria. Questa “sequenza” di ricordi verrà poi ricollegata, come per le due linee narrative principali, ai ricordi di Sammy. Christopher Nolan Christopher Nolan è nato a Londra nel 1970 ed è di padre inglese e madre statunitense, grazie a questo ha la doppia cittadinanza. Inizia a girare film all’età di sette anni con la super8 del padre e i suoi giocattoli. La sua infanzia la passa tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, ma studierà nel Regno Unito e in particolare all’Università, dove studia Letteratura Inglese, continua a girare film con l’associazione cinematografica studentesca. Ancora studente, nel 1989 riesce a far proiettare il suo primo corto sul canale americano PBS. Si tratta del surrealista Tarantella, girato in Super 8. Dopo aver partecipato al Cambridge Film Festival con Larceny (1996), realizza Doodlebug (1997): tre minuti su una caccia all'insetto con colpo di scena finale. Grazie alla moglie Emma Thomas, che produce, nel 1998 Nolan riesce a esordire nel lungometraggio. Following: è un noir in bianco e nero, erede della tradizione britannica degli anni '50. La storia si basa su flashback e flashforward, definendo fin dall'esordio il carattere essenziale del Nolan autore: le sperimentazioni temporali. Qualcosa d'innovativo s'intravede già, al punto che Following vince la Tigre d'oro al festival di Rotterdam nel 1999, e viene proiettato all'Hong Kong Film Festival dello stesso anno, dove Nolan chiede addirittura soldi al pubblico per finanziare il suo prossimo progetto. Si tratta di Memento (2000), il film culto che lo rende noto un po' in tutto il mondo, suscitando opere che ne ricalcano la struttura (come Irreversible, 2002, di Gaspar Noé) e divenendo un successo soprattutto grazie al passaparola. L'inconsueta struttura narrativa è sufficiente a rendere il film un evento. Tratto da un racconto del fratello Jonathan ("Memento mori") il film è un successo planetario, con tanto di candidatura agli Oscar per la migliore sceneggiatura. Vista l'originalità di Memento, la Warner Bros si interessa al giovane Nolan e gli affida la regia di Insomnia (2002), remake di un film norvegese del '97, con cast spettacolare: Al Pacino, Robin Williams e Hilary Swank. L'abilità a dirigere grandi attori e a dilatare il tempo accrescendo la suspence non passa inosservata e la Warner Bros crede in lui, cercandolo come regista del nuovo Batman, quello che dovrebbe risollevare la serie dopo i fiaschi dei fumettistici film di Joel Schumacher. Nolan aveva in realtà altre intenzioni: un film biografico su Howard Hughes con Jim Carrey, di cui teneva già pronta la sceneggiatura. Ma Scorsese proprio in quegli anni inizia a girare The aviator (2004), sulla stessa biografia, costringendo Nolan ad abbandonare l'impresa. Nolan accetta così la sfida di Batman. Cosa che, peraltro, gli riuscirà piuttosto bene. Il cast, ancora una volta, è stellare: Micheal Caine, Gary Oldman, Morgan Freeman e Liam Neeson. Ma la vera scoperta è Christian Bale, il quale diverrà una sorta di attore feticcio per Nolan, che lo rivuole per il seguente The Prestige (2006). Il dover raccontare la nascita di Barman permette inoltre a Nolan di cimentarsi nei suoi amati flashback, riuscendo a evitare la linearità persino in un film 18 d'azione. Batman Begins lo decreta maestro nel thriller introspettivo e risolleva la serie dalla crisi. E la Warner, soddisfatta, lo vuole per la regia del quinto episodio: The dark knight (2008) dove ricompare la figura di Joker. Nel frattempo, Nolan ci regala una delle più piacevoli sorprese del 2006: The Prestige. Per la sceneggiatura torna alla collaborazione col fratello Jonathan. Filmografia Following (1998) - Memento (2000) - Insomnia (2002) – Barman Begins (2005) – The Prestige (2006) – The Dark Knight (2008) Riconoscimenti Nel 2000 Deauville Film Festival, Premio CinéLive: Christopher Nolan Deauville Film Festival, Premio della Critica: Christopher Nolan Deauville Film Festival, Premio Speciale della Giuria: Christopher Nolan Premio dell’Associazione Catalana Critici di Scrittori e Sceneggiatori: Christopher Nolan Nel 2001 Premio della Associazione di critici cinematografici di Boston: miglior sceneggiatura Christopher Nolan Premio britannico per il cinema indipendente: Miglior film straniero indipendente – in lingua inglese Associazione di Casting in USA: miglior casting per film indipendente John Papsidera Premio del Circolo di critici cinematografici di Londra: sceneggiatore britannico dell’anno Christopher Nolan Premio dell’Associazione critici cinematografici di Los Angeles: migliore sceneggiatura Christopher Nolan Premio dell’Associazione critici cinematografici di San Diego: miglior attore Guy Pearce Premio dell’Associazione critici del Sudest Asiatico: Miglior film, miglior sceneggiatura originale Christopher Nolan Sundance Film Festival, Premio Waldo Salt per le sceneggiature: Christopher Nolan, Jonathan Nolan (racconto) Premio dell’Associazione critici cinematografici di Toronto: miglior film, miglior sceneggiatura Christopher Nolan Nel 2002 Premio AFI Film: sceneggiatore dell’anno Christopher Nolan Premio Bram Stoker: sceneggiatura Christopher Nolan Jonathan Nolan Premio dell’Associazione critici di film in televisione, Premio della critica: miglior sceneggiatura Christopher Nolan Premio dell’Associazione critici cinematografici di Chicago: miglior sceneggiatura Christopher Nolan Premio Chlotrudi: miglior regista Christopher Nolan Premio dell’Associazione critici cinematografici di Dallas-Fort Worth: Christopher Nolan Premio del circolo critici cinematografici della Florida: miglior sceneggiatura Christopher Nolan Premio Golden Trailer: miglior film, miglior sceneggiatura originale Premio Independent Spirit: miglior regista Christopher Nolan, miglior film Jennifer Todd, Suzanne Todd, miglior sceneggiatura Christopher Nolan, miglior attrice non protagonista Carrie-Anne Moss Premio dell’Associazione critici cinematografici di Las Vegas: migliore attore Guy Pearce, miglior montaggio Dody Dorn, miglior film, miglior sceneggiatura Christopher Nolan Premio MTV: miglior cineasta emergente Christopher Nolan 19 Premio dell’Associazione critici cinematografici Online: miglior cineasta emergente Christopher Nolan, miglior film, miglior sceneggiatura adattata Christopher Nolan Premio dell’Associazione Critici cinematografici di Phoenix: miglior montaggio Dody Dorn, miglior emergente Christopher Nolan, migliore sceneggiatura originale Christopher Nolan Premio del Circolo di critici cinematografici di Vancouver: miglior Film Nel 2003 Premio dell’Accademia della fantascienza, Film Fantasy & Horror, USA: miglior film di azione/avventura/thriller Recensioni […] Memento è un film che ha il suo pregio maggiore nelle reiterate sollecitazioni all’attenzione dello spettatore: gli chiede continuamente qualcosa e, finalmente, gli restituisce un ruolo attivo di fronte alle immagini. Naturalmente, però, quello di Christopher Nolan è anche un gioco che richiede adesione e complicità totali da coloro che guardano (e, come detto, partecipano). Insomma, è uno strano thriller che sottrae indizi invece di svelarli (ma, in realtà, li svela proprio mentre sembra sottrarli), a noi come al protagonista; che, in definitiva, diventa come ciascuno di noi: crede di fermare il passato che gli scivola via, attraverso un rigido controllo sul presente. Invece, non riesce a essere padrone di nulla. Nemmeno della propria identità. Diego Del Pozzo, Cinema Sessanta, gennaio/febbraio 2001 Un “noir” alla David Lynch con qualche pasticcio di troppo […] La narrazione a flashback ha sempre trovato un terreno privilegiato nel film noir, e per motivi facilmente intuibili: evoca il modo di procedere di chi conduce un’indagine, cercando di ricostruire con la razionalità fatti avvenuti in sua assenza. Da questo punto di vista Memento si presta all’applicazione del procedimento meglio di qualsiasi film; salvo che si lascia tanto prendere dal piacere di esplorare tutte le piste possibili da dimenticare, alla fine (con immaginabile delusione dell’appassionato di gialli), di fornirci la soluzione del «caso». Alla prima regia americana, il britannico Christopher Nolan sceglie uno stile alla David Lynch che lascia ammirati e perplessi. Per un bel po’ la struttura complessa, a salti indietro avanti nel tempo, passaggi dal colore al bianco e nero, reiterazione degli stessi episodi afferra la tua attenzione e la tiene ben stretta. Però, una volta capito il meccanismo, le continue ripetizioni cominciano a risultare faticose e l’eccesso di autocompiacimento diventa un po’ irritante. Roberto Nepoti, La Repubblica, 4 Febbraio 2001 Uno dei noir più originali da molti anni a questa parte. […]Nolan vuole sorprendere fin dalla prima sequenza, e ci riesce. Ma il gioco straordinario di rivelazioni e finte apparenze (il film è narrato a ritroso) non gira a vuoto: riguarda cose come l' usura della memoria e dell' amore, il labile senso della nostra identità. Nolan è un primo della classe e lo sa: ma al contrario di tanti altri, sa toccare nel profondo. Alberto Pezzotta, Corriere della Sera, 14 febbraio 2001 20 […] Sperimentale nella struttura narrativa e nell’uso del montaggio (si parte infatti dalla fine della vicenda e si procede a ritroso) Memento è un film che utilizza un genere popolare come il thriller per costruire un discorso sul Tempo e la Memoria, la scelta e il libero arbitrio. (****) Francesco Crispino, Il Venerdì, 23 Agosto 2002 […] L’espediente di raccontare la storia dalla fine all’inizio creava disorientamento, ma permetteva allo spettatore di entrare nella testa del protagonista, che aveva perduto la memoria: diventando una meditazione struggente sulla perdita di ciò che ci è più caro. Cosa sarebbe cambiato se il film fosse stato montato rispettando l’ordine «naturale» degli eventi? […] Alberto Pezzotta, La Stampa, 17 Aprile 2003 Anche se in molti hanno accusato il giovane e talentuoso regista inglese Christopher Nolan di eccessi virtuosistici nella sceneggiatura (tratta da un racconto del fratello), questo suo secondo film è da considerarsi tra i migliori e certamente più originale thriller di fine millennio. […] Certo, i virtuosismi non mancano. Ma non manca nemmeno la capacità di usare lo schema del noir e dell’amnesia per indagare sulla labilità dei sentimenti che ci legano alle persone amate. (***) Guido Reverdito, Il Venerdì, 10 Ottobre 2003 […] Uno dei noir più originale degli ultimi anni, narrato a ritroso, in modo che lo spettatore brancoli nel buio come il protagonista e venga a sapere poco per volta quello che è successo veramente. Un gioco di rivelazioni e finte apparenze che richiede attenzione ma non delude, perché va a scandagliare nel profondo, facendoci interrogare sulla fragilità della memoria (specie per le persone amate) e sul labile senso della nostra identità. Nolan, anche sceneggiatore (il soggetto è un racconto di suo fratello Jonathan), sa di essere bravo, fin troppo: ma gli si perdonano sfoggi e virtuosismi, perché questa volta dietro c’è qualcosa di davvero inquietante e toccante. […] (***) Paolo Mereghetti, Dizionario del film 2006 […] Virtuoso della sceneggiatura (tratta da un romanzo del fratello Jonathan) e della regia, il giovane inglese C. Nolan dipana la sua vendicativa detective story e a colpi di avanti e indietro temporali. In linea con il precedente Following (1998), e all'insegna del passo del gambero, è un film-scommessa, sprofondato nel noir e sorretto dall'energia nevrotica del protagonista G. Pearce. Difficile da giudicare: esercizio stilistico che, a lungo andare, mostra la corda di un formalismo fine a sé stesso? inquietante favola in forma di destrutturato incubo mentale sulla labilità della memoria, dell'amore, dell'identità? (**1/2) Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2007 […] Film pretenzioso tra convenzioni narrative e manipolazioni del tempo reale. Eppure ha i suoi fan. Leonard Matlin, Guida ai Film 2007 21 Il mio punto di vista L’utilizzo della narrazione a ritroso è sicuramente un punto di forza di questo film. Coinvolge lo spettatore richiedendo attenzione ininterrotta, ma proprio per questo può essere in alcuni momenti faticoso, anche se alla fine non delude. L’idea di vederlo, come proposto nel dvd, anche nella versione che segue l’ordine cronologico, è di certo interessante soprattutto per realizzare quanto lo spirito stesso del film cambi, cambiando l’ordine degli elementi. Flavia Costa Per sorprendervi ancora La donna che visse due volte (Vertigo, 1958, Alfred Hitchcock) – Shining (The Shining, 1980, Stanley Kubrick) – Fight Club (1999, David Fincher) - The Others (2001, Alejandro Amenábar) – Vanilla Sky (2001, Cameron Crowe) – Saw (2004, James Wan) – L’uomo senza sonno (El Maquinista, 2004, Brad Anderson) 22 MULHOLLAND DRIVE (2001, David Lynch) Naomi Watts (Betty Elms / Diane Selwyn), Laura Harring (Rita), Ann Miller (Catherine “Coco” Lenoix), Robert Forster (Harry McKnight), Justin Theroux (Adam Kesher) La città degli “angeli” Mulholland Drive è una strada vicino alle colline di Hollywood e porta sino alle spiagge della California e appare anche nel film Strade perdute (Lost Highways, 1997). La storia produttiva di questo film è particolare: viene girato nel 1999 come episodio pilota di una serie tv proposta alla Abc. L’emittente televisiva decide però di non produrre l’intera serie e il progetto viene accantonato. Successivamente Studio canal e Alain Sarde, case di produzione francesi decidono di produrlo come film; si girano le scene mancanti ed ecco che nel 2001 esce il film. La trama di Mulholland Drive è complicata, come spesso capita con i film di David Lynch. Abbiamo Betty, bionda, angelica, aspirante attrice che arriva a Los Angeles per un provino. Rita, affascinante, mora, che in seguito a un incidente non ricorda la sua identità. Adam, regista cui viene “consigliato” di scritturare un’attrice. Ma come si collega il tutto? È proprio questo il senso del film. Come sempre Lynch si rifiuta di commentare il significato dei suoi film, lasciando allo spettatore l’interpretazione. Ciò Lynch che non affida ad altri è come secondo lui il film dovrebbe essere visto. Quando usci nelle sale cinematografiche, insieme al film, venne distribuito un fascicolo scritto da Lynch stesso con le indicazioni sul formato di proiezione e sul volume. Per quanto riguarda la versione in DVD, il film non è diviso in capitoli, poiché secondo il regista un film deve essere visto dall’inizio alla fine senza interruzioni. In questo film possiamo ritrovare molti elementi tipici di David Lynch. Il film è ambientato Los Angeles, metropoli estesa e caotica; l’alternativa per Lynch è antitetica: cittadine. La stessa ambientazione iniziale, con la strada notturna, e la tavola calda sono tipiche e significative. Egli scrittura spesso tra gli attori personaggi del mondo musicale: in questo caso Billy Ray Cyrus come addetto alla manutenzione di piscine, Rebekah Del Rio che interpreta se stessa nel club Silencio e Angelo Badalamenti, curatore delle musiche del film, che appare come boss mafioso con esigenti gusti per il caffè. Inoltre tipica è la figura femminile angelica, in questo caso Betty. eventi ricorrenti nei film di Lynch sono gli incidenti e le lesioni alla testa: qui inizia con un incidente e una donna che in seguito a esso non ricorda la sua identità. Per quanto riguarda gli oggetti abbiamo lampade, telefoni e sigarette (la lampada rossa, insieme al telefono nero e al portacenere), lampade che lampeggiano e malfunzionanti, come nell’apparizione del cowboy, tende rosse, quindi il colore rosso ma soprattutto il 23 colore blu (nei momenti di rivelazione) e infine il caffè, in questo caso quasi unico protagonista durante la riunione per la scelta dell’attrice. Dieci indizi Nella versione originale del DVD, David Lynch lascia dieci indizi per aiutare la comprensione della vicenda. Tutti gli indizi si riferiscono a oggetti, avvenimenti, luoghi che compaiono con due funzioni diverse nel film. Starà allo spettatore capire come confrontarle e collocarle. 1. prestate particolare attenzione all’inizio del film: almeno due indizi sono rivelati prima dei titoli di testa. Il film si apre con delle coppie che ballano, le cui ombre lasciano come se ritagliassero la parete, lasciano intravedere altro. 2. fate attenzione alle apparizioni della lampada rossa le apparizioni della lampada rossa sono due e legate a una telefonata. 3. riuscite a sentire il titolo del film per cui Adam Kasher sta cercando l’attrice principale? È menzionato di nuovo? Non solo il titolo è importante ma anche le circostanze del film: per esempio le attrici e le situazioni. 4. un incidente è un avvenimento terribile… notate il luogo dell’incidente Il luogo viene menzionato per due motivi: l’incidente e una festa. 5. chi dà una chiave? E perché? Ci sono due chiavi, quale dovremo considerare? 6. notate il vestito, il posacenere e la tazza Anche qui abbiamo due modelli di vestito, sue portacenere e due tazze: gli oggetti si riferiscono a situazioni diverse. 7. cosa si sente e accade al club Silenzio? Nel club Silencio ci sarà un ritrovamento importante per la storia ma soprattutto una battuta chiave per la comprensione del film. 24 8. solo il talento ha aiutato Camilla? Questo indizio sembrerebbe uno dei più semplici da individuare. In realtà proseguendo con la vicenda, ci ricrederemo. 9. notate le circostanze in cui si vede l’uomo dietro Winkie’s L’uomo dietro Winkie’s in parte ha la funzione di riportarci indietro alle nostre paure infantili, in parte ha un ruolo importante di colui che detiene la soluzione; ma come d’abitudine del regista, non sarà chiaramente spiegato. 10. dov’è la zia Ruth? Anche questo indizio sembra semplice e ci sembra chiaro e spiegato sin dal principio, ma si tratta di Lynch: più è chiaro, meno lo sarà più avanti. David Lynch David Keith Lynch nasce il 20 gennaio 1946, nel Montana, cittadina assai pittoresca, come quelle che il regista tende a raffigurare nei suoi film. Piccolo membro degli scout, David è costretto a trasferirsi ripetutamente a causa del lavoro di suo padre: scienziato del Servizio Forestale. Durante l'adolescenza sogna di fare lo psichiatra; col passare del tempo però scopre la passione per la pittura e nel 1963 decide di iscriversi al Corcoran School of Art di Washington DC. Dodici mesi più tardi, frequenta il Museum School di Boston: in quel periodo il ragazzo è assunto come commesso in un negozio di cornici ma viene ben presto licenziato, perché sempre in ritardo. Nel 1965 è ammesso alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia, dove si stabilisce definitivamente con la famiglia. L'anno successivo dà vita alla sua prima creazione: il cortometraggio Six Figures Getting Sick. Nel '67 convola a nozze con l'attrice Peggy Lentz: la loro unione durerà sette anni. La donna darà al marito una figlia: Jennifer, che diventata adulta dirigerà il controverso thriller Boxing Helena. La realtà violenta della periferia di Philadelphia ispira il giovane David per il suo debutto nel grande schermo: Eraserhead - La mente che cancella, horror girato per l'American Film Institute. Oltre a produrlo e dirigerlo, Lynch ne firma la sceneggiatura, la fotografia, il montaggio nonché gli effetti speciali. Lavorerà ossessivamente a questo progetto per cinque anni, mezzo decennio travagliato da mille disastri finanziari: per via dei debiti dovuti alla realizzazione del film, David perde la casa ed è costretto a dormire nel set all'insaputa della troupe eliminando sapientemente, alla mattina, ogni traccia del bivacco. Già in questa pellicola prima emerge il suo affascinate stile allucinato e inquietante, completamente estraneo a tutto ciò che è stato creato fino ad allora. E' stato riportato che l'opera prima di Lynch sia il film preferito da Stanley Kubrick. Gli estenuanti sacrifici vengono premiati con una meritatissima popolarità: George Lucas diviene un suo 25 ammiratore e gli offre l'opportunità di dirigere Il ritorno dello Jedi. La star tuttavia rifiuta. Il 21 giugno 1977 sposa Mary Fisk dalla quale divorzierà l'anno seguente; i due hanno un figlio, Austin Jack. Nel 1980 arriva la consacrazione definitiva: l'amico e collega Mel Brooks affida a David la direzione del dramma vittoriano The Elephant Man. Questa opera struggente e di eccezionale bellezza ottiene un enorme successo di pubblico e critica. Nella notte della 52esima edizione degli Academy Awards, The Elephant Man si aggiudica ben otto nomination all'Oscar ma non ne vince neanche uno. Ciò nonostante, David Lynch diviene un mito, un emblema di inimitabile genialità. È il 1984 quando è dietro la macchina da presa del suo primo film a colori: il flop fantascientifico Dune. A quei tempi Lynch accetta la proposta di De Laurentis di girare questa pellicola, assicurandosi di avere carta bianca per il prossimo lungometraggio. L'opera in questione è l'eccessivo e delirante Velluto Blu, escluso dal Festival di Venezia con l'accusa di pornografia gratuita. Pertanto, l'opera rimane la sua "creatura" più personale e singolare dalle origini. Durante le riprese, il divo viene incantato dallo charme di Isabella Rossellini, con la quale ha una relazione. Arriva il 1990 e con esso il paradossale Cuore Selvaggio: presentato al Festival di Cannes, il film tra fischi e polemiche, vince la Palma d'Oro come migliore pellicola, grazie alla forte influenza di Bernardo Bertolucci, presidente della giuria. È in questo periodo che l'eccentrico cineasta genera la sua opera più innovativa fino ad allora: la serie tv I Segreti di Twin Peaks. Questa telepsychonovela di elevata fattura scandalizza e turba il pubblico del piccolo schermo, accaparrandosi numerosi riconoscimenti. Nel 1997 gira l'ipnotico Strade Perdute. Due anni dopo invece dirige il commovente Una storia vera. Nel 2001 la mente di questo eccelso artista partorisce una delle sue migliori opere in assoluto: Mulholland Drive. Onirico, conturbante, sinistro, ambiguo, estremo, complesso: in una sola parola "lynchiano". Questo thriller racchiude in sé, tutta la sofisticata entità del regista che mediante la straordinaria pellicola si aggiudica la Palma d'Oro per la miglior regia al Festival di Cannes, in ex aequo con L'uomo che non c'era di Joel Coen. Spesso accreditato con il nome di Judas Booth, il divo si sta separando dalla montatrice Mary Sweeney: con lei ha avuto il terzo figlio, Riley. Nel 2006 è stato insignito con il Leone D’oro alla carriera, durante la 63ª edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, dove ha presentato la sua ultima, scioccante fatica: Inland Empire - L'impero della Mente. Filmografia Eraserhead – La mente che cancella (1977) – The Elephant Man (1980) - Dune (1984) – Velluto blu (Blue Velvet, 1986) – Cuore selvaggio (Wild at Heart, 1990) – Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk with me, 1992) – Strade perdute (Lost Highway, 1997) – Una storia vera (The Straight Story, 1999) – Mulholland Drive (2001) – Inland Empire – L’impero della mente (2006) 26 Riconoscimenti Nel 2001 Scelto da "Les Cahiers du cinéma" come uno dei “10 migliori film del 2001” Premio dell’Associazione critici cinematografici di Boston: miglior film, miglior regista David Lynch Premio al Festival di Cannes: miglior regista David Lynch Premio del comitato nazionale della critica, USA: miglior attrice emergente Naomi Watts Premio dell’Associazione critici cinematografici di New York: miglior film Premio dell’Associazione critici cinematografici di San Diego: miglior attrice protagonista Naomi Watts Premio dell’Associazione della critica di Toronto: miglior regista David Lynch Nel 2002 Premio ALMA: miglior attrice Laura Harring Premio BAFTA: miglior montaggio Mary Sweeney Premio dell’Associazione critici cinematografici di Chicago: miglior attrice Nami Watts, miglior regista David Lynch, miglior film Premio Chlotrudis, premio del pubblico: miglior regista David Lynch, miglior sceneggiatura originale David Lynch Premio César, Francia: miglior film straniero David Lynch Premio del Circolo della critica in Australia: miglior film straniero in lingua inglese Premio dell’Associazione truccatori e acconciatori di Hollywood: miglior trucco contemporaneo Julie Pearce, Randy Westgate, Selina Jayne Premio Indipendent Spirit: miglior fotografia Peter Deming Premio Festival del cinema gay e lesbico di Los Angeles: miglior attrice protagonista Premio dell’Associazione di critici cinematografici di Los Angeles: miglior attrice protagonista, miglior regista David Lynch Premio dell’Associazione nazionale critici cinematografici degli Stati Uniti: miglior attrice Naomi Watts, miglior film Premio dell’Associazione critici cinematografici online: miglior attrice Naomi Watts, miglior attrice emergente Naomi Watts, miglior regista David Lynch, miglior musica originale Angelo Badalamenti, miglior film Nel 2003 Premio Bodil, Danimarca: miglior film americano David Lynch Premio Sant Jordi, Spagna: miglior film straniero David Lynch Recensioni Il male l’ossessione del cinema di David Lynch: ed è il male d’America, il nodo che stringe l’enigmatico, impressionante “Mulholland Drive”, ultima fatica del regista di “Cuore selvaggio”. Un male particolare, contagioso: quello che si sviluppa dalla base finanziaria del cinema e nel luogo deputato di esso, Hollywood. […] il paesaggio urbano conta in questo film: diventa custodia di una realtà violenta che nasconde mostri nel proprio ventre, mostri che una psiche malata può confessare al proprio analista di vedere oltre che sognarli. E la città si trasforma in un prisma di visioni, si riempie di figure crudeli, allarmanti, emblematiche. Dicevo dell’enigma di questo film, 27 strutturato su uno schema a puntate per la televisione, poi ridotto a due ore e mezza e sigillato in un simbolo tramato d devianze narrative, di ribaltamenti prospettici e psicologici. […] Il senso della favola, poiché come sempre in Lynch l’aspetto fiabesco è preminente, il senso della favola consiste nello scancellare con il gesto di un pittore alla Rauschenberg immagini terse e abbaglianti e mostrartele poi disfatte da una verità immonda. […] Barocco, magmatico, ricco di simboli sensuosi e sibillini, dominati da una mano che fin troppo sa dipingere ombre e chiarori, fantasmi e corpi caldi di passione, “Mulholland Drive” ha la ribalda evidenza di un racconto di Poe. Il male, segno di un inferno scaraventato nella vita di una comunità, è ossessione del tutto americana, appunto fin da Poe e da Hawthorne. […] Lynch cerca di scantonare dal rischio d’una personale ideologia: pare volersi fermare agli interrogativi dell’esistenza senza dare loro risposta. La vita, sembra dirci, è straordinariamente mutevole: non bisogna oltrepassarne la soglia sfuggente, ambigua. Ma poi ci porta oltre, in uno spazio di commossa, disperata, vera tragicità. Enzo Siciliano, La Repubblica, 15 febbraio 2002 Una storia d'amore nella città dei sogni" è la definizione di David Lynch per il suo Mulholland Drive: ma si potrebbe benissimo dire anche "Una storia di sogni nella città dell'amore", dato che il film racconta a Hollywood vicende hollywoodiane alla maniera di Hollywood, tra enigmi, sperdimenti, eleganze d'epoca, romanticismo nero alla Raymond Chandler, palme, banani, pericoli e sangue, con due ragazze (una bionda, una bruna) che si amano, che vivono l'esistenza ingenua e torbida delle giovani californiane. […] Si capisce pochissimo, ma l'emozione e l'atmosfera sono forti. David Lynch, che adesso ha cinquantasei anni, dopo la parentesi di lineare semplicità e pathos educato di Una storia vera, torna a se stesso: al suo magma di apparizioni inesplicabili, di indagini senza colpevoli, di sospensione, confusione e sorpresa, di sensualità, orrore ed estetismo. Per il regista, il cinema non ha più bisogno di storie ben strutturate, di elenchi ordinati di personaggi e interpreti, di cronologie, di cause ed effetti, di narrazione romanzesca: come la musica o la pittura, la sua espressività è adesso affidata ai climi, al senso, alle impressioni, agli spaventi o alle esultanze, all'estrema condensazione del mondo in un'immagine, in una nota. E le sue due protagoniste potrebbero essere una metafora del cinema: senza identità per la perdita della memoria del passato, senza identità per la voglia di essere altro recitando. Lietta Tornabuoni, La Stampa, 15 febbraio 2002 […] Impossibile star dietro a tutte le divagazioni del film; pur affidato ad attori inesistenti, il gioco per un po’ funziona, ma andando avanti sconfina nell’arbitro e alla fine irrita per la riluttanza a fornire spiegazioni soddisfacenti. Senza dubbio il regista David Lynch resta un cineasta originale e inventivo, ma ha preso da Godard il gusto snobistico della reticenza e della presa in giro dello spettatore. Ciò non toglie che fra gli appassionati dell’intero pianeta l’autore di «Mulholland Drive» goda di un credito che altri non hanno, prova ne siano i numerosi riconoscimenti raccolti da questo film. Premi a pioggia, incluso quello dei critici di New York e la recente candidatura all’Oscar per la migliore regia, ma incassi deboli. Non basterà per affermare che il film è un successo, ma servirà per confermare ancora una volta che chi lavora per i cinefili non lavora per il pubblico. Tullio Kezich, Corriere della Sera, 16 febbraio 2002 […] Dopo la parentesi del bellissimo “Una storia vera”, David Lynch ha di nuovo perduto la strada. Non che il suo nuovo film sia brutto: ha stile, 28 atmosfera, humor nero e l’impronta dell’autore. Solo che, tornando dalle parti di “Twin Peaks”, il cineasta fa l’ennesima variazione – non la più riuscita – su un repertorio un po’ logoro: scambi d’identità, premonizioni, l’abisso tra la levigata rappresentazione americana delle realtà e i vermi immondi che ci brulicano sotto. Roberto Nepoti, La Repubblica, 2 marzo 2002 […] Lynch, con Pirandello nel Dna, conferma la finzione, e gioca a rimpiattino con un finto giallo ricco di humour: la sapienza narrativa e lo straordinario talento televisivo proteggono un film di eccezionale potere immaginifico-snob. Maurizio Porro, Corriere della Sera, 6 agosto 2002 […] Data la vicenda finanziaria del film (prima episodio pilota di una serie poi film) ne è risultato un film diseguale, che alterna momenti memorabili ad altri decisamente irritanti. Mulholland Drive risente delle vicissitudini produttive, ma propone un’immagine difficilmente dimenticabile di Hollywood. […] Lynche decide di fare del suo film un’opera astratta, nella quale è inutile cercare una logica. Il suo approccio è istintivo, immediato, viscerale fino al macabro. Con grande ironia e un piglio decisamente «pop», il regista ci dice che nella città degli angeli si nascondono mostri dall’aspetto normale, e non ci vuole molto a capire che ciò vale per ogni posto del pianeta. Pur essendo straordinariamente dotato sul piano dell’immagine, il film non cede alla tentazione del bello o della scena a effetto, e si ha la sensazione che il regista senta intimamente la necessità di trasferire sullo schermo il suo sguardo su una realtà malata e distorta. Mulholland Drive potrebbe essere raccontato come un insieme di quadri o di brani musicali: le emozioni seguono le pulsazioni dell’angoscia e restituiscono un affresco di una città persa nel labirinto della propria autoreferenzialità. È una città che rappresenta l’anima dell’autore e quindi il suo autoritratto, ma è anche la città che gli ha già consentito di realizzare un film meraviglioso come The Elephant Man, finanziato da uno studio come la Paramount e prodotto da un uomo di cinema “non d’autore” come Mel Brooks. Antonio Monda, La magnifica illusione, 2003 David Lynch ha lavorato a Mulholland Drive per tutta la sua carriera e ora che ci è arrivato gli perdono Cuore selvaggio e perfino Strade perdute. Alla fine il suo esperimento non infrange le provette. Il film è un paesaggio onirico surrealista nella forma di un film noir hollywoodiano e meno ha senso, più non riusciamo a smettere di guardarlo. […] Il film è ipnotico; siamo trascinati come se una cosa portasse a un’altra - ma nulla porta da nessuna parte ed è persino prima che i personaggi inizino a fratturarsi e ricombinarsi come carne in un caleidoscopio. Mulholland Drive non è come Memento, dove se si guarda da vicino si può sperare di spiegare il mistero. Non c’è alcuna spiegazione. Potrebbe anche non esserci il mistero. Ci sono innumerevoli sequenze oniriche nei film, la maggior parte delle quali ideate con con letteralismo freudiano per mostrare i personaggi che hanno incubi riguardo alla trama. Mulholland Drive è tutto un sogno. Non c’è nulla che sia inteso un momento di risveglio. Come i sogni reali, non spiega, non completa le sue sequenze, si sofferma su cosa trova cosa trova affascinante, lascia cadere linee di trama non promettenti. Se si vuole una spiegazione dell’ultima mezz’ora del film, bisogna pensare come il sognatore che si sta svegliando lentamente mentre filamenti del sogno combattono con gli ultimi ricordi della vita reale e con frammenti di alti sogni – precedenti o ancora in divenire. 29 Questo funziona perché Lynch non scende a compromessi. Prende ciò che era frustrante in alcuni suoi film precedenti e invece di allontanarsene, li riprende. Si dice che Mulholland Drive sia stato un assemblaggio di scene girate per un episodio pilota nel 1999 per la Abc, ma nessuna rete avrebbe voluto mandare in onda ( avrebbe capito) questo materiale e Lynch lo sapeva. Questo film non risulta incompleto perché non è potuto essere completato – a conclusione non è lo scopo. […] Questo è un film cui arrendersi. Se si richiede la logica, meglio vedere qualcosa altro. Mulholland Drive lavora direttamente sulle emozioni, come la musica. Le scene singole suonano bene da sole, come nei sogni, ma non si collegano in modo da avere senso – di nuovo, come nei sogni. Il modo di sapere che il film è finito è perché finisce. E direte ai vostri amici “ho visto un film stranissimo”. Esattamente come direste che avete fatto un sogno stranissimo. Roger Erbert, Movie Yearbook 2004 […] Allucinato, interminabile giallo dello pseudogenio David Lynch, autore anche dell’incomprensibile soggetto e della nevrotica sceneggiatura. In pieno delirio onirico scambia e sdoppia i personaggi, mescola realtà e finzione, inseguendo le ombre di Hitchcock, De Palma e Polanski. Dietro la macchina da presa si conferma un mago, ma il resto è da camicia di forza. (voto 2) Massimo Bertarelli, 1500 film da evitare, 2004 […] Viaggio d’amore saffico con la persona sbagliata, metà reale e metà onirico, nella Hollywood del glamour, stilisticamente molto impersonale e ineccepibile come sempre. Riccardo Caccia, in Gianni Canova, le garzatine Cinema, 2005 […] Lynch (anche sceneggiatore) architetta un puzzle noir che va ben oltre Strade perdute. […] Un bel risultato per un film nato come pilot di una serie tv rifiutata dalla Abc, e completato con l’intervento dei francesi di Studio Canal. Quasi una summa del cinema di Lynch, ma anche un passo in avanti: ben equilibrato tra incubo e farsa, sconcertante eppure sempre coinvolgente pure quando sfiora la fumisteria. […] (***½) Paolo Mereghetti, Dizionario dei film 2006 […] È - come Strade perdute – affollato da personaggi alla Twin Peaks. Con risvolti burleschi e flash allucinati, un labirinto angoscioso e sensuale, intriso di pulsioni di morte e di invidia isterica, terribile nei suoi rigurgiti di violenza fredda, governato da una regia che usa le carrellate per creare suspense e mistero. Girato come pilot di una serie TV per l’ABC che lo rifiutò e passato ai francesi Alain Sarde e Studio Canal che offrono a D. Lynch i mezzi per rimontarlo e il Festival di Cannes 2001 dove vinse – ex aequo con L’uomo che non c’era – il premio della regia. Premio dei critici di New York alla bionda e duttile N. Watts (1968), angloaustraliana, partner di L.E. Harring (1964), messicana bruna. Musiche di Antonio Badalamenti (il mafioso che risputa il caffè) e D. Lynch. Coco è A. Miller (1919), provetta ballerina di tip tap e attrice tra il ’36 e il ’56. (***½) Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2007 Ipnotico, in puro stile lynchiano, condotto con l’inesplicabile logica del sogno, ancorato a una splendida performance della Watts. Certamente non per tutti i gusti. […] (***½) 30 Leonard Maltin, Guida ai film 2007 Il mio punto di vista Lynch, come emerge anche dalle recensioni, è sempre stato un regista controverso. Mulholland Drive è un esempio tipico della sua filmografia, per alcuni un punto di arrivo rispetto alla carriera precedente. È un film complesso da comprendere dal punto di vista del significato razionale. Questo dipende dal fatto che Lynch in genere costruisce i suoi film in modo che sia l’interpretazione dello spettatore il punto fondamentale, tanto che egli stesso si rifiuta spesso di commentare i propri film. Ciò comporta che ogni film dipenda dal gusto personale dello spettatore e quando lo spettatore è un critico, si ha l’esito di critiche contrastanti. Un film come Mulholland Drive crea disorientamento, soprattutto in chi è abituato ad avere almeno una chiave di lettura rispetto a una storia, ma non è forse la stessa differenza che c’è tra l’arte figurativa e l’arte astratta? Si può preferire l’una o l’altra, ma si tratta comunque di arte. Flavia Costa Per sorprendervi ancora The Game (1997, David Fincher) - The Truman Show (1998, Peter Weir) 31 I SOLITI SOSPETTI (The Usual Suspects, 1995, Bryan Singer) Stephen Baldwin (Michael McManus), Gabriel Byrne (Dean Keaton), Benicio Del Toro (Fred Fenster), Kevin Spacey (Roger “Verbal” Kint), Chazz Palminteri (Dave Kujan), Kevin Pollak (Todd Hockney), Pete Postlethwaite (Kobayashi) Chi è Kaiser Soze? Kaiser Soze è la figura su cui è incentrato il film. Ci sono cinque criminali assoldati da Kaiser Soze per rubare un carico di droga. Qualcosa va storto e l’unico sopravvissuto viene interrogato per scoprire l’accaduto ma soprattutto chi sia questo misterioso Kaiser Soze. Gli stessi interpreti non sapevano chi fosse Kaiser Soze fino a che non hanno visto il film montato. La storia, creata da Christopher McQuarrie, è nata dall’idea del confronto con cinque criminali e dalla storia vera di John List, che uccise la famiglia e scomparì per anni, cui si ispira la storia di Kaiser Soze. Ciò che ha contribuito a renderlo un film culto è sicuramente la storia, ma anche l’affiatamento che si è creato tra gli interpreti, che ha portato a curiosità sul dietro le quinte, nonché a innovazioni nel film stesso. Per esempio nel confronto iniziale, gli attori non riuscivano a rimanere seri e alla fine Bryan Singer decise di utilizzare il girato e dipingere i nostri criminali come strafottenti e abituati a essere in tale situazione dati i loro trascorsi. In effetti ciò si spiega con la stessa vicenda produttiva del film. Singer e McQuarrie, data la trama complessa e innovativa, faticarono a trovare dei produttori, fino a che ricevettero fondi dall’Europa (non è chiaro da che figura in particolare). Con questo aiuto finanziario iniziarono a cercare attori famosi che fosse disposti a lavorare a fronte di compensi inferiori ai loro usuali, in modo da attirare poi l’attenzione delle case cinematografiche. Quindi il cast è composto da attori che hanno creduto nel progetto sin dall’inizio. La stessa parte di Kujan, era stata rifiutata da Robert De Niro, Christopher Walken e Al Pacino; quest’ultimo in particolare ha dichiarato che questo rifiuto come uno dei suoi più grandi rimpianti. Ma Kaiser Soze esiste? La figura di Kaiser Soze affascina per il mistero che la circonda, ma allo stesso spaventa: ma cosa sappiamo noi di lui? Appare all’inizio con voce impossibile da identificare e non ne vediamo il volto. Vediamo solo la reazione di Keaton. 32 Il film procede senza nominarlo, fino a che non arriviamo a un altro sopravvissuto all’esplosione, ricoverato per le ustioni riportate; egli ha visto Kaiser Soze e per questo, teme per la sua vita. Quando entra in campo Kaiser Soze per contattare i cinque protagonisti? Ovviamente non si presenta di persona, ma manda l’avvocato Kobayashi. Ma a questo punto la curiosità del pubblico e dei protagonisti deve essere almeno in parte soddisfatta, così si narra la storia di Kaiser Soze. Ma di nuovo: sappiamo chi è stato ma non chi sia. Abbiamo però un altro testimone che ne conosce l’identità: ma anche qui egli teme per la sua vita. Finalmente l’identikit è pronto e arriva alla stazione di polizia: chi è Kaiser Soze? Bryan Singer Bryan Singer nasce a New York il 17 settembre 1965. Cresciuto nel New Jersey e diplomatosi alla West Windsor-Plainsboro High School, si iscrive poi alla New York City's School of Visual Arts, per poi rinunciarvi in favore della USC School of Cinematic Arts in Los Angeles. Nel 1988, assieme a John Ottman che collaborerà con il regista in tutti i suoi film, dirige il cortometraggio Lion's Den, interpretato dal suo amico Ethan Hawke e dallo stesso regista. Il suo primo film di successo è Public Access, realizzato con fondi provenienti da una casa di produzione giapponese e scritto a quattro mani con Christopher McQuarrie, suo compagno di studi a Los Angeles. Questo film gli fa vincere il premio speciale della giuria al Sundance Film Festival. Due anni dopo arriva la definitiva consacrazione con I soliti sospetti, originale thriller che vale a Kevin Spacey l'Oscar al miglior attore non protagonista, e a Christopher McQuarrie l'Oscar alla migliore sceneggiatura originale. Nel 1998 dirige L'allievo, film incentrato sul tema del nazismo e basato su un romanzo di Stephen King, che suscitò parecchi dubbi sulla morale di fondo della storia. Ritorna, poi, sulla strada del successo con i primi due capitoli della saga ispirata dai famosi fumetti Marvel: X-Men (2000) e X-Men 2 (2002), ricalcando le storie disegnate da Stan Lee e Jack Kirby sempre sul tema dell'integrazione razziale. I film riscuotono successo di pubblico e critica, tanto da avere poi un terzo capitolo, XMen: Conflitto finale, diretto però da Brett Ratner; Singer, infatti, declina la regia in favore del kolossal Superman Returns (2006), la pellicola che ha segnato il ritorno sul grande schermo del supereroe proveniente dal pianeta Krypton. 33 Filmografia Public Access (1993) – I soliti sospetti (The Usual Suspects, 1995) – L’allievo (Apt Pupil, 1998) – X-Men (2000) – X-Men 2 (2003) – Superman Returns (2006) – Operazione Valkiria (Valkyrie, 2008) Christopher McQuarrie I soliti sospetti è l’unico film della rassegna in cui la sceneggiatura non è scritta dal regista. Come già accennato in questi film la sceneggiatura ha un’importanza maggiore e per questo motivo aggiungo i dati biografici di Christopher McQuarrie. Christopher McQuarrie è nato nel 1968 nel New Jersey dove è cresciuto. Durante gli studi conosce il futuro regista Bryan Singer e il futoro attore Ethan Hawke. Terminati gli studi si trasferisce in Australia, dove lavora come assistente in una scuola di Perth. Tornato negli Stati Uniti, lavora in un'agenzia investigativa. Nel 1992 è intenzionato ad entrare nella New York City Police Department, ma lascia l'accademia quando l'amico Bryan Singer gli offre la possibiltà di collaborare con lui alla stesura del suo primo film, Public Access. I due collaborano nuovamente nel 1995 nel film I soliti sospetti, grazie al quale McQuarrie riceve moltissimi riconoscimenti, tra cui l'Oscar alla migliore sceneggiatura originale. Nel 2000, oltre a collaborare alla sceneggiatura di X-Men, pur non venendo accreditato, debutta alla regia con il suo primo film, Le vie della violenza con Benicio Del Toro e Ryan Phillippe. McQuarrie aveva iniziato a scrivere un film sulla vita di Alessandro Magno, destinato alla coppia Martin Scorsese e Leonardo Di Caprio, ma i due preferirono girare prima The Aviator (2004), così che Oliver Stone anticipò tutti realizzando la sua versione, Alexander (2004). Torna a lavorare con Singer in Operazione Valkiria, basato sul complotto per uccidere Adolf Hitler in cui Tom Cruise interpreta Claus von Stauffenberg, e dirige il suo secondo lungometraggio, The Stanford Prison Experiment, entrambi i film in uscita nel 2008. Sceneggiature Public Access (1993) – I soliti sospetti (The Usual Suspects, 1995) –X-Men (2000) – Le vie della violenza (The Way of the Gun, 2000) - Operazione Valkiria (Valkyrie, 2008) – The Stanford Prison Experiment (2008) 34 Riconoscimenti Nel 1995 Premio dell’Associazione critici cinematografici di Boston: miglior attore non protagonista Kevin Spacey Premio dell’Associazione casting: miglior casting Francine Maisler Premio della Commissione nazionale della critica: miglior gruppo di attori Stephen Baldwin, Gabriel Byrne, Benicio del Toro, Kevin Pollak, Kevin Spacey, Chazz Palminteri, Pete Postlethwaite, Suzy Amis, Giancarlo Esposito, miglior attore non protagonista Kevin Spacey Premio dell’Associazione critici cinematografici di New York: miglior attore non protagonista Kevin Spacey Premio Seattle International Film Festival: miglior attore Kevin Spacey, miglior regista Bryan Singer Premio Tokyo International Film Festival: Bryan Singer Nel 1996 Oscar: miglior attore non protagonista Kevin Spacey, miglior sceneggiatura Christopher McQuarrie Premio dell’Accademia di Fantascienza, Fantasy e Horror: miglior film di azione/avventura, miglior musica John Ottman Premio BAFTA: miglior montaggio John Ottman, miglior film Bryan Singer, Michael McDonnel, miglior sceneggiatura originale Christopher McQuarrie Premio dell’Associazione critici cinematografici di Chicago: miglior sceneggiatura Christopher McQuarrie, miglior attore non protagonista Kevin Spacey Premio Chlotrudis: miglior attore non protagonista Premio dell’Associazione critici cinematografici di Dallas-Fort Worth: miglior attore non protagonista Kevin Spacey Premio Edgar Allan Poe: miglior film Christopher McQuarrie Premio Empire: miglior debutto Bryan Singer Premio Indipendent Spirit: miglior sceneggiatura Christopher McQuarrie, miglior attore non protagonista Benicio Del Toro Premio San Jordi, Spagna: miglior attore straniero Chazz Palminteri Nel 1997 Premio Cinema Junpo, Giappone: miglior film straniero Bryan Singer Recensioni I duri de I soliti sospetti irradiano sicurezza nelle loro possibilità mitologiche, sicuri della consapevolezza di essere “Le iene” di quest’anno. E non è nemmeno una forzatura, dato che il noir griffato di Bryan Singer comprende così tanti ruoli mascolini e tali “combattimenti” verbali. Con questi vantaggi, I soliti sospetti va dritto allo status di film culto senza intaccare una base importante: le emozioni del pubblico. Questo film non è nulla di più che un intricato trionfo di destria, ma è nondimeno un qualcosa da vedere. Ed è stato pensato in modo da essere visto due volte, con una trama garantita per creare il minore senso di smarrimento la prima volta. 35 Non è una sorpresa che la locandina di questo film, con cinque intriganti furfanti in linea, fosse un importante aspetto della creazione del film […] insieme a un infinito campionario di scambi verbali colmi di testosterone che aiutano a mantenere in piedi I soliti sospetti. […] Singer ha messo insieme un buon numero di attori le cui performance si mescolano senza fatica nonostante le loro differenze esagerate di comportamento. […] Janet Maslin, Guide to the Best 1.000 Movies ever Made, 16 agosto 1995 Rivelazione al festival di Cannes, il thriller di un giovane regista americano che guarda (soprattutto nella struttura a più punti-di-vista) a Le iene di Tarantino. […] Singer mostra una grande abilità nel dirigere le scene violente ed è altrettanto bravo a far lievitare la tensione, inquadratura dopo inquadratura. Però gli entusiasmi dei festivalieri vanno moderati. I soliti sospetti si sforza tanto di spiazzare le attese dello spettatore, che finisce con l’esagerare. Il racconto si attorciglia e diventa confuso per inflazione […]. Roberto Nepoti, La Repubblica, 2 dicembre 1995 Si esce dal cinema interrogandosi. Perché il tale personaggio ha fatto la tal cosa? E quell’altro che cosa c’entrava? E il poliziotto era in buonafede o no? Ci sono film che suscitano appassionate discussioni. E ci sono altri film come I soliti sospetti, che producono vane contestazioni e interrogativi senza risposta. I cineasti hanno abbandonato da un pezzo le regole auree della detective story, che erano quelle di sciorinare nel più sapiente disordine possibile, ma sempre con estrema lealtà e correttezza, tutti i pezzi del mosaico, lasciando allo spettatore i divertimento di ricomporli in un quadro coerente. Le storie postmoderne, invece, vanno avanti a casaccio, tra ridondanze superflue e false piste, confermando che il racconto corbe intrattenimento, labile concatenazione degli eventi o lo spessore dei personaggi sono valori obsoleti. É chiaro che in un contesto di implausibiità emergono altre attrattive: la suggestione degli ambienti, le atmosfere fotografiche, gli scoppi di violenza. Ne è pieno anche I soliti sospetti, che conferma il talento del giovane regista Bryan Singer; ma il paragone con Giungla d’asfalto, evocato da Todd McCarthy nella sua positiva recensione su «Variety», non mi pare calzante. Alla fine del capolavoro di John Huston lo spettatore si sentiva uno della banda, mentre dei cinque «Usual Suspects» non te ne importa niente. Evidentemente anche affezionarsi ai fantasmi che appaiono sullo schermo fa parte di un modo di fare i cinema e di andarci che non esiste più. […]Non vi dico altro, tranne che pur apprezzando il piglio autoriale di Singer, rilutto a entusiasmarmi per un film che negli Usa sta diventando un piccolo fenomeno di culto. Neppure gli interpreti si sottraggono all’ipoteca manieristica, impegnati come sono con personaggi senza qualità. Tullio Kezich, Corriere della Sera, 7 dicembre 1995 […] Il film di Singer può essere letto come un interessante meccanismoprototipo che, mentre ci coinvolge in un thriller metafisico, mette in scena la creazione cinematografica, mentre ci racconta una storia, ci raccolta in realtà la produzione di una storia. […] il giovane regista Bryan Singer, insieme allo sceneggiatore Christopher McQuarrie (Oscar per la sceneggiatura originale), costruisce un piccolo marchingegno diabolico che incuriosisce e inquieta, Matteo Columbo, Attualità cinematografiche, 1996 Diceva Umberto Eco a proposito di “Casablanca” che «quando la scelta del collaudato è limitata, si ha il film di maniera o di serie o addirittura il 36 kitsch. Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha un’architettura come la Sagrada Famiglia di Gaudì, che sfiora la genialità». Insomma, uno stereotipo è uno stereotipo, cento (consapevoli?) possono fare un capolavoro. I soliti sospetti del giovane americano Bryan Singer, «noir» nerissimo accolto come una rivelazione e grande successo uscito dal Sundance Film Festival ’95, crede di fare la Sagrada Famiglia del mystery, e invece costruisce un piccolo tempio kitsch al genere. E non a caso cita a battuta del capitano Renault di Casablanca dopo l’assassinio di Stressner: «Round up the usual suspects», fermate i soliti sospetti. Non che il copione elaborato da Christopher Mc Quarrie per Singer (di cui aveva scritto anche il film di debutto, “Public Access”, tanto interessante quanto sgangherato) difetti di ingegnosità e di soluzioni brillanti. Ma, per via del tono drammatico serissimo, sfiora continuamente l’effetto contrario. Vorrebbe essere nero, molto nero, e fa sorridere. […] Irene Bignardi, La Repubblica, 3 dicembre 1995 L’intera vicenda dei Soliti sospetti, film di culto per la generazione più giovane dei cinéphiles americani, ruota intorno alla figura di Kaiser Söse, un misterioso criminale di orgine ungherese. Del tenebroso personaggio si sa volutamente poco, ma l’uomo è temibile al punto che si esita a pronunciarne il nome. […] In realtà non è altro che fascinazione, rispetto, persino ammirazione. Bryan Singer, regista di talento per il quale non è difficile prevedere una brillante carriera, racconta una storia truculenta con un tono di commedia. […] Singer confeziona un prodotto firmato […] che risulta limitato proprio dal fatto che oltre la superficie non c’è una vera e propria provocazione, ma soltanto la volontà di intrattenere. Il che sarebbe assolutamente legittimo se il film non tirasse in ballo temi che invocano un approfondimento, our se all’interno di una commedia. Antonio Monda, La magnifica illusione, 2003 Due le statuette conquistate a Hollywood grazie all’interpretazione di Kevin Spacey e alla sceneggiatura di McQuarrie. Quando uscì nel ’95, anche in Italia alcuni parlarono di intrigo «confuso», storia «sconclusionata». Non erano preparati a cercare tra le pieghe di un racconto che è solo apparentemente complicato e che invece pian piano cambia pelle da «semplice» giallo diventa un’acuta riflessione sulla presenza del Male nella nostra società. Magari vicino a noi. […] La sceneggiatura di Christopher McQuarrie (un meritatissimo Oscar, così come Kevin Spacey) è talmente ben congeniata […] che addentrarsi nella trama rischierebbe di ridurre il divertimento. Ognuno può vedere la propria fascinazione per l’orrore, e che questo mondo non sia il migliore possibile, piuttosto un pericoloso labirinto dove nessuno può sentirsi sicuro di sostenere di non essere stato, almeno una volta, complice del Male. Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 2 ottobre 2003 Thriller di azione violenta che sembra talvolta in bilico tra la parodia e il fantastico. Recitazione di squadra con K. Spacey claudicante – che prese l’Oscar come miglior attore non protagonista con Christopher McQuarrie per la sceneggiatura – sopra tutti. (***) Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2004 […] Il grande successo internazionale (per Bryan Singer) arriva nel 1995 con I soliti sospetti, intelligente thriller che, attraverso un labirinto di flashback, soggettive e sequenze ingannatrici, conduce lo spettatore verso un finale sorprendente e una riflessione sull’atto del raccontare. 37 Gianni Canova, le garzatine Cinema, 2005 […] Folgorante opera seconda di un indipendente americano (erroneamente scambiato per un emulo di Tarantino), che è quasi un remake – aggiornato –di Rapporto confidenziale di Welles: la figura dell’investigatore «classico» è sostitiuita da una delle «vittime» (la vicenda è raccontata da «Verbal», interrogato dall’agente Kujan [Palminteri]), e lo spettatore è coinvolto senza mediazioni nell’ambiguità del Male incarnata dal misterioso Keyser Soze che, come Mister Arkadin nel film di Welles, non si può conoscere e non si può evitare. Ottimamente congegnata la sceneggiatura di Christopher McQuarrie, tesa e vibrante la regia di Singer. Musiche e montaggio di John Ottman. Cameo del regista Paul Bartel nel ruolo di un trafficante. Oscar come miglior attore non protagonista a Kevin Spacey e alla sceneggiatura. (***) Paolo Mereghetti, Dizionario dei film 2006 […] Un cast eccezionale rende la sceneggiatura di Christopher McQuarrie (vincitore del premio Oscar) intrigante e intricata[…]. Decisamente apprezzabile ma, a nostro giudizio, troppo «cervellotico». Spacey ha vinto a sua volta l’Oscar come miglior attore non protagonista. (**½) Leonard Maltin, Guida ai film 2007 Il mio punto di vista Rivisto ad anni di distanza dall’uscita nelle sale, I soliti sospetti può sembrare ingenuo e un po’ scontato, ma con il senno di poi. Rappresenta il capostipite della tendenza descritta in questa rassegna, poiché quando uscì, ebbe un impatto determinante sullo spettatore e sul cinema successivo. L’alea di mistero che avvolge la figura di Kaiser Sose è efficace. Flavia Costa Per sorprendervi ancora Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1957, Billy Wilder) – The Prestige (2006, Christopher Nolan) – The Illusionist (2006, Neil Burger) 38 MATCH POINT (2005, Woody Allen) Jonathan Rhys-Meyers (Chris Wilton), Scarlett Johansson (Nola Rice), Matthew Goode (Tom Hewett), Emily Mortimer (Chloe Hewett Wilton), Brian Cox (Alec Hewett) Delitto e castigo? Primo film di Woody Allen girato a Londra, parla di Chris, istruttore di tennis, che riesce ad entrare a far parte dell’upper-class londinese. Il tutto si complica nel momento in cui avvia una relazione con la fidanzata del cognato, l’americana Nola Rice. Questo film rappresenta un punto di svolta nella carriera del regista, dopo un periodo di crisi creativa. Passando dalla commedia al dramma, il regista abbandona New York per la sua ambientazione e si trasferisce a Londra, dove quindi anche il MOMA è sostituito dalla Tate Modern Gallery. Per quanto riguarda la musica, l’opera prende il posto dello storico jazz, commentando ironicamente i passaggi del film cui è accostata. Inoltre non solo Woody Allen non partecipa come attore (come accade da qualche tempo), ma non si trova nemmeno un suo alter ego nella storia. Il riferimento a Dostoevski e al suo Delitto e castigo, già presente in Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989), viene reso esplicito dal regista non solo dalla storia, ma anche dal protagonista che ne legge una versione tascabile prima di addormentarsi. Ebbene ci sarà un crimine, ma il castigo? Il film si basa sul paragone della vita con una partita di tennis. Quanto conta la bravura? Sicuramente è importante ma ci vuole anche una buona dose di fortuna, come ad esempio quando la palla rimbalza sulla rete e non si sa da che parte cadrà: da ciò dipende chi segnerà il punto. Questo ci viene esposto nel prologo ma la stessa cosa la ritroveremo riferita ad una fede nuziale, da che parte cadrà? Quindi la fortuna rappresenta tutte quelle circostanze che non dipendono dall’individuo che ne è coinvolto, che non sono prevedibili e di cui a volte non si sa nemmeno di averne un buono o cattivo influsso. Anche nei dialoghi la fortuna (o la mancanza di essa) viene citata. A cena, Chris, Chloe, Tom e Nola discutono sul ruolo della fortuna e Chris in particolare esporrà il suo punto di vista: lavorare sodo è obbligatorio ma si è spesso timorosi ad ammettere quanto la fortuna sia importante. 39 Chloe riferendosi a lei e a Chris dice: «non siamo ancora stati fortunati». Un poliziotto commenta: «alcune persone non hanno alcuna fortuna». E infine in occasione di un lieto evento come una nascita, Tom afferma: «non mi interessa che sia grande in quello che farà, ma che sia fortunato», frase che può un po’ riassumere il film. A differenza degli altri film della rassegna, Match Point non ha un vero e proprio momento di rivelazione, ma è l’evolversi degli eventi che potrebbe creare la sorpresa dello spettatore: per questo è meglio non accennarvi in modo esteso, altrimenti si rovinerebbe la visione del film. Woody Allen Allan Stewart Konigsberg nato nel 1935 a New York in una famiglia ebraica, a quindici anni è già autore di strisce per la cronaca rosa e, dato il successo dei suoi scritti decide di abbandonare gli studi per tentare la strada del cabaret. Comincia a esibirsi nei nightclub con un discreto seguito di fan, nel 1961 comincia a lavorare come comico al Greenwich Village, continuando a scrivere testi per la televisione (e per riviste come "New Yorker", "Playboy" ed "Esquire". Fino a quando scrive la sceneggiatura di Ciao, Pussycat (1965, Clive Donner), e partecipa anche come attore, decretando il suo debutto nel mondo del grande schermo. Decide di continuare per questa strada: sua è la sceneggiatura di Provaci ancora, Sam (1972, Herbert Ross) che lo vede protagonista di una delle interpretazioni più memorabili della sua carriera. Nel 1969 esordisce alla regia con Prendi i soldi e scappa, parodia del genere gangsteristico e di un certo stile narrativo proveniente dal cinema di Jean-Luc Godard. Il risultato è un surrogato di gag pensate e colte che colpirà positivamente il pubblico americano. Seguono alcuni film di carattere più esplicitamente comico: il fantapolitico Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (1972), oltre alla parodia fantascientifica de Il dormiglione (1973). In Amore e guerra (1975) il piacere dei rimandi esplode nell'omaggio a "Guerra e pace" di Tolstoj. La consacrazione autoriale arriva con Io e Annie (1977), intelligente commedia stile anni '40 dall'evidente marchio autobiografico, che polemizza con Hollywood alla quale contrappone una nevrotica e insicura New York. Interpretato da Woody Allen e Diane Keaton che, proprio in quel periodo, stava mettendo fine alla loro vera storia d'amore. Con 5 Oscar, Woody Allen riceve consensi anche da quella fetta di pubblico americano che lo aveva snobbato fino a quel momento. Appassionato di musica jazz fin da ragazzino, il regista inserisce in Manhattan la musica di Gershwin. Nel 1978 realizza come regista Interiors, film dalle atmosfere crepuscolari che, come i successivi Settembre (1987), Un'altra donna (1988) e, in parte, Alice (1990), rende esplicito omaggio a Ingmar Bergman, uno dei suoi registi preferiti, insieme a Federico Fellini al quale guarda per la costruzione di Stardust Memories (1980). Dopo il magico riferimento shakespeariano di Una commedia sexy in una notte di mezza estate (1982), gira il mockumentary Zelig (1983), finto reportage. Qualche anno più tardi riceve il secondo Oscar per il campione d'incassi Hannah e le sue sorelle (1986), successivo al divertente Broadway Danny Rose (1984) e a La rosa purpurea del Cairo (1985), omaggio a Buster Keaton. Successivo all'ennesimo omaggio alla musica jazz di Radio Days (1987) è il sorprendente Crimini e misfatti, riflessione divertente ma non banale sulle colpe che non vengono 40 punite, facendo riferimento ai romanzi di Dostoevskij. Nonostante la crisi personale con la compagna Mia Farrow, lasciata da Woody per la figlia adottiva Soo-Yi Previn, la vena creativa sembra inesauribile. Al ritmo costante di almeno un film all'anno, dopo Ombre e nebbia (1992) ritorna ad atmosfere più serene con Mariti e mogli (1992), Misterioso omicidio a Manhattan (1993) e l'esilarante Pallottole su Broadway (1994). Cambia tono nei successivi La dea dell'amore (1995), omaggio commosso al teatro greco, e nel musical Tutti dicono I love you (1996). Affezionato però ai ritratti di personaggi in crisi, realizza Harry a pezzi (1997) e sberleffa il patinato mondo dei vip con Celebrity (1998), girato in bianco e nero. Il suo amore per il jazz invece trionfa con Accordi e disaccordi (1999). Con gli ultimi lavori, il successo in patria si era un po' affievolito ma, dopo un accordo con la Dreamworks di Spielberg che gli dà maggiore visibilità, ritorna ai lustri di un tempo con Criminali da strapazzo (2000), che prende spunto Monicelli. Dopo La maledizione dello scorpione di Giada (2001) che omaggia il cinema degli anni '40, è la volta di Hollywood Ending (2002), film non del tutto riuscito. L'anno successivo Woody Allen dirige Anything Else. Con Melinda e Melinda (2004) ritorna ad affrontare il binomio tragedia/commedia delineando due storie che non annoiano ma fanno affiorare qualche cedimento di sceneggiatura. Con gli ultimi lavori Woody sembra entrare in crisi creativa ma il capolavoro è dietro l'angolo. Secondo le dichiarazioni dell'autore, Match Point è il film del quale va più orgoglioso. Nel 2006 gira Scoop, intricata commedia sullo sfondo di una Londra avvolta nel mistero delle arti magiche e nel 2007 Sogni e delitti, thriller che segna il ritorno a un cinema più drammatico, in cui indaga le perversioni umane più inconfessabili. Filmografia Che fai, rubi? (What’s up, Tiger Lily?, 1966) – Prendi I soldi e scappa (Take the Money and Run, 1969) – Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971) – Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso – ma non avete mai osato chiedere (Everything You Always Wanted to Know About Sex – But Were Afraid to Ask, 1972) – Il dormiglione (Sleeper, 1973) – Amore e Guerra (Love and Death, 1975) – Io e Annie (Annie Hall, 1977) – Interiors (1978) – Manhattan (1979) – Stardust Memories (1980) – Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy, 1982) – Zelig (1983) – Broadway Danny Rose (1984) – La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985) – Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters, 1985) – Radio Days (1987) – Settembre (September, 1987) – Un’altra donna (Another Woman, 1988) – Edimpo relitto (Oedipus Wrecks episodio in New York Stories 1989) – Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989) – Alice (1990) - Ombre e nebbia (Shadows and Fog, 1992) – Mariti e mogli (Husbunds and Wives, 1992) – Misterioso omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mystery, 1993) – Pallottole su Broadway (Bullets Over Boradway, 1994) – La dea dell’amore (Mighty Aphrodite, 1995) – Tutti dicono I Love You (Everyone Says I Love You, 1996) – Harry a pezzi (Deconstructing Harry, 1997) – Celebrity (1998) – Accordi e disaccordi (Sweet and Lowdown, 1999) – Criminali da strapazzo (Small Time Crooks, 2000) - La maledizione dello scorpione di giada (The Curse of the Jade Scorpion, 2001) – Hollywood Ending (2002) – Anything Else (2003) – Melinda e Melinda (Melinda and Melinda, 2004) – Match Point (2005) – Scoop (2006) – Sogni e delitti (Cassandra’s Dream, 2007) – Vicky Cristina Barcelona (2008) 41 Riconoscimenti Nel 2006 Premio ADIRCAE, Spagna: miglior film straniero David di Donatello: miglior film dell’Unione Europea Premio Golden Trailer: miglior thriller Premio Goya, Spagna: miglior film europeo Premio San Jordi, Spagna: miglior film Woody Allen Recensioni Poichè i primi film di Woody Allen sono così divertenti come pochi altri, si pensa spesso che il suo temperamento sia essenzialmente comico, cosa che porta a contrarietà e equivoci. Qua e là, Allen tenta di dissipare la confusione, insistendo a volte elegantemente e a volte malamente, sul fatto che la sua visione del mondi sia essenzialmente nichilista. Ha mostrato, film dopo film, un’assoluta mancanza di fede in qualsiasi principio di ordine morale nell’universo – e ancora, le persone pensano che stia scherzando. In “Match Point”, il suo film più soddisfacente dell’ultimo decennio, il regista porta ancora una volta la brutta notizia, con una luce, un tocco sicuro. Questa è una coppa di Champagne condita di stricnina. Si dovrebbe tornare indietro all’impetuoso, immorale apogeo di Ernst Lubitsch o di Billy Wilder per trovare un cinismo così abilmente tramutato in intrattenimento. Proprio all’inizio l’eroe di Allen spiega che il ruolo della fortuna nelle vicende umane è spesso sottovalutato. Successivamente, le aspre implicazioni di questa idea saranno evidenti, ma di primo acchito sembra bizzarro come ciò che Fred Astaire dice in “Cerco il mio amore” (The Gay Divorcèe, 1934, Mark Sandrich): che “caso è il nome sciocco del fato”. L’intendimento di Allen qui è di beffare il suo pubblico, o almeno di fuorviarlo, con una storia la cui superficie dorata cela l’oscurità che c’è al di sotto. La sua scaltrezza – un altro nome per la sua arte – fa muovere la storia con lo slancio leggero di un’opera teatrale ben fatta. Paragoni con “Crimini e misfatti” sono inevitabili, dato che i temi e alcuni elementi della trama sono simili, ma il bagaglio filosofico di “Match Point” è più solidamente e discretamente costruito. C’è qualche occasione di discorso e nessuna di quelle battute corte di autocompiacimento che sono diventate, nei film recenti di Allen, più tic che shtick (in yiddish “tema comico”). E nemmeno è presente un surrogato del regista nel giovane, affiatato e splendido cast. Se doveste entrare dopo i titoli di testa, potreste impiegare del tempo a capire chi ha diretto questo film. Certo, dopo un po’ lo capireste. I segnaposto letterari abituali sono al loro posto: sicuramente nessun altro sceneggiatore avrebbe potuto scrivere un battuta come “Tesoro, hai visto la mia copia di Strindberg?” o mandare i suoi protagonisti a letto con un tascabile di Dostoevskij. Ma mentre un soffio di fatalismo russo rimane nell’aria – e molto più di un soffio di misoginia stindberghiana – queste non sembrano essere le influenze più salienti. L’ambientazione del film è una rivisitazione di Henry James (la Londra opulenta, con qualche estraneo sociale e culturale che ronza intorno agli alveari del privilegio); il concetto deve qualcosa ai libri con Ripley di Patricia Highsmith; e il motore narrativo è puramente Theodore Dreiser – fame, lussuria, ambizione, avidità. Quando “Match Point” è stato proiettato a Cannes la scorsa primavera, alcuni critici britannici hanno obiettato che la sua rappresentazione di Londra era inaccurata, 42 un’obiezione che i newyorkesi, abituati a visitare la Manhattan di fantasia di Allen, possono solo salutare con alzate di spalle e sospiri stanchi. Estirpare una sceneggiatura ambientata originalmente negli Hampton e rimpiantarla in terra britannica ha rinfrescato e affilato la storia, che dipende non solo dall’osservazione di una particolare situazione sociale, ma piuttosto anche da una teoria generale del comportamento umano. Londra è Manhattan vista attraverso una lente; la Tate Modern sta al posto del Museum of Modern Art; Covent Garden prende il posto del Lincoln Center. La brezza del film è la fredda precisione che lo rende così fortemente piacevole. L’oscurità dell’esistenza casuale e insignificante è stata raramente così divertente e il morso di Allen non è mai stato così affilato e profondo. Per un film così bello non è questione di risata. A. O. Scott, The New York TImes, 28 dicembre 2005 Diceva un saggio cinese che sulla soglia della terza età ogni uomo si trova di fronte due strade, l’una in discesa e l’altra in salita. La prima induce a scivolare più o meno dolcemente verso l’indifferenza, il progressivo distacco e la cancellazione; e la seconda, invece, induce a inerpicarsi gambe in spalla verso quell’ultima meta che in fondo al cuore nessuno vorrebbe raggiungere… Oltrepassata la settantina, superate le sue note turbolenze e esistenziali e vari intoppi professionali dovuti alla sopravvenuta ostilità del pubblico americano, Woody Allen ha felicemente scelto la strada giusta, scoprendo di avere ancora il fiato dello scalatore. Scrivendo e dirigendo Match Point ha accettato una sfida a tutto campo, senza ricorrere alle sue tradizionali risorse. Niente più Manhattan, Londra; niente più Jazz, musica lirica; niente più risate, ma un conflitto d’anime che sconfina nella tragedia. […] Ho anticipato, forse esagerando, che in Match Point non c’è niente da ridere, ma si sorride spesso: e proprio al culmine della tragedia, un paio di «punch lines» (le battute a effetto sicuro che sono la specialità di Woody) scatenano l’ilarità generale e introducono un finale in chiave di riso amaro. […] In questo film, il cui tema deve essere profondamente radicato nell’anima sua perché l’aveva anticipato facendolo raccontare da un personaggio di Crimini e misfatti (1989), Allen fa una stoica e dispettosa riverenza al caso come giudice cieco e inappellabile degli eventi umani. A voler cercare il pelo nell’uovo di un film pressoché perfetto, mi è parsa una stonatura l’apparizione dei due fantasmi nel sottofinale. Ma non è il caso di trovare difetti in un’opera che rivela una qualità molto rara nel cinema, quella di valere quanto uno di quei libri che lasciano il segno. A Woody, che nel frattempo ha girato a Londra un secondo film e ne sta preparando un terzo, non si può che raccomandare di proseguire così. Fortuna aiutando, la strada in salita che ha intrapreso con Match Point potrebbe essere ancora ricca di soddisfazioni per lui e per noi. Tullio Kezich, Corriere della Sera, 13 gennaio 2006 Il nuovo film di Woody Allen rappresenta una piccola rivoluzione nella sua filmografia. Se il discorso amoroso resta centrale, infatti, cambiano il contesto (Londra), lo stile delle immagini e della scenografia. il commento musicale (lirica anziché jazz), perfino la durata (2 ore). […] Allen tesse una ragnatela intorno a Chris, per arrivare alla conclusione che il crimine è socialmente determinato, che l’abisso sociale spinge al delitto. Adepto di Dostoevskij, mette assieme lotta di classe e senso di colpa; poi compie una piroetta cinica, portando lo spettatore verso una soluzione aspra e divertente nello stesso tempo. Ateo dichiarato, Woody si sottrae all’epilogo edificante per imporci una morale della favola squisitamente amorale: tutto dipende dalla fortuna; come quando la palla da 43 tennis resta in bilico per un istante sulla rete, senza che si sappia da quale parte cadrà. Nella diversità dell’impaginazione, il ‘Woody’s touch” resta intatto. Come il talento nel dirigere gli attori: Scarlett Johansson fantasmatizzata tra sensualità e richiesta di protezione; il bel Jonathan Rhys-Meyers ambiguo e perverso, come un eroe di Stendhal. Roberto Nepoti, La Repubblica, 13 gennaio 2006 Battuta chiave di Match Point: «Succede, in un match di tennis, che la palla sfiori la sommità della rete e, per un quarto di secondo, possa andare da una parte o dall’altra. Con un po’ di fortuna, raggiunge il bersaglio e vinci. Ma può anche ricadere dalla tua parte, e allora perdi» Woody Allen ha vinto: il film classico che racconta una storia classica d’amore, di morte e dei destini del caso è bellissimo. Anomalo, per lui. Senza New York (siamo a Londra), senza intellettuali, senza donne-idolo, senza battute spiritose o quasi, senza canzoni americane o quasi ma con molte arie d’Opera italiane per affrontare anche due fenomeni così contemporanei: l’ambizione senza qualità, il delitto senza castigo. […] È magnifica la scelta degli attori, la leggerezza e insieme la forte critica sociale con cui la tragedia è raccontata. È perfetto il contrasto fra la cruda durezza dei fatti e la lussuosa piacevolezza d’una Londra immaginaria. Lietta Tornabuoni, L’Espresso, 19 gennaio 2006 Riscossa di Woody. Dopo un periodo di Manierismo manhattese, Mr. Zelig si trasferisce a Londra e firma un film magnifico per coerenza narrativa, eleganza e stile, cinismo socio-letterario, citando a man bassa i classici, da Thackeray a Stendhal a Dostoevskji passando per Dreiser. […] È come se Allen riversasse in questo racconto tutto il suo scibile di cinema e di uomo, finalmente libero dall’ansia di divertire. Giunto con disincanto ai 70, lascia i fantasmi del cinema d’autore e fa miracolo da solo con una padronanza del mezzo e un gusto di tutti i supporti, dalla musica d’opera in vinile a un cast perfetto. (voto 10) Maurizio Porro, Corriere della Sera, 20 gennaio 2006 CARO WOODY MI HAI DELUSO: PERCHÉ HAI LASCIATO NEW YORK? Lo dico? Lo dico: andare a vedere Match Point è stato andare a vedere un film di Woody Allen senza Woody Allen. No, caro Woody, stavolta mi hai deluso. E pensare che ero uno dei tuoi fan più solidi e irragionevoli. Ma perché stavolta hai voluto tradire te stesso e tutti noi? Per carità, non sto dicendo che il film è brutto, anzi. Dico solo che di te c’è poco o niente. Cominciamo dall’ambientazione. Dove sono le atmosfere così sulfuree dell’alta società newyorchese? Dov’è la risata che veniva su leggera leggera davanti ai moderni miserabili? Ci mancano, caro Woody, soprattutto quando andiamo al cinema pensando di trovare te e invece troviamo solo un film che potrebbe appartenere a un qualunque epigono di Hitchcock? Tra l’altro, solo ad uno spettatore disattento sfuggirebbe il fatto che la pellicola è una rivisitazione di «Un posto al sole». Un lui che vuol far carriera e che è disposto a tutto, anche a rapire la figlia del re. Sullo sfondo di una upper class londinese che con te non ci azzecca niente. Detto questo, ammetto che è un film ben girato, con una punta tragica che rivela la mano del maestro. Eppure al Big Ben preferisco ancora l’Empire State Building. Giulio Bosetti, Corriere della Sera, 23 gennaio 2006 Non c’è ragione perché Match Point duri oltre due ore, ma siccome è il miglior film di Woody Allen da tre lustri a questa parte, derubrichiamo l’eccessivo metraggio a peccatuccio senile. La trasferta londinese ha 44 giovato al cineasta newyorkese, ci si augura solo che non diventi un cliché. Certo, rispetto al tedioso Melinda & Melinda questa opus n. 34 giganteggia, e magari non è un caso che la vicenda, intrisa di giallo, si ricolleghi all’insuperabile Crimini e misfatti. Anche qui si tira in ballo Delitto e castigo, mostrando addirittura il romanzo nell’incipit, insieme a una pioggia di citazioni colte che appartengono al coté intellettuale dell’autore. Alla rinfusa, Una tragedia americana di Dreiser, Bel-Ami di Maupassant, Sangue blu di Hamer più Il trovatore di Verdi, perché al noir l’opera lirica s’addice meglio del vecchio jazz. […] Michele Anselmi, Ciak, febbraio 2006 Qualcuno disse che il destino è un'equazione a tre incognite: l'ereditarietà (DNA, famiglia, ecc.), il caso, la finalità (libero arbitrio, scopi, le scelte che si fanno, ecc.). Il 36° film di W. Allen autore racconta una storia che le comprende tutte e tre. […] Storia di ordinaria corruzione, è un'analisi clinica dei rapporti di classe che condizionano il comportamento umano. Il cinismo e Dostoevskij c'entrano poco: Allen racconta il suo mediocre Chris (l'irlandese J. Rhys Meyers, 1977) con saggio e lucido disincanto: Crimini e misfatti non è lontano. 1° film che Allen gira in Inghilterra dove (perché) i produttori gli hanno dato carta bianca. Aveva già girato Amore e guerra (1975) in Jugoslavia e Tutti dicono I love you (1996) tra Parigi e Venezia. Qui si comincia con una pallina da tennis che batte sul nastro della rete, s'innalza e si ferma: cadrà al di là o al di qua della rete? Vincente o perdente? La metafora si ripete verso la fine. Ovvero l'importanza del caso. In ogni modo è un altro punto vincente nella carriera della cangiante S. Johansson. Morando Morandini, Il Dizionario Morandini 2008 Il mio punto di vista Il cambiamento di ambientazione, musica e registro può spaesare gli affezionati, ma porta anche una ventata di novità. Trovo che l’ambientazione in una città non biograficamente legata al regista, gli abbia permesso di rendere il tema più universale, poiché meno legato all’ambientazione stessa. D’altra parte, un po’ di fortuna non fa bene a tutti? Flavia Costa Per sorprendervi ancora Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970, Elio Petri) - Matrix (The Matrix, 1999, Andy & Larry Wachowski) – The Cell (2000, Tarsem Singh) 45 SOMMARIO Vere bugie false verità pag. 3 Facciamo un patto? Postmoderno La narrazione pag. 3 pag. 4 pag. 6 I film della rassegna pag. 7 Il sesto senso Memento Mulholland Drive I soliti sospetti Match Point pag. 8 pag. 16 pag. 23 pag. 32 pag. 39 46