Vere bugie false verità

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Vere bugie false verità
Vere bugie false verità
Il gusto dell’inatteso. La moderna tendenza del racconto cinematografico e i suoi
film simbolo tra rivelazione e ribaltamento della verità
di Flavia Costa
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Circolo Familiare di Unità Proletaria
Cineforum del Circolo
Viale Monza, 140 – Milano
[email protected]
www.cineforumdelcircolo.it
Marzo 2008
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VERE BUGIE FALSE VERITÀ
I film di questo ciclo rappresentano una tendenza
che si è sviluppata in particolare negli ultimi quindici
anni.
Questi film raccontano una verità che nel corso della
narrazione verrà completata, con l’effetto di
sorprendere lo spettatore. Da cui il titolo “vere bugie
false verità”: cosa sarà vero? Cosa falso? Cosa
omesso? Lo sapremo solo alla fine del film.
Facciamo un patto?
Ogni volta che decidiamo di vedere un film, sappiamo che stiamo per assistere a
una finta realtà, ovvero ad una realtà creata da un autore, che può dare una
rappresentazione verosimile, realistica o anche di fantasia, ma che comunque
soggiace a delle regole di verosimiglianza.
Quindi scegliamo implicitamente di accettare queste regole, purché esse siano
coerenti con la realtà rappresentata e vengano giustificate durante la storia.
Questa sorta di accordo tra chi racconta la storia e il destinatario di questa storia
(che può essere direttamente lo spettatore o un personaggio con cui lo spettatore
si identifica) ha trovato una definizione esplicita nel 1986: Greimas, padre della
semiotica strutturale1 lo chiama “patto di veridizione”.
Nonostante precedenti illustri nella storia del cinema, come Shining (The Shining,
1980, Stanley Kubrick) o La donna che visse due volte (Vertigo, 1958, Alfred
Hitchcock), negli ultimi quindici anni si assiste alla presentazione di film che,
violando questo patto di veridizione, costituiscono una vera e propria tendenza;
essi fanno credere ad una realtà e la maggior parte delle volte tramite omissioni
più che tramite menzogne, per poi ribaltare il punto di vista.
Se pensiamo che la stessa parola fiction, finzione, deriva dal latino fingere che
significa sia immaginare sia plasmare, possiamo dire che gli autori di questi film
plasmano la realtà per poi dimostrare come la realtà sia plasmata.
Ma in che modo?
Citando gli studi del 2001 di Antonio Santangelo, semiotico, possiamo parlare di
quattro modalità diverse:
1. sia chi racconta la storia, sia il soggetto di tale storia credono nella realtà
rappresentata.
A questa tipologia appartengono Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999, M. Night
Shyamalan) e Memento (2000, Christopher Nolan).
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Scienza che studia i fenomeni di significazione e comunicazione.
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2. chi racconta la storia crede falsa la realtà rappresentata, mentre il soggetto
la crede vera.
Esempio nella nostra rassegna è Mulholland Drive (2001, David Lynch).
3. chi racconta la storia crede nella realtà rappresentata, mentre il soggetto la
crede falsa.
Emblematico è I soliti sospetti (The Usual Suspects, 1995, Bryan Singer).
4. sia chi racconta la storia, sia il soggetto sanno che la realtà rappresentata è
falsa.
A questa tipologia si può ricondurre Match Point (2005, Woody Allen).
Questa suddivisione è volutamente schematica
conoscenza dei film in questione.
Svelare il meccanismo rovinerebbe la visione dei film.
poiché
presuppone
la
Postmoderno
La tendenza data dall’infrangere il patto di veridizione, si inserisce nel quadro più
ampio definito Postmoderno.
La nascita del postmoderno viene collocato dalle varie discipline in momenti diversi e
rappresenta il momento in cui i capisaldi del moderno (razionalità, funzionalità ed
efficienza) non sono più sufficienti a rappresentare o comprendere il mondo.
Con il crollo di questi capisaldi si crea un panorama da dopo catastrofe in cui nasce il
postmoderno, partendo appunto dalla destrutturazione delle forme su cui la cultura
occidentale aveva fondato gli ultimi due secoli il proprio sapere.
Per quanto riguarda l’ambito cinematografico Laurent Jullier, studioso di cinema,
indica il film Guerre stellari (Star Wars, 1977, George Lucas come momento di
passaggio al Postmoderno. Per quale motivo?
È il primo esempio di racconto semplice e trasparente, l’uso degli effetti speciali e
della computer graphics è significativo ma nondimeno il film ha un suo stile ben
definito. Inoltre è il primo film distribuito con il sistema sonoro Dolby-stereo. Infine
inaugura un tipo di marketing esteso che coinvolge etichette discografiche,
canali televisivi, merchandising (come magliette, gadgets, giocattoli). Per
spiegare meglio queste particolarità, è necessario definire il Postmoderno e le sue
caratteristiche principali.
Lo stesso termine postmoderno è emblematico: post significa ciò che viene dopo
e moderno ciò che è ora; ma cosa viene dopo ciò che è ora?
L’idea è proprio questa: la coesistenza degli opposti.
Questo si contrappone al Moderno, che era caratterizzato da elementi che si
contrapponevano l’uno all’altro. Francesco Casetti, teorico di cinema, li riassume
in: visibile/invisibile, sensibile/sensato, oggettivo/soggettivo, totale/parziale,
prossimo/distante,
individuale/collettivo,
libero/vincolato,
attivo/passivo,
naturale/artificiale, originale/derivato.
Ma vediamo come Fredric Jameson, critico letterario americano, noto per i suoi
studi sulle tendenze culturali, descrive il postmoderno.
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Ibridismo: crolla la distinzione tra cultura d’élite e cultura di massa: collassano le
distinzioni gerarchiche ed emerge un pluralismo del tutto funzionale alle esigenze
dell’industria culturale.
Sintomo di ciò è la scomparsa dei generi a favore della commistione di essi.
Spesso nel dare risposta alla domanda “questo film a quale genere appartiene?”
rimaniamo spiazzato o iniziamo a elencarne almeno tre.
Frammentarietà: l’individuo prima riusciva a programmarsi a autoformarsi sebbene
in stato di angoscia, lacerazione, sdoppiamento e alienazione. Ora il soggetto
postmoderno non è più in grado di farlo ma vive in uno stato di frammentazione
schizofrenica, ovvero la psiche umana si adatta alla nuova esperienza di
presentazione di sempre nuovi punti di vista in mancanza delle precedenti forme
identitarie (Nazione, Partito, Stato). In altre parole, essendoci diversi stimoli, senza
dei punti di riferimento comuni, ognuno cerca di costruire la propria esperienza
attingendo da questi stimoli diversi in modo non strutturato.
Superficialità: la mancanza di profondità viene tralasciata a favore
dell’intertestualità (la mescolanza e giustapposizione di testi diversi, un collage).
Riprendendo l’esempio di Guerre stellari possiamo notare come questa nuova
forma di marketing estensiva si avvalga appunto di canali diversi rispetto a quelli
prettamente cinematografici.
Presentificazione del tempo: si cancella la storia, non ci sono più temporalità,
memoria e durata a favore di un eterno presente e il passato diventa un serbatoio
di immagini da ripescare di volta in volta con atteggiamento nostalgico o ludico
(emblematico in questo senso è Memento).
Inoltre l’invenzione della realtà virtuale porta anche ad un diverso modo di
concepire il cinema.
Immersività: con l’immersione totale nell’ambiente si giunge alla fine della
lontananza tra sguardo e oggetto, tra spettatore e storia del film.
Ricollegandoci a Guerre stellari la stessa tecnologia del Dolby-stereo permette allo
spettatore di sentirsi immerso nella scena.
Inoltre, spesso siamo portati a identificare il nostro punto di vista con quello di uno
dei personaggi, elemento su cui si fonda anche il meccanismo dei film presentati
in questa rassegna.
Interattività: lo spettatore non si limita ad assistere a eventi decisi e creati da altri,
ma viene chiamato a partecipare attivamente alla formazione della storia.
Naturalmente il tutto viene limitato dalla narrazione, ma vediamo in film come
Memento, come lo spettatore con la sua attenzione partecipa alla costruzione
della vicenda, che altrimenti non potrebbe comprendere.
Proteiformità: tutto è infinitamente instabile, deformabile. Questa è un’altra
caratteristica su cui si basano i film di questo ciclo: essendo tutto instabile e
deformabile, lo stesso regista gioca su questo per dare forma alla storia.
Faticità: in semiotica si intende che la ragione della comunicazione non è più
l’urgenza di esprimere un contenuto, un’informazione, bensì il comunicare in se
stesso. Questo è il motivo per cui i film appartenenti a questa tendenza non
giocano più solo sul contenuto della storia da narrare ma anche sul modo in cui
presentarla, che diventa parte integrante della storia e quindi anche la sua
peculiarità.
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La narrazione
Ed ecco che giungiamo alla narrazione.
Il cinema classico hollywoodiano è caratterizzato da un tipo di narrazione forte in
cui azione e trasformazione svolgono un ruolo cruciale. I personaggi si identificano
con ciò che fanno e ciò che fanno porta avanti l’azione e la trasforma portando
avanti la storia. Un esempio possono essere i personaggi impersonati da Humphrey
Bogart.
Nel cinema moderno, caratterizzato dalle nouvelles vagues, la più famosa è
quella francese (Godard, Truffaut, Rivette, Chabrol, Rohmer), si parla di narrazione
debole poiché i personaggi e gli ambienti sono privi di interazioni reciproche e le
situazioni si concatenano in modo incompleto e provvisorio.
Infine nel cinema contemporaneo abbiamo l’antinarrazione in cui dominano la
sospensione e la stasi: le trasformazioni procedono a rilento, le relazioni logicocausali tra gli eventi sono sostituiti da giustapposizioni casuali, tempi morti o
dispersivi (come in Pulp Fiction, 1994, Quentin Tarantino). È possibile riscontrare
questo nei nostri film. Spesso non abbiamo una scansione temporale precisa, o
viene attualizzata (come vedremo ne I soliti sospetti), lo stesso accostamento degli
eventi viene poi ribaltato dimostrando come esso possa essere manipolato,
oppure manca la logica causa-effetto, come in Mulholland Drive.
Un piccolo pensiero da spettatore
Trovo che Matteo Columbo in Attualità cinematografiche esponga in modo
adatto la posizione dello spettatore:
«Il rischio è quello di innamorarci di una verità e leggere ogni indizio come
una conferma della nostra immagine mentale. Ma questi pericoli non sono
forse i tranelli in cui caschiamo volentieri in quella rischiosa abitudine che è
guardare un film?»
Flavia Costa
Per approfondimenti:
Sul Postmoderno: Gianni Canova, L’Alieno e il Pipistrello, Bompiani, Milano, 2000
Sul Patto di veridizione: Guido Ferraro, Antonio Santangelo, Semiotica: nel testo e oltre, Arcipelago,
Milano, 2002
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IL SESTO SENSO
(The Sixth Sense, 1999, M. Night Shyamalan)
Bruce Willis (Malcom Crowe), Haley Joel Osment (Cole Sear), Toni Collette (Lynn Sear),
Olivia Williams (Anna Crowe), Donnie Wahlberg (Vincent Grey), Mischa Burton (Kyra
Collins)
Vedo la gente morta
Il sesto senso è uscito nel 1999, terzo film diretto da M. Night
Shyamalan.
La storia parla di uno psicologo infantile di successo, Malcolm Crowe, il
quale dopo essere stato ferito da Vincent Grey, suo ex-paziente, che
lo accusa di non averlo aiutato, decide di prendere in cura Cole, una
bambino che presenta le stesse problematiche.
Se il rapporto con Cole si approfondisce, sino a rivelare aspetti che
Malcolm non aveva considerato nel caso precedente, il rapporto con
la moglie Anna ne risente.
Nonostante ciò, Malcolm e Cole riusciranno ad aiutarsi a vicenda
nell’affrontare i relativi problemi.
Il film è ambientato a Filadelfia, come tutti i film di Shyamalan, città in cui egli è cresciuto.
Per quanto riguarda gli interni, elemento comune è il seminterrato in cui hanno luogo
scene importanti del film: in questo film, Malcolm fa un’importante scoperta su Vincent
Grey.
Il regista, come Hitchcock, appare in tutti i suoi film, con la differenza che lo vediamo non
solo in cammei, bensì impersona dei personaggi: in questo film lo vediamo nel ruolo del
Dr. Hill, il medico dell’ospedale che ha visitato Cole.
Altro elemento tipico del regista è la presenza di un incidente stradale che assume un
ruolo importante nella trama: ne Il sesto senso Cole rivela alla madre il suo dono.
Per quanto riguarda i temi cari al regista, innanzi tutto la maggior parte dei suoi film
riguardano individui con abilita straordinarie o eventi che accadono e questi personaggi
sono o hanno contatti con bambini. In questo film sono presenti entrambe le tipologie.
Il giovane Haley Joel Osment mostra la sua bravura nella recitazione che porta anche a
riconoscimenti importanti.
Riguardo a ciò Shyamalan racconta il perché abbia scelto proprio lui alle audizioni.
Primo: era il migliore.
Secondo: era l’unico che indossasse la cravatta.
Terzo: rimase sorpreso quando chiese ad Osment se avesse letto il suo ruolo. Egli rispose,
“l’ho letto tre volte ieri sera”. Shyamalan ben impressionato “wow, hai letto tre volte il tuo
ruolo?”. Osment rispose: “no, ho letto tutto il copione tre volte”.
Questo film appartiene al primo gruppo di questo ciclo, poiché sia chi narra la storia sia il
personaggio principale credono a ciò che viene narrato, fino alla rivelazione finale, segno
tipico dei film di Shyamalan.
Da notare:
• l’uso del colore rosso
• l’uso delle superfici riflettenti
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Essendo due elementi caratteristici del regista, in seguito vi è la descrizione del rapporto
tra Malcolm e la moglie Anna e il rapporto tra Malcolm e Cole.
Rapporto con la moglie
Spesso nei film di Shyamalan, il personaggio che è legato nella
storia ad un bambino, ha problemi coniugali. Malcom Crowe è
un esempio di ciò; lo vediamo come dopo la sparatoria le
scene con la moglie mostrano una certa distanza tra i due: qui
lui ritorna e lei è già a letto addormentata.
Successivamente vediamo Malcolm raggiungere Anna al
ristorante, giustificandosi per il ritardo. Lei non risponde, non lo
guarda nemmeno e risponde solo “Buon Anniversario”.
Qui Malcolm è nel seminterrato e
suonano alla porta: chiede alla moglie, che è al piano
superiore, se va lei ad aprire, ma non riceve risposta. Anna
apre la porta e si sente una voce maschile.
Un nuovo ritorno a casa, dopo una giornata di lavoro; Malcolm
raggiunge la moglie che è sotto la doccia, ma lei nemmeno
accenna un saluto.
Ora sembra si giunga al culmine
della crisi: Anna abbraccia un amico e si sente un rumore di
vetri rotti.
Malcolm si allontana non visto.
Ennesimo ritorno a casa di Malcolm,
che vede questo amico uscire da casa sua. Tenta di chiamarlo
ma questi si allontana in auto ignorandolo.
Ultimo momento con la moglie:
Malcolm decide di parlarle nel
sonno e finalmente comprende
impossibilità a comunicare.
la
natura
della
loro
Rapporto con Cole
Il rapporto con Cole inizia dopo la sparatoria. Vediamo come il profilo sia di molto
somigliante a quello di Vincent Grey, il paziente che ha sparato a Malcolm accusandolo
di non averlo aiutato.
Per Malcolm è una buona occasione di riscatto.
Il primo incontro avviene in una chiesa. Cole è lì a giocare con
dei soldatini.
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Cole ritorna a casa da scuola. Malcolm lo aspetta in soggiorno
insieme a sua madre. Malcolm propone un gioco a Cole per
farlo confidare con lui.
Vediamo
che
Malcom
ha
comunque guadagnato la fiducia di
Cole e vanno insieme a scuola.
Si ritrovano di nuovo a casa di Cole,
mentre la madre ne approfitta per i lavori di casa.
Cole ha una forte reazione verso un
professore e subito dopo si incontra
con Malcolm. Cole non si dimostra propenso a parlare
dell’accaduto.
Dopo essere stato rinchiuso in un
armadio dai compagni di scuola, Cole è ricoverato in
ospedale. La madre e Malcolm vengono a sapere dal
pediatra che Cole ha dei segni sul corpo e sospettano dei
maltrattamenti. Cole confessa a Malcolm di riuscire a vedere
le persone decedute. Malcolm ritiene di non potere più aiutare il ragazzo con la semplice
terapia, ma di doversi appoggiare a una struttura di sostegno.
Li rivediamo insieme dopo una recita scolastica, in cui Malcolm
dimostra il suo sostegno a Cole, che si sente sempre escluso dai
compagni di scuola.
Malcolm
dopo
aver
assistito
all’abbraccio tra la moglie e l’amico, decide di non avere più
in cura Cole, per dedicarsi maggiormente ai suoi problemi
personali.
Cole si sente abbandonato, ma soprattutto capisce che
Malcolm non crede che possa vedere i defunti.
Successivamente, dopo una scoperta che fa cambiare idea a
Malcolm, vediamo come gli incontri inizino nuovamente in
chiesa e Malcolm consiglia a Cole di provare a comunicare
con i defunti.
In seguito vediamo come Malcolm accompagni Cole ad un
funerale, proprio per offrire il suo sostegno.
L’ultimo incontro avviene a scuola,
dopo un’altra recita, in cui si vede
come Cole abbia superato il suo problema fondamentale. Egli
capisce che ora la presenza di Malcolm non è più necessaria e
che non si vedranno più. È qui che Cole dà a Malcolm un
consiglio, che poi si rivelerà utile, per risolvere i suoi problemi coniugali.
Notiamo quindi come se per Malcolm, Cole è un’occasione per rimediare agli errori
passati, per Cole la presenza di Malcolm è utile non solo come psicologo, ma anche
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come figura paterna. Lo vediamo infatti presente al suo ritorno da scuola, all’ospedale e
in occasione della recita scolastica.
M. Night Shyamalan
M. Night Shyamalan, il cui vero nome è Manoj Nelliyattu Shyamalan,
nasce nel sud dell'India, a Mahé. I genitori sono entrambi medici e
Manoj nasce in India perché sua madre vi si trasferisce per gli ultimi
mesi di gravidanza per avere l'assistenza dei suoi genitori
Dopo sei settimane Shyamalan giunge a Filadelfia. Formatosi in scuole
cattoliche, si trasferisce poi a Manhattan dove nel 1992 si laurea alla
Tisch School of Arts (TSOA).
All'età di otto anni prende per la prima volta in mano un Super 8 e capisce presto cosa
vuole fare da grande. Il padre preferirebbe per lui un futuro come medico, mentre la
madre asseconda la sua passione. A 17 anni ha già realizzato 45 filmini fatti in casa. Si noti
come a partire da Il sesto senso, Shyamalan includa in ogni sua pellicola una scena di
questi filmini, e in particolare di quello che lui reputa che gli abbia ispirato il film in
oggetto.
Il primo vero lungometraggio di Shyamalan è Praying with Anger girato quando è ancora
uno studente universitario, e finanziato prendendo soldi in prestito da parenti e amici. Il
film partecipa al Toronto International Film Festival e viene proiettato in una sala per una
settimana. Alcuni critici vedono in lui le potenzialità per un grande futuro e la televisione
canadese lo acquista e lo trasmette. Girato in India, resta tuttora l'unica sua opera girata
al di fuori della Pennsylvania.
Nel 1993 sposa Bhavna Vaswani, psicologa indiana conosciuta ai tempi dell'università e
con la quale vive a Wayne, Pennsylvania, insieme alle loro due figlie.
Nel 1998 scrive e dirige Ad occhi aperti. I suoi genitori figurano come produttori associati e
si devono attendere tre anni perché il film venga distribuito. Girato in una scuola cattolica
che frequentò da bambino, riceve una buona critica ma non raggiunge il grande
pubblico. In questo periodo scrive anche la sceneggiatura di Stuart Little.
Nel 1999 arriva il grande successo con Il sesto senso. Prima grande produzione, con la star
Bruce Willis e un giovane attore, Haley Joel Osment che si impone all'attenzione del
mondo intero. 40 milioni di dollari di budget e 660 milioni incassati in tutto il mondo. Uno
dei 25 maggiori successi commerciali di sempre. Tra i tanti riconoscimenti anche sei
candidature all'Oscar, tra le quali proprio quella alla regia.
Nel 2000 esce Unbreakable con Bruce Willis e Samuel L. Jackson. Un altro grandissimo
successo commerciale è Signs (2002) con Mel Gibson. Presentato come un film di
fantascienza e lanciato anche dalla curiosità sorta attorno ai cosiddetti misteriosi "cerchi
nel grano", il film in realtà è più che altro un'opera intimista e sentimentale.
The Village (2004) vanta un gran cast (William Hurt, Sigourney Weaver, Adrien Brody,
Joaquin Phoenix e la bravissima esordiente Bryce Dallas Howard), un'ambientazione
suggestiva ed una storia ancora una volta originale, che stavolta non bastano per
soddisfare la critica e anche il riscontro al botteghino, seppur buono, non è all'altezza
delle aspettative.
Il suo ultimo progetto Lady in the Water è molto travagliato, segno anche di un momento
non proprio felicissimo in una carriera che lo ha portato al grande successo giovanissimo
e che fa sì che ora abbia su di sé una grande pressione. Dopo una lunga collaborazione
con la Disney, passa alla Warner Bros dopo uno scontro con la casa di produzione proprio
per questo suo film, una favola pensata per i propri figli, così la descrive Shyamalan che
ha dovuto incassare un'altra batosta dai critici, pur reggendo ancora discretamente al
botteghino americano.
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Come regista è divenuto celebre in ogni caso grazie alla sua capacità di creare
atmosfere suggestive, sempre al limite tra la realtà e la fantasia, e per i suoi caratteristici
finali ad effetto con il disvelamento di elementi che spesso ribaltano l'intera lettura del
film, ormai una sorta di "marchio di fabbrica" che forse presenta il limite di condizionare in
una certa misura la visione di ogni suo nuovo film.
Filmografia
Praying with Anger (1992) - A occhi aperti (Wide Awake, 1997) - Il sesto senso (The Sixth
Sense, 1999) - Unbreakable – Il predestinato (Unbreakable, 2000) - Signs (2002) - The
Village (2004) - Lady in the Water (2006) - E venne il giorno (The Happening, 2008)
Riconoscimenti
Nel 2000
Premio per la musica nel cinema e nella televisione: migliore trai i film successi di incasso James
Newton Howard
Premio dell’Accademia dei film di fantascienza, fantasy e horror, Usa: miglior film horror, miglior
interpretazione di un giovane attore Haley Joel Osment
Premio dell’Academy giapponese: miglior film straniero
Premio Blockbuster: miglior attore emergente Haley Joel Osment; miglior attore - suspense Bruce
Willis; miglior attrice non protagonista - suspense Toni Collette
Premio Bogey d’oro, Germania
Premio Bram Stoker: sceneggiatura M. Night Shyamalan
Premio dell’Associazione critici di film in televisione: premio della critica, miglior interpretazione di
un giovane attore Haley Joel Osment
Premio Cannes Film Festival: premio per DVD Design
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Dallas-Fort Worth: miglior attore non protagonista
Haley Joel Osment
Premio Empire, UK: miglior regista M. Night Shyamalan
Premio dell’Associazione critici cinematografici della Florida: miglior attore non protagonista Haley
Joel Osment
Premio Golden Screen, Germania
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Kansas City: miglior attore non protagonista
Haley Joel Osment
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Las: miglior attore non protagonista Haley Joel
Osment; miglior promessa Haley Joel Osment
Premio MTV: Interpretazione maschile emergente Haley Joel Osment
Premio dell’Associazione critici cinematografici: miglior attore non protagonista Haley Joel Osment
Premio della scelta di People, USA: miglior film; Favorite Motion Picture
Premio Satellite d’oro: miglior montaggio Andrew Mondshein; migliore sceneggiatura originale M.
Night Shyamalan
Premio Scrittori americani di fantascienza e fantasy: miglior sceneggiatura M. Night Shyamalan
Premio dell’Associazione critici cinematografici del Sudest: miglior attore non protagonista Haley
Joel Osment
Premio scelta di Teen: miglior interpretazione emergente Haley Joel Osment
Premio dei giovani artisti: migliore interpretazione di un giovane attore Haley Joel Osment
Premio YoungStar : miglior interpretazione di un giovane attore Haley Joel Osment
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Recensioni
Un piccolo miracolo cinematografico merito del regista Night Shyamalan. Il
protagonista simpatico ma incolore.
Con tutto il turbamento e l’angoscia che procura, Il sesto senso dà anche
qualche speranza: che, dopo anni di effetti grossolani e di violenza gridata,
si possa fare del cinema “di genere” capace, sotto la scorza del genere, di
comunicare emozioni anche a un pubblico adulto. Il piccolo miracolo
cinematografico è merito di un regista indiano da anni trapiantato in America, Night
Shyamalan, che scrive e dirige un film di genere sì – perché almeno nel punto di partenza
Il sesto senso potrebbe ricordare i classici dell’horror infantile, da “L’esorcista” in qua-, ma
lo sviluppa con ritmi all’antica, non fa strane sperimentazioni e tratta con straordinaria
sensibilità il tema dell’infelicità infantile.
[…] Di solito è bene diiffidare dei bambini attori, che sanno comunque rubare la scena
ma non saranno necessariamente degli attori. Non si può che essere conquistati, invece,
dall’undicenne Haley Joel Osment che incarna il piccolo e infelice Cole: una attore con
una straordinaria capacità di trasmettere disagio e sofferenza senza mai gigioneggiare. E
il suo rapporto prima diffidente poi quasi appassionato con lo psicologo […] è raccontato
con pudore e finezza. […]
Shyamalan […] sa come usare i materiali dell’horror mentale, come dosare al minimo gli
effetti e gli ingredienti, come rendere inquietante e misteriosa la vita quotidiana. […] Di lì a
dire che si tratti di un grande film ne passa: ma è già una consolazione avere un buon film
per i grandi.
Irene Bignardi, La Repubblica, 30 ottobre 1999
Dopo aver visto "The sixth sense - Il sesto senso" si puo' dubitare dell'
intelligenza di Bruce Willis, ma non del suo fiuto per l' affare. In poche
settimane il film ha infatti introitato 300 milioni di dollari e ne incassera'
ancora. Scritto e diretto dall' oriundo indiano M. Night Shyamalan e
concepito come "un incrocio" fra "Gente comune" e "L' Esorcista", il film non
mette in mano a Willis la pistola ne' gli concede spazi per cazzottaggi o
momenti di autoironia. Irriconoscibile per la masochistica sobrieta' di accenti e gesti, ma
con un parrucchino che grida vendetta, il divo e' qui uno psicologo dell' infanzia che
nella prima scena finisce impallinato da un ex paziente cresciuto e deluso. Tutto il film e'
tra parentesi: e non rivelo come va a finire perche' se si smonta la sorpresa dell' ultimo rullo
non resta proprio niente. La scena del ferimento di Willis e' solo un modo per introdurre il
duetto del protagonista risanato con il ragazzino prodigio Haley Joel Osment (fisicamente
e' un sosia di Susanna Tamaro) che si crogiola nel terrore con buoni motivi: e' assillato dai
fantasmi dei trapassati vicini e lontani, porta sulla pelle le cicatrici degli incontri a rischio e
paventa il peggio. La cura che il trepido psicologo suggerisce e' quella di affrontare gli
spettri, non tutti cattivi o malintenzionati, e sentire cosa vogliono. Prometto di attenermi
senz' altro alle istruzioni di Bruce appena mi comparira' davanti un fantasma, ma nell'
attesa concedetemi di considerare "Il sesto senso" una stupidaggine. Resta davvero
difficile spiegarsi il trionfo di un thrilling oscurantista, scritto male e girato al buio, che il divo
Willis attraversa con il passo reverente di un turista in una cattedrale credendosi dentro a
chissa' quale opera d' arte.
Tullio Kezich, Corriere della Sera, 30 ottobre 1999
Bruce Willis nella parte d'uno psicologo per l'infanzia è un po' come Valeria
Marini nella parte di Madre Teresa o Schwarzenegger in quella di Freud:
l'inespressività dell'attore è infatti marmorea. A Filadelfia il dottor Willis cura
un bambino di nove anni dotato di poteri paranormali, terrorizzato da visioni
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di fantasmi, morti e anime in pena. Le terapie sono soprattutto affetto, comprensione,
rassicurazione: il bimbo va meglio, per il dottore c’è poco da fare, la storia si conclude
con un espediente. Negli Stati Uniti, incassi strepitosi: gran successo ovunque, oltre
duecentonovanta milioni di dollari.
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 31 Dicembre 1999
Da Edgar Allan Poe e Ambroce Bierce in poi, la letteratura americana può
vantare una notevole tradizione nel genere gotico. Il film con Bruce Willis si
ricollega, contando più sulle suggestioni della storia che sulle risorse dei soliti
trucchi visivi. […] “American Gothic” di grande successo con finale a
sopresa (ma lo sarà ancora per qualcuno, dopo tanto parlarne?). A starci
un po’ attenti, per la verità, l’epilogo non è imprevedibile come pretenderebbero gli
estimatori. Meglio – comunque – che Haunting e tanti altri film, dove gli effetti speciali
finiscono per vedersela tra loro. E le star stanno a guardare.
Roberto Nepoti, La Repubblica, 26 luglio 2000
[…] Shyamalan, che è anche autore della sceneggiatura, ha dimostrato di
saper manipolare benissimo le paure che può provare un bambino di fronte
alla visione di fantasmi, ne intuiva, evidentemente, quanto fosse facile
trasferire questa paura sul pubblico adulto. […]
Antonio Monda, La magnifica illusione, 2003
Clamoroso successo in tutto il mondo, affascina per il rigore narrativo con
cui racconta la storia di un bambino che vede i morti e del suo psicologo,
ma anche per una non trascurabile carica di riflessione narratologica.
Gianni Canova, le garzatine Cinema, 2005
[…] Enorme successo globale a sorpresa per un film scritto e diretto con
qualche ingenuità. […] Ma bisogna ammettere che il regista – anche
sceneggiatore – riesce a creare un’atmosfera al tempo stesso inquietante e
catartica, con un messaggio new age e consolatorio (Shyamalan unisce
l’origine indiana all’educazione cristiana) che però tocca tasti profondi. La
celebrata sorpresa finale è arzigogolata e poco originale (vedi Una pura
formalità di Tornatore): ma è anche un bello shock per lo spettatore che si
era identificato con Crowe. […] (**½)
Paolo Mereghetti, Dizionario del film 2006
[…] 3° film del regista-sceneggiatore M.N. Shyamalan che già in Wide
Awake (1998) aveva raccontato la storia di un bambino in qualche modo
tramite con l'aldilà. Da prendere o lasciare, questa storia di fantasmi. Se la si
prende, superando ogni pre-giudizio sulla provvisoria permanenza, o
immanenza, dei morti nel mondo dei vivi, si possono apprezzare le qualità
del film che pur “soffre di un certo sovraccarico simbolico e di qualche sbavatura nella
coerenza dell'impianto” (Mauro Gervasini): la recitazione sotto le righe di B. Willis e del
piccolo H.J. Osment, la tensione verso un'atmosfera onirica, la fotografia antinaturalistica
di Tak Fujimoto. Più di 600 milioni di dollari d'incasso sul mercato internazionale. (**½)
Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2007
[…] Il giovane Osment è straordinariamente bravo; il film è sinuoso e sinistro
senza essere ricattatorio. […] (***½)
Leonard Maltin, Guida film 2007
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Il mio punto di vista
Leggendo le recensioni emerge la bravura del regista- sceneggiatore nel
rappresentare le paure e nel coinvolgere il pubblico.
Gli viene anche riconosciuta, seppur con qualche obiezione, l’innovazione
nel campo della narrazione, che è la peculiarità del film; se fosse stato
narrato in modo diverso, probabilmente non avrebbe sortito lo stesso effetto
di sorpresa.
Flavia Costa
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MEMENTO
(2000, Christopher Nolan)
Guy Pearce (Leonard Shelby), Carrie-Anne Moss (Natalie), Joe Pantoliano (Teddy
Gammell), Larry Holden (Jimmy), Jorja Fox (Moglie di Leonard)
Rewind
Memento è il secondo film di Christopher Nolan ed è stato girato in soli
venticinque giorni. La storia parla di un investigatore assicurativo,
Leonard Shelby, che indaga sulla morte della moglie, cercando di
trovare il colpevole per vendicarla. L’ostacolo principale è un disturbo
di cui soffre dal momento dell’aggressione: perde la memoria a breve
termine dopo una manciata di minuti.
Particolarità di questo film è la narrazione: la vicenda è presentata a
ritroso. Ciò è reso chiaro dalla prima scena che viene mostrata in
“rewind”.
Molti critici hanno spiegato questa tecnica, paragonandola al
procedimento che segue un’indagine.
È anche vero che questa narrazione ha come precedente Tradimenti (Betrayal, 1983,
David Hugh Jones) tratto da un’opera di Harold Pinter, segue l’ordine a ritroso per
ripercorrere il percorso che la nostra memoria segue nel ricordare.
Notiamo inoltre che ci sono due linee di racconto che poi si ricongiungeranno: la prima, a
colori, rappresenta l’indagine di Leonard per trovare il colpevole ed è narrata a ritroso; la
seconda, in bianco e nero, riguarda la scoperta di ciò che è successo prima
dell’incidente e segue l’ordine cronologico. Questa sensibilità nell’uso del colore o del
bianco e nero può essere ricondotta al fatto che Nolan sia daltonico: lo ritroviamo anche
negli altri suoi film.
Queste due linee sono a loro volta frammentate dai ricordi di un caso simile a quello di
Leonard e dai ricordi della moglie.
Tema principale è quindi la memoria e il suo valore: le nostre azioni hanno senso, se poi
non le ricordiamo?
Può essere un bene a volte dimenticare?
Un altro tema caro a Nolan e presente nei suoi film è quello dell’ossessione che porta i
personaggi a rischiare la loro salute fisica e mentale: in questo caso Leonard è
ossessionato nel trovare l’assassino della moglie.
Infine altro denominatore comune a tutti i suoi film è il protagonista come uomo che si fa
o fa giustizia da solo o con metodi discutibili dalla morale comune. Leonard decide di
indagare personalmente anche per vendicarsi della moglie.
Analizzando il film, vediamo come Nolan, come negli altri suoi film, inizi con un particolare
delle mani del protagonista. In particolare in questo film vediamo le mani di Leonard con
in mano una foto.
Non solo: sua caratteristica è iniziare con una scena che ritroveremo alla fine.
Inoltre nei suoi film collabora con attori preferibilmente non statunitensi per impersonare
ruoli di statunitensi. Infatti Guy Pearce, attore protagonista, è nato in Inghilterra ed è
vissuto in Australia, Carrie-Ann Moss, che impersona Natalie è invece canadese e Larry
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Holden, presente in molti film di Nolan, qui nel ruolo di Jimmy, proviene dall’Irlanda del
Nord.
Una curiosità è il numero di telefono di Teddy: 555-0134 è lo stesso di Marla Singer,
personaggio di Fight Club (1999, David Fincher).
Ricordi di Sammy Jankins
Alle due linee di narrazione principali si aggiungono altre due
linee.
Una di queste è il racconto della storia di Sammy Jankins, un
caso su cui Leonard ha indagato prima dell’incidente.
Possiamo considerarla una storia
nella storia. È in bianco e nero e
raccontata in ordine cronologico, così come la linea narrativa
in cui essa è contenuta.
Come lo stesso Leonard afferma, la storia di Sammy ci aiuta a
capire meglio Leonard stesso e il suo disturbo alla memoria.
Inizalmente ci spiega anche che i ricordi precedenti
all’incidente, non vengono scordati e soprattutto si possono
anche intraprendere azioni complesse se sono state apprese
prima dell’incidente: ad esempio l’iniezione di insulina alla
moglie diabetica.
Id’altra parte ci introduce la nozione
di “condizionamento”, spiegato come il modo in cui
apprendiamo attraverso l’istinto piuttosto che con la memoria.
Ciò spiega anche come può essere possibile a Leonard avere
un metodo per “ricordarsi” ciò che la memoria non trattiene.
infine, da non trascurare è cosa questo disturbo comporta alle
persona che circondano Sammy e quindi Leonard. Vediamo
come la moglie di Sammy ha davvero bisogno di sapere se
questo disturbo è di natura fisica o psicologica per accettare
questa nuova condizione del marito.
Ricordi della moglie
La seconda linea di storia nella storia riguarda i ricordi di Leonard di sua moglie.
Come la storia in cui essa è contenuta, viene presentata a colori e in ordine non
cronologico.
Questi ricordi si alternano tra i ricordi della moglie da viva, nelle
immagini a destra, e quelli dell’aggressione, nelle immagini a
sinistra.
Come Leonard dice, si ricorda di
dettagli. Ed è quello che vediamo.
Le immagini scorrono spesso veloci e
si soffermano su alcuni particolari.
17
Successivamente i ricordi della moglie sono legati a come
Leonard vi partecipa. Per esempio gli oggetti che decide di
bruciare, oppure il momento in cui
lui si alza per difendere la moglie
dall’aggressione in corso e quindi
colpito, batte la testa e subisce il
trauma che gli causerà il disturbo alla memoria.
Questa “sequenza” di ricordi verrà poi ricollegata, come per le due linee narrative
principali, ai ricordi di Sammy.
Christopher Nolan
Christopher Nolan è nato a Londra nel 1970 ed è di padre inglese e
madre statunitense, grazie a questo ha la doppia cittadinanza.
Inizia a girare film all’età di sette anni con la super8 del padre e i suoi
giocattoli.
La sua infanzia la passa tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, ma studierà
nel Regno Unito e in particolare all’Università, dove studia Letteratura
Inglese, continua a girare film con l’associazione cinematografica studentesca.
Ancora studente, nel 1989 riesce a far proiettare il suo primo corto sul canale americano
PBS. Si tratta del surrealista Tarantella, girato in Super 8. Dopo aver partecipato al
Cambridge Film Festival con Larceny (1996), realizza Doodlebug (1997): tre minuti su una
caccia all'insetto con colpo di scena finale. Grazie alla moglie Emma Thomas, che
produce, nel 1998 Nolan riesce a esordire nel lungometraggio. Following: è un noir in
bianco e nero, erede della tradizione britannica degli anni '50. La storia si basa su
flashback e flashforward, definendo fin dall'esordio il carattere essenziale del Nolan
autore: le sperimentazioni temporali. Qualcosa d'innovativo s'intravede già, al punto che
Following vince la Tigre d'oro al festival di Rotterdam nel 1999, e viene proiettato all'Hong
Kong Film Festival dello stesso anno, dove Nolan chiede addirittura soldi al pubblico per
finanziare il suo prossimo progetto.
Si tratta di Memento (2000), il film culto che lo rende noto un po' in tutto il mondo,
suscitando opere che ne ricalcano la struttura (come Irreversible, 2002, di Gaspar Noé) e
divenendo un successo soprattutto grazie al passaparola. L'inconsueta struttura narrativa
è sufficiente a rendere il film un evento. Tratto da un racconto del fratello Jonathan
("Memento mori") il film è un successo planetario, con tanto di candidatura agli Oscar per
la migliore sceneggiatura.
Vista l'originalità di Memento, la Warner Bros si interessa al giovane Nolan e gli affida la
regia di Insomnia (2002), remake di un film norvegese del '97, con cast spettacolare: Al
Pacino, Robin Williams e Hilary Swank. L'abilità a dirigere grandi attori e a dilatare il tempo
accrescendo la suspence non passa inosservata e la Warner Bros crede in lui, cercandolo
come regista del nuovo Batman, quello che dovrebbe risollevare la serie dopo i fiaschi dei
fumettistici film di Joel Schumacher. Nolan aveva in realtà altre intenzioni: un film
biografico su Howard Hughes con Jim Carrey, di cui teneva già pronta la sceneggiatura.
Ma Scorsese proprio in quegli anni inizia a girare The aviator (2004), sulla stessa biografia,
costringendo Nolan ad abbandonare l'impresa. Nolan accetta così la sfida di Batman.
Cosa che, peraltro, gli riuscirà piuttosto bene. Il cast, ancora una volta, è stellare: Micheal
Caine, Gary Oldman, Morgan Freeman e Liam Neeson. Ma la vera scoperta è Christian
Bale, il quale diverrà una sorta di attore feticcio per Nolan, che lo rivuole per il seguente
The Prestige (2006). Il dover raccontare la nascita di Barman permette inoltre a Nolan di
cimentarsi nei suoi amati flashback, riuscendo a evitare la linearità persino in un film
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d'azione. Batman Begins lo decreta maestro nel thriller introspettivo e risolleva la serie
dalla crisi. E la Warner, soddisfatta, lo vuole per la regia del quinto episodio: The dark
knight (2008) dove ricompare la figura di Joker.
Nel frattempo, Nolan ci regala una delle più piacevoli sorprese del 2006: The Prestige. Per
la sceneggiatura torna alla collaborazione col fratello Jonathan.
Filmografia
Following (1998) - Memento (2000) - Insomnia (2002) – Barman Begins (2005) – The Prestige
(2006) – The Dark Knight (2008)
Riconoscimenti
Nel 2000
Deauville Film Festival, Premio CinéLive: Christopher Nolan
Deauville Film Festival, Premio della Critica: Christopher Nolan
Deauville Film Festival, Premio Speciale della Giuria: Christopher Nolan
Premio dell’Associazione Catalana Critici di Scrittori e Sceneggiatori: Christopher Nolan
Nel 2001
Premio della Associazione di critici cinematografici di Boston: miglior sceneggiatura Christopher
Nolan
Premio britannico per il cinema indipendente: Miglior film straniero indipendente – in lingua inglese
Associazione di Casting in USA: miglior casting per film indipendente John Papsidera
Premio del Circolo di critici cinematografici di Londra: sceneggiatore britannico dell’anno
Christopher Nolan
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Los Angeles: migliore sceneggiatura Christopher
Nolan
Premio dell’Associazione critici cinematografici di San Diego: miglior attore Guy Pearce
Premio dell’Associazione critici del Sudest Asiatico: Miglior film, miglior sceneggiatura originale
Christopher Nolan
Sundance Film Festival, Premio Waldo Salt per le sceneggiature: Christopher Nolan, Jonathan
Nolan (racconto)
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Toronto: miglior film, miglior sceneggiatura
Christopher Nolan
Nel 2002
Premio AFI Film: sceneggiatore dell’anno Christopher Nolan
Premio Bram Stoker: sceneggiatura Christopher Nolan Jonathan Nolan
Premio dell’Associazione critici di film in televisione, Premio della critica: miglior sceneggiatura
Christopher Nolan
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Chicago: miglior sceneggiatura Christopher
Nolan
Premio Chlotrudi: miglior regista Christopher Nolan
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Dallas-Fort Worth: Christopher Nolan
Premio del circolo critici cinematografici della Florida: miglior sceneggiatura Christopher Nolan
Premio Golden Trailer: miglior film, miglior sceneggiatura originale
Premio Independent Spirit: miglior regista Christopher Nolan, miglior film Jennifer Todd, Suzanne
Todd, miglior sceneggiatura Christopher Nolan, miglior attrice non protagonista Carrie-Anne Moss
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Las Vegas: migliore attore Guy Pearce, miglior
montaggio Dody Dorn, miglior film, miglior sceneggiatura Christopher Nolan
Premio MTV: miglior cineasta emergente Christopher Nolan
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Premio dell’Associazione critici cinematografici Online: miglior cineasta emergente Christopher
Nolan, miglior film, miglior sceneggiatura adattata Christopher Nolan
Premio dell’Associazione Critici cinematografici di Phoenix: miglior montaggio Dody Dorn, miglior
emergente Christopher Nolan, migliore sceneggiatura originale Christopher Nolan
Premio del Circolo di critici cinematografici di Vancouver: miglior Film
Nel 2003
Premio dell’Accademia della fantascienza, Film Fantasy & Horror, USA: miglior film di
azione/avventura/thriller
Recensioni
[…] Memento è un film che ha il suo pregio maggiore nelle reiterate
sollecitazioni all’attenzione dello spettatore: gli chiede continuamente
qualcosa e, finalmente, gli restituisce un ruolo attivo di fronte alle immagini.
Naturalmente, però, quello di Christopher Nolan è anche un gioco che
richiede adesione e complicità totali da coloro che guardano (e, come
detto, partecipano). Insomma, è uno strano thriller che sottrae indizi invece di svelarli (ma,
in realtà, li svela proprio mentre sembra sottrarli), a noi come al protagonista; che, in
definitiva, diventa come ciascuno di noi: crede di fermare il passato che gli scivola via,
attraverso un rigido controllo sul presente. Invece, non riesce a essere padrone di nulla.
Nemmeno della propria identità.
Diego Del Pozzo, Cinema Sessanta, gennaio/febbraio 2001
Un “noir” alla David Lynch con qualche pasticcio di troppo
[…] La narrazione a flashback ha sempre trovato un terreno privilegiato nel
film noir, e per motivi facilmente intuibili: evoca il modo di procedere di chi
conduce un’indagine, cercando di ricostruire con la razionalità fatti
avvenuti in sua assenza. Da questo punto di vista Memento si presta
all’applicazione del procedimento meglio di qualsiasi film; salvo che si lascia tanto
prendere dal piacere di esplorare tutte le piste possibili da dimenticare, alla fine (con
immaginabile delusione dell’appassionato di gialli), di fornirci la soluzione del «caso».
Alla prima regia americana, il britannico Christopher Nolan sceglie uno stile alla David
Lynch che lascia ammirati e perplessi. Per un bel po’ la struttura complessa, a salti indietro
avanti nel tempo, passaggi dal colore al bianco e nero, reiterazione degli stessi episodi
afferra la tua attenzione e la tiene ben stretta. Però, una volta capito il meccanismo, le
continue ripetizioni cominciano a risultare faticose e l’eccesso di autocompiacimento
diventa un po’ irritante.
Roberto Nepoti, La Repubblica, 4 Febbraio 2001
Uno dei noir più originali da molti anni a questa parte. […]Nolan vuole
sorprendere fin dalla prima sequenza, e ci riesce. Ma il gioco straordinario di
rivelazioni e finte apparenze (il film è narrato a ritroso) non gira a vuoto:
riguarda cose come l' usura della memoria e dell' amore, il labile senso della
nostra identità. Nolan è un primo della classe e lo sa: ma al contrario di tanti
altri, sa toccare nel profondo.
Alberto Pezzotta, Corriere della Sera, 14 febbraio 2001
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[…] Sperimentale nella struttura narrativa e nell’uso del montaggio (si parte
infatti dalla fine della vicenda e si procede a ritroso) Memento è un film che
utilizza un genere popolare come il thriller per costruire un discorso sul Tempo
e la Memoria, la scelta e il libero arbitrio. (****)
Francesco Crispino, Il Venerdì, 23 Agosto 2002
[…] L’espediente di raccontare la storia dalla fine all’inizio creava
disorientamento, ma permetteva allo spettatore di entrare nella testa del
protagonista, che aveva perduto la memoria: diventando una meditazione
struggente sulla perdita di ciò che ci è più caro. Cosa sarebbe cambiato se
il film fosse stato montato rispettando l’ordine «naturale» degli eventi? […]
Alberto Pezzotta, La Stampa, 17 Aprile 2003
Anche se in molti hanno accusato il giovane e talentuoso regista inglese
Christopher Nolan di eccessi virtuosistici nella sceneggiatura (tratta da un
racconto del fratello), questo suo secondo film è da considerarsi tra i migliori
e certamente più originale thriller di fine millennio. […] Certo, i virtuosismi non
mancano. Ma non manca nemmeno la capacità di usare lo schema del
noir e dell’amnesia per indagare sulla labilità dei sentimenti che ci legano
alle persone amate. (***)
Guido Reverdito, Il Venerdì, 10 Ottobre 2003
[…] Uno dei noir più originale degli ultimi anni, narrato a ritroso, in modo che
lo spettatore brancoli nel buio come il protagonista e venga a sapere poco
per volta quello che è successo veramente. Un gioco di rivelazioni e finte
apparenze che richiede attenzione ma non delude, perché va a
scandagliare nel profondo, facendoci interrogare sulla fragilità della
memoria (specie per le persone amate) e sul labile senso della nostra
identità. Nolan, anche sceneggiatore (il soggetto è un racconto di suo
fratello Jonathan), sa di essere bravo, fin troppo: ma gli si perdonano sfoggi e virtuosismi,
perché questa volta dietro c’è qualcosa di davvero inquietante e toccante. […] (***)
Paolo Mereghetti, Dizionario del film 2006
[…] Virtuoso della sceneggiatura (tratta da un romanzo del fratello
Jonathan) e della regia, il giovane inglese C. Nolan dipana la sua
vendicativa detective story e a colpi di avanti e indietro temporali. In linea
con il precedente Following (1998), e all'insegna del passo del gambero, è
un film-scommessa, sprofondato nel noir e sorretto dall'energia nevrotica del
protagonista G. Pearce. Difficile da giudicare: esercizio stilistico che, a lungo andare,
mostra la corda di un formalismo fine a sé stesso? inquietante favola in forma di
destrutturato incubo mentale sulla labilità della memoria, dell'amore, dell'identità? (**1/2)
Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2007
[…] Film pretenzioso tra convenzioni narrative e manipolazioni del tempo
reale. Eppure ha i suoi fan.
Leonard Matlin, Guida ai Film 2007
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Il mio punto di vista
L’utilizzo della narrazione a ritroso è sicuramente un punto di forza di questo
film. Coinvolge lo spettatore richiedendo attenzione ininterrotta, ma proprio
per questo può essere in alcuni momenti faticoso, anche se alla fine non
delude.
L’idea di vederlo, come proposto nel dvd, anche nella versione che segue
l’ordine cronologico, è di certo interessante soprattutto per realizzare quanto
lo spirito stesso del film cambi, cambiando l’ordine degli elementi.
Flavia Costa
Per sorprendervi ancora
La donna che visse due volte (Vertigo, 1958, Alfred Hitchcock) – Shining (The Shining, 1980,
Stanley Kubrick) – Fight Club (1999, David Fincher) - The Others (2001, Alejandro
Amenábar) – Vanilla Sky (2001, Cameron Crowe) – Saw (2004, James Wan) – L’uomo
senza sonno (El Maquinista, 2004, Brad Anderson)
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MULHOLLAND DRIVE
(2001, David Lynch)
Naomi Watts (Betty Elms / Diane Selwyn), Laura Harring (Rita), Ann Miller (Catherine
“Coco” Lenoix), Robert Forster (Harry McKnight), Justin Theroux (Adam Kesher)
La città degli “angeli”
Mulholland Drive è una strada vicino alle colline di Hollywood e porta
sino alle spiagge della California e appare anche nel film Strade
perdute (Lost Highways, 1997).
La storia produttiva di questo film è particolare: viene girato nel 1999
come episodio pilota di una serie tv proposta alla Abc. L’emittente
televisiva decide però di non produrre l’intera serie e il progetto viene
accantonato.
Successivamente Studio canal e Alain Sarde, case di produzione
francesi decidono di produrlo come film; si girano le scene mancanti
ed ecco che nel 2001 esce il film.
La trama di Mulholland Drive è complicata, come spesso capita con i film di David Lynch.
Abbiamo Betty, bionda, angelica, aspirante attrice che arriva a Los Angeles per un
provino. Rita, affascinante, mora, che in seguito a un incidente non ricorda la sua identità.
Adam, regista cui viene “consigliato” di scritturare un’attrice. Ma come si collega il tutto?
È proprio questo il senso del film.
Come sempre Lynch si rifiuta di commentare il significato dei suoi film, lasciando allo
spettatore l’interpretazione.
Ciò Lynch che non affida ad altri è come secondo lui il film dovrebbe essere visto.
Quando usci nelle sale cinematografiche, insieme al film, venne distribuito un fascicolo
scritto da Lynch stesso con le indicazioni sul formato di proiezione e sul volume.
Per quanto riguarda la versione in DVD, il film non è diviso in capitoli, poiché secondo il
regista un film deve essere visto dall’inizio alla fine senza interruzioni.
In questo film possiamo ritrovare molti elementi tipici di David Lynch.
Il film è ambientato Los Angeles, metropoli estesa e caotica; l’alternativa per Lynch è
antitetica: cittadine. La stessa ambientazione iniziale, con la strada notturna, e la tavola
calda sono tipiche e significative.
Egli scrittura spesso tra gli attori personaggi del mondo musicale: in questo caso Billy Ray
Cyrus come addetto alla manutenzione di piscine, Rebekah Del Rio che interpreta se
stessa nel club Silencio e Angelo Badalamenti, curatore delle musiche del film, che
appare come boss mafioso con esigenti gusti per il caffè.
Inoltre tipica è la figura femminile angelica, in questo caso Betty.
eventi ricorrenti nei film di Lynch sono gli incidenti e le lesioni alla testa: qui inizia con un
incidente e una donna che in seguito a esso non ricorda la sua identità.
Per quanto riguarda gli oggetti abbiamo lampade, telefoni e sigarette (la lampada rossa,
insieme al telefono nero e al portacenere), lampade che lampeggiano e malfunzionanti,
come nell’apparizione del cowboy, tende rosse, quindi il colore rosso ma soprattutto il
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colore blu (nei momenti di rivelazione) e infine il caffè, in questo caso quasi unico
protagonista durante la riunione per la scelta dell’attrice.
Dieci indizi
Nella versione originale del DVD, David Lynch lascia dieci indizi per aiutare la
comprensione della vicenda. Tutti gli indizi si riferiscono a oggetti, avvenimenti, luoghi che
compaiono con due funzioni diverse nel film. Starà allo spettatore capire come
confrontarle e collocarle.
1. prestate particolare attenzione all’inizio del film: almeno
due indizi sono rivelati prima dei titoli di testa.
Il film si apre con delle coppie che ballano, le cui ombre
lasciano come se ritagliassero la parete, lasciano intravedere
altro.
2. fate attenzione alle apparizioni della lampada rossa
le apparizioni della lampada rossa sono due e legate a una
telefonata.
3. riuscite a sentire il titolo del
film per cui Adam Kasher sta cercando l’attrice
principale? È menzionato di nuovo?
Non solo il titolo è importante ma anche le circostanze del film:
per esempio le attrici e le situazioni.
4. un incidente è un avvenimento terribile… notate il luogo
dell’incidente
Il luogo viene menzionato per due motivi: l’incidente e una
festa.
5. chi dà una chiave? E perché?
Ci sono due chiavi, quale dovremo considerare?
6. notate il vestito, il posacenere e la tazza
Anche qui abbiamo due modelli di vestito, sue portacenere e due tazze: gli oggetti si
riferiscono a situazioni diverse.
7. cosa si sente e accade al club Silenzio?
Nel club Silencio ci sarà un ritrovamento importante per la storia
ma soprattutto una battuta chiave per la comprensione del
film.
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8. solo il talento ha aiutato Camilla?
Questo indizio sembrerebbe uno dei più semplici da
individuare. In realtà proseguendo con la vicenda, ci
ricrederemo.
9. notate le circostanze in cui si
vede l’uomo dietro Winkie’s
L’uomo dietro Winkie’s in parte ha la funzione di riportarci
indietro alle nostre paure infantili, in parte ha un ruolo
importante di colui che detiene la soluzione; ma come
d’abitudine del regista, non sarà chiaramente spiegato.
10. dov’è la zia Ruth?
Anche questo indizio sembra semplice e ci sembra chiaro e
spiegato sin dal principio, ma si tratta di Lynch: più è chiaro,
meno lo sarà più avanti.
David Lynch
David Keith Lynch nasce il 20 gennaio 1946, nel Montana, cittadina
assai pittoresca, come quelle che il regista tende a raffigurare nei suoi
film.
Piccolo membro degli scout, David è costretto a trasferirsi
ripetutamente a causa del lavoro di suo padre: scienziato del Servizio
Forestale.
Durante l'adolescenza sogna di fare lo psichiatra; col passare del
tempo però scopre la passione per la pittura e nel 1963 decide di
iscriversi al Corcoran School of Art di Washington DC. Dodici mesi più
tardi, frequenta il Museum School di Boston: in quel periodo il ragazzo è assunto come
commesso in un negozio di cornici ma viene ben presto licenziato, perché sempre in
ritardo. Nel 1965 è ammesso alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia, dove
si stabilisce definitivamente con la famiglia.
L'anno successivo dà vita alla sua prima creazione: il cortometraggio Six Figures Getting
Sick. Nel '67 convola a nozze con l'attrice Peggy Lentz: la loro unione durerà sette anni. La
donna darà al marito una figlia: Jennifer, che diventata adulta dirigerà il controverso
thriller Boxing Helena. La realtà violenta della periferia di Philadelphia ispira il giovane
David per il suo debutto nel grande schermo: Eraserhead - La mente che cancella, horror
girato per l'American Film Institute. Oltre a produrlo e dirigerlo, Lynch ne firma la
sceneggiatura, la fotografia, il montaggio nonché gli effetti speciali. Lavorerà
ossessivamente a questo progetto per cinque anni, mezzo decennio travagliato da mille
disastri finanziari: per via dei debiti dovuti alla realizzazione del film, David perde la casa
ed è costretto a dormire nel set all'insaputa della troupe eliminando sapientemente, alla
mattina, ogni traccia del bivacco.
Già in questa pellicola prima emerge il suo affascinate stile allucinato e inquietante,
completamente estraneo a tutto ciò che è stato creato fino ad allora. E' stato riportato
che l'opera prima di Lynch sia il film preferito da Stanley Kubrick. Gli estenuanti sacrifici
vengono premiati con una meritatissima popolarità: George Lucas diviene un suo
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ammiratore e gli offre l'opportunità di dirigere Il ritorno dello Jedi. La star tuttavia rifiuta. Il
21 giugno 1977 sposa Mary Fisk dalla quale divorzierà l'anno seguente; i due hanno un
figlio, Austin Jack.
Nel 1980 arriva la consacrazione definitiva: l'amico e collega Mel Brooks affida a David la
direzione del dramma vittoriano The Elephant Man. Questa opera struggente e di
eccezionale bellezza ottiene un enorme successo di pubblico e critica. Nella notte della
52esima edizione degli Academy Awards, The Elephant Man si aggiudica ben otto
nomination all'Oscar ma non ne vince neanche uno.
Ciò nonostante, David Lynch diviene un mito, un emblema di inimitabile genialità. È il 1984
quando è dietro la macchina da presa del suo primo film a colori: il flop fantascientifico
Dune. A quei tempi Lynch accetta la proposta di De Laurentis di girare questa pellicola,
assicurandosi di avere carta bianca per il prossimo lungometraggio. L'opera in questione
è l'eccessivo e delirante Velluto Blu, escluso dal Festival di Venezia con l'accusa di
pornografia gratuita. Pertanto, l'opera rimane la sua "creatura" più personale e singolare
dalle origini.
Durante le riprese, il divo viene incantato dallo charme di Isabella Rossellini, con la quale
ha una relazione. Arriva il 1990 e con esso il paradossale Cuore Selvaggio: presentato al
Festival di Cannes, il film tra fischi e polemiche, vince la Palma d'Oro come migliore
pellicola, grazie alla forte influenza di Bernardo Bertolucci, presidente della giuria. È in
questo periodo che l'eccentrico cineasta genera la sua opera più innovativa fino ad
allora: la serie tv I Segreti di Twin Peaks. Questa telepsychonovela di elevata fattura
scandalizza e turba il pubblico del piccolo schermo, accaparrandosi numerosi
riconoscimenti. Nel 1997 gira l'ipnotico Strade Perdute. Due anni dopo invece dirige il
commovente Una storia vera.
Nel 2001 la mente di questo eccelso artista partorisce una delle sue migliori opere in
assoluto: Mulholland Drive. Onirico, conturbante, sinistro, ambiguo, estremo, complesso: in
una sola parola "lynchiano". Questo thriller racchiude in sé, tutta la sofisticata entità del
regista che mediante la straordinaria pellicola si aggiudica la Palma d'Oro per la miglior
regia al Festival di Cannes, in ex aequo con L'uomo che non c'era di Joel Coen. Spesso
accreditato con il nome di Judas Booth, il divo si sta separando dalla montatrice Mary
Sweeney: con lei ha avuto il terzo figlio, Riley. Nel 2006 è stato insignito con il Leone D’oro
alla carriera, durante la 63ª edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica
di Venezia, dove ha presentato la sua ultima, scioccante fatica: Inland Empire - L'impero
della Mente.
Filmografia
Eraserhead – La mente che cancella (1977) – The Elephant Man (1980) - Dune (1984) –
Velluto blu (Blue Velvet, 1986) – Cuore selvaggio (Wild at Heart, 1990) – Fuoco cammina
con me (Twin Peaks: Fire Walk with me, 1992) – Strade perdute (Lost Highway, 1997) – Una
storia vera (The Straight Story, 1999) – Mulholland Drive (2001) – Inland Empire – L’impero
della mente (2006)
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Riconoscimenti
Nel 2001
Scelto da "Les Cahiers du cinéma" come uno dei “10 migliori film del 2001”
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Boston: miglior film, miglior regista David Lynch
Premio al Festival di Cannes: miglior regista David Lynch
Premio del comitato nazionale della critica, USA: miglior attrice emergente Naomi Watts
Premio dell’Associazione critici cinematografici di New York: miglior film
Premio dell’Associazione critici cinematografici di San Diego: miglior attrice protagonista Naomi
Watts
Premio dell’Associazione della critica di Toronto: miglior regista David Lynch
Nel 2002
Premio ALMA: miglior attrice Laura Harring
Premio BAFTA: miglior montaggio Mary Sweeney
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Chicago: miglior attrice Nami Watts, miglior
regista David Lynch, miglior film
Premio Chlotrudis, premio del pubblico: miglior regista David Lynch, miglior sceneggiatura originale
David Lynch
Premio César, Francia: miglior film straniero David Lynch
Premio del Circolo della critica in Australia: miglior film straniero in lingua inglese
Premio dell’Associazione truccatori e acconciatori di Hollywood: miglior trucco contemporaneo
Julie Pearce, Randy Westgate, Selina Jayne
Premio Indipendent Spirit: miglior fotografia Peter Deming
Premio Festival del cinema gay e lesbico di Los Angeles: miglior attrice protagonista
Premio dell’Associazione di critici cinematografici di Los Angeles: miglior attrice protagonista,
miglior regista David Lynch
Premio dell’Associazione nazionale critici cinematografici degli Stati Uniti: miglior attrice Naomi
Watts, miglior film
Premio dell’Associazione critici cinematografici online: miglior attrice Naomi Watts, miglior attrice
emergente Naomi Watts, miglior regista David Lynch, miglior musica originale Angelo Badalamenti,
miglior film
Nel 2003
Premio Bodil, Danimarca: miglior film americano David Lynch
Premio Sant Jordi, Spagna: miglior film straniero David Lynch
Recensioni
Il male l’ossessione del cinema di David Lynch: ed è il male d’America, il
nodo che stringe l’enigmatico, impressionante “Mulholland Drive”, ultima
fatica del regista di “Cuore selvaggio”. Un male particolare, contagioso:
quello che si sviluppa dalla base finanziaria del cinema e nel luogo
deputato di esso, Hollywood. […]
il paesaggio urbano conta in questo film: diventa custodia di una realtà violenta che
nasconde mostri nel proprio ventre, mostri che una psiche malata può confessare al
proprio analista di vedere oltre che sognarli. E la città si trasforma in un prisma di visioni, si
riempie di figure crudeli, allarmanti, emblematiche. Dicevo dell’enigma di questo film,
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strutturato su uno schema a puntate per la televisione, poi ridotto a due ore e mezza e
sigillato in un simbolo tramato d devianze narrative, di ribaltamenti prospettici e
psicologici. […]
Il senso della favola, poiché come sempre in Lynch l’aspetto fiabesco è preminente, il
senso della favola consiste nello scancellare con il gesto di un pittore alla Rauschenberg
immagini terse e abbaglianti e mostrartele poi disfatte da una verità immonda. […]
Barocco, magmatico, ricco di simboli sensuosi e sibillini, dominati da una mano che fin
troppo sa dipingere ombre e chiarori, fantasmi e corpi caldi di passione, “Mulholland
Drive” ha la ribalda evidenza di un racconto di Poe. Il male, segno di un inferno
scaraventato nella vita di una comunità, è ossessione del tutto americana, appunto fin
da Poe e da Hawthorne. […]
Lynch cerca di scantonare dal rischio d’una personale ideologia: pare volersi fermare agli
interrogativi dell’esistenza senza dare loro risposta. La vita, sembra dirci, è
straordinariamente mutevole: non bisogna oltrepassarne la soglia sfuggente, ambigua.
Ma poi ci porta oltre, in uno spazio di commossa, disperata, vera tragicità.
Enzo Siciliano, La Repubblica, 15 febbraio 2002
Una storia d'amore nella città dei sogni" è la definizione di David Lynch per il
suo Mulholland Drive: ma si potrebbe benissimo dire anche "Una storia di
sogni nella città dell'amore", dato che il film racconta a Hollywood vicende
hollywoodiane alla maniera di Hollywood, tra enigmi, sperdimenti, eleganze
d'epoca, romanticismo nero alla Raymond Chandler, palme, banani, pericoli
e sangue, con due ragazze (una bionda, una bruna) che si amano, che vivono l'esistenza
ingenua e torbida delle giovani californiane. […] Si capisce pochissimo, ma l'emozione e
l'atmosfera sono forti. David Lynch, che adesso ha cinquantasei anni, dopo la parentesi di
lineare semplicità e pathos educato di Una storia vera, torna a se stesso: al suo magma di
apparizioni inesplicabili, di indagini senza colpevoli, di sospensione, confusione e sorpresa,
di sensualità, orrore ed estetismo. Per il regista, il cinema non ha più bisogno di storie ben
strutturate, di elenchi ordinati di personaggi e interpreti, di cronologie, di cause ed effetti,
di narrazione romanzesca: come la musica o la pittura, la sua espressività è adesso
affidata ai climi, al senso, alle impressioni, agli spaventi o alle esultanze, all'estrema
condensazione del mondo in un'immagine, in una nota. E le sue due protagoniste
potrebbero essere una metafora del cinema: senza identità per la perdita della memoria
del passato, senza identità per la voglia di essere altro recitando.
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 15 febbraio 2002
[…] Impossibile star dietro a tutte le divagazioni del film; pur affidato ad
attori inesistenti, il gioco per un po’ funziona, ma andando avanti sconfina
nell’arbitro e alla fine irrita per la riluttanza a fornire spiegazioni soddisfacenti.
Senza dubbio il regista David Lynch resta un cineasta originale e inventivo,
ma ha preso da Godard il gusto snobistico della reticenza e della presa in
giro dello spettatore. Ciò non toglie che fra gli appassionati dell’intero
pianeta l’autore di «Mulholland Drive» goda di un credito che altri non hanno, prova ne
siano i numerosi riconoscimenti raccolti da questo film.
Premi a pioggia, incluso quello dei critici di New York e la recente candidatura all’Oscar
per la migliore regia, ma incassi deboli.
Non basterà per affermare che il film è un successo, ma servirà per confermare ancora
una volta che chi lavora per i cinefili non lavora per il pubblico.
Tullio Kezich, Corriere della Sera, 16 febbraio 2002
[…] Dopo la parentesi del bellissimo “Una storia vera”, David Lynch ha di
nuovo perduto la strada. Non che il suo nuovo film sia brutto: ha stile,
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atmosfera, humor nero e l’impronta dell’autore. Solo che, tornando dalle parti di “Twin
Peaks”, il cineasta fa l’ennesima variazione – non la più riuscita – su un repertorio un po’
logoro: scambi d’identità, premonizioni, l’abisso tra la levigata rappresentazione
americana delle realtà e i vermi immondi che ci brulicano sotto.
Roberto Nepoti, La Repubblica, 2 marzo 2002
[…] Lynch, con Pirandello nel Dna, conferma la finzione, e gioca a
rimpiattino con un finto giallo ricco di humour: la sapienza narrativa e lo
straordinario talento televisivo proteggono un film di eccezionale potere
immaginifico-snob.
Maurizio Porro, Corriere della Sera, 6 agosto 2002
[…] Data la vicenda finanziaria del film (prima episodio pilota di una serie
poi film) ne è risultato un film diseguale, che alterna momenti memorabili ad
altri decisamente irritanti. Mulholland Drive risente delle vicissitudini
produttive, ma propone un’immagine difficilmente dimenticabile di
Hollywood. […]
Lynche decide di fare del suo film un’opera astratta, nella quale è inutile cercare una
logica. Il suo approccio è istintivo, immediato, viscerale fino al macabro. Con grande
ironia e un piglio decisamente «pop», il regista ci dice che nella città degli angeli si
nascondono mostri dall’aspetto normale, e non ci vuole molto a capire che ciò vale per
ogni posto del pianeta. Pur essendo straordinariamente dotato sul piano dell’immagine, il
film non cede alla tentazione del bello o della scena a effetto, e si ha la sensazione che il
regista senta intimamente la necessità di trasferire sullo schermo il suo sguardo su una
realtà malata e distorta. Mulholland Drive potrebbe essere raccontato come un insieme
di quadri o di brani musicali: le emozioni seguono le pulsazioni dell’angoscia e
restituiscono un affresco di una città persa nel labirinto della propria autoreferenzialità. È
una città che rappresenta l’anima dell’autore e quindi il suo autoritratto, ma è anche la
città che gli ha già consentito di realizzare un film meraviglioso come The Elephant Man,
finanziato da uno studio come la Paramount e prodotto da un uomo di cinema “non
d’autore” come Mel Brooks.
Antonio Monda, La magnifica illusione, 2003
David Lynch ha lavorato a Mulholland Drive per tutta la sua carriera e ora
che ci è arrivato gli perdono Cuore selvaggio e perfino Strade perdute. Alla
fine il suo esperimento non infrange le provette. Il film è un paesaggio onirico
surrealista nella forma di un film noir hollywoodiano e meno ha senso, più
non riusciamo a smettere di guardarlo.
[…] Il film è ipnotico; siamo trascinati come se una cosa portasse a un’altra - ma nulla
porta da nessuna parte ed è persino prima che i personaggi inizino a fratturarsi e
ricombinarsi come carne in un caleidoscopio.
Mulholland Drive non è come Memento, dove se si guarda da vicino si può sperare di
spiegare il mistero. Non c’è alcuna spiegazione. Potrebbe anche non esserci il mistero.
Ci sono innumerevoli sequenze oniriche nei film, la maggior parte delle quali ideate con
con letteralismo freudiano per mostrare i personaggi che hanno incubi riguardo alla
trama. Mulholland Drive è tutto un sogno. Non c’è nulla che sia inteso un momento di
risveglio. Come i sogni reali, non spiega, non completa le sue sequenze, si sofferma su
cosa trova cosa trova affascinante, lascia cadere linee di trama non promettenti. Se si
vuole una spiegazione dell’ultima mezz’ora del film, bisogna pensare come il sognatore
che si sta svegliando lentamente mentre filamenti del sogno combattono con gli ultimi
ricordi della vita reale e con frammenti di alti sogni – precedenti o ancora in divenire.
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Questo funziona perché Lynch non scende a compromessi. Prende ciò che era frustrante
in alcuni suoi film precedenti e invece di allontanarsene, li riprende. Si dice che
Mulholland Drive sia stato un assemblaggio di scene girate per un episodio pilota nel 1999
per la Abc, ma nessuna rete avrebbe voluto mandare in onda ( avrebbe capito) questo
materiale e Lynch lo sapeva. Questo film non risulta incompleto perché non è potuto
essere completato – a conclusione non è lo scopo.
[…] Questo è un film cui arrendersi. Se si richiede la logica, meglio vedere qualcosa altro.
Mulholland Drive lavora direttamente sulle emozioni, come la musica. Le scene singole
suonano bene da sole, come nei sogni, ma non si collegano in modo da avere senso – di
nuovo, come nei sogni. Il modo di sapere che il film è finito è perché finisce. E direte ai
vostri amici “ho visto un film stranissimo”. Esattamente come direste che avete fatto un
sogno stranissimo.
Roger Erbert, Movie Yearbook 2004
[…] Allucinato, interminabile giallo dello pseudogenio David Lynch, autore
anche dell’incomprensibile soggetto e della nevrotica sceneggiatura. In
pieno delirio onirico scambia e sdoppia i personaggi, mescola realtà e
finzione, inseguendo le ombre di Hitchcock, De Palma e Polanski. Dietro la
macchina da presa si conferma un mago, ma il resto è da camicia di forza.
(voto 2)
Massimo Bertarelli, 1500 film da evitare, 2004
[…] Viaggio d’amore saffico con la persona sbagliata, metà reale e metà
onirico, nella Hollywood del glamour, stilisticamente molto impersonale e
ineccepibile come sempre.
Riccardo Caccia, in Gianni Canova, le garzatine Cinema, 2005
[…] Lynch (anche sceneggiatore) architetta un puzzle noir che va ben oltre
Strade perdute. […] Un bel risultato per un film nato come pilot di una serie
tv rifiutata dalla Abc, e completato con l’intervento dei francesi di Studio
Canal. Quasi una summa del cinema di Lynch, ma anche un passo in
avanti: ben equilibrato tra incubo e farsa, sconcertante eppure sempre
coinvolgente pure quando sfiora la fumisteria. […] (***½)
Paolo Mereghetti, Dizionario dei film 2006
[…] È - come Strade perdute – affollato da personaggi alla Twin Peaks. Con
risvolti burleschi e flash allucinati, un labirinto angoscioso e sensuale, intriso di
pulsioni di morte e di invidia isterica, terribile nei suoi rigurgiti di violenza
fredda, governato da una regia che usa le carrellate per creare suspense e
mistero. Girato come pilot di una serie TV per l’ABC che lo rifiutò e passato ai
francesi Alain Sarde e Studio Canal che offrono a D. Lynch i mezzi per rimontarlo e il
Festival di Cannes 2001 dove vinse – ex aequo con L’uomo che non c’era – il premio della
regia. Premio dei critici di New York alla bionda e duttile N. Watts (1968), angloaustraliana, partner di L.E. Harring (1964), messicana bruna. Musiche di Antonio
Badalamenti (il mafioso che risputa il caffè) e D. Lynch. Coco è A. Miller (1919), provetta
ballerina di tip tap e attrice tra il ’36 e il ’56. (***½)
Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2007
Ipnotico, in puro stile lynchiano, condotto con l’inesplicabile logica del
sogno, ancorato a una splendida performance della Watts. Certamente
non per tutti i gusti. […] (***½)
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Leonard Maltin, Guida ai film 2007
Il mio punto di vista
Lynch, come emerge anche dalle recensioni, è sempre stato un regista
controverso. Mulholland Drive è un esempio tipico della sua filmografia, per
alcuni un punto di arrivo rispetto alla carriera precedente.
È un film complesso da comprendere dal punto di vista del significato
razionale. Questo dipende dal fatto che Lynch in genere costruisce i suoi film
in modo che sia l’interpretazione dello spettatore il punto fondamentale,
tanto che egli stesso si rifiuta spesso di commentare i propri film. Ciò comporta che ogni
film dipenda dal gusto personale dello spettatore e quando lo spettatore è un critico, si
ha l’esito di critiche contrastanti.
Un film come Mulholland Drive crea disorientamento, soprattutto in chi è abituato ad
avere almeno una chiave di lettura rispetto a una storia, ma non è forse la stessa
differenza che c’è tra l’arte figurativa e l’arte astratta?
Si può preferire l’una o l’altra, ma si tratta comunque di arte.
Flavia Costa
Per sorprendervi ancora
The Game (1997, David Fincher) - The Truman Show (1998, Peter Weir)
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I SOLITI SOSPETTI
(The Usual Suspects, 1995, Bryan Singer)
Stephen Baldwin (Michael McManus), Gabriel Byrne (Dean Keaton), Benicio Del Toro (Fred
Fenster), Kevin Spacey (Roger “Verbal” Kint), Chazz Palminteri (Dave Kujan), Kevin Pollak
(Todd Hockney), Pete Postlethwaite (Kobayashi)
Chi è Kaiser Soze?
Kaiser Soze è la figura su cui è incentrato il film.
Ci sono cinque criminali assoldati da Kaiser Soze per rubare un carico
di droga. Qualcosa va storto e l’unico sopravvissuto viene interrogato
per scoprire l’accaduto ma soprattutto chi sia questo misterioso
Kaiser Soze.
Gli stessi interpreti non sapevano chi fosse Kaiser Soze fino a che non
hanno visto il film montato.
La storia, creata da Christopher McQuarrie, è nata dall’idea del
confronto con cinque criminali e dalla storia vera di John List, che
uccise la famiglia e scomparì per anni, cui si ispira la storia di Kaiser
Soze.
Ciò che ha contribuito a renderlo un film culto è sicuramente la storia, ma anche
l’affiatamento che si è creato tra gli interpreti, che ha portato a curiosità sul dietro le
quinte, nonché a innovazioni nel film stesso.
Per esempio nel confronto iniziale, gli attori non riuscivano a rimanere seri e alla fine Bryan
Singer decise di utilizzare il girato e dipingere i nostri criminali come strafottenti e abituati a
essere in tale situazione dati i loro trascorsi.
In effetti ciò si spiega con la stessa vicenda produttiva del film. Singer e McQuarrie, data
la trama complessa e innovativa, faticarono a trovare dei produttori, fino a che
ricevettero fondi dall’Europa (non è chiaro da che figura in particolare). Con questo aiuto
finanziario iniziarono a cercare attori famosi che fosse disposti a lavorare a fronte di
compensi inferiori ai loro usuali, in modo da attirare poi l’attenzione delle case
cinematografiche.
Quindi il cast è composto da attori che hanno creduto nel progetto sin dall’inizio.
La stessa parte di Kujan, era stata rifiutata da Robert De Niro, Christopher Walken e Al
Pacino; quest’ultimo in particolare ha dichiarato che questo rifiuto come uno dei suoi più
grandi rimpianti.
Ma Kaiser Soze esiste?
La figura di Kaiser Soze affascina per il mistero che la circonda, ma allo stesso spaventa:
ma cosa sappiamo noi di lui?
Appare all’inizio con voce impossibile da identificare e non ne
vediamo il volto. Vediamo solo la reazione di Keaton.
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Il film procede senza nominarlo, fino a che non arriviamo a un
altro sopravvissuto all’esplosione, ricoverato per le ustioni
riportate; egli ha visto Kaiser Soze e per questo, teme per la sua
vita.
Quando entra in campo Kaiser Soze
per contattare i cinque protagonisti? Ovviamente non si
presenta di persona, ma manda l’avvocato Kobayashi.
Ma a questo punto la curiosità del
pubblico e dei protagonisti deve essere almeno in parte
soddisfatta, così si narra la storia di Kaiser Soze. Ma di nuovo:
sappiamo chi è stato ma non chi sia.
Abbiamo però un altro testimone che ne conosce l’identità:
ma anche qui egli teme per la sua vita.
Finalmente l’identikit è pronto e
arriva alla stazione di polizia: chi è
Kaiser Soze?
Bryan Singer
Bryan Singer nasce a New York il 17 settembre 1965. Cresciuto nel New
Jersey e diplomatosi alla West Windsor-Plainsboro High School, si iscrive
poi alla New York City's School of Visual Arts, per poi rinunciarvi in
favore della USC School of Cinematic Arts in Los Angeles.
Nel 1988, assieme a John Ottman che collaborerà con il regista in tutti i
suoi film, dirige il cortometraggio Lion's Den, interpretato dal suo amico
Ethan Hawke e dallo stesso regista.
Il suo primo film di successo è Public Access, realizzato con fondi
provenienti da una casa di produzione giapponese e scritto a quattro
mani con Christopher McQuarrie, suo compagno di studi a Los
Angeles. Questo film gli fa vincere il premio speciale della giuria al Sundance Film Festival.
Due anni dopo arriva la definitiva consacrazione con I soliti sospetti, originale thriller che
vale a Kevin Spacey l'Oscar al miglior attore non protagonista, e a Christopher McQuarrie
l'Oscar alla migliore sceneggiatura originale.
Nel 1998 dirige L'allievo, film incentrato sul tema del nazismo e basato su un romanzo di
Stephen King, che suscitò parecchi dubbi sulla morale di fondo della storia.
Ritorna, poi, sulla strada del successo con i primi due capitoli della saga ispirata dai famosi
fumetti Marvel: X-Men (2000) e X-Men 2 (2002), ricalcando le storie disegnate da Stan Lee
e Jack Kirby sempre sul tema dell'integrazione razziale.
I film riscuotono successo di pubblico e critica, tanto da avere poi un terzo capitolo, XMen: Conflitto finale, diretto però da Brett Ratner; Singer, infatti, declina la regia in favore
del kolossal Superman Returns (2006), la pellicola che ha segnato il ritorno sul grande
schermo del supereroe proveniente dal pianeta Krypton.
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Filmografia
Public Access (1993) – I soliti sospetti (The Usual Suspects, 1995) – L’allievo (Apt Pupil, 1998)
– X-Men (2000) – X-Men 2 (2003) – Superman Returns (2006) – Operazione Valkiria
(Valkyrie, 2008)
Christopher McQuarrie
I soliti sospetti è l’unico film della rassegna in cui la sceneggiatura non
è scritta dal regista. Come già accennato in questi film la
sceneggiatura ha un’importanza maggiore e per questo motivo
aggiungo i dati biografici di Christopher McQuarrie.
Christopher McQuarrie è nato nel 1968 nel New Jersey dove è
cresciuto. Durante gli studi conosce il futuro regista Bryan Singer e il
futoro attore Ethan Hawke. Terminati gli studi si trasferisce in Australia,
dove lavora come assistente in una scuola di Perth. Tornato negli Stati
Uniti, lavora in un'agenzia investigativa. Nel 1992 è intenzionato ad entrare nella New York
City Police Department, ma lascia l'accademia quando l'amico Bryan Singer gli offre la
possibiltà di collaborare con lui alla stesura del suo primo film, Public Access.
I due collaborano nuovamente nel 1995 nel film I soliti sospetti, grazie al quale McQuarrie
riceve moltissimi riconoscimenti, tra cui l'Oscar alla migliore sceneggiatura originale.
Nel 2000, oltre a collaborare alla sceneggiatura di X-Men, pur non venendo accreditato,
debutta alla regia con il suo primo film, Le vie della violenza con Benicio Del Toro e Ryan
Phillippe.
McQuarrie aveva iniziato a scrivere un film sulla vita di Alessandro Magno, destinato alla
coppia Martin Scorsese e Leonardo Di Caprio, ma i due preferirono girare prima The
Aviator (2004), così che Oliver Stone anticipò tutti realizzando la sua versione, Alexander
(2004).
Torna a lavorare con Singer in Operazione Valkiria, basato sul complotto per uccidere
Adolf Hitler in cui Tom Cruise interpreta Claus von Stauffenberg, e dirige il suo secondo
lungometraggio, The Stanford Prison Experiment, entrambi i film in uscita nel 2008.
Sceneggiature
Public Access (1993) – I soliti sospetti (The Usual Suspects, 1995) –X-Men (2000) – Le vie
della violenza (The Way of the Gun, 2000) - Operazione Valkiria (Valkyrie, 2008) – The
Stanford Prison Experiment (2008)
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Riconoscimenti
Nel 1995
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Boston: miglior attore non protagonista Kevin
Spacey
Premio dell’Associazione casting: miglior casting Francine Maisler
Premio della Commissione nazionale della critica: miglior gruppo di attori Stephen Baldwin, Gabriel
Byrne, Benicio del Toro, Kevin Pollak, Kevin Spacey, Chazz Palminteri, Pete Postlethwaite, Suzy Amis,
Giancarlo Esposito, miglior attore non protagonista Kevin Spacey
Premio dell’Associazione critici cinematografici di New York: miglior attore non protagonista Kevin
Spacey
Premio Seattle International Film Festival: miglior attore Kevin Spacey, miglior regista Bryan Singer
Premio Tokyo International Film Festival: Bryan Singer
Nel 1996
Oscar: miglior attore non protagonista Kevin Spacey, miglior sceneggiatura Christopher McQuarrie
Premio dell’Accademia di Fantascienza, Fantasy e Horror: miglior film di azione/avventura, miglior
musica John Ottman
Premio BAFTA: miglior montaggio John Ottman, miglior film Bryan Singer, Michael McDonnel, miglior
sceneggiatura originale Christopher McQuarrie
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Chicago: miglior sceneggiatura Christopher
McQuarrie, miglior attore non protagonista Kevin Spacey
Premio Chlotrudis: miglior attore non protagonista
Premio dell’Associazione critici cinematografici di Dallas-Fort Worth: miglior attore non protagonista
Kevin Spacey
Premio Edgar Allan Poe: miglior film Christopher McQuarrie
Premio Empire: miglior debutto Bryan Singer
Premio Indipendent Spirit: miglior sceneggiatura Christopher McQuarrie, miglior attore non
protagonista Benicio Del Toro
Premio San Jordi, Spagna: miglior attore straniero Chazz Palminteri
Nel 1997
Premio Cinema Junpo, Giappone: miglior film straniero Bryan Singer
Recensioni
I duri de I soliti sospetti irradiano sicurezza nelle loro possibilità mitologiche,
sicuri della consapevolezza di essere “Le iene” di quest’anno. E non è
nemmeno una forzatura, dato che il noir griffato di Bryan Singer comprende
così tanti ruoli mascolini e tali “combattimenti” verbali. Con questi vantaggi,
I soliti sospetti va dritto allo status di film culto senza intaccare una base
importante: le emozioni del pubblico. Questo film non è nulla di più che un
intricato trionfo di destria, ma è nondimeno un qualcosa da vedere.
Ed è stato pensato in modo da essere visto due volte, con una trama garantita per creare
il minore senso di smarrimento la prima volta.
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Non è una sorpresa che la locandina di questo film, con cinque intriganti furfanti in linea,
fosse un importante aspetto della creazione del film […] insieme a un infinito campionario
di scambi verbali colmi di testosterone che aiutano a mantenere in piedi I soliti sospetti.
[…]
Singer ha messo insieme un buon numero di attori le cui performance si mescolano senza
fatica nonostante le loro differenze esagerate di comportamento. […]
Janet Maslin, Guide to the Best 1.000 Movies ever Made, 16 agosto 1995
Rivelazione al festival di Cannes, il thriller di un giovane regista americano
che guarda (soprattutto nella struttura a più punti-di-vista) a Le iene di
Tarantino. […] Singer mostra una grande abilità nel dirigere le scene violente
ed è altrettanto bravo a far lievitare la tensione, inquadratura dopo
inquadratura. Però gli entusiasmi dei festivalieri vanno moderati. I soliti
sospetti si sforza tanto di spiazzare le attese dello spettatore, che finisce con l’esagerare. Il
racconto si attorciglia e diventa confuso per inflazione […].
Roberto Nepoti, La Repubblica, 2 dicembre 1995
Si esce dal cinema interrogandosi. Perché il tale personaggio ha fatto la tal
cosa? E quell’altro che cosa c’entrava? E il poliziotto era in buonafede o
no? Ci sono film che suscitano appassionate discussioni. E ci sono altri film
come I soliti sospetti, che producono vane contestazioni e interrogativi senza
risposta. I cineasti hanno abbandonato da un pezzo le regole auree della
detective story, che erano quelle di sciorinare nel più sapiente disordine
possibile, ma sempre con estrema lealtà e correttezza, tutti i pezzi del mosaico, lasciando
allo spettatore i divertimento di ricomporli in un quadro coerente. Le storie postmoderne,
invece, vanno avanti a casaccio, tra ridondanze superflue e false piste, confermando
che il racconto corbe intrattenimento, labile concatenazione degli eventi o lo spessore
dei personaggi sono valori obsoleti. É chiaro che in un contesto di implausibiità emergono
altre attrattive: la suggestione degli ambienti, le atmosfere fotografiche, gli scoppi di
violenza. Ne è pieno anche I soliti sospetti, che conferma il talento del giovane regista
Bryan Singer; ma il paragone con Giungla d’asfalto, evocato da Todd McCarthy nella sua
positiva recensione su «Variety», non mi pare calzante. Alla fine del capolavoro di John
Huston lo spettatore si sentiva uno della banda, mentre dei cinque «Usual Suspects» non
te ne importa niente. Evidentemente anche affezionarsi ai fantasmi che appaiono sullo
schermo fa parte di un modo di fare i cinema e di andarci che non esiste più. […]Non vi
dico altro, tranne che pur apprezzando il piglio autoriale di Singer, rilutto a entusiasmarmi
per un film che negli Usa sta diventando un piccolo fenomeno di culto. Neppure gli
interpreti si sottraggono all’ipoteca manieristica, impegnati come sono con personaggi
senza qualità.
Tullio Kezich, Corriere della Sera, 7 dicembre 1995
[…] Il film di Singer può essere letto come un interessante meccanismoprototipo che, mentre ci coinvolge in un thriller metafisico, mette in scena la
creazione cinematografica, mentre ci racconta una storia, ci raccolta in
realtà la produzione di una storia. […]
il giovane regista Bryan Singer, insieme allo sceneggiatore Christopher
McQuarrie (Oscar per la sceneggiatura originale), costruisce un piccolo marchingegno
diabolico che incuriosisce e inquieta,
Matteo Columbo, Attualità cinematografiche, 1996
Diceva Umberto Eco a proposito di “Casablanca” che «quando la scelta
del collaudato è limitata, si ha il film di maniera o di serie o addirittura il
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kitsch. Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha un’architettura come la
Sagrada Famiglia di Gaudì, che sfiora la genialità». Insomma, uno stereotipo è uno
stereotipo, cento (consapevoli?) possono fare un capolavoro. I soliti sospetti del giovane
americano Bryan Singer, «noir» nerissimo accolto come una rivelazione e grande successo
uscito dal Sundance Film Festival ’95, crede di fare la Sagrada Famiglia del mystery, e
invece costruisce un piccolo tempio kitsch al genere.
E non a caso cita a battuta del capitano Renault di Casablanca dopo l’assassinio di
Stressner: «Round up the usual suspects», fermate i soliti sospetti.
Non che il copione elaborato da Christopher Mc Quarrie per Singer (di cui aveva scritto
anche il film di debutto, “Public Access”, tanto interessante quanto sgangherato) difetti di
ingegnosità e di soluzioni brillanti. Ma, per via del tono drammatico serissimo, sfiora
continuamente l’effetto contrario. Vorrebbe essere nero, molto nero, e fa sorridere. […]
Irene Bignardi, La Repubblica, 3 dicembre 1995
L’intera vicenda dei Soliti sospetti, film di culto per la generazione più
giovane dei cinéphiles americani, ruota intorno alla figura di Kaiser Söse, un
misterioso criminale di orgine ungherese. Del tenebroso personaggio si sa
volutamente poco, ma l’uomo è temibile al punto che si esita a
pronunciarne il nome. […] In realtà non è altro che fascinazione, rispetto,
persino ammirazione. Bryan Singer, regista di talento per il quale non è difficile prevedere
una brillante carriera, racconta una storia truculenta con un tono di commedia. […]
Singer confeziona un prodotto firmato […] che risulta limitato proprio dal fatto che oltre la
superficie non c’è una vera e propria provocazione, ma soltanto la volontà di
intrattenere. Il che sarebbe assolutamente legittimo se il film non tirasse in ballo temi che
invocano un approfondimento, our se all’interno di una commedia.
Antonio Monda, La magnifica illusione, 2003
Due le statuette conquistate a Hollywood grazie all’interpretazione di Kevin
Spacey e alla sceneggiatura di McQuarrie.
Quando uscì nel ’95, anche in Italia alcuni parlarono di intrigo «confuso»,
storia «sconclusionata». Non erano preparati a cercare tra le pieghe di un
racconto che è solo apparentemente complicato e che invece pian piano
cambia pelle da «semplice» giallo diventa un’acuta riflessione sulla presenza
del Male nella nostra società. Magari vicino a noi. […]
La sceneggiatura di Christopher McQuarrie (un meritatissimo Oscar, così come Kevin
Spacey) è talmente ben congeniata […] che addentrarsi nella trama rischierebbe di
ridurre il divertimento.
Ognuno può vedere la propria fascinazione per l’orrore, e che questo mondo non sia il
migliore possibile, piuttosto un pericoloso labirinto dove nessuno può sentirsi sicuro di
sostenere di non essere stato, almeno una volta, complice del Male.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 2 ottobre 2003
Thriller di azione violenta che sembra talvolta in bilico tra la parodia e il
fantastico. Recitazione di squadra con K. Spacey claudicante – che prese
l’Oscar come miglior attore non protagonista con Christopher McQuarrie
per la sceneggiatura – sopra tutti. (***)
Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2004
[…] Il grande successo internazionale (per Bryan Singer) arriva nel 1995 con I
soliti sospetti, intelligente thriller che, attraverso un labirinto di flashback,
soggettive e sequenze ingannatrici, conduce lo spettatore verso un finale
sorprendente e una riflessione sull’atto del raccontare.
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Gianni Canova, le garzatine Cinema, 2005
[…] Folgorante opera seconda di un indipendente americano
(erroneamente scambiato per un emulo di Tarantino), che è quasi un
remake – aggiornato –di Rapporto confidenziale di Welles: la figura
dell’investigatore «classico» è sostitiuita da una delle «vittime» (la vicenda è
raccontata da «Verbal», interrogato dall’agente Kujan [Palminteri]), e lo
spettatore è coinvolto senza mediazioni nell’ambiguità del Male incarnata
dal misterioso Keyser Soze che, come Mister Arkadin nel film di Welles, non si
può conoscere e non si può evitare. Ottimamente congegnata la
sceneggiatura di Christopher McQuarrie, tesa e vibrante la regia di Singer. Musiche e
montaggio di John Ottman. Cameo del regista Paul Bartel nel ruolo di un trafficante.
Oscar come miglior attore non protagonista a Kevin Spacey e alla sceneggiatura. (***)
Paolo Mereghetti, Dizionario dei film 2006
[…] Un cast eccezionale rende la sceneggiatura di Christopher McQuarrie
(vincitore del premio Oscar) intrigante e intricata[…]. Decisamente
apprezzabile ma, a nostro giudizio, troppo «cervellotico». Spacey ha vinto a
sua volta l’Oscar come miglior attore non protagonista. (**½)
Leonard Maltin, Guida ai film 2007
Il mio punto di vista
Rivisto ad anni di distanza dall’uscita nelle sale, I soliti sospetti può sembrare
ingenuo e un po’ scontato, ma con il senno di poi.
Rappresenta il capostipite della tendenza descritta in questa rassegna,
poiché quando uscì, ebbe un impatto determinante sullo spettatore e sul
cinema successivo.
L’alea di mistero che avvolge la figura di Kaiser Sose è efficace.
Flavia Costa
Per sorprendervi ancora
Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1957, Billy Wilder) – The Prestige (2006,
Christopher Nolan) – The Illusionist (2006, Neil Burger)
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MATCH POINT
(2005, Woody Allen)
Jonathan Rhys-Meyers (Chris Wilton), Scarlett Johansson (Nola Rice), Matthew Goode
(Tom Hewett), Emily Mortimer (Chloe Hewett Wilton), Brian Cox (Alec Hewett)
Delitto e castigo?
Primo film di Woody Allen girato a Londra, parla di Chris, istruttore di
tennis, che riesce ad entrare a far parte dell’upper-class londinese. Il
tutto si complica nel momento in cui avvia una relazione con la
fidanzata del cognato, l’americana Nola Rice.
Questo film rappresenta un punto di svolta nella carriera del regista,
dopo un periodo di crisi creativa.
Passando dalla commedia al dramma, il regista abbandona New
York per la sua ambientazione e si trasferisce a Londra, dove quindi
anche il MOMA è sostituito dalla Tate
Modern Gallery.
Per quanto riguarda la musica, l’opera prende il posto dello
storico jazz, commentando ironicamente i passaggi del film cui
è accostata.
Inoltre non solo Woody Allen non partecipa come attore (come
accade da qualche tempo), ma non si trova nemmeno un suo alter ego nella storia.
Il riferimento a Dostoevski e al suo Delitto e castigo, già
presente in Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989),
viene reso esplicito dal regista non solo dalla storia, ma anche
dal protagonista che ne legge una versione tascabile prima di
addormentarsi. Ebbene ci sarà un crimine, ma il castigo?
Il film si basa sul paragone della vita con una partita di tennis.
Quanto conta la bravura? Sicuramente è importante ma ci
vuole anche una buona dose di fortuna, come ad esempio
quando la palla rimbalza sulla rete e non si sa da che parte
cadrà: da ciò dipende chi segnerà il punto. Questo ci viene
esposto nel prologo ma la stessa
cosa la ritroveremo riferita ad una
fede nuziale, da che parte cadrà?
Quindi la fortuna rappresenta tutte quelle circostanze che non
dipendono dall’individuo che ne è coinvolto, che non sono
prevedibili e di cui a volte non si sa nemmeno di averne un
buono o cattivo influsso.
Anche nei dialoghi la fortuna (o la mancanza di essa) viene
citata.
A cena, Chris, Chloe, Tom e Nola discutono sul ruolo della
fortuna e Chris in particolare esporrà il suo punto di vista:
lavorare sodo è obbligatorio ma si è spesso timorosi ad
ammettere quanto la fortuna sia importante.
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Chloe riferendosi a lei e a Chris dice: «non siamo ancora stati fortunati».
Un poliziotto commenta: «alcune persone non hanno alcuna fortuna».
E infine in occasione di un lieto evento come una nascita, Tom afferma: «non mi interessa
che sia grande in quello che farà, ma che sia fortunato», frase che può un po’ riassumere
il film.
A differenza degli altri film della rassegna, Match Point non ha un vero e proprio momento
di rivelazione, ma è l’evolversi degli eventi che potrebbe creare la sorpresa dello
spettatore: per questo è meglio non accennarvi in modo esteso, altrimenti si rovinerebbe
la visione del film.
Woody Allen
Allan Stewart Konigsberg nato nel 1935 a New York in una famiglia
ebraica, a quindici anni è già autore di strisce per la cronaca rosa e,
dato il successo dei suoi scritti decide di abbandonare gli studi per
tentare la strada del cabaret. Comincia a esibirsi nei nightclub con un
discreto seguito di fan, nel 1961 comincia a lavorare come comico al
Greenwich Village, continuando a scrivere testi per la televisione (e
per riviste come "New Yorker", "Playboy" ed "Esquire". Fino a quando
scrive la sceneggiatura di Ciao, Pussycat (1965, Clive Donner), e
partecipa anche come attore, decretando il suo debutto nel mondo
del grande schermo. Decide di continuare per questa strada: sua è la sceneggiatura di
Provaci ancora, Sam (1972, Herbert Ross) che lo vede protagonista di una delle
interpretazioni più memorabili della sua carriera.
Nel 1969 esordisce alla regia con Prendi i soldi e scappa, parodia del genere
gangsteristico e di un certo stile narrativo proveniente dal cinema di Jean-Luc Godard. Il
risultato è un surrogato di gag pensate e colte che colpirà positivamente il pubblico
americano. Seguono alcuni film di carattere più esplicitamente comico: il fantapolitico Il
dittatore dello stato libero di Bananas (1971) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul
sesso ma non avete mai osato chiedere (1972), oltre alla parodia fantascientifica de Il
dormiglione (1973).
In Amore e guerra (1975) il piacere dei rimandi esplode nell'omaggio a "Guerra e pace" di
Tolstoj.
La consacrazione autoriale arriva con Io e Annie (1977), intelligente commedia stile anni
'40 dall'evidente marchio autobiografico, che polemizza con Hollywood alla quale
contrappone una nevrotica e insicura New York. Interpretato da Woody Allen e Diane
Keaton che, proprio in quel periodo, stava mettendo fine alla loro vera storia d'amore.
Con 5 Oscar, Woody Allen riceve consensi anche da quella fetta di pubblico americano
che lo aveva snobbato fino a quel momento. Appassionato di musica jazz fin da
ragazzino, il regista inserisce in Manhattan la musica di Gershwin. Nel 1978 realizza come
regista Interiors, film dalle atmosfere crepuscolari che, come i successivi Settembre (1987),
Un'altra donna (1988) e, in parte, Alice (1990), rende esplicito omaggio a Ingmar
Bergman, uno dei suoi registi preferiti, insieme a Federico Fellini al quale guarda per la
costruzione di Stardust Memories (1980). Dopo il magico riferimento shakespeariano di Una
commedia sexy in una notte di mezza estate (1982), gira il mockumentary Zelig (1983),
finto reportage. Qualche anno più tardi riceve il secondo Oscar per il campione d'incassi
Hannah e le sue sorelle (1986), successivo al divertente Broadway Danny Rose (1984) e a
La rosa purpurea del Cairo (1985), omaggio a Buster Keaton.
Successivo all'ennesimo omaggio alla musica jazz di Radio Days (1987) è il sorprendente
Crimini e misfatti, riflessione divertente ma non banale sulle colpe che non vengono
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punite, facendo riferimento ai romanzi di Dostoevskij. Nonostante la crisi personale con la
compagna Mia Farrow, lasciata da Woody per la figlia adottiva Soo-Yi Previn, la vena
creativa sembra inesauribile. Al ritmo costante di almeno un film all'anno, dopo Ombre e
nebbia (1992) ritorna ad atmosfere più serene con Mariti e mogli (1992), Misterioso
omicidio a Manhattan (1993) e l'esilarante Pallottole su Broadway (1994). Cambia tono nei
successivi La dea dell'amore (1995), omaggio commosso al teatro greco, e nel musical
Tutti dicono I love you (1996). Affezionato però ai ritratti di personaggi in crisi, realizza Harry
a pezzi (1997) e sberleffa il patinato mondo dei vip con Celebrity (1998), girato in bianco e
nero. Il suo amore per il jazz invece trionfa con Accordi e disaccordi (1999).
Con gli ultimi lavori, il successo in patria si era un po' affievolito ma, dopo un accordo con
la Dreamworks di Spielberg che gli dà maggiore visibilità, ritorna ai lustri di un tempo con
Criminali da strapazzo (2000), che prende spunto Monicelli. Dopo La maledizione dello
scorpione di Giada (2001) che omaggia il cinema degli anni '40, è la volta di Hollywood
Ending (2002), film non del tutto riuscito.
L'anno successivo Woody Allen dirige Anything Else. Con Melinda e Melinda (2004) ritorna
ad affrontare il binomio tragedia/commedia delineando due storie che non annoiano
ma fanno affiorare qualche cedimento di sceneggiatura. Con gli ultimi lavori Woody
sembra entrare in crisi creativa ma il capolavoro è dietro l'angolo. Secondo le
dichiarazioni dell'autore, Match Point è il film del quale va più orgoglioso. Nel 2006 gira
Scoop, intricata commedia sullo sfondo di una Londra avvolta nel mistero delle arti
magiche e nel 2007 Sogni e delitti, thriller che segna il ritorno a un cinema più
drammatico, in cui indaga le perversioni umane più inconfessabili.
Filmografia
Che fai, rubi? (What’s up, Tiger Lily?, 1966) – Prendi I soldi e scappa (Take the Money and
Run, 1969) – Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971) – Tutto quello che
avreste voluto sapere sul sesso – ma non avete mai osato chiedere (Everything You
Always Wanted to Know About Sex – But Were Afraid to Ask, 1972) – Il dormiglione
(Sleeper, 1973) – Amore e Guerra (Love and Death, 1975) – Io e Annie (Annie Hall, 1977) –
Interiors (1978) – Manhattan (1979) – Stardust Memories (1980) – Una commedia sexy in
una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy, 1982) – Zelig (1983) –
Broadway Danny Rose (1984) – La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985)
– Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters, 1985) – Radio Days (1987) – Settembre
(September, 1987) – Un’altra donna (Another Woman, 1988) – Edimpo relitto (Oedipus
Wrecks episodio in New York Stories 1989) – Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors,
1989) – Alice (1990) - Ombre e nebbia (Shadows and Fog, 1992) – Mariti e mogli (Husbunds
and Wives, 1992) – Misterioso omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mystery, 1993) –
Pallottole su Broadway (Bullets Over Boradway, 1994) – La dea dell’amore (Mighty
Aphrodite, 1995) – Tutti dicono I Love You (Everyone Says I Love You, 1996) – Harry a pezzi
(Deconstructing Harry, 1997) – Celebrity (1998) – Accordi e disaccordi (Sweet and
Lowdown, 1999) – Criminali da strapazzo (Small Time Crooks, 2000) - La maledizione dello
scorpione di giada (The Curse of the Jade Scorpion, 2001) – Hollywood Ending (2002) –
Anything Else (2003) – Melinda e Melinda (Melinda and Melinda, 2004) – Match Point
(2005) – Scoop (2006) – Sogni e delitti (Cassandra’s Dream, 2007) – Vicky Cristina
Barcelona (2008)
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Riconoscimenti
Nel 2006
Premio ADIRCAE, Spagna: miglior film straniero
David di Donatello: miglior film dell’Unione Europea
Premio Golden Trailer: miglior thriller
Premio Goya, Spagna: miglior film europeo
Premio San Jordi, Spagna: miglior film Woody Allen
Recensioni
Poichè i primi film di Woody Allen sono così divertenti come pochi altri, si
pensa spesso che il suo temperamento sia essenzialmente comico, cosa
che porta a contrarietà e equivoci. Qua e là, Allen tenta di dissipare la
confusione, insistendo a volte elegantemente e a volte malamente, sul fatto
che la sua visione del mondi sia essenzialmente nichilista. Ha mostrato, film
dopo film, un’assoluta mancanza di fede in qualsiasi principio di ordine
morale nell’universo – e ancora, le persone pensano che stia scherzando.
In “Match Point”, il suo film più soddisfacente dell’ultimo decennio, il regista porta ancora
una volta la brutta notizia, con una luce, un tocco sicuro. Questa è una coppa di
Champagne condita di stricnina. Si dovrebbe tornare indietro all’impetuoso, immorale
apogeo di Ernst Lubitsch o di Billy Wilder per trovare un cinismo così abilmente tramutato
in intrattenimento. Proprio all’inizio l’eroe di Allen spiega che il ruolo della fortuna nelle
vicende umane è spesso sottovalutato. Successivamente, le aspre implicazioni di questa
idea saranno evidenti, ma di primo acchito sembra bizzarro come ciò che Fred Astaire
dice in “Cerco il mio amore” (The Gay Divorcèe, 1934, Mark Sandrich): che “caso è il
nome sciocco del fato”.
L’intendimento di Allen qui è di beffare il suo pubblico, o almeno di fuorviarlo, con una
storia la cui superficie dorata cela l’oscurità che c’è al di sotto. La sua scaltrezza – un altro
nome per la sua arte – fa muovere la storia con lo slancio leggero di un’opera teatrale
ben fatta. Paragoni con “Crimini e misfatti” sono inevitabili, dato che i temi e alcuni
elementi della trama sono simili, ma il bagaglio filosofico di “Match Point” è più
solidamente e discretamente costruito. C’è qualche occasione di discorso e nessuna di
quelle battute corte di autocompiacimento che sono diventate, nei film recenti di Allen,
più tic che shtick (in yiddish “tema comico”).
E nemmeno è presente un surrogato del regista nel giovane, affiatato e splendido cast.
Se doveste entrare dopo i titoli di testa, potreste impiegare del tempo a capire chi ha
diretto questo film.
Certo, dopo un po’ lo capireste. I segnaposto letterari abituali sono al loro posto:
sicuramente nessun altro sceneggiatore avrebbe potuto scrivere un battuta come
“Tesoro, hai visto la mia copia di Strindberg?” o mandare i suoi protagonisti a letto con un
tascabile di Dostoevskij. Ma mentre un soffio di fatalismo russo rimane nell’aria – e molto
più di un soffio di misoginia stindberghiana – queste non sembrano essere le influenze più
salienti. L’ambientazione del film è una rivisitazione di Henry James (la Londra opulenta,
con qualche estraneo sociale e culturale che ronza intorno agli alveari del privilegio); il
concetto deve qualcosa ai libri con Ripley di Patricia Highsmith; e il motore narrativo è
puramente Theodore Dreiser – fame, lussuria, ambizione, avidità.
Quando “Match Point” è stato proiettato a Cannes la scorsa primavera, alcuni critici
britannici hanno obiettato che la sua rappresentazione di Londra era inaccurata,
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un’obiezione che i newyorkesi, abituati a visitare la Manhattan di fantasia di Allen,
possono solo salutare con alzate di spalle e sospiri stanchi. Estirpare una sceneggiatura
ambientata originalmente negli Hampton e rimpiantarla in terra britannica ha rinfrescato
e affilato la storia, che dipende non solo dall’osservazione di una particolare situazione
sociale, ma piuttosto anche da una teoria generale del comportamento umano. Londra
è Manhattan vista attraverso una lente; la Tate Modern sta al posto del Museum of
Modern Art; Covent Garden prende il posto del Lincoln Center.
La brezza del film è la fredda precisione che lo rende così fortemente piacevole.
L’oscurità dell’esistenza casuale e insignificante è stata raramente così divertente e il
morso di Allen non è mai stato così affilato e profondo. Per un film così bello non è
questione di risata.
A. O. Scott, The New York TImes, 28 dicembre 2005
Diceva un saggio cinese che sulla soglia della terza età ogni uomo si trova
di fronte due strade, l’una in discesa e l’altra in salita. La prima induce a
scivolare più o meno dolcemente verso l’indifferenza, il progressivo distacco
e la cancellazione; e la seconda, invece, induce a inerpicarsi gambe in
spalla verso quell’ultima meta che in fondo al cuore nessuno vorrebbe
raggiungere…
Oltrepassata la settantina, superate le sue note turbolenze e esistenziali e vari intoppi
professionali dovuti alla sopravvenuta ostilità del pubblico americano, Woody Allen ha
felicemente scelto la strada giusta, scoprendo di avere ancora il fiato dello scalatore.
Scrivendo e dirigendo Match Point ha accettato una sfida a tutto campo, senza ricorrere
alle sue tradizionali risorse. Niente più Manhattan, Londra; niente più Jazz, musica lirica;
niente più risate, ma un conflitto d’anime che sconfina nella tragedia. […]
Ho anticipato, forse esagerando, che in Match Point non c’è niente da ridere, ma si
sorride spesso: e proprio al culmine della tragedia, un paio di «punch lines» (le battute a
effetto sicuro che sono la specialità di Woody) scatenano l’ilarità generale e introducono
un finale in chiave di riso amaro. […]
In questo film, il cui tema deve essere profondamente radicato nell’anima sua perché
l’aveva anticipato facendolo raccontare da un personaggio di Crimini e misfatti (1989),
Allen fa una stoica e dispettosa riverenza al caso come giudice cieco e inappellabile
degli eventi umani.
A voler cercare il pelo nell’uovo di un film pressoché perfetto, mi è parsa una stonatura
l’apparizione dei due fantasmi nel sottofinale. Ma non è il caso di trovare difetti in
un’opera che rivela una qualità molto rara nel cinema, quella di valere quanto uno di
quei libri che lasciano il segno. A Woody, che nel frattempo ha girato a Londra un
secondo film e ne sta preparando un terzo, non si può che raccomandare di proseguire
così. Fortuna aiutando, la strada in salita che ha intrapreso con Match Point potrebbe
essere ancora ricca di soddisfazioni per lui e per noi.
Tullio Kezich, Corriere della Sera, 13 gennaio 2006
Il nuovo film di Woody Allen rappresenta una piccola rivoluzione nella sua
filmografia. Se il discorso amoroso resta centrale, infatti, cambiano il
contesto (Londra), lo stile delle immagini e della scenografia. il commento
musicale (lirica anziché jazz), perfino la durata (2 ore). […] Allen tesse una
ragnatela intorno a Chris, per arrivare alla conclusione che il crimine è
socialmente determinato, che l’abisso sociale spinge al delitto. Adepto di
Dostoevskij, mette assieme lotta di classe e senso di colpa; poi compie una piroetta
cinica, portando lo spettatore verso una soluzione aspra e divertente nello stesso tempo.
Ateo dichiarato, Woody si sottrae all’epilogo edificante per imporci una morale della
favola squisitamente amorale: tutto dipende dalla fortuna; come quando la palla da
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tennis resta in bilico per un istante sulla rete, senza che si sappia da quale parte cadrà.
Nella diversità dell’impaginazione, il ‘Woody’s touch” resta intatto. Come il talento nel
dirigere gli attori: Scarlett Johansson fantasmatizzata tra sensualità e richiesta di
protezione; il bel Jonathan Rhys-Meyers ambiguo e perverso, come un eroe di Stendhal.
Roberto Nepoti, La Repubblica, 13 gennaio 2006
Battuta chiave di Match Point: «Succede, in un match di tennis, che la palla
sfiori la sommità della rete e, per un quarto di secondo, possa andare da
una parte o dall’altra. Con un po’ di fortuna, raggiunge il bersaglio e vinci.
Ma può anche ricadere dalla tua parte, e allora perdi» Woody Allen ha
vinto: il film classico che racconta una storia classica d’amore, di morte e
dei destini del caso è bellissimo. Anomalo, per lui. Senza New York (siamo a Londra), senza
intellettuali, senza donne-idolo, senza battute spiritose o quasi, senza canzoni americane o
quasi ma con molte arie d’Opera italiane per affrontare anche due fenomeni così
contemporanei: l’ambizione senza qualità, il delitto senza castigo. […] È magnifica la
scelta degli attori, la leggerezza e insieme la forte critica sociale con cui la tragedia è
raccontata. È perfetto il contrasto fra la cruda durezza dei fatti e la lussuosa piacevolezza
d’una Londra immaginaria.
Lietta Tornabuoni, L’Espresso, 19 gennaio 2006
Riscossa di Woody. Dopo un periodo di Manierismo manhattese, Mr. Zelig si
trasferisce a Londra e firma un film magnifico per coerenza narrativa,
eleganza e stile, cinismo socio-letterario, citando a man bassa i classici, da
Thackeray a Stendhal a Dostoevskji passando per Dreiser.
[…] È come se Allen riversasse in questo racconto tutto il suo scibile di
cinema e di uomo, finalmente libero dall’ansia di divertire. Giunto con
disincanto ai 70, lascia i fantasmi del cinema d’autore e fa miracolo da solo con una
padronanza del mezzo e un gusto di tutti i supporti, dalla musica d’opera in vinile a un
cast perfetto. (voto 10)
Maurizio Porro, Corriere della Sera, 20 gennaio 2006
CARO WOODY MI HAI DELUSO: PERCHÉ HAI LASCIATO NEW YORK?
Lo dico? Lo dico: andare a vedere Match Point è stato andare a vedere un
film di Woody Allen senza Woody Allen. No, caro Woody, stavolta mi hai
deluso. E pensare che ero uno dei tuoi fan più solidi e irragionevoli. Ma
perché stavolta hai voluto tradire te stesso e tutti noi? Per carità, non sto
dicendo che il film è brutto, anzi. Dico solo che di te c’è poco o niente.
Cominciamo dall’ambientazione. Dove sono le atmosfere così sulfuree dell’alta società
newyorchese? Dov’è la risata che veniva su leggera leggera davanti ai moderni
miserabili? Ci mancano, caro Woody, soprattutto quando andiamo al cinema pensando
di trovare te e invece troviamo solo un film che potrebbe appartenere a un qualunque
epigono di Hitchcock? Tra l’altro, solo ad uno spettatore disattento sfuggirebbe il fatto
che la pellicola è una rivisitazione di «Un posto al sole». Un lui che vuol far carriera e che è
disposto a tutto, anche a rapire la figlia del re. Sullo sfondo di una upper class londinese
che con te non ci azzecca niente. Detto questo, ammetto che è un film ben girato, con
una punta tragica che rivela la mano del maestro. Eppure al Big Ben preferisco ancora
l’Empire State Building.
Giulio Bosetti, Corriere della Sera, 23 gennaio 2006
Non c’è ragione perché Match Point duri oltre due ore, ma siccome è il
miglior film di Woody Allen da tre lustri a questa parte, derubrichiamo
l’eccessivo metraggio a peccatuccio senile. La trasferta londinese ha
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giovato al cineasta newyorkese, ci si augura solo che non diventi un cliché. Certo, rispetto
al tedioso Melinda & Melinda questa opus n. 34 giganteggia, e magari non è un caso che
la vicenda, intrisa di giallo, si ricolleghi all’insuperabile Crimini e misfatti. Anche qui si tira in
ballo Delitto e castigo, mostrando addirittura il romanzo nell’incipit, insieme a una pioggia
di citazioni colte che appartengono al coté intellettuale dell’autore. Alla rinfusa, Una
tragedia americana di Dreiser, Bel-Ami di Maupassant, Sangue blu di Hamer più Il
trovatore di Verdi, perché al noir l’opera lirica s’addice meglio del vecchio jazz. […]
Michele Anselmi, Ciak, febbraio 2006
Qualcuno disse che il destino è un'equazione a tre incognite: l'ereditarietà
(DNA, famiglia, ecc.), il caso, la finalità (libero arbitrio, scopi, le scelte che si
fanno, ecc.). Il 36° film di W. Allen autore racconta una storia che le
comprende tutte e tre. […] Storia di ordinaria corruzione, è un'analisi clinica
dei rapporti di classe che condizionano il comportamento umano. Il cinismo
e Dostoevskij c'entrano poco: Allen racconta il suo mediocre Chris (l'irlandese J. Rhys
Meyers, 1977) con saggio e lucido disincanto: Crimini e misfatti non è lontano. 1° film che
Allen gira in Inghilterra dove (perché) i produttori gli hanno dato carta bianca. Aveva già
girato Amore e guerra (1975) in Jugoslavia e Tutti dicono I love you (1996) tra Parigi e
Venezia. Qui si comincia con una pallina da tennis che batte sul nastro della rete,
s'innalza e si ferma: cadrà al di là o al di qua della rete? Vincente o perdente? La
metafora si ripete verso la fine. Ovvero l'importanza del caso. In ogni modo è un altro
punto vincente nella carriera della cangiante S. Johansson.
Morando Morandini, Il Dizionario Morandini 2008
Il mio punto di vista
Il cambiamento di ambientazione, musica e registro può spaesare gli
affezionati, ma porta anche una ventata di novità.
Trovo che l’ambientazione in una città non biograficamente legata al
regista, gli abbia permesso di rendere il tema più universale, poiché meno
legato all’ambientazione stessa.
D’altra parte, un po’ di fortuna non fa bene a tutti?
Flavia Costa
Per sorprendervi ancora
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970, Elio Petri) - Matrix (The
Matrix, 1999, Andy & Larry Wachowski) – The Cell (2000, Tarsem Singh)
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SOMMARIO
Vere bugie false verità
pag. 3
Facciamo un patto?
Postmoderno
La narrazione
pag. 3
pag. 4
pag. 6
I film della rassegna
pag. 7
Il sesto senso
Memento
Mulholland Drive
I soliti sospetti
Match Point
pag. 8
pag. 16
pag. 23
pag. 32
pag. 39
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