Un dio fa accadere l`impossibile». Piccola introduzione all`Elena di

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Un dio fa accadere l`impossibile». Piccola introduzione all`Elena di
«Un dio fa accadere l’impossibile»
Piccola introduzione all’Elena di Euripide
πολλαὶ µορφαὶ τῶν δαιµονίων,
πολλὰ δ’ ἀέλπτως κραίνουσι θεοί·
καὶ τὰ δοκηθέντ’ οὐκ ἐτελέσθη,
τῶν δ’ ἀδοκήτων πόρον ηὗρε θεός.
τοιόνδ’ ἀπέβη τόδε πρᾶγµα.
Le forme del divino sono molteplici,
E molte le azioni degli dei contro le nostre attese.
Quel che si credeva possibile non si realizza,
Mentre un dio fa accadere l’impossibile.
Così termina questa storia.
L’Elena non è l’unica tragedia di Euripide che si concluda con questi versi (anche la Medea, ad
esempio, finisce nello stesso modo), ma è di gran lunga quella cui questo finale calza meglio.
Nel 415, Euripide aveva portato in scena una tragedia dal fortissimo contenuto emotivo, le Troiane, una durissima descrizione delle ultime ore di Ilio tramite le sofferenze della regina Ecuba, della
figlia Cassandra e della nuora Andromaca, tre donne cui la guerra ha devastato l’esistenza. E subito
dopo la scena forse di maggior pathos, l’addio tra Andromaca e il figlioletto Astianatte, che i Greci
hanno deciso di uccidere precipitandolo dalle porte Scee, davanti agli Ateniesi si era presentata la
colpevole di tutti quei lutti: Elena. La moglie di Menelao, nella descrizione che se ne traccia, è ben
più che una donna; è quasi una dea dai poteri mostruosi: «essa prende la vista degli uomini, distrugge le città, incendia le case». Euripide istruisce un processo in piena regola: le concede una rhesis,
un vero e proprio logos sofistico (eu legein), una difesa architettata con astuzia e sfacciataggine; ma
le ragioni di Elena sono deboli, e la condanna scontata. E lo è non solo per l’economia e le esigenze
drammaturgiche delle Troiane, ma anche e soprattutto per la mentalità greca: Elena è la maliarda
per eccellenza, la distruttrice di città, la colpevole più vituperata e più celebre della letteratura.
Ἑλένης ἕνεκα, a causa di Elena: uno dei luoghi comuni più noti e pervasivi della tradizione mitica.
Solo tre anni più tardi, la scena si è spostata sulle rive del Nilo, e con un nuovo coup de théâtre gli
spettatori di Euripide si trovano davanti, di nuovo, Elena. La situazione, però, è mutata completamente rispetto alle Troiane: la colpevole della guerra di Troia non è Elena in persona, ma una κενὴν
δόκησιν, un vuoto miraggio, un εἴδωλον creato ad arte da Era, furente per la sconfitta nella competizione tra dee e desiderosa di vendetta. ἐγὼ µὲν οὔ, / τὸ δ’ ὄνοµα τοὐµόν: «non ero io, era solo il mio
nome» il trofeo per cui Greci e Troiani hanno combattuto per anni. Da qui il patimento della protagonista: relegata in Egitto, lontana dai suoi affetti, è creduta un’adultera e una madre degenere; al
contrario, è vittima inerte ed incolpevole della malvagità degli dei. Ma la sua vicenda è persino più
delicata di così: il re di Faro Proteo, che l’aveva accolta per restituirla a Menelao, è morto, e il nuovo re, Teoclimeno, ha intenzione di sposarla, costringendola a violare l’assoluta – ancorché misconosciuta – fedeltà al marito Menelao. Ma proprio mentre tutto sembra perduto, un nuovo colpo di
scena: a seguito di un naufragio, la flotta spartana di ritorno da Troia è approdata proprio in Egitto,
e Menelao in persona entra in scena. Egli ha con sé la finta Elena, ma la vecchia custode della reggia insinua in lui dei sospetti che l’Atride decide di verificare. La vera Elena lo vede e i due si incontrano: ha inizio una complessa scena di riconoscimento, tutta giocata con grande maestria sul filo del paradosso; finalmente, l’ εἴδωλον si volatilizza, Menelao si convince e i due coniugi si ritrovano. La conclusione, però, è lontana: occorre liberarsi di Teoclimeno. Per farlo, Elena e Menelao
ordiscono, con la complicità della sorella di Teoclimeno, l’indovina Teonoe, un inganno: la moglie
fingerà di essere venuta a sapere della morte di Menelao, e di voler compiere un rito funebre in mare. Teoclimeno viene ingannato, e i due sposi ritrovati possono fuggire con la benedizione degli dei.
Attorno all’Elena è aleggiato per molto tempo un annoso quesito letterario: può – e se sì, come –
una tragedia non avere un finale tragico? In realtà la questione è mal posta, e lo statuto letterario e
drammaturgico dell’opera dovrebbe essere per un interprete l’ultimo dei problemi. Tra tutte le tragedie della «maturità» di Euripide, infatti, l’Elena non è forse la più affascinante, ma di certo una
tra le più ricche di spunti di riflessione.
C’è, anzitutto, la questione della scelta di una versione alternativa – non tangenzialmente, ma radicalmente alternativa – del mito, e non di un mito minore, ma del mito di fondazione di tutto il patrimonio della letteratura greca, la guerra di Troia. Euripide non è il protos heuretès, l’iniziatore del
particolare filone dell’apologia di Elena, già tentato, tra gli altri, da Saffo e da Gorgia; e non è
nemmeno l’inventore di questa particolare rielaborazione, che si deve invece con ogni probabilità a
Stesicoro e alla sua Palinodia (come ci testimonia anche Platone nella Repubblica). E tuttavia è
quanto mai interessante capire perché Euripide scelga di mettere in scena, solo tre anni dopo le
Troiane, una riscrittura così estrema del mito ed una difesa così appassionata della grande colpevole. Pura vanità poetica, desiderio di accreditarsi sempre come pensatore controcorrente? Non è questa la natura del teatro euripideo, che non è mai esclusivo sfoggio di capacità e di agudeza, ma sempre ripensamento, problematizzazione: la vicenda tragica non è mai presentata per se stessa, ma
come occasione di riflessione più aperta e generale. E così anche l’Elena propone a spettatori e lettori una sfida intellettuale ed etica di vasta portata.
Una sfida intellettuale, in prima istanza: può la verità essere falsa e la falsità vera? Quali sono i
confini dell’ἀλήθεια? A chi e a cosa possiamo credere se persino una delle verità primordiali, uno
dei cardini di tutto il patrimonio mitico greco non ha non solo fondamento etico, ma neppure fondamento epistemologico? La linea generale di difesa di Elena, infatti, non aveva sino ad allora quasi
mai messo in dubbio il fatto che Elena avesse effettivamente seguito Paride a Troia; l’apologia si
innestava a cose fatte, e atteneva al livello del comportamento. Euripide invece nega l’esistenza
stessa del fatto, e sposta la questione ad un livello superiore, più radicale e perciò più pericoloso: il
livello della conoscenza. L’essere e il dire non combaciano, in un rapporto vizioso: il piano ontologico smentisce il piano gnoseologico, ma il piano gnoseologico (falso) oscura il piano ontologico
(vero). «Le parole possono dire menzogne»; «ma anche dire chiaramente il vero»: ma quale strumento di discernimento possediamo tra vero e falso? La distinzione si annulla e si innesta il paradosso: la colpa in realtà non è colpa, e il merito è frainteso. Generazioni di Greci hanno creduto ad
una storia falsa; migliaia di uomini hanno combattuto una guerra decennale per un ὄνοµα e non per
un ἔργον. La questione dunque è tutt’altro che una semplice bagarre letteraria, o un gioco logico: al
contrario, penetra nel profondo e demolisce, non senza il sostegno (qui apertamente denunciato)
della sofistica, una delle certezze del razionalismo greco.
Dunque, un grande fraintendimento, un vistoso errore, sta alla base del conflitto più cruento che la
memoria greca tramandi: e così, nelle parole di Euripide, la guerra di Troia diventa un ἔργον
ἄνεργον, un’azione che non è un’azione, e questa volta non perché non sia accaduta veramente
(piano ontologico), ma perché è accaduta senza possedere un vero fondamento. Si tratta, quindi,
anche del rifiuto della natura intrinsecamente militarista della mentalità greca – un tema, questo,
particolarmente caro a Euripide, che scrive in un periodo politicamente assai complicato per Atene,
impegnata, ma a questa altezza cronologica si direbbe piuttosto impantanata, da ormai vent’anni in
una estenuante guerra con Sparta e la Lega Peloponnesiaca. L’Elena è dunque, latamente ma non
troppo, una tragedia antibellicista: se πόλεµος è padre di tutte le cose, chi è padre di πόλεµος?
Ecco che la sfida intellettuale diventa sfida etica, e arriva, al culmine della demolizione, a toccare
gli dei: come spesso accade nel teatro euripideo, essi sono non solo invidiosi e rancorosi, ma apertamente malvagi, quasi indegni di reggere le sorti dell’umanità. Nel 458 Eschilo poteva affermare
nell’Agamennone: «C’è, sicuramente c’è una benevolenza degli dei che con violenza siedono sul
venerando banco del timoniere»; Euripide non può, e non vuole, più farlo. Anzi, riflette così:
«Com’è insondabile il dio con le sue mille facce! Stravolge le vite umane sballottandole da una parte e dall’altra; fa soffrire uno, non fa soffrire un altro, ma poi lo fa morire in malo modo: nessuno ha
una sorte stabile e duratura». La distanza tra l’uomo, tragicamente solo e in balia della Tyche, e il
dio, crudele e ingannatore, si è approfondita in modo ormai definitivo. Si apre così un ampio spazio
di manovra per l’uomo e per la sua sensibilità, ed è questo il campo delle cosiddette ‘tragedie ad in-
trigo’ di cui l’Elena fa parte: persa la speranza in un intervento risolutore della divinità, è l’uomo
che deve escogitare una via d’uscita. Ciò spiega, credo, anche la crescente importanza accordata in
queste opere (si pensi anche all’Ifigenia fra i Tauri o allo Ione), alla peiqw;, la persuasione del
proprio avversario: dinanzi ad una situazione potenzialmente tragica, è il comune sentire umano a
guidare le azioni, sono l’εὐσέβεια, la pietà, e la γνώµη, il buon senso, a determinare i comportamenti
e a condurre a quel ‘lieto fine’ che in tanti hanno deprecato, mancando di riconoscervi invece non
un’involuzione, bensì un’evoluzione positiva della visuale tragica greca. La profetessa Teonoe,
convinta e anzi commossa dal discorso di Elena, decide di omettere la verità al fratello per favorire
la fuga dei coniugi: da profetessa, ascolta la voce degli dei, ma da donna parla la voce della giustizia umana.
«Molte le azioni degli dei contro le nostre attese»: l’Elena è dunque una tragedia di colpi di scena,
a partire da quello principale, la scoperta dell’innocenza della sua protagonista. C’è, forse, in questa
dichiarazione finale, anche la sottile soddisfazione del tragediografo, che agendo nella sua opera
come un dio, fa accadere l’improbabile e pensare l’impensabile. C’è, sicuramente c’è la forza autorivitalizzante della letteratura, capace di rinascere sempre diversa, di contraddire se stessa senza
perdere il suo fascino primordiale.
Francesco Morosi
(Classe III D –A.S. 2008/09)