Università degli Studi di Perugia Facoltà di Medicina Veterinaria
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Università degli Studi di Perugia Facoltà di Medicina Veterinaria Istituto di Produzioni Animali Anno Accademico 1994-'95 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 IL DNA Oggi si dà per scontato che il materiale genetico è il DNA. Già nel 1928 lo statunitense Griffith dimostrò che una sostanza iniettata al Diplococcus pneumoniae lo trasformava da avirulento in virulento. Nel 1944 Avery identificò il DNA e dal 1952 tutta la comunità scientifica lo accettò come il materiale genetico alla base dell'eredità. L'acido desossiribonucleico è costituito da una sequenza di quattro molecole fondamentali denominate nucleotidi, che differiscono solamente per il fatto di contenere ciascuno una differente base azotata; ogni nucleotide risulta composto da uno zucchero a cinque atomi di carbonio (desossiribosio), da un gruppo fosfato e da una delle quattro basi azotate; da un punto di vista strutturale, le basi sono a due a due simili: da una parte adenina e guanina (purine, con un doppio anello) e dall'altra citosina e timina (pirimidine, ad anello singolo). La struttura di un nucleotide è quindi composta dall'anello del desossiribosio che lega il gruppo fosfato al suo carbonio 5' ed una delle quattro basi al carbonio 1'. Nel 1953, James Watson e Francis Crick proposero il primo modello della molecola del DNA che conteneva in sé l'indicazione di come il DNA potesse svolgere le sue funzioni di conservazione e trasmissione dell'informazione genetica. La struttura proposta da questi autori è quella di una doppia elica avvolta a spirale con avvitamento destrorso (cioè in senso orario). Ciascuna elica è formata da una catena di nucleotidi tenuti insieme da legami covalenti; più precisamente si tratta di legami fosfo-diesterici nei quali un gruppo fosfato forma un ponte tra la posizione 3' di un pentoso e la posizione 5' del pentoso successivo. Ciascuna catena avrà ad una sua estremità un gruppo 5' libero ed all'estremità opposta un gruppo 3' libero; le due eliche sono tenute insieme dai legami idrogeno che si stabiliscono tra le basi complementari (A-T e C-G) per la presenza di due atomi elettronegativi che condividono un protone. I legami ad idrogeno che uniscono le due catene sono molto più deboli di quelli covalenti che uniscono due nucleotidi contigui nella stessa catena; per motivi sterici i legami ad idrogeno possono formarsi solo fra adenina e timina (2 legami) e fra citosina e guanina (3 legami): il differente numero di legami ad idrogeno che lega le coppie di basi azotate complementari spiega la diversa densità che il DNA può avere (è più denso se più ricco in citosina e guanina). Il modello richiede che le due catene siano anti-parallele, decorrano cioè in senso 5'-3' l'una e in senso 3'-5' l'altra: in altri termini l'estremità 5' di un filamento si trova di fronte all'estremità 3' dell'altro. Il modello proposto da Watson e Crick nel 1953 è ancora sostanzialmente valido: è il ß-DNA, dove l'andamento della spirale e dei filamenti è regolare e si può distinguere un solco minore (fra le due catene) ed un solco maggiore (quello dovuto alla spiralizzazione vera e propria). E' importante sottolineare che, in periodi successivi, sono state descritte altre conformazioni della molecola dell'acido desossiribonucleico. Queste differenti conformazioni strutturali del DNA sono state messe in rapporto a specifiche sequenze nucleotidiche della molecola stessa. Ad esempio, alcune sequenze caratterizzate da un regolare alternarsi di basi pirimidiniche e puriniche sono in grado di indurre la conversione da una normale doppia elica destrorsa ad una forma Z sinistrorsa, caratterizzata da uno scheletro portante di DNA molto più irregolare, seghettato, e dalla presenza di un unico solco minore che sostituisce i due solchi maggiore e minore della classica struttura ß. Altro caso simile è quello per cui le cosiddette ripetizioni invertite (cioè una sequenza seguita sullo stesso filamento dalla sua sequenza complementare disposta in ordine inverso) inducono nella molecola la comparsa di una struttura caratteristica "a croce": ciò è dovuto alla tendenza delle basi ad appaiarsi nell'ambito dello stesso filamento, con il conseguente ripiegarsi del filamento stesso. Il DNA è dunque una molecola estremamente flessibile e reattiva, in grado di interagire con tutta una serie di molecole cellulari grazie anche ad una continua modificazione conformazionale. 3 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 LA DUPLICAZIONE DEL DNA. Il meccanismo di replicazione del DNA è semiconservativo: la doppia elica madre darà due doppie eliche figlie, formate ciascuna da un filamento parentale e da un filamento neoformato; erano stati in precedenza proposti anche altri modelli che però non hanno trovato conferma (ad esempio, il modello conservativo, il modello dispersivo). La doppia elica si srotola e forma una doppia Y (la "forcina di replicazione"): la base della Y si srotola progressivamente mentre le due braccia fungono da stampo (template) per il nuovo filamento. L'intero meccanismo di replicazione è basato sulla complementarietà delle basi azotate. Lo srotolamento necessita di 3 proteine specifiche: la replicasi srotola il tratto da replicare, la proteina SSB si lega al filamento srotolato ed impedisce la sua degradazione e riunione, la proteina ligasi controlla la zona non despiralizzata proteggendola da trazioni ed altri traumi. La DNApolimerasi aggiunge un nucleotide ad un tratto preesistente: non è in grado di iniziare ex novo, ma necessita di un primer (può aggiungere nucleotidi solo all'estremità 3': il verso di formazione della catena è pertanto 5'-3'); l'energia della scissione del gruppo energetico fosfato è utilizzata per legare il nucleotide. La DNApolimerasi ha anche il compito di scindere eventuali legami erronei fra le basi. Il primer è dato dalla RNApolimerasi. Il filamento 3'-5' viene sintetizzato a tratti, sempre nel verso 5'-3', con un numero elevato di primer di RNA; i tratti sono detti frammenti di Okazaki. Quando la DNApolimerasi trova al termine di un tratto il primer di un tratto vicino lo scinde e lo risintetizza come DNA (sostituisce RNA con DNA). I vari frammenti di Okazaki sono uniti dalla DNAligasi. Negli eucarioti la replicazione del DNA non comincia in un solo punto ma contemporaneamente ed indipendentemente in più "forcine di replicazione": questi punti, detti "bolle di replicazione", confluiscono e sono infine uniti dalla DNAligasi; per dimostrare la molteplicità dei siti di replicazione si è ricorsi a timidina triziata, cioè marcata con trizio, e si è seguita la distribuzione della radioattività dopo la replicazione. LA DIVISIONE FUNZIONALE DEL DNA. Le dimensioni del genoma vengono espresse in numero di paia di basi (1 Kb = 1.000 paia di basi). Salendo nella scala evolutiva si nota una certa tendenza all'aumento delle dimensioni del genoma, ma non vi è una esatta corrispondenza fra la complessità fenotipica o il livello evolutivo di un organismo e la grandezza del suo genoma: ad esempio, il genoma di una salamandra e quello del grano tenero hanno entrambi dimensioni superiori al genoma dell'uomo. Bisogna tenere conto non solo del numero di paia di basi ma anche del numero di 6 geni. Il genoma di Eschirichia coli è composto da 4x10 paia di basi e considerando un gene in media codificato in 2-3 Kb si può sostenere che il genoma di questo batterio contiene poche migliaia di geni, come si è potuto anche controllare fenotipicamente; il genoma di Drosophyla 8 melanogaster ha circa 2x10 paia di basi, ma è stato dimostrato contenere solo 5.000 geni 9 circa; il genoma dell'uomo (Homo sapiens) ha circa 3x10 paia di basi, e contiene circa 50.000-100.000 geni. In realtà, mentre nei batteri le dimensioni del genoma sono proporzionali al numero dei geni, negli eucarioti ciò non si verifica. Come mai aumenta molto il DNA ma proporzionalmente non i geni? Esiste del DNA eucariotico che non funziona? In effetti negli eucarioti c'è molto DNA ripetuto: alcune centinaia di basi vengono ripetute più volte. Per studiare questo fenomeno si utilizza la cinetica della denaturazione; il DNA viene frammentato e poi denaturato (cioè trasformato da un doppio filamento in due filamenti singoli, in genere aumentando la temperatura); quando si riabbassa la temperatura il DNA si rinatura, cioè si ritrasforma in doppio filamento mediante l'appaiamento delle basi complementari: più esistono sequenze ripetute e più rapida è la rinaturazione (ci sono più probabilità di appaiamento fra frammenti complementari). 4 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 In base alla quantità di ripetizioni vengono distinte negli eucarioti 3 classi di DNA: 5 - DNA altamente ripetuto, che rappresenta da 0 al 50% del DNA, nel quale esistono oltre 10 copie delle stesse sequenze, come ad esempio nel caso del DNA satellite; - DNA mediamente ripetuto, che rappresenta dal 10 al 40% del DNA e con sequenze ripetute 5 fra 10 e 10 volte, come nel caso dei geni per rRNA, tRNA istoni; - DNA a sequenza unica, che non è cioè ripetuto, e rappresenta il 40-80% del DNA (ad esempio, i geni dell'emoglobina, dell'ovoalbumina). Il DNA satellite è costituito da sequenze altamente ripetute: ultracentrifugando in gradiente di cloruro di cesio, all'interno della provetta il DNA si stratifica in una banda corrispondente alla propria "densità di galleggiamento"; nei procarioti si ha una sola banda, mentre negli eucarioti in prossimità della banda principale si hanno altre bande, da cui il nome di DNA satellite; il fenomeno è legato al diverso contenuto in coppie di basi guanina-citosina, che provoca una densità diversa da quella della banda principale. Da un punto di vista funzionale il DNA può essere distinto in codificante e non codificante, a seconda che dia o meno esito alla sintesi di una proteina. Il genoma è composto da parti funzionalmente discontinue: la parte non codificante (introne) viene trascritta ma non dà alcuna proteina, mentre la parte codificante darà gli esoni e quindi le proteine. Per quale motivo nel DNA si ripetono più volte le stesse sequenze? Un'ipotesi era che più erano le sequenze e più poteva essere quantitativamente la sintesi della proteina, ma si è visto che più che dalla trascrizione la sintesi proteica è limitata da altre fasi. Si tratta di una specie di copie di riserva, in caso di mutazioni? Il DNA ripetuto modifica la probabilità che le mutazioni, che sono casuali, riguardino delle sequenze funzionalmente importanti? Si tratta di famiglie multigeniche, cioè di geni molto simili sia nelle sequenze nucleotidiche che nella proteina prodotta (ad esempio, le globine dell'emoglobina, oppure le cheratine della lana), con una qualche testimonianza evolutiva? Se il DNA ripetuto non è codificante, a che cosa può servire? E' forse la forma più semplice di parassitismo? IL CODICE GENETICO. In che modo la sequenza nucleotidica del DNA determina la sequenza aminoacidica delle proteine? E' il concetto di codice genetico. Il primo problema era di stabilire se nel codice c'erano o no delle sovrapposizioni, cioè di stabilire se un nucleotide poteva essere "letto" più di una volta, in diverse posizioni del codice: ad esempio, nel caso di una sequenza ATTGCTCAG, se il codice è senza sovrapposizione, i primi tre aminoacidi sono codificati dalle triplette ATT, GCT, CAG, mentre se il codice è con sovrapposizioni, i primi tre aminoacidi sono codificati dalle triplette ATT, TTG, TGC. Nel 1961 venne accertato che non ci sono sovrapposizioni: infatti, se muta una sola base muta nella corrispondente proteina un solo aminoacido; il codice con sovrapposizione farebbe invece prevedere che al cambiamento di un solo nucleotide corrisponda il cambiamento di più aminoacidi contigui (fino a tre). In realtà ci può essere una specie di sovrapposizione perché il DNA può essere letto con differente "frame" (lettura spostata di una o due basi) e quindi dare differenti proteine: si dicono proteine modificate per scivolamento ("shifting"); si tratta però non di una sovrapposizione nella lettura del codice genetico per una proteina ma di differenti fasi di lettura dello stesso tratto di DNA che codifica per proteine differenti. Le lettere a disposizione del codice genetico sono le 4 basi azotate. Con due basi azotate si 2 potrebbero specificare 4 possibilità, cioè 16 differenti aminoacidi, mentre con tre si possono 3 teoricamente specificare 64 differenti aminoacidi (4 ); essendo 20 gli aminoacidi c'è un problema di eccesso di possibilità. Ai 20 aminoacidi bisogna aggiungere un codon per il segnale di inizio della trascrizione ed uno per il segnale di fine della trascrizione, ma ne esistono anche che non specificano nulla (e quindi fanno immediatamente interrompere la trascrizione); si tratta inoltre di un codice degenerato, perché un aminoacido può essere 5 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 indicato da più di un codon. Esperimenti condotti da Brenner (con mutanti del locus rII del fago T4) hanno dimostrato che un codon è effettivamente di tre lettere (e non più di tre). Il meccanismo di duplicazione del DNA è molto efficiente: in E. coli, in un minuto vengono replicate 50.000 basi e in una generazione c'è solo un errore su un milione di replicazioni del DNA. LE MUTAZIONI. Occasionalmente, durante la replicazione del DNA, possono verificarsi degli errori che vengono trasmessi alla generazione successiva. Potrebbe avvenire ad esempio che venga sostituito per errore un nucleotide: è una mutazione puntiforme; l'RNA-polimerasi non è in grado di individuare l'errore, per cui l'informazione errata viene trascritta con conseguenze più o meno gravi; il cambio di una base azotata può dare un differente aminoacido o un codice non-senso, che interrompe la sintesi proteica, ma anche non provocare nulla se il nuovo codice è per lo stesso aminoacido (il codice genetico è un codice degenerato). Se un aminoacido diverso viene introdotto in una proteina l'attività della stessa potrà essere più o meno modificata (negativamente la maggior parte delle volte, positivamente qualche rara volta, ed in quest'ultimo caso il mutante potrà risultare favorito nella selezione). Se il nuovo codon derivante dalla sostituzione di un singolo nucleotide non codifica per alcun aminoacido, una volta giunto a questo livello, il processo di trascrizione si arresta: se ciò avviene subito dopo l'inizio del gene, l'assenza pressoché totale della proteina ha generalmente gravi conseguenze nell'organismo mutante. Altro tipo di mutazione puntiforme è la perdita di un nucleotide (delezione); in questo caso l'RNA-polimerasi non ha più la corretta chiave di lettura (reading frame) e tutti i codon a valle della mutazione (e quindi i corrispondenti aminoacidi) assumono significati diversi. Questo tipo di mutazione viene definita frameshift. Le stesse conseguenze si hanno per l'inserzione di un nucleotide. In certi casi possono andare perduti o essere inseriti interi tratti di DNA. Si indicano con il termine di introsoni o trasposoni dei tratti di DNA più o meno lunghi, con sequenze terminali costanti, in grado di spostarsi da un punto ad un altro del genoma: la loro inserzione generalmente abolisce l'attività del gene. E' stato osservato che le coppie di nucleotidi non mutano tutte con la stessa frequenza: in certi siti la probabilità di mutazione è fino a 100 volte più elevata che in altri ("hot spots", cioè "punti caldi"). Un esempio di hot spot è il gene lact di E. coli: c'è un punto, a 200 basi dall'inizio del gene, dove la citosina è metilata in posizione 5'; normalmente la citosina è trasformata dalla desaminazione ossidativa in uracile, che viene riconosciuto come estraneo al DNA, allontanato e risostituito da citosina: la 5-metil-citosina è però trasformata dalla desaminazione ossidativa in timina, che è una normale base del DNA: ne consegue che un filamento resta normale mentre quello mutato, nella replicazione, avrà un appaiamento timina-adenina invece che citosina-guanina. L'RNA. L'informazione genetica contenuta nel DNA controlla la sintesi delle proteine: tale informazione viene trascritta in mRNA e trasferita dal nucleo ai ribosomi, dove l'mRNA fornisce il messaggio per la sintesi della proteina; l'RNA è quindi il tramite tra il DNA e le proteine: senza di esso l'informazione genetica rimarrebbe inerte e non potrebbe essere espressa. A differenza di quanto visto nel DNA, nell'RNA il filamento è singolo invece che doppio, nei nucleotidi è presente l'uracile al posto della timina, lo zucchero è il ribosio invece che il 6 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 desossiribosio; nel desossiribosio il gruppo chimico legato al carbonio in posizione 2 è un atomo di idrogeno, mentre nel ribosio nella stessa posizione è presente un ossidrile. La scelta evolutiva del DNA come molecola deputata alla conservazione dell'informazione genetica è legata alle differenze chimiche esistenti fra DNA ed RNA; infatti, quando i ribonucleotidi sono uniti a formare l'RNA, l'ossidrile in posizione 2 del ribosio rimane libero, e ciò rende l'RNA meno stabile del DNA dal punto di vista chimico: in soluzione acquosa l'RNA va incontro a rapida idrolisi. Negli esperimenti che tendono a ricostruire in laboratorio il "brodo primordiale" da cui si ritiene abbia avuto origine la vita, si ha prima la polimerizzazione dell'RNA: ciò fa ritenere che l'RNA abbia evolutivamente preceduto il DNA, il quale sarebbe originato da una trascriptasi inversa (DNApolimerasiRNAdipendente) ed avrebbe in seguito soppiantato il DNA grazie alla sua maggiore stabilità, che lo rende intrinsecamente più adatto per conservare l'informazione per lunghi periodi di tempo. LA TRASCRIZIONE. La trascrizione avviene ad opera della RNApolimerasi; la RNApolimerasi si lega al DNA in corrispondenza di un promotore, il quale è differente per i vari geni ma è sempre caratterizzato da una sequenza costante di 6 basi azotate (TATAAT). La formazione dell'RNA è analoga a quella del DNA, ma non c'è bisogno di un primer; il verso della sintesi è sempre lo stesso (sul filamento 5'-3'). La sintesi dell'mRNA inizia quando l'RNA polimerasi comincia a trascrivere il DNA 10-20 nucleotidi a valle della sequenza TATAAT. L'RNA polimerasi srotola per un breve tratto la doppia elica di DNA ed inizia la trascrizione: l'enzima si muove lungo il DNA aggiungendo i ribonucleotidi (complementari ai desossiribonucleotidi del DNA) al 3' del nucleotide terminale del filamento nascente di RNA. Prima che la lunghezza del trascritto abbia superato i 30 nucleotidi, l'estremità 5' libera del filamento di RNA neosintetizzato viene ricoperta da una specie di struttura protettiva di guanosina metilata, legata per mezzo di un gruppo trifosfato. La trascrizione continua finché l'enzima non oltrepassa una sequenza del DNA che rappresenta il segnale di termine della trascrizione stessa (in genere AAUAAA): circa 20 nucleotidi più a valle il trascritto viene scisso ed un enzima aggiunge una coda di 150-200 adenin-nucleotidi all'estremità 3' del trascritto (poli-A). Nei procarioti si ha una sola RNA-polimerasi, mentre negli eucarioti si hanno tre diversi enzimi: uno per la produzione di mRNA, uno per la produzione di rRNA ed uno per la produzione di tRNA. LA TRADUZIONE. Il trascritto primario passa dal nucleo al citoplasma e viene tradotto a livello di ribosomi; intervengono a questo punto l'RNA transfer (tRNA) e l'RNA ribosomiale (rRNA). Il tRNA è un filamento corto, di 70-80 nucleotidi; esso ha una caratteristica struttura ripiegata, e lega ad una estremità un determinato aminoacido ed alla estremità opposta presenta un'ansa con l'anticodon per quell'aminoacido, ovvero il codon complementare; l'estremità a cui si lega l'aminoacido è sempre la stessa per tutti gli aminoacidi, in quanto è lo stesso enzima che lega l'aminoacido al tRNA a farsi carico del riconoscimento dell'anticodon. L'rRNA si trova legato ad alcune proteine insieme alle quali costituisce le due subunità ribonucleoproteiche (una maggiore ed una minore) che formano il ribosoma; nei procarioti il ribosoma ha un coefficiente di sedimentazione (misurato in Svedberg) di 70 S e le due subunità hanno rispettivamente 50 S e 30 S; negli eucarioti il coefficiente di sedimentazione del ribosoma è di 80 S e quello delle due subunità di 60 S e di 40 S: nella subunità grande ci sono 3 molecole di RNA, (una grande, di circa 4500 nucleotidi, due piccole di circa 160 e 120 nucleotidi), mentre nella piccola c'è una sola molecola di RNA (di circa 1800 nucleotidi). 7 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 L'RNA messaggero (mRNA) "scivola" sull'rRNA un codon alla volta e ad uno ad uno si uniscono alla catena proteica nascente i vari aminoacidi portati dall'tRNA che ha l'anticodon corrispondente; in genere nei procarioti c'è all'inizio della sintesi sempre lo stesso aminoacido, che successivamente viene allontanato. La sequenza dei codon sull'mRNA, dipendente dall'informazione contenuta nel DNA, determina a sua volta l'ordine degli aminoacidi nella proteina. LA MATURAZIONE DELL'RNA. Sin dal 1960 esperimenti effettuati marcando con isotopi radioattivi l'mRNA hanno dimostrato che alcune molecole di mRNA isolate a livello nucleare hanno dimensioni superiori (ad esempio, 5.000bs) a quelle dei medesimi mRNA isolati dopo il trasferimento nel citoplasma (ad esempio, 1.000bs): infatti l'mRNA marcato non si riibridizza completamente con il DNA denaturato, perché delle parti di DNA non si ritrovano nell'mRNA citoplasmatico. I precursori nucleari vengono tagliati e riuniti per dare origine agli RNA maturi, senza alterazioni all'estremità protettiva di guanosina metilata ed alla coda di poli-A, che si ritrovano anche nell'mRNA maturo. Questo processo di maturazione dell'mRNA è indicato con il termine di splicing. I geni degli organismi eucarioti sono discontinui, costituiti cioè da tratti effettivamente codificanti (indicati con il termine di esoni) inframmezzati da sequenze che non hanno alcuna funzione codificante (introni). Sia gli esoni che gli introni vengono trascritti dall'RNA-polimerasi in un trascritto primario: tale trascritto subisce una maturazione a livello nucleare che comporta l'allontanamento delle porzioni introniche; l'mRNA maturo che arriva ai ribosomi contiene pertanto solamente la porzione esonica, l'unica ad essere effettivamente espressa. Lo splicing dell'mRNA non avviene invece nei batteri dove i geni sono continui. Durante il processo di maturazione, un ruolo fondamentale nell'allontanamento degli introni è svolto dalle snRNP, costituite da un gruppo di molecole proteiche legate ad un'unica molecola di RNA: si tratta di un RNA particolare, ricco di uracile (RNA U). Nel trascritto primario, nel punto di passaggio tra esoni ed introni, esistono delle sequenze caratteristiche ricche di guanina ed uracile: le snRNP si legano a tali sequenze G-U e tagliano la catena RNA in quel punto. Gli introni vengono così allontanati mentre gli esoni vengono saldati tra loro dando origine all'RNA messaggero maturo. Agli scienziati che hanno scoperto la discontinuità dei geni è stato assegnato nel 1993 il premio Nobel. L'ESPRESSIONE DEI GENI. Le scoperte sulla discontinuità funzionale dei geni sono state fatte nel corso delle ricerche sull'espressione dei geni: le diverse cellule di un organismo hanno tutte lo stesso DNA, per cui come si spiegano le differenze? Un problema di fondamentale importanza nello studio del genoma è rappresentato dalla regolazione dell'espressione genica: è chiaro che una cellula, in un determinato istante, non contiene tutti gli mRNA codificati dal suo DNA, ma trascrive alcuni geni e produce le proteine corrispondenti solo quando ne ha la necessità. Nei procarioti non ci sono introni (quelli identificati sono trascurabili), mentre negli eucarioti si è posto immediatamente il problema di stabilire quale importanza può avere la maturazione dell'RNA nella regolazione dell'espressione genica. Secondo una teoria si ipotizzava che la scelta di quale proteina produrre, in quale cellula ed in quale momento, fosse legata alla maturazione differenziale di un'unica molecola di mRNA trascritta in maniera totale ed indifferenziata in tutte le cellule: ad esempio, un trascritto contenente più esoni avrebbe potuto essere tagliato e poi nuovamente saldato in modo da includere nell'mRNA maturo tutti 8 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 o solo alcuni degli esoni, purché fossero conservati gli esoni alle estremità del gene (contenenti il "cappuccio" protettivo di guanosina metilata in posizione 5' e la coda di poli-A in posizione 3'), e che gli esoni fossero rimasti nello stesso ordine. Sono stati effettivamente scoperti diversi geni che si comportano in questo modo: si tratta di "unità di trascrizioni complesse", che codificano per più mRNA (ottenuti mediante splicing differenziale). Un esempio di unità di trascrizioni complesse è rappresentato dal segmento di DNA che codifica per la calcitonina, ormone prodotto a livello della tiroide: è stato osservato che tale sequenza si ibridizza anche con un mRNA prodotto nell'ipofisi. Il trascritto primario che si trova nelle cellule tiroidee si ritrova anche a livello dell'ipofisi e contiene due siti poli-A; nella tiroide viene accettato come segnale terminale il primo sito poli-A: i primi quattro esoni vengono saldati e danno origine ad un mRNA che codifica per la calcitonina; nell'ipofisi invece lo stesso trascritto primario termina in corrispondenza del secondo sito poli-A: al momento della saldatura il quarto esone viene allontanato insieme agli introni, mentre vengono uniti il quinto ed il sesto esone, dando così origine all'mRNA per una proteina, completamente diversa dalla calcitonina, nota come CGRP. Con la scoperta delle più recenti tecniche di biologia molecolare si è accertato che l'importanza dello splicing nella regolazione dell'espressione genica è relativa; la regolazione è effettuata essenzialmente attraverso un controllo della trascrizione primaria, quando alcuni geni vengono trascritti ed altri no: non si ha tanto una trascrizione indifferenziata seguita da una maturazione differenziale dell'mRNA, ma direttamente una trascrizione differenziale del DNA. L'importanza della trascrizione differenziale è stata dimostrata isolando e clonando dei geni; vennero isolate e clonate delle sequenze nucleotidiche per proteine specifiche del fegato e per delle proteine non-specifiche; questi geni sono stati posti su un filtro di nitrocellulosa e messi a contatto con il trascritto primario, marcato con isotopi radioattivi, di cellule epatiche, renali e cerebrali: il trascritto delle cellule epatiche si ibridizzava sia con i geni per le proteine del fegato che con i geni delle proteine non specifiche, mentre il trascritto primario delle cellule renali e quello delle cellule cerebrali si ibridizzava solo con le sequenze nucleotidiche per le proteine non-specifiche. Come è controllata l'attivazione e la disattivazione del gene? E' questo un problema particolarmente sentito da chi si occupa di ingegneria genetica, perché inserire un gene estraneo in un genoma (animali transgenici) è relativamente semplice, ma controllare l'espressione di questo gene è un problema ancora non risolto. Le conoscenze disponibili riguardano soprattutto i procarioti. Esperimenti condotti principalmente sul fago lambda hanno evidenziato come l'espressione genica può essere controllata da proteine regolatrici che si legano a siti specifici del segmento di DNA: tali proteine vengono indicate con il termine di repressori. Il repressore si lega ad una specifica sequenza di DNA denominata operatore, situata immediatamente accanto al promotore, cioè accanto a quella breve sequenza di DNA che rappresenta il punto di attacco dell'RNA polimerasi e quindi di inizio della trascrizione: la presenza del repressore sul sito operatore impedisce il legame della RNA polimerasi al promotore e di conseguenza la trascrizione del gene. Nel fago lambda è stato anche evidenziato un meccanismo di autoamplificazione: l'RNA polimerasi non si lega al promotore del gene ma al promotore del gene per la proteina che funge da repressore. Molto spesso un solo repressore controlla l'espressione coordinata di più geni: tale sistema nel suo complesso viene definito operone. Un esempio è l'operone lact di E. coli, che comprende tre geni (Z, Y, ed A) responsabili del catabolismo del lattosio attraverso la sintesi di tre enzimi (ß-galattosidasi, permeasi, transacetilasi). Il gene lact di E. coli è un sistema inducibile: se non c'è lattosio nel mezzo, il repressore si lega all'operatore ed inibisce la trascrizione dei geni per le tre proteine enzimatiche che dovrebbero catabolizzare il lattosio; se invece nel mezzo c'è lattosio, questo si lega al repressore che, così modificato nella forma, non è più in grado di inattivare l'operatore: l'RNA polimerasi trascrive l'informazione per i tre geni Z, Y ed A in 9 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 un'unica molecola di RNA policistronico. L'operone lact è un esempio di sistema inducibile nel senso che la sintesi di un enzima è indotta dalla presenza del suo substrato. Esistono anche dei sistemi reprimibili, nei quali il prodotto finale determina il blocco della trascrizione dei geni per gli enzimi responsabili della sintesi del prodotto stesso: un esempio è l'operone trp, responsabile della sintesi del triptofano. Il meccanismo di controllo dell'espressione genica di un sistema reprimibile comporta la presenza sul DNA di un'altra regione specifica denominata attenuatore, responsabile di una riduzione della velocità di trascrizione dell'mRNA in presenza del prodotto finale (triptofano): l'assenza di questa regione in alcuni mutanti è associata ad una produzione continua e massiccia di triptofano. GLI INTRONI, GLI ESONI E L'EVOLUZIONE. Fino agli anni '60 la maggior parte degli studiosi riteneva che i batteri, per la loro semplicità, dovessero essere simili alle prime cellule ancestrali e che gli eucarioti si fossero evoluti da procarioti primordiali. Lo splicing del trascritto primario, costantemente presente negli eucarioti, avviene molto raramente nei procarioti che non contengono, se non in quantità trascurabile, introni: di conseguenza gli esoni venivano considerati come delle complessità introdotte relativamente tardi nel corso dell'evoluzione. La prima cosa ad essere messa in dubbio fu che i batteri fossero effettivamente gli organismi più antichi. Woese e collaboratori tracciarono una mappa delle genealogie cellulari confrontando le sequenze nucleotidiche degli rRNA di differenti organismi; si utilizzava una particolare subunità 16 S dell'rRNA perché è una struttura precedente la stessa cellula ed è una molecola che non ha mai mutato la sua attività funzionale; si digeriva l'rRNA con ribonucleasi che spezzavano la catena in corrispondenza della guanina e si confrontavano i frammenti di almeno 6 basi azotate (una ventina di frammenti circa): più le sequenze sono conservate, maggiore è la probabilità che gli organismi discendano da un antenato comune. Ci si rese conto che gli archibatteri, un piccolo gruppo di metanobatteri, non rientravano nell'albero filogenetico dei batteri classici: essi non erano più vicini dal punto di vista filogenetico agli eubatteri di quanto lo fossero agli eucarioti. Si è quindi ipotizzata l'esistenza di tre linee evolutive separate, discendenti da un unico progenitore comune definito "progenote": eubatteri ed archibatteri sarebbero evoluti direttamente dal progenote, mentre gli eucarioti deriverebbero dalla fusione di un eucariote ancestrale con due tipi di eubatteri; l'eucariote ancestrale avrebbe dato origine al nucleo della cellula, mentre mitocondri e cloroplasti sarebbero derivati rispettivamente dai solfobatteri purpurei e dai cianobatteri (determinando le sequenze dell'rRNA contenuto nei mitocondri si è dimostrato che sono analoghe a quelle dei solfobatteri purpurei, mentre le sequenze dell'rRNA dei cloroplasti sono analoghe a quelle dei cianobatteri). L'origine di eucarioti e procarioti è quindi da considerare indipendente e contemporanea; essendo il nucleo degli eucarioti antico quanto i batteri, ed essendo il nucleo la sede dove avviene la maturazione dell'mRNA, non vi è alcuna ragione per ritenere che tale processo abbia avuto inizio solo più tardi. Addirittura la maturazione dell'RNA potrebbe essere iniziata ancora prima della comparsa del progenote: probabilmente sin dall'inizio la molecola era caratterizzata dalla presenza di esoni ed introni e ciò sembrerebbe confermato anche dalla posizione che introni ed esoni occupano in molti geni moderni; ad esempio, nei geni che codificano per le emoglobine, per le immunoglobuline e per altri enzimi, ogni esone codifica per un dominio della molecola proteica riconoscibile come unità funzionale: è poco plausibile ritenere che l'introduzione degli introni avvenuta casualmente possa aver determinato questa precisa suddivisione e molto più probabile invece uno sviluppo graduale dello splicing che avrebbe portato alla sintesi di proteine più grandi e più utili. E' molto probabile che i geni dei primi archibatteri ed eubatteri fossero discontinui e che, attraverso un'evoluzione durata innumerevoli generazioni, i batteri oggi esistenti abbiano 10 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 eliminato quasi totalmente le sequenze non codificanti dal loro genoma; il DNA degli eucarioti, uomo compreso, si è invece evoluto più lentamente (maggior intervallo di generazione): i geni degli eucarioti presentano quindi "inutili" introni ed il sistema di traduzione è rimasto ancorato ad un complesso procedimento di maturazione, evolutivamente già superato dalle cellule procariote. Non tutti gli studiosi condividono però queste ipotesi: alcuni ritengono che l'organizzazione del genoma in esoni ed introni sia evolutivamente più recente. LA BIOLOGIA FILOGENETICA. MOLECOLARE E LO STUDIO DELL'EVOLUZIONE Nel 1951 venne determinata la sequenza aminoacidica dell'insulina bovina. I primi studi di biologia molecolare sull'evoluzione filogenetica sono stati fatti mediante analisi delle sequenze proteiche in quanto non si disponeva ancora di tecniche per determinare la sequenza nucleotidica dei geni. Il concetto di omologia proteica è simile, ma un po' più "grossolano", a quello di omologia genetica: proteine di organismi diversi che svolgono le stesse funzioni hanno spesso somiglianze nella sequenza di aminoacidi e, quando queste somiglianze sono elevate, si dice che le proteine stesse sono omologhe. Nell'uso corrente con omologia si indica un'origine genetica comune: i geni che codificano catene polipeptidiche omologhe, in qualsivoglia specie si trovino, hanno avuto un gene ancestrale comune e si sono evoluti indipendentemente a cominciare dalla divergenza delle specie alle quali appartengono. In base al concetto di omologia è possibile, quando si conosca la sequenza di proteine che hanno la stessa funzione ma si trovano in organismi tassonomicamente lontani, stabilire la loro storia evolutiva mediante il confronto delle sequenze e ricostruire un albero filogenetico sulla base delle differenze in aminoacidi. Molto utilizzata per gli studi tassonomici è stata la sequenza aminoacidica del citocromo c: questo perché è presente in tutte le specie che utilizzano l'ossigeno, è una proteina molto antica (presumibilmente comparsa quando l'ossigeno si è accumulato nell'atmosfera per azione dei primi organismi procarioti fotosintetici) ed infine perché ha sempre conservato la stessa attività funzionale. Molto utilizzate anche le globine (mioglobina ed emoglobina); l'emoglobina, pur essendo nei vertebrati una proteina tetramerica, presenta in ogni catena la struttura dell'emoglobina monomerica tipica degli invertebrati: il confronto permette quindi di risalire a tempi molto lontani dell'evoluzione; altro motivo di interesse è legato al fatto che nell'emoglobina si riscontra, oltre ad un'evoluzione ortologa (una stessa proteina conservatasi nel corso della divergenza evolutiva di specie diverse), anche un'evoluzione paraloga (più forme della stessa proteina in un'unica specie, formatesi probabilmente per duplicazione genica). L'elevato grado di somiglianza tra le sequenze di tutte le globine finora studiate fa pensare che i geni che le codificano derivino da un unico gene ancestrale. Le globine degli invertebrati differiscono tra di loro e dalle globine dei vertebrati molto più di quanto non differiscano le mioglobine e l'emoglobine dei vertebrati. Queste osservazioni indicano che mentre le globine monomeriche degli invertebrati sono codificate da raggruppamenti di geni, nei vertebrati sono rimasti solo due geni: uno si è specializzato per la formazione dell'emoglobina con funzione di trasporto dell'ossigeno e l'altro, derivato dal precedente, per la formazione della mioglobina con funzione di riserva dell'ossigeno. Per successive duplicazioni, il gene dell'emoglobina ha dato origine prima a geni specializzati per le catene α e ß del tetramero, poi a quelli di tutte le altre catene; tra le sequenze delle catene emoglobiniche esiste un'alta correlazione con le distanze filogenetiche delle specie: le catene α dell'uomo e della scimmia Rhesus differiscono solo per 4 posizioni su 141, quelle dei bovini e dei primati per 16 posizioni, quelle degli uccelli e dei mammiferi per 37-45, mentre le catene α dei pesci cartilaginei differiscono da quelle dei vertebrati superiori per 84-89 posizioni. Anche per proteine paraloghe la sequenza è 11 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 quindi tanto più diversa quanto più lontane sono le specie animali a cui appartengono: infatti i geni delle specie più distanti, essendosi separati in epoche più remote, hanno avuto più tempo per accumulare mutazioni casuali ma accettate (nel senso che hanno prodotto a livello proteico modifiche adattative o almeno selettivamente neutre). Bisogna considerare che i calcoli effettuati con le sequenze aminoacidiche sono meno precisi di quelli effettuati con le sequenze nucleotidiche perché, essendo il codice genetico degenerato, non tutte le modificazioni riscontrate a livello della proteina hanno lo stesso peso evolutivo in termini di mutazioni intercorse: un'unica sostituzione in una tripletta può, ad esempio, non causare cambiamenti a livello aminoacidico; esistono dunque mutazioni silenti che non possono essere valutate anche se hanno la stessa importanza evolutiva di quelle che causano la sostituzione di un aminoacido; esistono al contrario mutazioni di un aminoacido che indicano mutazioni in due o tre basi azotate. Tutte le volte che ci si basa su criteri di omologia genetica per studiare la filogenesi o genericamente la somiglianza fra organismi viventi bisogna considerare se la mutazione è neutrale alla fitness o meno: la non-neutralità potrebbe infatti rendere inesatti i calcoli, non tanto per quanto riguarda la forma dell'albero che si ricostruisce, ma soprattutto per la scala dei tempi (non si parla cioè delle mutazioni in genere, ma di quelle che si sono mantenute perché erano viabili o addirittura adattative). Il metodo ideale per valutare l'omologia è quello di confrontare direttamente le sequenze nucleotidiche dei geni, invece delle sequenze aminoacidiche delle proteine: ciò è attualmente possibile con tecniche di biologia molecolare. Ogni gene che esiste in una cellula oggi è una copia di un gene che esisteva nelle generazioni precedenti: non è però una copia esatta, perché le mutazioni hanno alterato la sequenza originale, ma spesso persistono sequenze molto antiche; se due geni sono simili per un segmento che comprende un numero considerevole di nucleotidi, ciò significa che hanno un antenato comune. La biologia evoluzionistica è fondata sull'ipotesi dell'"orologio molecolare", formulata da Zuckerkandl nel 1962. Secondo tale ipotesi il materiale genetico di popolazioni riproduttivamente isolate va incontro nel tempo ad una progressiva differenziazione: le popolazioni divergono perché nel loro DNA si verificano delle mutazioni casuali, che vengono trasmesse alle generazioni successive; le mutazioni possono interessare regioni del DNA effettivamente codificanti (gli esoni) oppure gli introni, senza alterare in questo caso la sequenza aminoacidica di una proteina. Poiché le mutazioni si accumulano nel tempo, il grado di differenziazione di due diverse specie, sia nella sequenza aminoacidica che, soprattutto, in quella nucleotidica, è un indicatore della distanza filogenetica: in base alle differenze riscontrate è possibile valutare il momento approssimativo in cui due specie si sono allontanate da un antenato comune; sono state con queste premesse riviste delle classificazioni tassonomiche. Sibley ed Ahlquist hanno ricostruito l'albero filogenetico delle principali specie di uccelli attraverso i metodi della biologia evoluzionistica. Gli elementi necessari per ricostruire un albero filogenetico sono essenzialmente due: uno schema di ramificazione e la datazione di ogni ramificazione (ad esempio, quando una barriera, spesso di tipo geografico, divide una specie in due popolazioni, che possono così divergere geneticamente e dare luogo a specie differenti). Finora alla scoperta delle metodologie di biologia evoluzionistica l'unica fonte di informazione sui rapporti filogenetici tra specie era il confronto dei caratteri morfologici ed anatomici; i caratteri anatomici si sono però modellati su precise esigenze funzionali: non è quindi detto che una somiglianza morfologica indichi relazioni di parentela in quanto forme simili possono comparire per "convergenza evolutiva" anche in organismi filogeneticamente lontani (ad esempio rondini e rondoni, nelle prime classificazioni degli uccelli, venivano considerati insieme per la notevole somiglianza morfologica: tale somiglianza è in realtà dovuta soltanto ad analoghe esigenze di adattamento, essendo entrambi predatori di insetti alati, mentre filogeneticamente le due specie sono molto differenti, essendo i rondoni prossimi 12 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 ai colibrì e le rondini dei tipici passeriformi). La datazione delle ramificazioni era basata esclusivamente su reperti fossili, ammesso che fossero disponibili: anche in questo caso però la datazione di un fossile indica quando quell'organismo è vissuto, ma non quando la sua linea filetica ha cominciato a divergere dalle altre. La tecnica più usata per misurare le differenze genetiche fra le specie attualmente esistenti è l'ibridazione DNA-DNA. Si estrae il DNA dalle cellule delle due specie da confrontare, mediante degli enzimi che fanno fuoriuscire gli acidi nucleici; si ultracentrifuga per isolare il DNA che viene frammentato (frammenti di circa 500 nucleotidi) e privato della parte ripetitiva attraverso procedimenti di denaturazione e rinaturazione, fino a conservare solo le sequenze presenti in singola copia (si eliminano i frammenti che dopo denaturazione si rinaturano per primi: più un frammento è ripetuto, prima è probabile che si ricombini rapidamente con un frammento complementare); il DNA di una specie viene marcato con isotopi radioattivi ("tracer", cioè tracciante) e, come monofilamento, viene messo a contatto con quello dell'altra specie ("driver", cioè elemento guida), sempre denaturato ma non marcato; l'ibrido eteroduplex che così si forma è tanto più stabile quanto più i due genomi sono complementari: alzando la temperatura si ha una progressiva liberazione del DNA ibridizzato da delle colonnine di idrossiapatite, le quali sono in grado di trattenerlo solo se sotto forma di doppia elica; la stabilità dell'eteroduplex viene confrontata con quella dei due DNA omoduplex, cioè molecole a doppio filamento in cui sia il tracciante che l'elemento guida appartengono alla stessa specie. Gli omoduplex costituiscono lo standard con cui confrontare la stabilità termica dell'eteroduplex: si può tracciare un grafico della curva di fusione che mostra la quantità di eteroduplex che si denatura a temperature crescenti; la differenza media in gradi centigradi tra la curva media dei due omoduplex e quella dell'eteroduplex è una misura della differenza genetica tra la specie confrontate. La differenza tra i DNA di due specie può essere utilizzata come indicatore della distanza genealogica tra le due specie solo se è possibile affermare che il DNA muta con una velocità media uguale in qualsiasi linea filetica; diversi autori ritengono di aver dimostrato ciò mediante il test della velocità relativa: si confrontano tre specie, due delle quali più imparentate fra loro che con la terza; se, come si è sempre potuto verificare, la distanza fra la terza (che fornisce nella prova il tracciante) e le prime due (che forniscono gli elementi guida) è uguale, è perché le due specie più imparentate, a partire dalla loro separazione, hanno mantenuto lo stesso tasso di mutazione. Si può quindi parlare di uniformità del ritmo dell'orologio molecolare, cioè di una costanza nel ritmo delle mutazioni, la quale è difficilmente comprensibile perché sembra sottintendere una neutralità delle mutazioni alla fitness. L'apparente costanza potrebbe dipendere dal fatto che si misurano differenze tra sequenze composte da miliardi di coppie di basi dopo milioni di anni di evoluzione; la selezione naturale fa sì che geni diversi si evolvano a velocità diverse e che uno stesso gene evolva a velocità diverse in tempi diversi: tuttavia l'intervallo entro cui variano le velocità di evoluzione di tutti i geni è piccolo ed il numero dei geni enorme, e mentre la velocità di evoluzione di alcuni geni aumenta è probabile che quella di altri diminuisca in eguale misura; inoltre il bilanciamento tra le velocità di mutazione dei vari geni non deve essere simultaneo poiché l'apparente costanza emerge dopo milioni di anni. Rimane da considerare che la tendenza di fondo dell'evoluzione è da strutture semplici a strutture più complesse, per cui una mutazione, fenomeno per definizione casuale, è sempre più probabile che sia sfavorevole (piuttosto che neutrale o favorevole) mano a mano che l'evoluzione ha reso più complessi gli organismi: forse l'orologio molecolare sta sempre più rallentando? Per evitare i problemi collegati a mutazione e fitness si sta sempre più cercando di spostare l'indagine dal DNA esonico a quello intronico, che non esprimendosi dovrebbe essere neutro alla fitness: ma secondo un'ipotesi anche gli introni sono stati in qualche maniera oggetto di evoluzione, in quanto sembra che i procarioti inizialmente avessero nel loro genoma introni che in seguito hanno eliminato. 13 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 E' comunque un dato dimostrabile che il DNA sembra evolversi con una velocità media uniforme; l'errato appaiamento dei DNA ibridi è il risultato di cambiamenti genetici che si sono fissati nelle due linee filetiche dal momento in cui si sono separate, per cui il numero di appaiamenti errati è proporzionale al tempo trascorso dalla divergenza delle due linee: la temperatura media di fusione dell'ibrido DNA-DNA è quindi una misura indiretta del tempo trascorso dall'inizio della divergenza filetica. La datazione assoluta dell'orologio molecolare viene effettuata grazie ad un evento geologico, cronologicamente definito, che ha causato la divergenza di due linee filetiche. Ad esempio, un progenitore comune allo struzzo africano ed al nandù sudamericano viveva nella Gondwana, separata circa 80 milioni di anni fa dalla deriva dei continenti che ha portato alla formazione dell'oceano Atlantico: questa barriera geografica ha causato l'isolamento riproduttivo, e quindi la divergenza, delle linee filetiche dello struzzo e del nandù. Dividendo 80 milioni di anni per la differenza tra la temperatura di fusione media dell'eteroduplex DNA di struzzo - DNA di nandù e la temperatura di fusione media dell'omoduplex DNA struzzo - struzzo e dell'omoduplex nandù - nandù si ricava la costante di taratura (espressa in milioni di anni di divergenza per grado centigrado di riduzione della temperatura media di fusione). Da quello esposto e da altri calcoli effettuati su divergenze di linee filetiche diverse, causate da altri eventi geologici cronologicamente definiti, si è sempre ricavato un valore per la costante di taratura pari a circa 4,5 milioni di anni per grado centigrado: una riduzione media di un grado centigrado nella temperatura di fusione equivale a circa 4,5 milioni di anni trascorsi da quando le due linee filetiche si sono separate. La costante di taratura, nonostante sia simile in diverse evoluzioni filetiche, non viene generalizzata per le varie specie: nel caso non sia possibile utilizzare eventi geologici cronologicamente definiti e collegati alla divergenza filetica si utilizzano metodiche di datazione indiretta, come nel caso del panda gigante. Occorre sottolineare che le tecniche di biologia molecolare presentano delle limitazioni; innanzitutto per la datazione del tempo trascorso in senso assoluto è sempre indispensabile riferirsi a testimonianze fossili; inoltre non si tiene conto del fatto che molte mutazioni svantaggiose dal punto di vista selettivo scompaiono dalla popolazione, per cui non vengono considerate: per evitare ciò, l'attenzione dei ricercatori è attualmente rivolta soprattutto alla porzione intronica del genoma che, sprovvista di attività codificante, dovrebbe presumibilmente conservare qualsiasi mutazione casuale senza indurre maggiori o minori vantaggi dal punto di vista evolutivo. I marcatori della filogenesi possono essere distinti in marcatori precoci e marcatori non precoci: dei primi fanno parte gli enzimi (i quali potrebbero essere utilizzati come sequenze nucleotidiche o proteiche anche per studiare le distanze fra razze, dove l'ibridazione DNA-DNA non è applicabile), fra i secondi, ad esempio, l'rRNA 16 S utilizzato da Woese. Le classificazioni filogenetiche effettuate dalla biologia evoluzionistica hanno dimostrato che gli avvoltoi del vecchio mondo sono strettamente imparentati con falchi ed aquile, mentre gli avvoltoi del nuovo mondo (condor, avvoltoio dal collo rosso, etc.) hanno solo una somiglianza superficiale con gli avvoltoi del vecchio mondo, pur essendo storicamente stati inclusi entrambi nell'ordine dei falconiformi: i confronti dei DNA hanno accertato che gli avvoltoi del nuovo mondo sono evolutivamente più vicini alle cicogne (con le quali hanno cominciato a divergere solo 35 milioni di anni fa) che agli avvoltoi del vecchio mondo (le somiglianze esteriori sono dovute ad un'evoluzione convergente, causata dal divorare le carogne). Altri studi hanno stabilito che i barbuti del nuovo mondo sono più vicini ai tucani che ai barbuti del vecchio mondo, ed ancora che i corvidi originarono in Australia e successivamente colonizzarono prima l'Eurasia e poi il Sud-America. L'esempio del panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) è utile per illustrare come le tecniche di biologia molecolare possano risolvere dei casi di difficile discriminazione tassonomica e contemporaneamente per spiegare il principio della datazione indiretta. La collocazione tassonomica del panda gigante è stato un problema che per più di un secolo ha interessato gli 14 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 scienziati: solo recentemente il problema della ascendenza genealogica di questo animale è stato risolto, dopo che per circa 120 anni si è stati incerti se includerlo nella famiglia degli ursidi, in quella dei procionidi o in una famiglia appositamente creata (ailuropodidi). Il panda gigante rassomiglia ad un orso, ma rispetto a questo presenta delle caratteristiche atipiche: - è erbivoro, nutrendosi soprattutto di bambù; - è l'unica specie, oltre alle scimmie ed all'uomo, ad avere il pollice opponibile; - non va in letargo; - non ringhia ma bela; - presenta un numero (2n=42) ed una morfologia dei cromosomi più simili al panda minore (procionide con 2n=44) che agli orsi (2n=74). Utilizzando la tecnica dell'ibridazione del DNA si è riusciti a tracciare un diagramma filogenetico da cui risulta che i procionidi furono il primo gruppo a separarsi da un antenato comune alle due famiglie degli orsi e dei procioni: subito dopo il panda minore si separò dalla linea principale dei procionidi, mentre il panda gigante si differenziò soltanto più tardi dagli orsi, ai quali è quindi risultato filogeneticamente più vicino. Questi risultati sono stati confermati da un confronto tra le sequenze aminoacidiche di 50 enzimi omologhi. Un'ulteriore conferma è stata ottenuta mediante esami immunologici; con questo metodo la distanza evolutiva tra le specie viene valutata confrontando l'intensità della reazione di una siero proteina (albumina) di una specie con gli anticorpi prodotti contro quella proteina da parte di una specie diversa: meno molecole di anticorpo si legano, maggiore è l'affinità tra le specie, e viceversa. Per datare l'evoluzione del panda maggiore non si avevano a disposizione degli eventi geologici adatti: si è ricorsi ad una datazione indiretta mediante altre specie con stessa velocità evolutiva e cronologia nota; è stato possibile correlare la velocità dell'evoluzione molecolare nei carnivori (gruppo a cui appartiene il panda) con un secondo gruppo non affine, i primati, le cui molecole proteiche sembrano evolversi alla medesima velocità di quelle dei carnivori ma la cui storia fossile è ben documentata. Se due specie di primati hanno i medesimi valori di distanza molecolare di due specie di ursidi, si può affermare che entrambi i gruppi si sono separati circa allo stesso tempo: in altri termini, dimostrando che la molecola dell'albumina presenta tra l'orso nero e l'orso malese le stesse differenze percentuali riscontrate tra gorilla e scimpanzé, si può concludere che questi due gruppi si sono separati approssimativamente nella stessa epoca geologica. Basandosi sui dati della divergenza tra scimmie antropomorfe africane ed ominidi, avvenuta intorno a 35 milioni di anni fa, si è concluso che la divergenza tra gli antenati degli ursidi e dei procionidi è avvenuta tra 35 e 50 milioni di anni fa; dopo circa 10 milioni di anni da questa divergenza, il gruppo dei procionidi si scisse in due rami: quello dei procionidi del vecchio mondo (panda minore) e quello dei procionidi del nuovo mondo (procione, coati, etc.). Circa nel momento in cui i gibboni si separarono dalle scimmie antropomorfe (18-25 milioni di anni fa) gli antenati del panda gigante si separarono dal gruppo degli ursidi, da cui poi, circa 10 milioni di anni fa, presero origine le varie specie di orsi. Anche le differenze nel numero di cromosomi sono state spiegate; gli orsi del genere Ursus hanno 74 cromosomi acentrici, mentre il panda gigante possiede 42 cromosomi, la maggior parte dei quali metacentrica: confrontando con il bandeggio i cromosomi del panda gigante con quelli provenienti dalle sei specie di Ursus, si è dimostrato che le bande dei cromosomi degli orsi sono esattamente identiche a quelle delle braccia dei cromosomi del panda gigante; questa osservazione dimostra che durante il processo di evoluzione si è ripetutamente verificato il fenomeno della "fusione acrocentrica" in cui due cromosomi acrocentrici si fondono per formare un unico cromosoma metacentrico. 15 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 I GENI HOMEOBOX. In un embrione, già molto tempo prima che la maggior parte delle cellule che lo costituiscono cominci a differenziarsi, si delinea un piano di sviluppo che stabilisce le principali regioni corporee: testa, tronco, arti, coda, etc.: ciò fa sì che combinazioni di tessuti, apparentemente identici, si distribuiscano in strutture anatomiche nettamente distinte quali gli arti anteriori e gli arti posteriori. Grazie all'utilizzo di tecniche di biologia molecolare è stato possibile isolare e caratterizzare alcuni geni che, durante lo sviluppo, svolgono un'azione determinante nella definizione del piano corporeo dell'embrione. Tali geni ripartiscono precocemente l'embrione in campi di cellule che hanno la potenzialità di trasformarsi in tessuti ed organi specifici. Questi geni, in grado di controllare l'attività di molti geni subordinati, presentano dei tratti di DNA altamente invariati che si ritrovano non solo negli invertebrati ma anche nei vertebrati: tali tratti altamente conservati, cioè che si ripetono con sequenze nucleotidiche invariate, sono detti homeobox; anche le proteine prodotte dai geni homeobox presentano una sequenza invariata di circa 60 aminoacidi, definita omeodominio. Le proteine prodotte dai geni homeobox si legano ai geni subordinati, attivandone o reprimendone l'espressione. Rimane ancora da chiarire in quale modo i geni homeobox riescano effettivamente a regolare lo sviluppo embrionale. E' da sottolineare che i geni homeobox sono disposti lungo il cromosoma in un ordine preciso, ordine che corrisponde alla sede del corpo in cui i geni stessi andranno ad esprimersi: infatti i geni homeobox disposti all'estremità sinistra del complesso si esprimono nell'estremità posteriore del corpo, mentre quelli all'estremità destra del complesso si esprimono vicino alla testa. I differenti geni homeobox si esprimono quindi in fasce ben distinte lungo l'asse antero-posteriore del corpo: rimane da chiarire il meccanismo che regola la loro stessa espressione. 16 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 LA DOMESTICAZIONE Oggi si dà per acquisita la differenza fra specie domestiche e specie selvatiche, ma occorre spiegare meglio il concetto di domesticazione per poter capire l'attuale situazione delle specie (e non solo di quelle produttive) nel mondo intero. Verrà sottolineata nel corso l'importanza antropologica dell'etnozootecnia: capire i tre elementi animale-ambiente-uomo. Il termine "risorse genetiche" è in voga da alcuni anni: si intende con esso tutta la variabilità che esiste all'interno di specie domestiche; "genetiche" sta ad indicare l'origine ed il sistema con cui studiare le risorse: non solo dal lato produttivo, morfologico o addirittura estetico, ma proprio a livello genetico (e quindi, se vogliamo, anche da un punto di vista più scientifico). Cercheremo di vedere il problema dinamico delle specie, e non il vecchio e sicuramente superato concetto zootecnico di razza come qualcosa di statico; resteremo comunque all'interno della suddivisione tassonomica di specie, la quale potrebbe a sua volta non essere considerata statica (ad esempio, vedremo il rapporto fra Bos taurus e Bos indicus, oppure il problema generale di differenziare gli animali in specie come nel caso del cavallo e dei suoi progenitori, ed ancora i rapporti fra il suino domestico ed il cinghiale, o quelli fra i bovidi in genere). Sorgerà la domanda: è giusto considerare la speciazione per eventi zootecnici non ben definiti? Studieremo quali sono le forze in grado di far variare le popolazioni, con enfasi sulla selezione che sottolinea il ruolo dell'uomo nella produzione animale (non solo dunque selezione naturale, ma anche selezione "artificiale", cioè provocata dall'uomo); è la premessa indispensabile allo studio del problema del miglioramento genetico. Capiremo per quali motivi è sorto il problema di conservare le risorse genetiche, e quali sono i metodi adatti per preservarle. Non si parlerà quasi mai del singolo, ma di popolazioni. Che cosa è la popolazione? Come va definita per poterla utilizzare nei nostri studi? Come evolvono le popolazioni? L'etnografia studia la produzione animale nelle sue tre componenti essenziali: uomo, animale ed ambiente. Le risorse genetiche sono le differenze genetiche all'interno della specie. Non si può capire la creazione delle risorse genetiche se non si parte dalla domesticazione: non bisogna credere che la domesticazione si sia verificata su specie "pronte" ad essere domesticate. Prima della domesticazione, l'uomo era legato all'animale solo dai problemi di caccia ("uomo-cacciatore"). La caccia ha avuto ed ha tuttora sovente un ruolo dannoso sulle popolazioni animali, fino addirittura alla distruzione di specie, ma non è stata una forza così potente da determinare spinte evolutive sulle popolazioni (non ha cioè creato dinamiche particolari); forse oggi la caccia può avere degli aspetti selettivi (ad esempio, si cacciano più i maschi delle femmine, oppure più gli adulti dei giovani). Fino a circa 15000 anni fa l'uomo cacciava grandi specie: intervenne un grosso mutamento ambientale. Perché l'uomo è passato dalla caccia alla domesticazione, cioè all'allevamento animale? Comunemente si pensa che l'allevamento sia superiore alla caccia: oggi ciò è vero, ma non lo era allora, basti pensare ad alcuni paesi attualmente in via di sviluppo, dove a volte i cacciatori stanno meglio degli allevatori ed agricoltori (ad esempio, i Boshimani africani), perché si lavora meno, la dieta è più varia, si è meno in balìa di epizoozie ed eventi atmosferici. Un evento simile alla domesticazione degli animali è la "domesticazione" dei vegetali, che interagisce con quella animale: senza certe condizioni agronomiche non si sarebbe infatti potuto domesticare gli animali. Sono esistiti al mondo almeno 6 centri di domesticazione delle piante; la domesticazione degli animali è invece un fatto verificatosi esclusivamente nel medio-oriente, con l'eccezione dell'America latina, dove comunque il ruolo della domesticazione animale è inferiore a quello della domesticazione dei vegetali. Si potrà da questo inizio risalire a come si è popolato il mondo dal punto di vista etnozootecnico. 17 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 La domesticazione e quindi l'allevamento si sono diffusi molto rapidamente nelle popolazioni umane: non si è però trattato di un processo "finalistico". Capiremo perché l'ambiente ha avuto un ruolo fondamentale nella scelta. La domesticazione delle piante è stata più difficile: per molto tempo l'uomo ha domesticato le piante ma senza averne capito il sistema riproduttivo (ancora oggi ci sono, in certe culture, cerimonie e riti di fecondazione della terra); negli animali l'uomo vedeva attuate le sue stesse modalità riproduttive. Oggi ci sono almeno 700-800 piante "domesticate", alcune in maniera molto spinta come nel caso dei cereali, nei quali la variabilità naturale è praticamente scomparsa. Sono individuabili sei centri di domesticazione delle piante. Negli anni '20 Babiloff, un genetista russo scomparso sotto Stalin, ha fissato i concetti di centro di origine e di centro di diffusione. CENTRI DI DOMESTICAZIONE DEI VEGETALI 1- Medio Oriente: frumento, orzo, avena, lenticchia, veccia 2- Africa equatoriale: sorgo, pisello da foraggio 3- Cina: riso 4- Sud Est asiatico: riso, noce di cocco, mango,canna da zucchero, banana 5- America centrale: mais, patata dolce, avocado, papaya, cacao, cotone 6- America meridionale: arachide, manioca, cotone, soia, patata, ananas, tabacco L'uomo è riuscito a domesticare i vegetali autofecondanti: se c'è fecondazione incrociata c'è il problema del reincrocio con varietà selvatiche; questo stesso problema c'è negli animali, ma in questo caso l'uomo è in grado di impedire il reincrocio con i selvatici: ecco perché fino a pochi decenni fa la selezione era stata più attiva sugli animali che sui vegetali. Per gli animali abbiamo due centri di domesticazione: nel medio-oriente sono comparse cinque specie domestiche: cane, bovino, ovino, capra, suino; nelle Ande il porcellino d'India (domesticato a scopo nutritivo), il lama e l'alpaca. La nostra attenzione si focalizzerà sul centro medio-orientale. Circa 20000 anni fa è cominciato il ritiro dei ghiacci dall'ultima glaciazione, ritiro che è tuttora in corso; nella storia della terra ci sono state almeno quattro glaciazioni, intervallate con periodi interglaciali; il ghiaccio arrivava fino a circa metà del Mediterraneo. Si sono alzati i livelli delle acque (la Gran Bretagna e la Sicilia sono diventate delle isole), ed è aumentata la quantità d'acqua a disposizione dei vegetali; le parti libere dai ghiacciai erano prive di boschi, la fauna era molto omogenea: in quel periodo in Italia avevamo animali adesso considerati tipicamente africani ed in America vivevano i cavalli, che successivamente si estingueranno e verranno reintrodotti dagli Europei. L'uomo cacciava i grossi animali con tecniche sofisticate, ma non cacciava uccelli, non pescava, non raccoglieva i vegetali: era un nomade che seguiva gli animali nei loro spostamenti stagionali (sul tipo di quanto attualmente fanno i Lapponi con le renne). L'Europa è interessata da una massiccia riforestazione: sono coperte da foreste tutte le aree mediterranee, comprese le regioni africane attualmente desertiche; al Nord al posto delle foreste abbiamo le praterie. Le specie animali di grossa mole si spostano dal Mediterraneo al Nord, perché adatte alla vita in spazi aperti e non a quella nei boschi (ad esempio, il bisonte europeo, attualmente in Polonia). L'uomo non caccia più solo i grossi animali, ma diventa un cacciatore a largo spettro (avifauna, pesca); impara a cibarsi di vegetali ed animali attraverso la raccolta (ad esempio molluschi). In genere un maggior 18 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 utilizzo di vegetali diventa sinonimo di un periodo di "decadenza": dai resti umani si nota una "decadenza" fisica dell'uomo in questo periodo; è il periodo mesolitico, che segna il passaggio dal paleolitico al neolitico, l'epoca della domesticazione. Con la caccia l'uomo comincia ad essere dannoso per alcune specie, già minacciate dai mutamenti ambientali (in Nord America scompaiono almeno trenta specie selvatiche, come il cavallo, la pecora, la capra, il cinghiale). La domesticazione comincia come un affinamento della caccia; per avere la domesticazione l'uomo deve adattarsi ad una vita sedentaria (8000-9000 anni fa), come nel neolitico, nella zona medio-orientale (a Gerico ci sono strutture murarie che risalgono all'8000 a. C.). L'uomo era "immobile" e cacciava animali "immobili". Non è stato l'animale a spingere l'uomo a diventare allevatore; all'inizio ci saranno state tecniche miste tipo la transumanza, dove le donne, i bambini ed i vecchi restavano nei villaggi e gli adulti andavano con gli animali. Perché l'uomo ha cambiato il suo sistema di vita e quali sono state le conseguenze? L'uomo aveva grandi disponibilità di cereali nelle zone ricche d'acqua (ancora oggi è una situazione osservabile in alcune aree dell'Anatolia), per cui non era più costretto a spostarsi per l'esaurimento delle risorse locali. Sembra che all'epoca il grano crescesse continuativamente (ai tempi dei Romani venne selezionato quello che matura in un periodo particolare), e forse lo stesso accadeva con gli altri cereali. Solo 3000-4000 anni dopo la immobilizzazione degli animali compaiono specializzazioni economiche e produttive degli animali stessi (lavoro, trasporto, fibre, mungitura): siamo intorno al 4000-3000 a. C.; in medio-oriente compaiono i segni diretti della domesticazione (non ci si basa più solo sulla struttura delle ossa ma compaiono finimenti, ricoveri, mangiatoie, abbeveratoi, aratri metallici fatti per il traino animale). L'uomo capisce di poter manipolare aspetto e produttività degli animali (selezione): si vedono consigli in opere greche e latine (il cavallo veloce è sauro, le pecore incrociate fanno lana più fine, il cane nero è più aggressivo). Un'eccezione è la domesticazione del cane: all'inizio forse il termine "domesticazione" era improprio; probabilmente il rapporto cane-uomo è molto antecedente il neolitico (si rinvengono resti di cani domestici vissuti in Nord America prima che in medio-oriente, datati 9000 a. C. al C14). I cani sono arrivati in Nord America con l'uomo, attraverso l'Asia (la possibilità di attraversare lo stretto fra Siberia ed Alaska si è interrotta almeno nel 16000-15000 a. C.). Si trattava di un caso di simbiosi uomo-progenitore selvatico del cane (il lupo: non può essere accettata la teoria polifiletica dell'etologo Konrad Lorenz che voleva per antenati il lupo e lo sciacallo); probabilmente era un lupo asiatico e non il lupo europeo. Forse il lupo si è avvicinato in modo non aggressivo (grazie alle strutture sociali del branco) e/o l'uomo ha allevato cuccioli orfani, oppure il lupo agiva da "spazzino" intorno ai villaggi. Molto rapidamente la simbiosi si è trasformata in vera domesticazione. In Australia c'è il dingo, un canide che rappresenta il ritorno allo stato selvatico di un cane domestico: è arrivato con l'uomo forse nel 35000-30000 a. C.. La domesticazione non è una simbiosi: c'è una prevaricazione sulla specie domesticata, la quale può comunque trarre vantaggi, ma a prezzo di maggiori svantaggi (ad esempio, viene cibata ma è confinata); la domesticazione non è un parassitismo assoluto: è un parassitismo relativo. La domesticazione si ha quando un'altra specie (domesticante) controlla le modalità riproduttive della specie domesticata; il rapporto può variare nel tempo e nelle culture, ma vantaggi e svantaggi si ritrovano sempre, in tutte le situazioni (basta pensare all'attuale allevamento intensivo ed all'allevamento durante la mezzadria). Sono domesticate non solo specie di mammiferi, ma anche pesci, insetti (ad esempio il baco da seta, non completamente l'ape). La domesticazione non è un evento "tutto o nulla", ma ha gradazioni: vedi l'elefante asiatico (lavora, ma non si riproduce in cattività). L'importanza di ottenere la riproduzione di specie selvatiche in giardini zoologici e parchi: è alla base di una possibile domesticazione. Il cane si è rapidamente specializzato: la lotta ai predatori è stata la prima specializzazione (difesa delle greggi da lupo ed orso: ad esempio, il pastore maremmano-abruzzese, bianco per mimetizzarsi con la neve), poi animale da caccia (la 19 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 caccia aveva ancora un fondamentale ruolo economico). Per tutte le specie ad eccezione del cane la domesticazione non è iniziata in maniera così poco traumatica. L'uomo controllava la riproduzione: lo capiamo dal fatto che si mantenevano delle mutazioni non dotate di "fitness", come l'assenza di corna negli erbivori (che in natura servono soprattutto per la riproduzione). Qual è stato l'impatto della domesticazione sull'aspetto genetico degli animali? Non ha portato nulla, ma si sono mantenute le mutazioni comparse nei selvatici; la domesticazione ha reso "viabili" le mutazioni, ed ha aumentato il numero di animali presenti in uno spazio ristretto. Non aumenta il tasso di mutazione, ma aumentano i soggetti mutati. Il neolitico è una cultura ancora presente in alcune popolazioni africane (alcune sono addirittura allo stato preneolitico): si parla del neolitico medio-orientale (da 8000 a 5000-4000 anni a. C.). Il neolitico si ha quando ci sono quattro condizioni: vita sedentaria, agricoltura, allevamento e capacità di costruire oggetti in ceramica. In Europa come è arrivata questa domesticazione? O con una trasmissione "demica" o con una trasmissione "culturale", cioè o con il trasferimento dell'uomo stesso o con la trasmissione del sapere (culturale); sicuramente ci sono stati fenomeni demici, poiché il miglioramento della vita dell'uomo ha consentito incrementi demografici con conseguenti spostamenti migratori; ci sono anche stati trasferimenti culturali con il commercio (l'uomo si spostava molto rapidamente nel Mediterraneo con la navigazione: l'ossidiana, prodotta in poche zone, si ritrova quasi ovunque); la trasmissione culturale spiega la domesticazione in grandi isole come Corsica e Sardegna, nelle quali l'allevamento compare nello stesso tempo che sul continente (il muflone probabilmente non è una specie selvatica ma una specie domestica rinselvatichita); in Sardegna ed in Corsica non ci sono resti di ovini selvatici nel paleolitico, poi compaiono improvvisamente (5000 a. C.) i resti del muflone nel neolitico (l'uomo arriva portandosi dietro un animale domestico e poi l'isolamento geografico ha dato all'ovino la possibilità di ritornare anche allo stato selvatico). A volte nel neolitico non ci sono tutti i 4 segni: in Provenza non c'è sedentarietà, nel Nord Europa non c'è ceramica. C'è un po' un concetto di "frontiera" fra paleolitico e neolitico; ci sono due possibilità di contatto fra neolitico e culture precedenti; la possibilità statica: il neolitico prevale oppure viene ricacciato; la possibilità dinamica (frontiera "porosa"): interscambi fra le due culture. Anche gli attuali modelli di vita non sono stati imposti culturalmente ma politicamente. La via è stata medio-oriente, Turchia, Grecia, Balcani, Europa centrale e da lì in Italia ed in Europa orientale; pochissimi i reperti in Africa, nonostante fosse all'epoca una terra rigogliosissima (almeno altri sette fiumi grandi come il Nilo). LA DOMESTICAZIONE DELL'OVINO. La pecora domestica (Ovis aries) è stata domesticata in Medio-Oriente nell'ambito delle culture neolitiche comparse sulla terra intorno all'8000-7000 a.C.. Ancora oggi non è stato del tutto chiarito quale sia stato il progenitore selvatico. La pecora domestica ha un corredo cromosomico 2n=54; le pecore selvatiche presentano invece un polimorfismo che varia da 2n=58 (urial: Ovis vignei) a 2n=52 (pecora delle nevi: Ovis nivicola), passando per 2n=56 (ammone o argali: Ovis ammon) e per 2n=54 (muflone orientale o di Cipro: Ovis orientalis): non è incluso in questo elenco di pecore selvatiche il muflone sardo-corso (Ovis musimon, 2n=54), in quanto si tratta probabilmente di una pecora rinselvatichita. La variazione del numero di cromosomi non aiuta nell'identificazione del progenitore selvatico in quanto il numero di braccia fondamentali è lo stesso in tutte le specie: la riduzione del numero è dovuta a fusioni centriche (o traslocazioni robertsoniane) con le quali da due cromosomi acrocentrici si ha il riarrangiamento in un cromosoma metacentrico o submetacentrico. Delle specie selvatiche citate sia l'urial che l'ammon-argali che il muflone orientale potrebbero essere il progenitore selvatico o direttamente (cioè da specie selvatica a specie domestica) o 20 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 indirettamente (cioè attraverso specie intermedie): la pecora delle nevi, oltre che per il numero dei cromosomi, è da escludere perché localizzata solo nelle Americhe. Lo scopo della domesticazione è stato, nelle fasi iniziali, il miglioramento dei metodi di caccia, dato che tutte e tre le specie selvatiche menzionate erano ampiamente cacciate dalle popolazioni locali. Nell'evoluzione della pecora domestica ha però giocato un ruolo fondamentale la comparsa del carattere lana, cioè la trasformazione del classico mantello degli animali domestici in un vello per la produzione di fibra adatta alla tessitura; questa trasformazione è comparsa in epoca preistorica o protostorica ed ha interessato quasi tutta la specie (attualmente il 10% ca. delle pecore, per lo più quelle che vivono in regioni tropicali, ha mantello non lanoso). Nelle pecore selvatiche il mantello è costituito da un doppio strato: quello interno lanuginoso e quello esterno giarroso; si hanno grossi follicoli primari e pochi follicoli secondari: sono questi ultimi che producono la lanugine che poi diventerà l'attuale lana. Inizialmente non si modifica il colore e la muta, ma diminuisce la differenza fra lanugine e giarra (soay lanosa e soay pelosa, che vennero portate nel nord dell'Inghilterra circa 1500 anni dopo la loro comparsa in medio-oriente). Forse l'uomo venne stimolato a considerare la lana dall'osservazione del feltro che si accumulava sui cespugli e sugli arbusti dove gli animali, durante il prurito dato dalla muta, si strofinavano. Nel 2000 a. C. in Mesopotamia compare la richiesta di lana con prezzi diversi a seconda della finezza. L'attuale Merinos ha tutte fibre di lana, senza midollo, con diametro sui 22-25 µm. Probabilmente per arrivare alla merinos l'uomo ha utilizzato inizialmente due mutazioni: - mutazione angora, che dà filamento morbido, elastico e lungo; - mutazione rex, i follicoli sia primari che secondari danno lo stesso tipo di filamenti; e successivamente altre due mutazioni: - mutazione merinos; - mutazione permanenza dell'accrescimento (scomparsa della muta), la quale venne ovviamente fissata solo quando c'erano degli utensili adatti per sfruttarla, cioè le cesoie (prima i peli si ricavavano pettinando gli animali oppure venivano strappati). Il colore è progressivamente cambiato fino al bianco delle produttrici di lana; un ruolo potrebbero aver avuto i Fenici, che utilizzavano il rosso porpora ricavato dai murici: quando si è in grado di impregnare una fibra per colorarla, allora diventa importante che la fibra sia bianca. Nell'età del bronzo le pecore sono ancora pigmentate (i manufatti di quest'epoca erano neri o grigi). Vennero selezionate anche altre mutazioni, simili alla soay pelosa, con peli eterotipici (simili alla giarra, ma senza muta): pecore per lana da tappeto o semplicemente pecore da carne. Un altro carattere che ha giocato un ruolo importante nell'evoluzione della specie è l'accumulo di grasso nella coda e/o nella regione lombo-sacrale; comparso probabilmente in Medio-Oriente verso il 3000 a.C., tale carattere è stato poi ampiamente diffuso in tutte le regioni dove l'apporto calorico della dieta umana è basato essenzialmente su grassi animali e dove non sia possibile allevare suini. Attualmente pecore a coda e/o groppa grassa vivono in diverse regioni africane ed asiatiche; in Italia due razze (la Barbaresca e la Laticauda), di probabile origine africana, conservano un rudimento di questo carattere. Minore importanza rispetto al bovino ed alla capra ha invece avuto la produzione di latte: ancora oggi le razze da latte sono caratteristiche del bacino mediterraneo. LA DOMESTICAZIONE DELLA CAPRA. La capra, così come la pecora, sembra discendere filogeneticamente da un capostipite (genere Tossunnoria) vissuto in Cina circa 10 milioni di anni fa (Pliocene inferiore). Le diverse forme selvatiche del genere Capra vivono esclusivamente nelle montagne dell'Eurasia e del Nordafrica: a questo genere appartengono anche lo stambecco delle Alpi (Capra ibex) e lo stambecco dei Pirenei (Capra pyrenaica). La capra domestica (Capra hircus) deriva dall'egagro o capra del Bezoar (Capra aegagrus), diffuso in Asia Minore, a Creta, in alcune 21 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 isole greche: le capre selvatiche presenti attualmente in altre isole del Mediterraneo sono da considerare come capre domestiche rinselvatichite. Le capre dell'Himalaya deriverebbero invece dal markor o capra di Falconer (Capra falconeri). Si pensa che la sua domesticazione possa essere addirittura precedente a quella del bovino (IX millennio a.C., in Iran occidentale; VII millennio a.C., a Gerico in Palestina). Abbiamo rappresentazioni di capre sull'isola di Creta risalenti alla civiltà minoica (2000-1100 a. C.) dove si vedono due capre trainare un cocchio, ed un papiro egiziano dove si vedono delle capre che sono sicuramente domestiche perché hanno il mantello pezzato. Il fine della domesticazione era la produzione di carne e di latte, ma anche la produzione di pelliccia (era richiesto il tipo selvaggio) ed attualmente quella di fibre (Angora in Sud-Africa, Kashmir in Asia centrale). Le somiglianze con la pecora rendono difficili alcune interpretazioni fossili. Sono stati più volte segnalati degli incroci della capra con la pecora, (incroci comunque infecondi). LA DOMESTICAZIONE DEL BOVINO. Per il bovino le prime testimonianze archeologiche sono contemporanee a quelle della pecora e sono medio-orientali (in realtà la più antica in assoluto è in Grecia, ad Argìssa Màcula, vicino Salonicco: circa 6000 a. C.). Per stabilire la domesticità nel bovino si fa riferimento alla struttura ed alla densità delle ossa lunghe: con la domesticazione si ha rarefazione dell'osso e variazioni nella trabecolatura. Le datazioni sono basate sul decadimento del C14, con errori in più o in meno di circa 150 anni (più il campione è vecchio e più la datazione è precisa). Una volta per il bovino si sosteneva una teoria polifiletica, cioè con diverse specie selvatiche progenitrici: forse si era influenzati dalla grande variabilità morfologica delle razze oggi esistenti. Attualmente si dà per certa la discendenza del bovino dal Bos primigenius o uro, una specie oggi estinta; l'uro è originario dell'India e comparve in Germania 250000 anni fa, prima della glaciazione di Riss; l'estinzione avvenne nel 1627 in Polonia, in una foresta a 55 Km da Varsavia: era una specie molto cacciata, già in epoca romana, non a scopo alimentare ma perché rappresentava un trofeo prezioso (nelle civiltà "barbare" venivano utilizzate le corna per elmi, corni, boccali, corone); già in epoca romana l'uro viveva ai confini dell'impero. Tacito descrive l'incontro dei Romani con l'uro nelle foreste germaniche. Si trattava di una specie grande, simile agli odierni bovini podolici, dal mantello molto scuro e lunghe corna a lira; è l'animale raffigurato nella grotta di Lascaux. Sorge una domanda: come si è potuto domesticarlo e modificarlo rapidamente? Infatti i primi bovini domestici sono piccoli, e nella classificazione dello svizzero Rutimeyer si pensava ad una vera e propria specie diversa, il Bos brachyceros, dalla quale si faceva derivare la Bruna-alpina: veniva anche chiamato "bovino delle miniere di torba", dai numerosi siti svizzeri dove venne rinvenuto; la torba ha ottime capacità di conservazione. Tutti i bovini sono derivati dall'uro: come si spiega l'improvvisa variazione di dimensioni? Probabilmente le condizioni di vita di questi animali all'inizio della domesticazione erano molto dure, a causa della scarsa disponibilità di cibo: il confinamento impediva all'animale di procurarselo da solo e l'uomo non ne forniva abbastanza; questo fenomeno della riduzione improvvisa e drastica della taglia degli animali si ritrova in tutte le specie domesticate in questo periodo. La classificazione craniologica del Rutimeyer è da ritenersi ancora valida, tenendo però presente che non si tratta di vere e proprie specie come presupponeva lo studioso svizzero ma di "linee" (se non le consideriamo più delle vere specie, forse sarebbe meglio sostituire al termine Bos il termine "tipo"): - Bos brachyceros: a cranio leggero, da cui deriva la Bruna-alpina; - Bos primigenius: ha dato origine alle razze simili all'uro (podoliche e derivate, la razza greca isca, l'ungherese grigia delle steppe, alcune razze yugoslave, albanesi, francesi, spagnole); 22 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 hanno tutte il caratteristico mantello fromentino che diventa bianco con l'età, corna sviluppate e cranio pesante; - Bos frontosus: che ha dato origine alla Simmental e derivate, con corna di vario portamento. Altri autori hanno provato ad individuare altri tipi, come il longifrons, l'acheratos, ma non c'è stato un seguito scientifico: ad esempio, per l'acheratos si può dire che l'assenza di corna è una mutazione genetica dominante facilmente osservabile e che è stata selezionata in diverse razze ("polled" shorthorn, hereford, ma anche nella frisona e nella charolaise). L'opinione attuale è che l'uro sia da considerare anche il progenitore dello zebù; all'interno del genere Bos si hanno le specie B. taurus e B. indicus (lo zebù), con i "sanga", che sono degli intermedi fra bovini e zebuini diffusi in Africa, nell'area centrale di passaggio fra i bovini (diffusi al Nord) e gli zebuini (diffusi al Sud). L'uro da cui sono originati i bovini viveva nel medio-oriente, quello da cui sono originati gli zebuini secondo alcuni in Africa e secondo altri in India-Pakistan. Inizialmente l'uro fu domesticato per poter essere cacciato meglio; era un animale tipicamente boschivo, e quando le foreste si ritirarono al Nord l'uro abbandonò il bacino del Mediterraneo. Verso il 3000 a. C. compaiono segni di nuove utilizzazioni: compare la mungitura (c'è una raffigurazione di un uomo che munge nella civiltà cretese, nel palazzo di Cnosso); Greci ed Egiziani praticavano la caseificazione: non si trattava di un animale specializzato però per la lattazione, il latte era una specie di "sottoprodotto"; la seconda specializzazione era quella del lavoro che, anche attualmente, è la specializzazione del bovino più diffusa a livello mondiale (Asia, Africa, Sud-America): si trattava quindi di un animale "a triplice attitudine". Che rapporto c'è fra bovino e cavallo intesi come animali da lavoro? Il bovino era l'animale da lavoro delle zone povere, il cavallo di quelle ricche (TPR in pianura padana). Un altro esempio è dato dal cavallo Murgese delle Puglie: l'economia ricca della zona favorì la comparsa dell'equino da traino, mentre in tutto il Sud-Italia c'erano bovini da lavoro; una situazione analoga in Francia: al Nord il Percheronne, al Sud il bovino Limousine. La carne veniva ricavata da animali a fine carriera. Rispetto al cavallo, il bovino forniva del latte, aveva bisogno di meno cure, in fatto di cibo era meno esigente e la sua attività riproduttiva più efficiente: questo lo rendeva superiore al cavallo in un'economia di sussistenza. La possibilità di aggiogare gli animali all'aratro fece enormemente aumentare le rese in agricoltura e portò all'uso dei buoi. Si tenga presente che, nell'antichità e fino all'Alto Medio Evo, l'importanza degli animali da lavoro era inferiore a quanto comunemente non si creda: e questo perché fino alla comparsa di industrie "pesanti" la richiesta di forza-lavoro non era esasperata, perché la forza-lavoro del cavallo e del bovino non veniva correttamente sfruttata, perché gli schiavi erano economicamente competitivi con i grandi animali. Le razze bovine specializzate per la produzione di carne e di latte sono comparse molto recentemente: negli ultimi 100-150 anni quelle da latte (anche se già nel XVII secolo in Olanda c'erano bovine famose per il latte), nella metà del XVIII secolo quelle da carne (in Inghilterra: Shorthorn, Aberdeen Angus); dell'opera degli allevatori inglesi si conosce praticamente tutto: lavorarono con la consanguineità, spingendola anche a punte del 40% (oggi si ritiene rischioso andare oltre il 5%), con conseguenti cadute della fertilità. Il bisonte non è mai stato domesticato, ma è stato utilizzato in incroci con il bovino domestico (beefalo o cattalo) incrociando la femmina con tori derivati da varie razze (Shorthorn, Angus, S. Gertrudis). LA DOMESTICAZIONE DEL SUINO. I primi reperti archeologici di animali del genere Sus risalgono all'Eocene ed all'Oligocene (Era Terziaria, 20-13 milioni di anni fa). Fra le diverse specie è quella sulla cui domesticazione persistono più dubbi: da quale progenitore selvatico deriva? In quale zona geografica è stato domesticato? 23 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Alcuni autori distinguono due differenti specie: il suino selvatico (Sus scrofa) ed il suino domestico (Sus domesticus); altri autori ritengono invece che il suino domestico vada classificato nella stessa specie del selvatico (Sus scrofa domesticus). La specie selvatica viene distinta in una serie di varietà geografiche, che inizialmente furono considerate delle specie differenti. Il numero diploide di cromosomi delle varietà selvatiche non è costante: in alcune 2n=36, in altre 2n=38, in altre si ha polimorfismo addirittura nella stessa popolazione. Per maggior precisione si può affermare che le popolazioni a 36 cromosomi si trovano in Medio Oriente ed in Europa, mentre quelle a 38 cromosomi si trovano in Asia orientale (Cina, etc.): in realtà i 36 cromosomi hanno lo stesso numero di braccia, e quindi la stessa informazione genetica dei 38 cromosomi: si è verificata una traslocazione robertsoniana (fusione centrica fra due cromosomi acrocentrici, il cui risultato è un cromosoma metacentrico).(1) Le testimonianze archeologiche più antiche di suino domestico sono state rinvenute in Medio Oriente (7500-6000 a.C.): in tali zone non esistono però varietà selvatiche di suini che abbiano un numero di cromosomi pari a quello del suino domestico (2n=38). Tutte le varietà selvatiche medio-orientali sono caratterizzate da 2n=36: poiché non conosciamo un meccanismo che possa far aumentare il numero dei cromosomi come in questo caso (da 36 a 38), come si può spiegare la derivazione del suino domestico da quello selvatico medioorientale? Forse la domesticazione è avvenuta in Cina e non in Medio Oriente (10000 a.C.): in quella regione le varietà selvatiche hanno 38 cromosomi, ma non sono state rinvenute testimonianze archeologiche a conforto di questa ipotesi. Un'altra ipotesi, probabilmente più plausibile, è che nel passato in Medio Oriente ci siano state delle varietà selvatiche con numero di cromosomi 2n=38, e che da queste varietà siano derivati i suini domestici; queste varietà selvatiche potrebbero in seguito essersi estinte oppure essere andate incontro alla traslocazione robertsoniana (che invece non avrebbe interessato il suino domestico). Il suino, a differenza della maggior parte delle altre specie domestiche, ha sempre avuto una sola specializzazione: fornire all'uomo carne e, soprattutto in passato, grasso; si tenga però presente che le possibilità di conservazione della carne erano inizialmente limitate all'essiccamento ed all'interramento. La domesticazione ridusse inizialmente la mole dell'animale, che cominciò ad aumentare a partire dall'età imperiale romana: una nuova riduzione di mole si ebbe nell'Alto Medio Evo. Per i Greci ed i Romani non era certo l'allevamento più importante (più importanti ovini, bovini, api): abbiamo comunque molte ricette a base di maiale (vulva e mammella di scrofa); più importante era l'allevamento nelle Gallie. La stessa evoluzione dell'allevamento di questi animali ha sempre avuto una linea costante in stretto equilibrio con l'ambiente (cfr. l'Odissea: allevamento semibrado in boschi di quercia con uomini e cani per la guardia, porcilaie per i parti e la brutta stagione). Tutto ciò si è verificato fino a 100-200 anni fa, quando ha cominciato a svilupparsi un allevamento estremamente intensivo. Osservando l'evoluzione dell'allevamento del suino nei secoli è possibile rilevare un andamento parallelo allo sviluppo del bosco e del manto forestale. Lo sfruttamento intensivo di tali zone con tecniche agricole sempre più affinate e l'incremento (1) Il riarrangiamento del numero di cromosomi è un evento estremamente frequente negli animali domestici (pecora, bovino), ed è probabilmente alla base di numerosi processi evolutivi. Nel bovino è particolarmente frequente la traslocazione 1-29: venne inizialmente considerata un'anomalia, con conseguente eliminazione dalla riproduzione dei portatori; in realtà: 1)- non viene perduta alcuna informazione; 2)- probabilmente sui cromosomi interessati non si trovano geni che controllano caratteri produttivi importanti per l'animale. Un possibile problema dei traslocati è la formazione di gameti sbilanciati nel numero di cromosomi, con conseguente ipofertilità. Nel complesso, si tratta di una traslocazione perfettamente compatibile con la linea evolutiva della specie (probabile progressivo passaggio del bovino da 60 a 58 cromosomi). 24 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 della pressione demografica portano gradualmente ad un impoverimento del suolo ed alla desertificazione. Scomparse le foreste e ridotta la disponibilità alimentare, il suino entra in competizione alimentare diretta con l'uomo. L'allevamento del suino, fra l'altro non giustificato da altre esigenze (lavoro, etc.) diventa svantaggioso per l'uomo che comincia quindi a vietarlo adducendo motivazioni religiose (impurità della carne nella religione ebraica e musulmana). La religione assicura l'astinenza da questa carne "sconveniente" anche della gente più povera. Gli Egiziani identificarono Set, il dio del male, nel suino già nel 2000 a.C.: l'allevamento del suino da parte di una casta a parte continuò fino alla conquista islamica; gli animali pascolavano lungo il limo del Nilo insieme ai cavalli, per ridurre il rischio di epizoozie. Differente è l'evoluzione dell'allevamento suinicolo in Europa, dove rimangono vaste zone boschive, habitat ideale del suino. Anche in Europa l'allevamento del suino raggiunge i livelli più elevati quando le condizioni ambientali e sociali fanno prevalere il bosco sulle zone coltivate. L'allevamento del suino era molto diffuso nell'Alto Medio Evo, quando apposite leggi regolavano l'uso del bosco da parte dei suini. Vi era un allevamento di grandi branchi, di proprietà dei signori e quello piccolo, colonico, integrato dagli scarti della mensa umana. Nel Medio Evo, soltanto dopo l'origine dei primi villaggi l'allevamento suinicolo era enormemente diffuso in un habitat ideale rappresentato da boschi e foreste (carico ca. 1 animale/ettaro, età alla macellazione 12-24 mesi, resa in carne del 60% ca., pari a 60-70 Kg). Con un andamento altilenante questo stretto rapporto suino-bosco si trascina fino a circa 200 anni fa, quando il perfezionamento delle tecniche agricole porta ad una enorme disponibilità di cereali con una brusca caduta dei prezzi di mercato. Nasce così la convenienza di convertire alimenti vegetali in carne, alimento dal costo più elevato; è la convenienza ad allevare non più per sé ma per il mercato: scompare l'importanza dell'equilibrio con l'ambiente (allevamento intensivo). In realtà tutto questo si verificò 200 anni fa solo nei paesi nordici (Olanda, Danimarca, Inghilterra, etc.), più ricchi ed evoluti, i quali hanno dato origine successivamente alle razze più produttive (Large White, Landrace): nei paesi dell'Europa meridionale il cambiamento fu molto più tardivo, mentre nei paesi in via di sviluppo il rapporto suino-bosco è rimasto fino ad oggi. Il Large White fu importato in Italia nel 1872. Morfologicamente il suino ha conservato un aspetto estremamente simile al cinghiale fino a quando è vissuto a stretto contatto con il bosco: ciò soprattutto a causa dell'accoppiamento con il progenitore selvatico che viveva nello stesso habitat; le differenze morfologiche sono comparse negli ultimi 200 anni: accorciamento del grugno, prevalente sviluppo del treno posteriore (mentre nel cinghiale è più sviluppato l'anteriore); in linea generale, andando da Occidente ad Oriente si nota che il cranio (soprattutto le ossa lacrimali) diventa più corto e più alto; altri segni della domesticazione sono la mancata eruzione del I premolare inferiore (già presente in epoca romana), la coda arricciata, le orecchie pendenti, le setole più fini e più rade, le colorazioni non mimetiche, la pelle sottile. LA DOMESTICAZIONE DEL CAVALLO. Lo sviluppo filogenetico degli equidi è uno dei meglio conosciuti (cfr. l'opera del paleontologo americano Marsh). La distribuzione degli equidi selvatici, seppur continua, raramente sembra presentare sovrapposizioni. L'Eurasia del nord era popolata dal cavallo, il Medio Oriente e l'Asia centrale principalmente dall'onagro, l'Africa del Nord-Est dall'asino e la restante parte del continente dalla zebra: questo ha portato ad identificare centri di domesticazione distinti per le diverse specie. Le zebre non sono mai state domesticate; si tratta di tre specie diverse: Equus burchelli o zebra di Grant (2n=44, con striature larghe, la più diffusa, presente in Africa centrale), Equus grevyi o zebra di Grevy (2n=46, con striature sottili, la più grande, diffusa nell'Africa nordorientale) ed Equus zebra o zebra di montagna o zebra di Hartmann (2n=32, la più piccola, 25 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 con giogaia e con striature che sulla groppa formano una specie di triangolo, presente nell'Africa del Sud, ormai rara). Gli ibridi delle zebre con gli altri equidi prendono il nome di zebroidi. Il quagga era una zebra dell'Africa meridionale, estinta nel 1883 dagli Europei nel tentativo di affamare gli Zulù; aveva il mantello bruno con striature solo nella parte anteriore del corpo. L'asino (Equus asinus, 2n=62) probabilmente fu addomesticato nel Nord-Est dell'Africa intorno al 4000 a.C.; in Europa venne introdotto dagli Etruschi nel 2000 a.C.. L'onagro (Equus hemionus, 2n=56), ampiamente diffuso e per questo conosciuto con diversi altri nomi (emione, kiang, dziggetai, kulan), fu domesticato in Medio Oriente intorno al 3000 a.C. e sembra che i primi "muli" comparsi intorno al 2000 a.C. fossero ibridi fra onagri ed asini domestici. Sappiamo che i Romani utilizzavano nei circhi "muli" ricavati dall'incrocio onagro x cavalla. I primi reperti archeologici del cavallo domestico (Equus caballus) sono stati rinvenuti in Ucraina: si tratta di scheletri di animali presunti domestici del 2500 a. C., utilizzati sembrerebbe a scopo religioso. Si ritiene tuttavia che la domesticazione del cavallo sia avvenuta altrove, probabilmente in Asia centrale, da parte di tribù mongole, le quali non allevavano pecore in maniera stanziale ma nomade. Il nomadismo era indispensabile per le caratteristiche climatiche ed ambientali della zona, con periodi di siccità per gran parte dell'anno. Il cavallo permetteva in questo contesto una maggiore facilità di spostamento. Si può pertanto ritenere che i reperti ucraini siano successivi, ed infatti l'utilizzo a scopo religioso degli animali è in genere successivo alla domesticazione. I cavalli sono per la prima volta citati in un editto dell'imperatore cinese del 3468 a.C. ed in tavolette degli Ittiti databili 3400 a.C.. Non si hanno ormai più dubbi nell'individuare il progenitore selvatico del cavallo: è identificato nell'Equus prezwalski, rinvenuto in Mongolia nel 1879, che ha un numero di cromosomi 2n=66 (il cavallo domestico ha 2n=64); gli incroci fra cavallo domestico e cavallo di Prezwalski sono indefinitamente fertili. E' invece scartata l'ipotesi che identificava il progenitore selvatico del cavallo domestico nel tarpan, estintosi in Ucraina nel 1879 (i "tarpan" oggi esistenti sono stati "ricostruiti" accoppiando razze di cavalli domestici). Sicuramente da ricusare è l'ipotesi polifiletica, secondo la quale alla base dell'odierno polimorfismo (dal pony all'animale da tiro) ci sono diversi progenitore (cfr. la domesticazione del cane e del bovino). Sin dall'inizio il cavallo venne domesticato per il trasporto, sia diretto che da traino (veicoli a ruota da poco scoperti): sostituisce l'onagro, diffusamente utilizzato a questi scopi. Un'ulteriore diffusione della specie si ebbe con il suo utilizzo a scopo bellico: inizialmente il cocchio e poi la monta diretta consentirono un'incontrastabile supremazia bellica alle popolazioni che cominciavano ad utilizzarli. Più tardivamente, e solo in zone ricche ed avanzate, cominciò anche l'utilizzo agricolo del cavallo: nelle zone più povere si continuò a preferire il bovino. Culturalmente poco diffuso è il consumo di carne equina. Importante è anche l'ibrido interspecifico fra l'asino e la cavalla: il mulo. In alcuni ambienti geografici, come ad esempio gli Stati Uniti, c'è stata una netta predilezione per il mulo nei lavori agricoli. L'incrocio fra cavallo ed asina è detto bardotto. Mulo e bardotto sono generalmente sterili, ma almeno un caso di mula fertile scientificamente controllato è stato segnalato nel 1981 (la mula aveva prodotto un gamete con tutti cromosomi di cavallo, il che si 32 verifica 1/2 volte: il prodotto era un mulo, e nonostante il padre del prodotto fosse anche padre della madre il prodotto stesso è da ritenersi non consanguineo). Bisogna sottolineare che la domesticazione del cavallo è avvenuta circa 4000 anni dopo quella dei primi animali; l'uomo ha ormai fatto proprie le tecniche di domesticazione e sceglie quindi gli animali da domesticare in maniera finalizzata, secondo i propri scopi (nel caso del cavallo per il trasporto). La domesticazione "conscia", cioè "finalizzata", porterà intorno allo stesso 26 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 periodo a domesticare altri animali "finalizzati": il dromedario, il gatto (per la difesa dei granai in Egitto). Nel complesso possiamo quindi distinguere due fasi: 1)- domesticazione "improvvisata", quasi una continuazione della caccia, finalizzata esclusivamente alla fornitura di carne; 2)- domesticazione "conscia", cioè "finalizzata", che comincia con il cavallo e continua con altri animali fino ad arrivare a quelli domesticati per soli scopi estetici (scimmie, etc.). La domesticazione rimane ancora un processo dinamico che, proprio perché dinamico, può avvenire in entrambi i sensi: gli animali verso i quali l'uomo non ha più interesse tornano a rinselvatichirsi (ad esempio, nel cavallo, i mustangs americani ed i brumby australiani). LA DOMESTICAZIONE DEL CANE. Per molto tempo si è discusso su quale fosse stato il progenitore selvatico del cane domestico: alcuni autori ritenevano che esso derivasse dallo sciacallo (Canis aureus L.) mentre altri affermavano che derivasse dal lupo (Canis lupus L.). L'etologo Konrad Lorenz, nel suo libro "E l'uomo incontrò il cane" (1950) ipotizza l'inizio della domesticazione dello sciacallo, che secondo l'autore (premio Nobel per la medicina nel 1973) è, insieme al lupo, il progenitore selvatico del cane. Inizialmente l'uomo fornì cibo allo sciacallo, in modo tale che rimanendo vicino ai suoi accampamenti di notte assicurasse una forma di vigilanza; in seguito lo sciacallo potrebbe aver seguito l'uomo nella caccia, con una forma di simbiosi: l'uomo sfruttava il fiuto dell'animale, lo sciacallo riceveva parti di prede che probabilmente non sarebbe in stato di sopraffare senza l'uomo; in seguito, un bambino potrebbe aver adottato un cucciolo orfano che, diventato adulto, avrebbe riconosciuto come padrone il capofamiglia: questi, individuando dei vantaggi nel comportamento dell'animale domesticato rispetto al selvatico, avrebbe deciso di adottare altri cuccioli. In base al comportamento, Lorenz distingue fra cani "lupini" e cani "aureus", rispettivamente con preponderanza di sangue di lupo o di sangue di sciacallo: i lupini (generalmente razze nordiche come eschimesi, samoiedo, laika) identificano nell'unico padrone il capobranco, gli aureus possono ammettere più di un padrone ed anche da adulti si comportano nell'uomo come un cucciolo con i genitori. L'origine polifiletica proposta da Lorenz è senz'altro da rifiutare. Attualmente, sulla base dell'analisi comparativa degli elementi morfologici e fisiologici, si ritiene che l'unico progenitore selvatico sia stato il lupo. La domesticazione di giovani lupi avviene del resto senza particolari difficoltà, soprattutto per quel che riguarda le sottospecie di mole più ridotta, quali il Canis lupus pallipes Sykes, diffuso in Iraq ed in India, ed il Canis lupus arabs Pocok, diffuso in Arabia; molto meno semplice risulta invece la domesticazione delle sottospecie di mole maggiore diffuse nell'emisfero nord: tali varietà avrebbero quindi avuto un ruolo minore delle prime nella domesticazione del cane. L'addomesticamento ha provocato nel lupo una serie di modificazioni anatomiche: molto evidenti, ad esempio, quelle a carico dei denti; nel lupo, animale esclusivamente carnivoro e dedito alla caccia, la lunghezza del canino superiore è maggiore della lunghezza complessiva dei due molari: nel cane, che si alimenta anche con vegetali, il rapporto è invece rovesciato; risulta inoltre ridotta l'intera arcata dentaria. Nel cane vi è una notevole riduzione delle dimensioni della porzione anteriore del cervello, quella cioè deputata all'integrazione degli stimoli sensoriali: in un animale non più costretto a procacciarsi il cibo con la caccia, gli stimoli olfattivi, visivi ed auditivi diventano infatti meno importanti mentre aumenta di importanza, e quindi di volume, la porzione cortico-cerebrale. Non vi è alcun dubbio che la domesticazione del cane sia avvenuta per la prima volta durante il Mesolitico, prima della nascita dell'agricoltura. I primi lupi hanno cominciato ad avvicinarsi agli accampamenti mobili dell'uomo in maniera non aggressiva, grazie anche all'abitudine alla struttura sociale del branco. Si è così progressivamente instaurata tra le due specie una sorte di 27 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 simbiosi. I resti più antichi di cane domestico, risalenti all'8400 a.C., sono stati ritrovati in Nord America, nella cava del Giaguaro nella Birch Creek Valley, nell'Idaho; sulla base delle caratteristiche della loro dentizione, tali resti sono stati identificati come appartenenti a cani discendenti dai lupi del Vecchio Mondo: probabilmente tali animali sono arrivati nel continente americano insieme all'uomo, attraverso l'Asia (ricordiamo che la possibilità di attraversare lo stretto di Bering, tra Siberia ed Alaska, si è interrotta almeno nel 16000-15000 a.C.). I ritrovamenti più antichi in Europa, risalenti al 7500 a.C., sono avvenuti a Seckenberg in Germania ed a Starr Carr in Inghilterra. In una prima fase l'uomo ha utilizzato il cane anche come fonte alimentare; poi, dalla fine dell'età del bronzo, il consumo di carne di cane è cessato e questo animale è diventato un indispensabile compagno di caccia e di difesa. Assiri e Babilonesi allevavano mute di cani simili agli alani. In una iscrizione egiziana del 2300 a.C. sono contemporaneamente rappresentati 4 cani di diversa morfologia: un terrier, un volpino, un segugio ed un levriero. Gli Egiziani allevavano levrieri di elevate dimensione e dal pelo fulvo chiaro per la caccia alle antilopi. Anubi (da "a'nûp", antico vocabolo che indicava lo sciacallo), la divinità che custodiva il defunto nell'oltretomba, ha aspetto di cane o, a volte, la testa di cane su corpo umano: la sua testa rappresenta un levriere. Gli Egiziani furono ottimi allevatori: in dei bassorilievi sono rappresentate delle antilopi che, legate, si alimentano ad una mangiatoia ed in altri uomini che nutrono forzatamente una iena attraverso un imbuto. Aristotele classificò i cani secondo l'area geografica mentre Senofonte li distinse a seconda dell'attitudine in cani da caccia, da pastore e da guardia. E' durante il periodo dell'Impero Romano che l'allevamento vero e proprio del cane si diffonde largamente: comincia così quel processo di selezione ad opera dell'uomo che, nel corso dei secoli, porterà alla creazione dell'elevato numero di razze attualmente esistenti. In epoca romana i cani venivano distinti in cani da pastore (pastorales), cani da guardia (villatici) e cani da caccia (venatici); i cani da caccia erano ulteriormente distinti in sagaces (cani che seguono le tracce), celeres (cani che inseguono la preda) e pugnaces (cani che attaccano la preda). Nel corso dei secoli si sono poi succedute diverse altre classificazioni; tra queste merita di essere ricordata quella fatta da John Keys nel 1570 e riguardante tutti i cani britannici. Una classificazione ancora oggi considerata valida è quella fatta da Mègnin nel 1897, nella quale i cani esistenti erano classificati in quattro differenti gruppi: lupoidi (testa a forma di piramide, orecchi generalmente diritti, muso allungato, labbra superiori non oltrepassanti la base delle gengive inferiori), braccoidi (testa tendente alla forma prismatica, muso ugualmente largo alla base ed all'estremità, orecchi cadenti, labbra superiori pendenti oltre il livello della mascella inferiore), molossoidi (testa voluminosa rotonda o cuboide, orecchi piccoli e cadenti, labbra spesse e lunghe, corpo massiccio e generalmente di alta statura) e graioidi (testa a forma di cono allungato, orecchi piccoli ed all'indietro, corpo slanciato, membra gracili, ventre molto retratto). Le diverse razze canine, così come le intendiamo attualmente, sono nate ufficialmente nel corso del diciannovesimo secolo, con la nascita cioè dei Kennel club nelle diverse nazioni del mondo. Nel 1911 nasce in Belgio la Federazione Cinologica Internazionale (FCI) che, ancora oggi, ha il compito di uniformare gli standard delle diverse razze nei vari paesi del mondo. In Italia l'associazione che si occupa della conservazione e dell'aggiornamento del Libro delle Origini è l'ENCI (Ente Nazionale Cinofilia Italiana). Attualmente la FCI classifica le razze canine riconosciute in quattro categorie, sulla base degli utilizzi di ciascuna razza. Della prima categoria fanno parte tutti i cani da pastore, guardia difesa ed utilità; nella seconda troviamo i cani da caccia; nella terza i cani da compagnia e nella quarta i levrieri. 28 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 LA DOMESTICAZIONE DEL GATTO. Fino ad alcuni anni fa era opinione diffusa che il gatto avesse avuto come antenato selvatico il gatto selvatico del deserto libico, Felis lybica o gatto guantato. I lavori di Schanenberg, basati sul rapporto tra lunghezza del cranio e volume endocranico (indice cranico), hanno cambiato questo punto di vista: l'indice cranico del gatto domestico è infatti di molto superiore a quello del gatto guantato, mentre è molto prossimo a quello di Felis ornata, animale che attualmente vive allo stato selvatico in Iran, in Afghanistan ed in Pakistan; è dunque molto probabile che la domesticazione del gatto abbia avuto origine in Persia o in Pakistan e che solo successivamente l'animale sia arrivato in Egitto, a partire da un ceppo domesticato importato dal Medio Oriente. La questione è comunque ancora controversa. Resti di gatto domestico databili 7000 a.C. sono stati rinvenuti a Gerico; delle statuette di donne che sembrano giocare con un animale oppure allattare un animale identificato da alcuni nel gatto sono databili 6000 a.C.. Il gatto compare in Egitto nel 4000 a.C.. L'avvento dell'agricoltura nel Neolitico e la costituzione di riserve di grano attirarono i topi, che si moltiplicavano nei silos: di conseguenza, anche i gatti hanno cominciato a vivere presso gli insediamenti umani. Nel corso del primo millennio a. C. si è sviluppato in Egitto, per ragioni politico-religiose, il culto degli animali: il gatto, già fortemente apprezzato come protettore dei granai contro i roditori, venne associato al culto dell'antica dea Bastet, temibile dea violenta che, una volta placata, era rappresentata da una donna con la testa di gatto. Alla loro morte, questi animali erano mummificati ed inumati nei cimiteri situati in prossimità dei templi. Onomatopeicamente, gli Egizi chiamavano il gatto "miu", poi "emu" e "mau". Il gatto domestico è stato introdotto sul continente europeo dai Greci, che lo avevano conosciuto in Egitto. Di Erodoto è lo scritto più antico nel quale sia menzionato il gatto (425 a. C.): a proposito delle guerre persiane, racconta che nell'Egitto dei Faraoni il gatto era oggetto di adorazione. Diodoro Siculo (I sec. a. C.) racconta che vigeva in Egitto la pena di morte per chi uccidesse un gatto, e che sovente i colpevoli venivano linciati. Greci e Romani lo importarono dall'Egitto, e quasi sempre nominano il gatto a proposito degli Egiziani. Il gatto non era conosciuto da Assiri, Babilonesi ed Ebrei, mentre era noto ai Cinesi. Nell'Islam era animale protetto: si raccontano numerosi aneddoti sulla simpatia di Maometto per i gatti. Nel Medio-Evo venne identificato come un animale diabolico o come una reincarnazione delle streghe, e sovente veniva arso vivo. Attualmente è un animale sacro per Siamesi e Birmani. LA DOMESTICAZIONE DEL CONIGLIO. Il coniglio venne scoperto dai Fenici in Spagna, nel 1100 a.C.: essi confusero questo animale sconosciuto con una procavia ("Hispania" significava nella loro lingua "isola delle procavie"). Il coniglio è uno degli ultimi animali domesticati: la sua domesticazione, infatti, è avvenuta soltanto all'inizio del Medio Evo, probabilmente nella penisola iberica. Già i Romani tenevano i conigli all'interno di recinti, i cosiddetti leporaria: non si trattava tuttavia di allevamento ma piuttosto di trappole di cattura. Nelle Isole Baleari i Romani introdussero dei conigli che, a causa della assenza di nemici naturali, si moltiplicarono a tal punto da spingere gli abitanti a mandare un messaggero a Roma perché l'imperatore intervenisse contro quello che era diventato un vero flagello dell'agricoltura (cfr. quanto è successo con l'introduzione del coniglio in Australia). Dal Medio Evo in poi questa specie domestica si è diffusa ovunque, ma alcuni paesi sono stati raggiunti solo nel diciannovesimo secolo (Ungheria, Australia). La Chiesa acconsentì durante il Medio Evo al consumo di carne di coniglio durante la quaresima. Le prime razze di coniglio sono state selezionate nel XVI secolo. 29 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 LA DOMESTICAZIONE DEL LAMA E DELL'ALPACA. Si riteneva una volta che il lama fosse originato dal guanaco e l'alpaca dalla vigogna: invece sembra ormai accertato che tanto il lama (Lama glama glama) quanto l'alpaca (Lama glama pacos) siano forme domestiche originatesi dal guanaco, un camelide sud-americano che oggi vive soltanto in zone montane ma un tempo era diffuso su territori molto più vasti. Attualmente non esistono più lama o alpaca allo stato "selvatico" (cioè non controllati dall'uomo). L'addomesticamento del lama è avvenuto in Perù, verso il 2550-2500 a. C. ad opera di popolazioni preincaiche. Adibiti da millenni alla produzione di carne, lana ed al trasporto, fino ad alcune centinaia di anni fa i lama costituivano il principale animale domestico delle popolazioni andine. I maschi adulti, castrati, venivano e vengono utilizzati come animali da carico (circa 50 Kg di peso), mentre le femmine, i piccoli ed alcuni maschi riproduttori sono mantenuti all'interno di recinti. L'alpaca (domesticato probabilmente nel 200 a.C.) ha un carattere più caparbio del lama; a causa della sua pelliccia, viene tosato e la lana viene utilizzata per confezionare indumenti e coperte: attualmente questo prodotto è considerato molto pregiato ed esportato in tutto il mondo (sostituisce il mohair, fibra prodotta dalla capra d'Angora). Dall'incrocio lama x alpaca si ottiene il suri; dall'incrocio vigogna x alpaca il paco-vigogna. LA DOMESTICAZIONE DELLA RENNA. La renna cominciò ad essere cacciata nel periodo tardo-glaciale e gli studiosi identificano una "età della renna"; la renna era una delle più importanti specie nell'economia dell'uomo del paleolitico superiore; si può ritenere che, a partire dal 12000 a.C., la sua domesticazione si sia sviluppata parallelamente alla domesticazione del cane. Ancora oggi esistono tribù lapponi ed eschimesi per le quali questo animale rappresenta la principale fonte di cibo e di materie prime. In alcune zone l'addomesticamento di questa specie è solo parziale e l'uomo continua a seguirne le migrazioni; in altre zone la renna è stata invece totalmente domesticata ed è utilizzata come animale da tiro e per la produzione di latte. LA DOMESTICAZIONE DELL'ELEFANTE. Ancora oggi non è possibile parlare di domesticazione completa per questa specie, sebbene gli elefanti asiatici siano utilizzati dall'uomo per compiere lavori particolarmente pesanti sin dal quarto millennio a. C.. La domesticazione è probabilmente avvenuta presso il fiume Indo nel 3500 a.C. e fin dall'inizio l'animale fu utilizzato per il lavoro ed a scopi bellici. In Italia gli elefanti furono introdotti da Pirro (280 a.C.: erano correntemente utilizzati nei regni ellenistici) e poi da Annibale (218 a.C.); non è stato chiarito se gli elefanti di Annibale fossero africani o asiatici. Gli elefanti indiani sono cavalcati dietro le orecchie, quelli africani sul dorso. Il loro allevamento non è mai stato praticato con regolarità, probabilmente perché allevare un elefante è senza dubbio più costoso e meno conveniente che catturarlo quando è già adulto, soprattutto se si considera che essi non possono venire destinati al lavoro prima che abbiano raggiunto i dieci o venti anni. Si preferisce domesticare le femmine perché più mansuete. A causa della contrazione numerica sono cominciati anche dei veri e propri allevamenti. LA DOMESTICAZIONE DELLA CAVIA. La cavia venne domesticata dagli Incas a scopo alimentare. Gli Europei, avendo inizialmente identificato l'America con le Indie, gli attribuirono il nome di "porcellino d'India". Ancora oggi viene allevata in ambito familiare. LA DOMESTICAZIONE DEL CAMMELLO E DEL DROMEDARIO. Il dromedario è riconoscibile per la presenza di una sola gobba; venne domesticato in Arabia nel 4000 a.C. e successivamente si diffuse ad Ovest in tutto il Nord Africa ed ad Est fino 30 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 all'India. Viene citato nel Vecchio Testamento per un episodio databile 1800 a.C.. Non esiste attualmente la forma "selvatica" (cioè non direttamente controllata dall'uomo), ma in Australia ci sono dei dromedari rinselvatichiti. Più a Nord del dromedario è diffuso il cammello, animale con due gobbe, che venne addomesticato in Asia centrale nel IV-III secolo a.C.; è poco trasformato rispetto all'animale selvatico, il quale è attualmente quasi scomparso. Il cammello ed il dromedario danno un ibrido in cui il carattere gobba singola è dominante. LA DOMESTICAZIONE DEL BUFALO. Il bufalo domestico discende dal bufalo indiano, ed ancora oggi la forma domestica si incrocia con quella selvatica (entrambe appartengono al genere Bubalus). Sulla domesticazione e la diffusione del bufalo vi sono numerose incertezze. Un tempo il bufalo indiano era diffuso anche in Mesopotamia ed in Nord Africa (se non addirittura in Europa meridionale), e forse venne domesticato in Mesopotamia nel III millennio a.C.: altri possibili centri di domesticazione sono l'India centrale (paleolitico), la valle dell'Indo (III millennio a.C.) o la Cina (II millennio a.C.). La domesticazione del bufalo appare collegabile ai territori coltivati a riso. In Europa venne diffuso dalle popolazioni islamiche; in Italia, a parte la possibilità di un'origine autoctona (confortata dalla particolarità di alcune proteine ematiche che testimonierebbero una diversa filogenesi dal bufalo indiano, nonché da fossili ritrovati nel Lazio e nell'arcipelago toscano), venne portato o dalle popolazioni islamiche oppure da popolazioni nomadi danubiane (VI sec. d.C.); secondo alcuni era invece allevato già in epoca romana. Il bufalo africano (bufalo cafro, Syncerus caffer) non si addomestica e non si incrocia con i bovini. LA DOMESTICAZIONE DELLO YACK. Lo yack venne addomesticato dalle popolazioni tibetane nel I secolo a.C.; viene utilizzato per il trasporto, la carne, il latte, la lana: anche gli escrementi sono utilizzati come combustibile. E' più piccolo dell'animale selvatico e può essere incrociato con il bovino domestico (anche con lo zebù) dando un ibrido in cui le femmine sono generalmente fertili. LA DOMESTICAZIONE DEL GALLO. Il gallo domestico (Gallus gallus) è stato domesticato intorno al 2000 a.C. in Asia dai popoli dell'Indo, a partire dal gallo bankiva o gallo dorato, un abitante della giungla simile alle attuali razze nane. Nel XV-XIV secolo a.C. venne introdotto in Cina dall'India; sia i Cinesi che gli Egizi conoscevano la tecnica di incubare l'uovo; furono gli Egizi ad introdurlo nell'Europa meridionale. La produzione iniziale erano le uova, solo successivamente il combattimento ed a fine carriera la carne. Il gallo non viene nominato nel Vecchio Testamento ma era conosciuto dai Greci (V-IV secolo a.C.), dai Romani (che avevano i "galli sacri", in quanto già precedentemente il gallo era considerato un simbolo di fertilità), dai Germani e dai Celti. LA DOMESTICAZIONE DEL COLOMBO. Il colombo viene nominato nel Vecchio Testamento in riferimento all'arca di Noè. Sappiamo che in Egitto era conosciuto nel IV secolo a.C., ma sicuramente era stato domesticato molti secoli prima in Asia, dove l'allevamento avveniva in torri. Nel 478 a.C. si fa riferimento in Grecia ad una razza di colombi bianchi e di poco dopo è il primo episodio di piccione messaggero. Erodoto narra che i colombi facevano il nido sotto i tetti dei templi. I Romani li allevavano in torri (columbaria) e li alimentavano con pane; per impedirgli di volare venivano tagliate le ali o rotte le zampe. 31 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 LA DOMESTICAZIONE DELLA GALLINA FARAONA. La gallina faraona era sicuramente nota ai Greci, in quanto nel mito di Meleagro si narra che le macchie bianche del piumaggio di questo animale erano le lacrime versate dalle sorelle di Meleagro alla morte del fratello, quando vennero trasformate in faraone. Filogeneticamente discendono dai pavoni africani. Gli animali domestici odierni discendono dalle galline di Numidia portate in Europa ed in America dai Portoghesi nel 1500, ma l'animale era già stato domesticato nell'antichità in Marocco e successivamente dai Romani nell'Africa Nord-Orientale. LA DOMESTICAZIONE DELL'OCA. L'oca è stata domesticata nel neolitico a partire dell'oca grigia (Anser anser) e dall'oca a fronte bianca (Anser albifrons). La sua zona di domesticazione e di diffusione erano Europa ed Asia, esimo parallelo. La domesticazione veniva effettuata dai piccoli, i quali venivano sopra il 45 facilmente ipernutriti sia per produrre più carne che per impedirgli di volare; gli incroci con le forme selvatiche contrastavano la formazione di razze. Molto allevate dai Germani, le oche venivano nutrite dai Greci con grano per produrre carne ed uova; i Romani, oltre che per produrre carne ed uova, le nutrivano anche con grano, latte e miele in alimentazione forzata per produrre il fegato grasso: successivamente venne utilizzato anche il piumino per i cuscini e, a partire dal V secolo d.C., la penna per la scrittura. LA DOMESTICAZIONE DEL TACCHINO. Il tacchino deriva da una sottospecie dell'altopiano messicano: già domesticato dagli Aztechi, venne portato in Europa dagli Spagnoli. LA DOMESTICAZIONE DELLA CARPA. La carpa (Cyprinus carpio) era diffusa in quasi tutta l'Europa due milioni di anni fa e subito dopo l'ultimo periodo glaciale (durante il quale si era ritirata a Sud-Est) rioccupò il suo territorio di diffusione. La carpicoltura ebbe inizio in Cina e veniva praticata anche dai Romani. Nel IX secolo furono i monaci a diffonderla nell'Europa occidentale e settentrionlale. LA DOMESTICAZIONE DEL PESCE ROSSO. Il pesce rosso (Carassius auratus) veniva allevato artificialmente nelle zone con acqua putrescente, stagnante, ricca di vegetazione, nella quale non si poteva allevare la carpa. Una leggenda cinese ne fissa la domesticazione al 769 a.C.. Fino al 1200-1300 veniva allevato dai monaci cinesi a scopo religioso e l'uso alimentare era proibito; successivamente venne sia allevato in casa (con la creazione di molte varietà) che destinato all'alimentazione; nel 1500 si diffuse in Corea e Giappone, all'inizio del 1600 in Inghilterra ed alla fine dello stesso secolo arrivò in Europa continentale. LE CONSEGUENZE DELLA DOMESTICAZIONE. Le conseguenze della domesticazione: come si è arrivati all'attuale distribuzione delle razze? Allevamento ed agricoltura hanno ovunque interessato e modificato la vita dell'uomo: ciò si è verificato molto più come trasferimento demico (migrazione delle popolazioni umane) che come trasferimento culturale (ad esempio, in Africa, Nord-America, Oceania con l'arrivo degli Europei). Attualmente solo una piccolissima percentuale dell'umanità non pratica agricoltura ed allevamento. Tutto ciò è avvenuto in circa 10000 anni. La domesticazione è avvenuta in aree ristrette (fenomeno localizzato), su animali abbastanza uniformi (piccole popolazioni): oggi, invece, all'interno delle specie domestiche c'è grandissima variabilità, sia nei caratteri qualitativi (colore del mantello, corna ed altre appendici ectodermiche, proteine del sangue: caratteri ad eredità mendeliana o comunque semplice), sia nei caratteri quantitativi (o biometrici, quale struttura, mole, altezza, produzioni). L'uomo è addirittura 32 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 meno variabile delle specie che egli stesso alleva. Le specie selvatiche sono uniformi non solo esteriormente, ma probabilmente anche negli altri caratteri (ad esempio, nella pecora ci sono 5 varietà emoglobiniche e nel muflone una). Teniamo in mente tre punti, che ci serviranno per capire i concetti di razza, varietà, linea: 1)- popolazione di partenza piccola, ristretta, uniforme; 2)- si arriva a specie con molta variabilità interna; 3)- la specie selvatica è monomorfa. Non c'è stato con la domesticazione un intervento diretto sul DNA (mutazioni, che danno nuova variabilità): non si notano con la domesticazione modifiche nella frequenza delle "mutazioni ricorrenti", cioè dei loci con tassi di mutazione sensibili e costanti (mediamente -5 10 ). La domesticazione non ha creato caratteri nuovi. Le specie selvatiche sono integrate nell'ambiente, con un loro valore di adattamento ("fitness") che misura come l'individuo è in grado di riprodursi nell'ambiente in cui vive (indirettamente è una misura dell'effetto dell'ambiente sull'individuo). Ogni individuo è sottoposto ad un coefficiente selettivo: si tratta delle forze ambientali che favoriscono o sfavoriscono le possibilità riproduttive dell'individuo (ad esempio, il carattere assenza di corna nei maschi selvatici ha un valore di adattamento pari a 0, perché gli animali che non hanno corna non si riproducono: il coefficiente selettivo è del 100%). w = fitness s = coefficiente di selezione s=1-w w=1-s dove 1 rappresenta la possibilità di riprodursi in maniera assoluta. La domesticazione ha modificato i valori di s e w, attribuendo a caratteri con fitness 0 dei valori positivi: i caratteri si sono pertanto potuti trasmettere. La domesticazione è quindi stata un intervento selettivo. Nelle prime fasi della domesticazione si sono avute enormi variazioni delle frequenze geniche, perché entravano nella popolazione delle mutanti che non si potevano fino ad allora riprodurre. E' chiaro che ci possono anche essere state delle mutazioni occasionali, che sono state selezionate, ma esse non erano dovute al fatto che l'animale era domesticato. Il meccanismo descritto vale solo per geni che sono non neutri rispetto alla selezione naturale. Il neo-darwinismo distingue i geni in geni con valore di fitness perché interagiscono con l'ambiente e geni neutri, che non hanno né s né w (su di loro non agisce l'ambiente, come ad esempio nel caso dei gruppi sanguigni). I geni che ci interessano in zootecnia sono generalmente non neutri. Anche i geni neutri possono essere variati con la domesticazione, ma solamente in maniera casuale ("drift": deriva genetica). Per studiare le differenze fra le popolazioni ci interessiamo soprattutto ai geni neutri, sui quali l'uomo non ha agito. La domesticazione ha aumentato la numerosità degli individui: le specie domestiche hanno 2 più individui delle selvatiche (nel muflone medio-orientale, si è passati da 4 animali/Km a 2 centinaia/Km ); pertanto è anche stato più probabile, dato che c'erano più animali, il verificarsi di una certa mutazione. Dal centro di domesticazione gli animali si diffondono in tutto il mondo: ciò può spiegarci la parcellizzazione della variabilità in sottogruppi rispetto alla specie; in una popolazione domestica generalmente non c'è tutta la variabilità presente nell'intera specie domesticata. Una popolazione è una sub-unità della specie, che non ne esprime tutta la variabilità. Nella diffusione dal centro di domesticazione si è avuta la suddivisione degli animali per condizioni geografiche (suddivisione allopatrica o allopatria); allontanandosi dal centro di domesticazione si interrompe il flusso genetico fra le varie popolazioni e quello fra la singola popolazione ed il centro di domesticazione (ad esempio, gli animali portati in Grecia non avevano più rapporti con quelli rimasti in Medio Oriente); l'isolamento geografico ha aumentato la probabilità di scambio genico all'interno della popolazione. A seconda 33 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 dell'ambiente il coefficiente selettivo si modifica: dall'unico coefficiente selettivo del centro di domesticazione si formano più coefficienti selettivi. La selezione naturale continuava comunque ad agire sugli animali domesticati, così come anche oggi accade in alcune aree: in Europa siamo ormai portati a non considerare quasi più la selezione naturale sulle specie domesticate. Una suddivisione nella specie si è verificata molto prima che l'uomo creasse le razze. La razza primaria è quella creata essenzialmente da un meccanismo allopatrico, in funzione della selezione naturale su specie domesticate. In Africa, Asia, Sud-America spesso la razza ha il nome della zona geografica dove viene allevata: si tratta di razze create per allopatria; in Italia qualcosa di simile è ancora possibile vederlo nella capra (vive nell'Italia meridionale ed assume nomi geografici). Le razze primarie si distinguono dalle razze secondarie perché generalmente conservano della variabilità nei caratteri esteriori qualitativi (marcatori ad effetto visibile): non c'è stata la preoccupazione della corrispondenza a degli standard morfologici uniformi; questo criterio non è valido per il cavallo. La razza secondaria è stata creata esclusivamente per opera dell'uomo a partire dalle razze primarie: generalmente si tratta di alcuni genotipi presenti nella razza primaria (ad esempio, nell'Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza vogliono creare una razza caprina di mantello rosso, la "derivata di Siria"; Blackwell, allevatore inglese del '700, per creare i bovini Shorthorn scelse nella popolazione alcuni animali che rispondevano ai suoi criteri); dall'interruzione del flusso genico con la razza primaria si crea la razza secondaria (meccanismo peripatrico, per forze diverse dall'ambiente, cioè nel nostro caso ad opera dell'uomo). La razza secondaria è caratterizzata da uno standard morfologico di razza, stabilito dall'uomo, ed in genere da un registro anagrafico, un sistema di registrazione delle performance, un'associazione degli allevatori. E' questo un problema fondamentale nella conservazione delle risorse genetiche: è sicuramente più grave perdere una razza primaria che una secondaria (distruzione della variabilità nei paesi in via di sviluppo con l'importazione di razze estere). Le razze sintetiche e le razze mendeliane sono sempre delle razze secondarie; le razze sintetiche si formano ristabilendo il flusso genetico fra razze primarie e/o secondarie; le razze mendeliane si formano scegliendo gli animali in base ad un carattere (un gene) che tipizza la razze (ad esempio, groppa doppia del bovino Piemontese albese o del suino Pietrain): le razze mendeliane sono tipiche degli animali d'affezione. Differenziazione delle specie: gli animali domestici sono gli animali con la massima variabilità nella specie; negli animali domestici la specie si suddivide in gruppi sub-specifici. Come si può definire la razza? I sistemi tradizionali non sono più validi. La zootecnia è una scienza giovane, nata circa 150 anni fa, ad opera di autori inglesi e francesi che principalmente erano allevatori. Il criterio più semplice è la specializzazione produttiva (carne, latte, lavoro, lana); non permette però di differenziare i gruppi etnici (ad esempio, Frisona e Bruna Alpina), e per di più le specializzazioni cambiano con il tempo (ad esempio, la Chianina dal lavoro alla carne). Fra gli altri criteri proposti, ed ormai superati, ricordiamo le razze ecologiche, le razze geografiche, le razze create dall'uomo. Il criterio deve essere genetico: la differenziazione genetica non è necessario che sia assoluta (come nelle razze mendeliane), ma riguarda le frequenze dei geni all'interno delle diverse razze. Per definire le razze utilizziamo 5 criteri, i primi quattro relativi alla descrizione di una razza ed il quinto che decide dell'esistenza reale o meno di una razza. 34 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 CRITERI ZOOTECNICI DI DEFINIZIONE DELLE RAZZE 1) ORIGINE - casuale (genetica) - storica (descrittiva) 2) STORIA ED EVOLUZIONE - indirizzi e criteri selettivi adottati nelle varie epoche - azione miglioratrice e caratteristiche dei principali razzatori e delle linee da essi derivate - fondazione e sviluppo delle associazioni degli allevatori - istituzione ed organizzazione dei libri genealogici e dei controlli funzionali 3) AREA DI ORIGINE E ZONA DI ESPANSIONE 4) DESCRIZIONE E VALUTAZIONE DEI CARATTERI ETNICI caratteri morfologici tipici caratteri funzionali - qualitativi - produttivi - biometrici - riproduttivi - di costituzione 5) STRUTTURA GENETICA caratteri patologici a base genetica - ramo di appartenenza - orientazione zootecnica - variabilità genetica (tasso di eterozigosi) L'origine è casuale per le razze primarie, derivate per allopatria (interruzione del flusso genico): erano trascurate dalla zootecnia tradizionale. L'origine è storica per le razze create dall'uomo mediante estrazione di animali da una popolazione (razze secondarie, sintetiche e mendeliane). Storia ed evoluzione fanno diretto riferimento all'azione dell'uomo, ed è un fenomeno tipico dell'Europa. Gli indirizzi e criteri selettivi adottati nelle varie epoche spiegano perché la popolazione animale non è statica: il rapporto economico uomo-animale cambia con il cambiare delle esigenze dell'uomo (ad esempio, le razze bovine da carne sono originate solo dopo che la meccanizzazione agricola ha reso nullo l'interesse per il lavoro ed ha consentito di sviluppare il treno posteriore a danno dell'anteriore, nei suini la carne è diventata sempre più magra, il cavallo da animale ad uso militare è diventato animale da diporto). L'azione miglioratrice può verificarsi in maniera differente: ad esempio, nella produzione carnea solo da pochi anni si è passati dalla ricerca della quantità alla ricerca della qualità; dei razzatori di sesso maschile potrebbero aver avuto importanza nella storia della razza, al punto di determinare dei sottogruppi all'interno della razza (linee genetiche): bisogna considerare l'effetto dei fondatori e l'importanza della parentela; per esempio si potrebbero citare gli stalloni capostipite del cavallo maremmano o i 24 montoni e 200 pecore merinos dai quali è originata tutta la popolazione australiana (è stato anche possibile differenziare le caratteristiche degli animali attuali e rapportarle ai fondatori). La fondazione e lo sviluppo delle associazioni degli allevatori è indispensabile: non esiste una razza secondaria se non c'è l'associazione degli allevatori, responsabile della gestione della razza e della definizione dei criteri di selezione; in Italia abbiamo A.I.A., A.R.A., A.P.A., (rispettivamente, associazione italiana, regionale e provinciale degli allevatori), le associazioni di razza (A.N.A.F.I., A.N.A.R.B., A.N.A.B.I.C., A.N.A.Bo.Ra.Pi.: associazioni nazionali allevatori rispettivamente di frisona italiana, razza bruna, bovini italiani da carne, bovini di razza piemontese), A.N.A.S. (associazione nazionale allevatori suini), Asso.Na.Pa.(associazione nazionale della pastorizia), ed altre ancora, con i rispettivi comitati di razza. L'istituzione ed organizzazione dei libri genealogici e dei controlli funzionali ha permesso un graduale passaggio della selezione dal fenotipo al genotipo; i controlli devono essere produttivi, riproduttivi e sanitari: per motivi di facilità ed economia, i più diffusi sono quelli del latte. 35 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Area di origine e zona di espansione sono dei concetti che valgono essenzialmente per razze non primarie; ad esempio, la Frisona viene dalla Frisia, la Bruna Alpina da un cantone svizzero, la Marchigiana dalle Marche, etc.; se la razza ha successo, può in seguito essere esportata e diventare addirittura cosmopolita, come nel caso della Frisona; attualmente la pecora sarda è in espansione nel bacino del Mediterraneo. In una razza secondaria si possono avere dei meccanismi allopatrici secondari, come nel caso della frisona di alcuni continenti (e soprattutto di quella dei paesi dell'Europa orientale e dei paesi in via di sviluppo) che non ha avuto contatti con altre zone ed ha risentito della selezione naturale, da cui l'allopatria; possono anche esserci state delle scelte diverse da parte dell'uomo (linee genetiche). Come esempi si possono ricordare i bovini islandesi, portati 1000 anni fa dai vichinghi norvegesi e da allora soggetti a drift, l'uso di seme di Brown Swiss nordamericano che ha trasformato la Bruna Alpina italiana da una razza a duplice attitudine ad una razza da latte, il purosangue inglese con le sue successive differenziazioni nella varie nazioni. Per le razze primarie restano validi i criteri geografici. Nei caratteri etnici distinguiamo i caratteri morfologici, i caratteri funzionali ed i caratteri patologici con base genetica. I caratteri morfologici sono scelti dall'uomo; per quelli qualitativi (colore, etc.), la cui eredità è mendeliana o comunque abbastanza semplice, non ci sono in genere difficoltà (ad esempio, il pezzato rosso della frisona è stato accettato da poco, dopo che è stato dimostrato che non è correlato con la produzione lattea): certe volte però si creano situazioni insostenibili (nella pecora massese si voleva selezionare per gli animali color grigio piombo, ma si tratta di un eterozigote fra il nero ed il grigio chiaro). Per i caratteri biometrici, la cui eredità è più complessa, l'uomo generalmente può solo fissare i limiti inferiori. Nei caratteri funzionali, quelli produttivi sono il fine per cui l'animale viene allevato; più importanti degli stessi caratteri produttivi sono quelli riproduttivi, senza i quali non avrebbe nemmeno significato parlare di allevamento (valore d'allevamento); i caratteri di costituzione (temperamento, fondo, etc.) hanno particolare importanza in alcune produzioni (ad esempio, cavalli sportivi), e comprendono caratteri di difficile definizione fra cui quelli "psicologici". I caratteri patologici a base genetica sono una nuova acquisizione, conseguente alla selezione ed al miglioramento genetico: occorre conoscere l'origine genetica di alcune patologie che interessano le popolazioni (ad esempio, sindrome PSE dei suini) o al contrario di resistenza ad alcune patologie (ad esempio, selezione per animali da allevare in zone africane che siano resistenti alla tripanosomiasi). Nella struttura genetica prendiamo in considerazione il ramo di appartenenza, l'orientazione zootecnica e la variabilità genetica. Il ramo di appartenenza esprime l'originalità allelica d'insieme: è tipico delle razze primarie, ma le sue conseguenze si osservano anche nelle razze secondarie; si tratta dell'appartenenza a dei tipi primordiali (ad esempio, come visto a proposito della classificazione del Rutimeyer, la Chianina deriva dal B. primigenius, la Bruna Alpina dal B. brachyceros, la Simmental dal B. frontosus; nel cavallo, il ramo dei cavalli pesanti come Percheronne o Bretone, il ramo dei purosangue prima arabo e poi inglese, il ramo dei ponies). Una volta la differenziazione di questi rami veniva fatta corrispondere ad un'origine polifiletica (nel cavallo, alla fine del 1800, si pensava addirittura ad otto differenti progenitori selvatici). Il fenomeno è visibile fenotipicamente, ma ad esso corrisponde una differenza effettiva di origine genetica. All'orientazione zootecnica corrisponde il progressivo accumulo di particolari alleli, che corrispondono alle caratteristiche produttive della razza; ad esempio, se confrontiamo una razza bovina da latte con una razza da carne, la loro rispettiva caratterizzazione per una capacità produttiva è evidente, ma che cosa c'è di diverso a livello genetico? E' un accumulo di particolari alleli, quelli "per il latte" e quelli "per la carne", che sono presenti con elevata frequenza nelle rispettive popolazioni. La popolazione frisona e chianina hanno gli stessi geni, ma la frequenza è diversa (bassa nella chianina ed alta nella frisona per il latte, al contrario 36 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 per la carne). Se ci si limita all'orientazione zootecnica Frisona e Bruna Alpina sono più vicine che Frisona e Chianina, ma nel complesso il gruppo di geni che determinano la produzione zootecnica è molto limitato rispetto a quello del ramo di appartenenza, ed infatti le varie razze da latte sono fra loro diverse. La variabilità genetica rappresenta l'originalità genetica e zootecnica della razza; mediamente, nei mammiferi, il 30% circa dei loci è polimorfo (può cioè presentare più alleli). Alcuni loci sono variabili in tutte le specie (ad esempio le transferrine, il locus Agouti che determina la ripartizione del nero e del rosso nel mantello, le emoglobine, le caseine). Per i loci monomorfi gli animali sono tutti uguali: dato che le differenze si possono avere solo per i loci polimorfi, bisogna sapere quanto la razza varia ed in quali loci varia. I caratteri produttivi sono molto variabili, e ciò ha dato all'uomo la possibilità di selezionare: la scelta è avvenuta solo a carico di loci polimorfi. Qual è il limite che permette di parlare di originalità genetica e zootecnica di una razza? Per rispondere alla domanda bisognerebbe avere il genoma e poter confrontare il 30% di loci polimorfi, ma fino ad ora sono state individuate poche decine di loci polimorfi (non considerando quelli responsabili di patologie metaboliche); nell'uomo si conoscono circa 50 di questi loci, negli animali al massimo una ventina. Il polimorfismo viene classicamente studiato in maniera indiretta, risalendo dal fenotipo al genotipo e quindi al gene: ciò è possibile con precisione solo nel caso di loci codominanti, mentre nel caso di dominanza-recessività in genere si sovrastima il dominante; oggi il polimorfismo può anche essere studiato attraverso l'analisi diretta del DNA, la quale consentirebbe di utilizzare tutto il polimorfismo presente. LA G E N E T I C A D I P O P O L A Z I O N E Mendel morì nel 1884: le leggi che oggi portano il suo nome, e che egli aveva scoperto nel 1866, erano dimenticate. La "riscoperta" delle leggi di Mendel avvenne nel 1900 ad opera di tre botanici che lavoravano indipendentemente: H. De Vries (olandese), C. Correns (tedesco) ed E. Tschermak (ungherese). Nacque negli stessi anni la genetica delle popolazioni; la legge fondamentale venne individuata dal matematico inglese G. H. Hardy e dal medico tedesco W. Weinberg (legge di Hardy-Weinberg, 1908). Genetica delle popolazioni: per genetica si intende "struttura genetica", e dunque è la struttura genetica delle popolazioni. Ma perché popolazioni e non specie, o razze? La popolazione è in genere aggettivata: popolazione "mendeliana", che può essere una specie oppure una sub-unità della specie. Una popolazione mendeliana è una popolazione in cui gli individui sono sottoposti ad un flusso genico (gene flow), cioè possono "scambiarsi" geni grazie alla riproduzione. Fino a quando degli individui sono sottoposti al flusso genico? Due sono i meccanismi che possono interrompere il flusso genico: la speciazione e la creazione di barriere riproduttive. La speciazione è il meccanismo più importante e comporta l'incapacità riproduttiva per le differenze biologiche esistenti fra gli animali; la barriera riproduttiva non richiede invece la perdita di capacità riproduttiva, ma l'impossibilità di riprodursi per motivi spazio-temporali (ad esempio, l'isolamento geografico, come nel caso degli animali selvatici australiani oppure degli animali che gli Europei hanno portato con loro nelle colonie). Speciazione e barriere riproduttive possono anche coesistere e variamente intrecciarsi. La definizione di popolazione mendeliana può adattarsi a specie (come nel caso in cui una specie è una popolazione molto ristretta), oppure adattarsi a suddivisioni della specie (come nel caso degli animali domestici, ma a volte anche nel caso di selvatici diffusi in aree molto vaste e con differenti habitat). Nell'animale domestico le barriere riproduttive principali le crea l'uomo, addirittura all'interno della popolazione (ad esempio, quando sceglie i riproduttori). 37 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Il soggetto della trattazione teorica può essere un gene qualsiasi facente parte di un locus polimorfo. La grandezza fondamentale da misurare è la frequenza genica, cioè la frequenza del gene nella popolazione mendeliana. La frequenza si ha solo se il gene è un allele di un locus polimorfo: cioè nella popolazione è presente, oltre al gene, il suo o i suoi alleli. Si parla di frequenze, cioè di grandezze relative (fra 0 ed 1), e che come tali si possono confrontare fra popolazioni mendeliane. Gli scopi della genetica delle popolazioni sono due: - definire la struttura genetica della popolazione; - individuare e studiare le forze che possono provocare delle variazioni all'interno delle popolazioni (cioè variazioni delle frequenze geniche). Se si parla di variazione, si tratta di un concetto dinamico; se si cambia, si cambia nel tempo, cioè nel susseguirsi delle generazioni. Applicheremo dei modelli teorici, che non si differenziano nelle specie (si applicano alla riproduzione sessuata dei mammiferi, e non si tiene conto di individui che non si riproducono). Il nostro pool genetico deriva da animali che effettivamente si riproducono. La struttura di una popolazione è definita da tre grandezze: - le frequenze fenotipiche; - le frequenze genotipiche; - le frequenze geniche. Biologicamente è la frequenza genica che determina le altre due, ma il nostro cammino pratico è inizialmente l'opposto, dal fenotipo al genotipo al gene, in quanto non vediamo direttamente il gene ma solo i suoi effetti. Nella trattazione teorica si può supporre di conoscere la frequenza genica e da questa arrivare a genotipi e fenotipi: questa potrà essere la via reale in futuro, grazie allo studio diretto del DNA. La genetica di popolazione è basata sulla legge di Hardy-Weinberg, o legge dell'equilibrio genetico. L'equilibrio genetico è il non variare da una generazione alla successiva delle frequenze geniche, e quindi di quelle genotipiche e fenotipiche. Esiste innanzitutto un equilibrio intra-locus e poi un equilibrio di tutti i loci (equilibrio effettivo della popolazione). Bisogna prima di tutto accertare alcune condizioni relative al campione; la popolazione reale in genere non rispetta le condizioni della popolazione ideale, ma nonostante ciò la legge è nella sostanza valida anche per le popolazioni reali. Fenomeno di Walhund: nel campione non deve esistere accavallamento di generazioni e la popolazione non deve tendere a distribuirsi per sottopopolazioni. Nell'uomo in genere le generazioni non si sovrappongono, ma l'accavallamento delle generazioni è la regola negli animali domestici, dove l'intervallo di generazione è più breve. Walhund dimostrò che in certe situazioni si può avere l'equilibrio nella popolazione generale e non nelle sottopopolazioni o viceversa. Per essere in equilibrio ci deve essere una corretta ripartizione dei sessi, la popolazione deve essere di effettivo illimitato (cioè la più grande possibile), il sistema riproduttivo deve essere panmittico (popolazione in panmissia), nella popolazione non devono esistere mutazioni, migrazioni, selezione e deriva genetica (queste ultime quattro sono proprio le forze che fanno variare l'equilibrio genetico). La panmissia è la situazione genetica che consegue ad una riproduzione panmittica, cioè ad una riproduzione realmente e totalmente casuale, in cui tutti gli individui hanno la stessa possibilità di riprodursi dando una prole fertile che è a sua volta in panmissia. In realtà la riproduzione sessuata non è mai casuale. Più la popolazione è grande e più tutti i geni hanno la possibilità di esprimere il corrispondente fenotipo. I presupposti della legge di Hardy-Weinberg non esistono nelle popolazioni reali: è sufficiente avvicinarcisi il più possibile (ad esempio, nell'uomo ci sono circa 8 mutazioni per ogni generazione). Rispetto alla panmissia, il sistema omeogamico tende a far riprodurre fra di loro gli individui più simili, mentre il sistema eterogamico tende a far riprodurre fra loro individui dissimili; il 38 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 sistema omeogamico è tipicamente rappresentato dall'accoppiamento fra parenti, ma nell'uomo anche da criteri di scelta basati sul colore della pelle, su criteri estetici, su criteri culturali, su criteri intellettivi; il sistema eterogamico è quello che in genere lega fra loro diverse popolazioni mendeliane: zootecnicamente è l'incrocio. La formula matematica della legge di Hardy-Weinberg è rappresentata dal quadrato di un binomio o di un polinomio: Due alleli: A a Frequenze geniche: f(A) = p f(a) = q Frequenze genotipiche: [AA] [Aa] [aa] Frequenze fenotipiche: [A] [a] [AB] (nella codominanza non c'è differenza fra frequenze genotipiche e fenotipiche) Fare attenzione al fatto che, in loci codominanti, in genere la notazione Aa è sostituita dalla notazione AB, dove A e B sono due alleli codominanti dello stesso locus. Utilizzando il quadrato di Punnet nel caso di un locus biallelico: ¦ p q -----------------------------p ¦ pp qp ¦ q ¦ pq qq ed essendo: p+q = 1 e (p+q)² = p²+2pq+q² = 1 si hanno nella generazione filiale le stesse frequenze geniche della generazione parentale: f(A) = (2p² + pq + pq) / (2p² + 2pq + 2pq + 2q²) = = (p² + pq) / (p² + 2pq + q²) = p² + pq = p (p+q) = p f(a) = (pq + pq + 2q²) / (2p² + 2pq + 2pq + 2q²) = = (pq + q²) / (p² + 2pq + q²) = pq + q² = q (p+q) = q 39 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Anche nel caso di un locus triallelico con: f(A) = p f(B) = q f(C) = r calcolando la composizione della generazione filiale con il quadrato di Punnet si ha: ¦ p q r --------------------------------------p ¦ p² pq pr ¦ q ¦ qp q² qr ¦ r ¦ rp rq r² poiché p+q+r = 1 e (p+q+r)² = p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr = 1 si ottengono nuovamente le frequenze geniche della generazione parentale: f(A) = (2p²+pq+pq+pr+pr) / (2p²+2pq+2pr+2pq+2q²+2qr+2pr+2qr+2r²) = = (p²+pq+pr) / (p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr) = p²+pq+pr = p(p+q+r) = p f(B) = (2q²+pq+pq+qr+qr) / (2p²+2pq+2pr+2pq+2q²+2qr+2pr+2qr+2r²) = = (q²+pq+qr) / (p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr) = q²+pq+qr = q(p+q+r) = q f(C) = (2r²+pr+pr+qr+qr) / (2p²+2pq+2pr+2pq+2q²+2qr+2pr+2qr+2r²) = = (r²+pr+qr) / (p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr) = r²+pr+qr = r(p+q+r) = r Anche partendo dalle frequenze genotipiche si può dimostrare la validità della legge di Hardy-Weinberg: ¦ AA Aa aa ¦ p² 2pq q² --------------------------------------------------------------------4 3 2 2 2p q pq AA p² ¦ p ¦ 3 2 2 3 Aa 2pq ¦ 2p q 4p q 2pq ¦ 2 2 3 4 aa q² ¦ pq 2pq q 40 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 da cui riassumendo si ha: 4 AA x AA = p (tutti AA) AA x Aa = 4p q (metà AA e metà Aa) AA x aa = 2p q (tutti Aa) Aa x Aa = 4p q (1/4 AA, 1/2 Aa, 1/4 aa) Aa x aa = 4pq (metà Aa e metà aa) aa x aa = q (tutti aa) 3 2 2 2 2 3 4 e sommando i genotipi simili si ha: 4 3 2 2 AA = p +2p q+p q = p²(p²+2pq+q²) = p² 3 2 2 2 2 3 Aa = 2p q+2p q +2p q +2pq = 2pq(p²+2pq+q²) = 2pq 2 2 3 4 aa = p q +2pq +q = q²(p²+2pq+q²) = q² Se partiamo da una popolazione che non è in equilibrio, in quanto tempo si raggiunge l'equilibrio genetico? Generalmente basta una sola generazione di accoppiamento casuale per ottenere l'equilibrio: dopo una generazione le frequenze geniche non mutano più; ciò è valido indipendentemente dall'entità del polimorfismo, ovvero non dipende dal numero di alleli presenti al locus considerato. Un'eccezione è per i loci del cromosoma sessuale X (geni X-linked); ricordiamo che non basta dire genericamente "legati al sesso" perché esistono anche geni Y-linked, i quali danno l'eredità olandrica, cioè solo maschile, come nel caso dell'antigene HY, collegato alla repressione e derepressione dello sviluppo sessuale dell'embrione. Nel caso di un allele X-linked, se le frequenze sono diverse nei due sessi, esse tendono all'uguaglianza solo all'infinito; nei mammiferi non è mai stata dimostrata complementarietà totale fra X ed Y, come accade in alcuni esseri inferiori; il maschio non è omozigote o eterozigote, bensì emizigote, ed il carattere si manifesta comunque, indipendentemente dal fatto che sia dominante oppure recessivo. f(XA) = 2/3 f(XAf) + 1/3 f(XAm) L'eredità si manifesta "criss-cross", o incrociata; i maschi ricevono il cromosoma X dalla madre, mentre le femmine ricevono un cromosoma X dal padre ed un cromosoma X dalla madre: pertanto la generazione filiale maschile riceve le frequenze geniche delle femmine della generazione parentale, mentre la generazione filiale femminile riceve le frequenze geniche medie dei due sessi nella generazione parentale. Nel tempo, l'andamento delle frequenze nei due sessi ha l'aspetto di una linea "a dente di sega", con differenze che ad ogni generazione si dimezzano e cambiano di segno. Per gli alleli legati al cromosoma X, nelle femmine c'è differenza fra frequenze geniche e frequenze genotipiche, mentre nei maschi (emizigoti) le due frequenze sono uguali. E' molto importante comprendere questi meccanismi per studiare le patologie recessive legate alla X (ad esempio, l'emofilia).(1) --------------------------------------------------------------------(1) Non confondere l’eredità “legata al sesso” con quella “limitata dal sesso” e con quella “influenzata dal sesso”. L’eredità legata al sesso riguarda caratteri portati dall’eterocromosoma X, ma che possono manifestarsi in entrambi i sessi. L’eredità limitata dal sesso riguarda caratteri che sono normalmente ereditati da entrambi i sessi, ma che si manifestano solo il un sesso (ad esempio la produzione lattea). L’eredità influenzata dal sesso è quella in cui il carattere si eredità normalmente in entrambi i sessi, ma si manifesta differentemente nei due sessi (magari per influenza degli ormoni sessuali): ad esempio, il carattere corna si manifesta nei maschi in maniera più evidente. 41 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 ESEMPIO Locus biallelico X-linked f(XAm) = pm = 0,2 f(XAf) = pf = 0,5 (la differenza fra le frequenze di maschi e femmine è -0,3) Generazione successiva: pm = 0,5 pf = (0,2+0,5)/2 = 0,35 (la differenza fra le frequenze è adesso +0,15) Generazione successiva: pm = 0,35 pf = (0,5+0,35)/2 = 0,425 (la differenza è adesso -0,075) Notare che in ogni generazione la frequenza genica nella popolazione è 0,4 esima [f(XA) = 2/3f(XAf) + 1/3f(XAm)]: alla n generazione la frequenza genica sarà 0,4 anche in entrambi i sessi. GENI X-LINKED Andamento delle frequenze geniche 1,0 F r e q u e n z a ,8 ,6 ,4 ,2 0,0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 8 9 10 Generazione maschi femmine GENI X-LINKED Andamento delle frequenze geniche 1,0 F r e q u e n z a ,8 ,6 ,4 ,2 0,0 1 2 3 4 5 6 7 Generazione maschi femmine 42 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 ESEMPIO In una popolazione con un locus autosomico biallelico Tt: TT Tt tt = 0,4 = 0,4 = 0,2 ¦ TT Tt tt ¦ 0,4 0,4 0,2 ---------------------------------------------------TT 0,4 ¦ 0,16 0,16 0,08 Tt 0,4 ¦ 0,16 0,16 0,08 tt 0,2 ¦ 0,08 0,08 0,04 (notare che le combinazioni fuori della diagonale sono simmetriche e possono quindi essere facilmente sommate) TT TT TT Tt Tt tt x x x x x x TT Tt tt Tt tt tt = = = = = = 0,16 (tutti TT) 0,32 (metà TT e metà Tt) 0,16 (tutti Tt) 0,16 (1/4 TT, metà Tt, 1/4 tt) 0,16 (metà Tt e metà tt) 0,04 (tutti tt) per cui, sommando i genotipi simili, otteniamo: TT Tt tt = = = 0,36 0,48 0,16 Le frequenze ottenute sono diverse da quelle di partenza, ma possiamo dimostrare che l'equilibrio è stato raggiunto in una sola generazione, in quanto: ¦ TT Tt tt ¦ 0,36 0,48 0,16 ------------------------------------------------------------------------TT 0,36 ¦ 0,1296 0,1728 0,0576 Tt 0,48 ¦ 0,1728 0,2304 0,0768 tt 0,16 ¦ 0,0576 0,0768 0,0256 TT TT TT Tt Tt tt x x x x x x TT Tt tt Tt tt tt = = = = = = 0,1296 (tutti TT) 0,3456 (metà TT e metà Tt) 0,1152 (tutti Tt) 0,2304 (1/4 TT, metà Tt, 1/4 tt) 0,1536 (metà Tt e metà tt) 0,0256 (tutti tt) 43 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 da cui nuovamente otteniamo: TT Tt tt = = = 0,36 0,48 0,16 ESEMPIO Una popolazione con un locus autosomico biallelico Aa, ma frequenze diverse nei due sessi: ad esempio, i maschi provengono da una razza con frequenze geniche p e q rispettivamente pari a 0,6 e 0,4, mentre le femmine da un'altra razza con frequenze geniche 0,8 e 0,2 (entrambe le razze erano comunque, al loro interno, in equilibrio). Maschi AA Aa aa q = 0,4 p = 0,8 q = 0,2 = p² = 0,36 = 2pq = 0,48 = q² = 0,16 Femmine AA Aa aa p = 0,6 = p² = 0,64 = 2pq = 0,32 = q² = 0,04 ¦ AA Aa aa ¦ 0,36 0,48 0,16 ------------------------------------------------------------------------AA 0,64 ¦ 0,2304 0,3072 0,1024 Aa 0,32 ¦ 0,1152 0,1536 0,0512 aa 0,04 ¦ 0,0144 0,0192 0,0064 AA AA AA Aa Aa aa x x x x x x AA Aa aa Aa aa aa = = = = = = 0,2304 (tutti AA) 0,4224 (0,1152+0,3072: metà AA e metà Aa) 0,1168 (0,1024+0,0144: tutti Aa) 0,1536 (1/4 AA, metà Aa, 1/4 aa) 0,0704 (0,0192+0,0512: metà Aa e metà aa) 0,0064 (tutti aa) per cui, sommando i genotipi simili, otteniamo: AA = 0,2304 + 0,2112 + 0,0384 = 0,48 Aa = 0,2112 + 0,1168 + 0,0768 + 0,0352 = 0,44 aa = 0,0384 + 0,0352 + 0,0064 = 0,08 Le frequenze geniche sono la media di quelle delle due razze di origine: p = 0,48 + 1/2 (0,44) = 0,7 [cioè (0,6+0,8)/2] q = 0,08 + 1/2 (0,44) = 0,3 [cioè (0,4+0,2)/2] 44 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Si può dimostrare che le frequenze geniche sono già in equilibrio, mentre le frequenze genotipiche ancora non lo sono: infatti dovrebbe essere p² 2pq q² = 0,7² = 0,49 = 2 (0,7) (0,3) = 0,42 = 0,3² = 0,09 L'equilibrio delle frequenze genotipiche si raggiunge nella generazione seguente: ¦ AA Aa aa ¦ 0,48 0,44 0,08 ------------------------------------------------------------------------AA 0,48 ¦ 0,2304 0,2112 0,0384 Aa 0,44 ¦ 0,2112 0,1936 0,0352 aa 0,08 ¦ 0,0384 0,0352 0,0064 AA AA AA Aa Aa aa x x x x x x AA Aa aa Aa aa aa = = = = = = 0,2304 (tutti AA) 0,4224 (metà AA e metà Aa) 0,0768 (tutti Aa) 0,1936 (1/4 AA, metà Aa, 1/4 aa) 0,0704 (metà Aa e metà aa) 0,0064 (tutti aa) da cui otteniamo, sommando i genotipi simili: AA = 0,2304 + 0,2112 + 0,0484 = 0,49 AA = 0,2112 + 0,0768 + 0,0968 + 0,0352 = 0,42 AA = 0,0484 + 0,0352 + 0,0064 = 0,09 e le frequenze geniche: p = 0,49 + 1/2 0,42 = 0,7 q = 0,09 + 1/2 0,21 = 0,3 IL CONTROLLO DELL'EQUILIBRIO GENETICO. In pratica è sempre necessario partire da frequenze fenotipiche per arrivare alle frequenze geniche e stabilire se, in quel determinato locus, esiste una condizione di equilibrio, cioè se quelle frequenze geniche si trasmetteranno immutate nelle successive generazioni. In un locus polimorfo (biallelico), se i fenotipi evidenziabili sono solamente due significa che fra i due alleli i rapporti sono di dominanza-recessività, mentre se i fenotipi presenti sono tre i rapporti fra i due alleli sono di codominanza. Nel locus codominante, esistendo un'assoluta uguaglianza fra frequenza genotipica e frequenza fenotipica, l'eventuale equilibrio può essere valutato direttamente dalle frequenze fenotipiche: ciò non può essere fatto per alleli con rapporti di dominanza-recessività. La valutazione della condizione di equilibrio in un locus consiste nel confrontare le frequenze genotipiche osservate con le frequenze teoriche, attese secondo la legge di Hardy-Weinberg. Se la differenza fra frequenze attese ed osservate non è significativa, allora le frequenze genotipiche possono dirsi "in equilibrio"; il confronto fra frequenze attese ed osservate è fatto mediante il test Χ² (leggi "chi quadrato"). 45 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 I dati di partenza per i calcoli sono i valori di p e di q, ovvero le frequenze dei due alleli nella popolazione; il metodo è differente, a seconda del tipo di rapporto esistente fra i due alleli: nel caso di codominanza si utilizza il metodo della conta diretta, mentre nel caso di dominanza-recessività il metodo della radice quadrata del fenotipo recessivo. Ad esempio, nel caso di codominanza (cioè A=B), abbiamo: p = f(A) = ([2A + ½[AB] + ½[AB]) / 2n = ([A + ½[AB]) / n dove n rappresenta il numero degli individui; è stato in pratica sufficiente contare i differenti fenotipi. Supponiamo si tratti di bovini Shorthorn, che possono essere di mantello bianco, rosso o roano (eterozigoti); per calcolare la frequenza dell'allele per il rosso si contano i bovini rossi, si sommano a questi la metà degli individui roani e si divide il tutto per il numero totale di bovini (rossi+bianchi+roani); per ottenere q si potrebbe utilizzare lo stesso tipo di calcolo, ma è più semplice q=1-p (poiché p+q=1). Nel caso di dominanza-recessività fra alleli (cioè A>a), sappiamo che il fenotipo [a] corrisponde al genotipo [aa], mentre il fenotipo [A] è dato da due genotipi, [AA] e [Aa]: non è possibile cioè stabilire se un fenotipo dominante è dato da un genotipo omozigote dominante o eterozigote. Le frequenze geniche possono essere calcolate solo presupponendo che la popolazione sia in equilibrio: ½ q = f(a) = ([a]/n) , (dove n rappresenta il numero degli individui) e quindi p = f(A) = 1 -q. E' importante sottolineare che, poiché nel caso di dominanza-recessività le frequenze sono state ricavate presupponendo che la popolazione sia in equilibrio, non si potrà poi controllare se l'equilibrio è effettivamente esistente: in altre parole, a partire dalle frequenze geniche calcolate con questo metodo si otterrebbero come frequenze fenotipiche attese quelle stesse frequenze fenotipiche che erano state realmente osservate. Un esempio più complesso è il locus triallelico AB0, quello dei gruppi sanguigni dell'uomo, dove sono presenti contemporaneamente rapporti di dominanza e codominanza: A=B A>0 B>0 f(A) = p f(B) = q f(0) = r [A] = [AA] + [A0] [B] = [BB] + [B0] [AB] = [AB] [0] = [00] p+q+r = 1 (p+q+r)² = p²+q²+r²+2pq+2pr+2q r= 1 [A] = p²+2pr [B] = q²+2qr [AB] = 2pq [0] = r² Per meglio comprendere i rapporti di dominanza e codominanza del locus AB0, ricordiamo che l'allele A fa produrre la proteina omonima (agglutinogeno A), l'allele B fa produrre l'agglutinogeno B, mentre l'allele 0 ("zero") non fa produrre alcun agglutinogeno. Si presuppone che la popolazione sia in equilibrio e si comincia quindi il calcolo estraendo la radice quadrata della frequenza dell'omozigote recessivo [00]=[0]; il valore di r così ottenuto viene poi utilizzato per calcolare p e q. 46 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Ad esempio, avendo osservato in 190.177 avieri britannici la seguente distribuzione dei gruppi sanguigni: [A] = 79.334 [B] = 16.279 [AB] = 5.782 [0] = 88.782 si calcola dapprima la frequenza r: ½ r² = 88.782/190.177 r = (0,46684) = 0,6833; ed utilizzando il valore di r trovato si calcola p e q: q²+2qr+r² = (q+r)² = (1-p)² da cui: ½ q+r = ([B]+[0]) = 1-p ½ ½ p = 1-([B]+[0]) = 1-(0,5524) = 1-0,7432 = 0,2568 ed analogamente: p²+2pr+r² = (p+r)² = (1-q)² da cui: ½ p+r = ([A]+[0]) = 1-q ½ ½ q = 1-([A]+[0]) = 1-(0,8840) = 1-0,9402 = 0,0598 Notare che, una volta calcolato p (oppure q), anche la frequenza dell'ultimo allele è stata calcolata mediante una formula che fa riferimento ad un presunto equilibrio secondo Hardy-Weinberg, e non per differenza rispetto ad 1 (cioè grazie a p+q+r = 1) oppure utilizzando il genotipo AB (cioè 2pq = 5.782/190.177 = 0,0304). La somma delle frequenze geniche è nel caso esposto 0,9999, cioè inferiore ad 1: la differenza non è dovuta solamente all'arrotondamento, ma anche al fatto che le frequenze geniche non sono perfettamente in equilibrio e non tutta l'informazione è utilizzabile (nel nostro caso, non si è fatto uso dell'informazione data dalla frequenza del genotipo AB). Se si fosse utilizzato il genotipo AB oppure la somma delle tre frequenze, si sarebbero ottenuti risultati leggermente diversi (ma probabilmente meno esatti, perché ricavati da una quantità inferiore di informazioni); infatti: se r = 0,6833 e p = 0,2568, si ha: q = 1-p-r = 0,0599 oppure 2pq = 5.782/190.177 = 0,0304 e q = 0,0304/0,5136 = 0,0592 mentre se r = 0,6833 e q = 0,0598, si ha: p = 1-q-r = 0,2569 oppure 2pq = 5.782/190.177 = 0,0304 e p = 0,0304/0,1196 = 0,2542 Ricordiamo ancora una volta che il procedimento illustrato PRESUPPONE che le frequenze siano in equilibrio, ed una buona corrispondenza dei valori di p e q calcolati con i due procedimenti può confortare l'ipotesi di equilibrio genetico, la quale NON PUO' PERO' ESSERE DIMOSTRATA. 47 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Ad un risultato simile si perviene anche, dopo aver calcolato r, risolvendo due equazioni di secondo grado, e scegliendo ovviamente la soluzione positiva: p²+2pr = 79.334/190.177 q²+2qr = 16.279/190.177 p²+1,3666p-0,4172 = 0 q²+1,3666q-0,0856 = 0 p = 0,2570 q = 0,06 Anche in questo caso la somma delle tre frequenze risulta diversa da 1 (p+q+r = 1,0003), e ciò non solo per l'arrotondamento utilizzato, ma anche per il non perfetto equilibrio secondo Hardy-Weinberg. Inoltre, se la popolazione fosse perfettamente in equilibrio, si dovrebbero ottenere, utilizzando la frequenza dell'eterozigote AB oppure la somma totale delle frequenze, gli stessi risultati: dato r = 0,6833 e p = 0,2570: q = 1-0,6833-0,2570 = 0,0597 oppure 2pq = 0,0304 e q = 0,0304/0,514 = 0,0591 dato r = 0,6833 e q = 0,06: p = 1-0,6833-0,06 = 0,2567 oppure 2pq = 0,0304 e p = 0,0304/0,12 = 0,2533 Solo il metodo della conta diretta permette effettivamente di valutare se l'equilibrio genetico è presente o meno in una popolazione: quando si fa uso, anche parzialmente (come nel caso del locus AB0), della radice quadrata di un fenotipo recessivo non si può verificare se l'equilibrio è presente o meno, in quanto l'equilibrio è indispensabile premessa al calcolo di una frequenza genica mediante la radice quadrata di un fenotipo recessivo. Come si fa a stabilire se le frequenze geniche sono in equilibrio secondo Hardy-Weinberg? Bisogna confrontare le frequenze osservate con le frequenze attese. Dalla popolazione mendeliana si estrae un campione, e già questa operazione può essere una fonte di errore se non effettuata correttamente; parleremo inoltre di significatività delle differenze, in quanto le differenze stesse potrebbero essere dovute al caso: la popolazione potrebbe cioè essere in equilibrio, ma presentare, per il semplice fatto della casualità delle segregazioni, delle distribuzioni di frequenze leggermente diverse da quelle teoricamente attese secondo la legge di Hardy-Weinberg (è solo questa l'origine delle differenze in una popolazione mendeliana in equilibrio che sia stata interamente campionata). Un locus è in equilibrio quando le differenze fra frequenze osservate ed attese non sono significative. Bisogna evitare gli errori di campionamento, quali ad esempio: - che la popolazione mendeliana sia suddivisa in sottopopolazioni; - che le eventuali differenze di generazione non siano considerate; - che il campione non sia casuale (random). Si utilizza il test Χ² (leggi "chi quadrato"): Χ² = Σ[(O-E)²/E] cioè la sommatoria dei quadrati degli scarti fra frequenze osservate (Observed) e frequenze attese (Expected) divisi per le corrispondenti frequenze attese non deve superare dei valori tabulari, determinati in base ad un livello di significatività prescelto, generalmente il 5% (P ≤ 0,05), ed ai gradi di libertà su cui si basa il confronto. Generalmente parlando, affinché da una popolazione (cioè da un insieme costituito da tutte le possibili osservazioni) si possa ricavare un campione (le osservazioni effettivamente utilizzate per la descrizione della popolazione o per un confronto fra popolazioni) adatto a fini statistici bisogna soddisfare i criteri di randomizzazione e rappresentatività del campione: ovvero, il 48 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 campione deve essere random, cioè casuale nella composizione, e rappresentativo della popolazione da cui è stato estratto, cioè racchiudere in sé le caratteristiche della popolazione di cui fa parte. Solo se i criteri di rappresentatività e casualità del campione sono soddisfatti, le conclusioni si possono statisticamente ritenere valide non solo per il campione, ma anche per la popolazione. Una volta stabilita la frazione di campionamento, cioè la quantità o percentuale di dati da campionare, il campionamento vero e proprio può essere effettuato con varie modalità, da scegliere a seconda delle circostanze. Il campionamento può essere: - casuale semplice (con o senza ripetizione); - sistematico; - a grappolo; - stratificato; - a stadi. Se, ad esempio, si dovesse campionare la popolazione frisona italiana, un campionamento casuale semplice significherebbe estrarre a sorte dall'elenco degli animali da campionare (per semplificare questa operazione sono disponibili delle tabelle di numeri casuali oppure delle funzioni che generano una serie di numeri pseudo-casuali): nel caso di campionamento senza ripetizione, un animale già estratto non verrebbe incluso nella popolazione per successive estrazioni, mentre nel caso di un campionamento con ripetizione un animale parteciperebbe alle successive estrazioni, per cui potrebbe entrare nel campione due o più volte (è un caso abbastanza raro in zootecnia: ad esempio, si pescano in una vasca dei pesci e si rileva su di loro ciò che interessa, quindi li si rigetta nella stessa vasca e si procede ad una nuova pesca; lo stesso potrebbe verificarsi separando momentaneamente delle pecore da un gregge: in questo caso però la ripetizione può essere evitata identificando gli animali con una matricola o semplicemente marcandoli). Un campionamento sistematico potrebbe essere effettuato, ad esempio, entrando nelle varie stalle e scegliendo in ogni stalla il primo animale che si ha modo di osservare (il campionamento sistematico può essere soggetto ad un errore sistematico, quando il criterio seguito introduce una fonte di errore: ad esempio, gli animali potrebbero essere disposti nella stalla per sesso o per età, per cui si sceglierebbe, senza saperlo, sempre un maschio oppure sempre l'animale più giovane); con un campionamento a grappolo, si metterebbero nel campione tutti gli animali di alcune stalle; con un campionamento stratificato si sceglierebbero gli animali nelle diverse stalle in proporzione, ad esempio, al sesso ed alla consistenza nelle varie stalle: per poter effettuare un campionamento stratificato è dunque necessario conoscere alcune caratteristiche della popolazione; con un campionamento a stadi, verrebbero scelti ad esempio solo gli animali di alcune regioni e, con più stadi, gli animali di alcune province nelle regioni già scelte e, con un ulteriore stadio, gli animali di alcuni comuni di alcune province delle regioni scelte. Il Χ² è un indice di dispersione ideato da Pearson, utilizzato per calcolare la probabilità di osservare una determinata ripartizione di frequenze rispetto a quelle attese in base ad una ipotesi. (O - E)² Χ² = Σ -------------------E dove: O è la frequenza osservata; E è la frequenza attesa. Notare che il valore di Χ² dipende dal numero dei termini della sommatoria (o meglio dal numero dei termini della sommatoria stessa che sono realmente "liberi", cioè dal numero dei gradi di libertà). Si utilizzano le frequenze assolute, e non le frequenze relative, perché alle frequenze viene attribuito un valore differente a secondo del numero di osservazioni da cui le frequenze stesse sono state ricavate. Il valore di Χ² è tanto più elevato quanto più è elevata la 49 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 differenza fra la frequenza osservata e la frequenza attesa, ed aumenta in ragione del quadrato di questa differenza: un differenza di 3, rispetto ad una di 1, provocherà un aumento del numeratore di 9 volte (man mano che ci si allontana dalla frequenza attesa, è sempre assai meno probabile che un ulteriore scostamento unitario della frequenza osservata dalla attesa si possa verificare casualmente); il valore è tanto più basso quanto più elevata è la frequenza attesa: su un numero più elevato di osservazioni è più probabile uno scostamento casuale. Questo test non può essere utilizzato nel caso una qualsiasi delle frequenze presenti nel calcolo sia inferiore a 5: in tale circostanza si ricorre ad un test analogo, il "test esatto di Fisher", oppure, se possibile, si riuniscono le classi di frequenza meno rappresentate in classi più ampie. Nel caso di piccoli campioni, con classi superiori a 5 ma inferiori a 100, può essere utilizzata nel calcolo la correzione di Yates (o correzione di continuità), che consiste nel sottrarre e sommare 0,5, prima dell'elevazione al quadrato, rispettivamente al più elevato scostamento positivo ed al più elevato scostamento negativo. La funzione di distribuzione del Χ² è data da: ½n-1 f(Χ²) = ½(Χ²) (Χ²) e -----------------½n 2 Γ(n/2) dove: Χ² è il valore trovato di Χ²; n sono i gradi di libertà. La funzione Γ (leggi "gamma") è, per un numero positivo, pari al fattoriale del numero stesso al quale sia stato sottratto 1 (ovvero Γn=(n-1)!). Dato un numero di gradi di libertà, ogni valore di Χ² ha quindi una propria possibilità di essere osservato, calcolabile in base alla funzione di frequenza riportata. Generalmente, se non si fa uso di programmi statistici su elaboratori elettronici, i quali forniscono il valore esatto delle probabilità del Χ² calcolato per gli opportuni gradi di libertà, si utilizza un'apposita tabella: nelle diverse colonne sono riportati i valori di Χ² per dei livelli standard di probabilità, mentre le righe rappresentano i diversi gradi di libertà. G.d.L. 1 2 .... 10 20 .... 100 .... ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ Probabilità di valori superiori 0,500 0,45 1,39 .... 9,34 19,34 .... 99,33 .... .... .... .... .... .... .... .... .... .... 0,050 3,84 5,99 .... 18,31 31,41 .... 124,34 .... 0,010 6,63 9,21 .... 23,21 37,57 .... 135,81 .... 0,001 10,83 13,82 .... 29,59 45,32 .... 149,45 .... La probabilità con cui accettare o rifiutare un'ipotesi corrisponde al livello di sicurezza con cui si vuole ritenere valide le proprie conclusioni: viene pertanto fissata dallo sperimentatore a seconda del caso; in genere, in zootecnia vengono considerate significative le differenze per cui P ≤ 0,05. Il concetto di gradi di libertà è un concetto assimilabile solo con un po' di esperienza: si tratta del numero di osservazioni realmente indipendenti: ad esempio, per un locus poliallelico, nella verifica dell'equilibrio genetico i gradi di libertà sono pari al numero degli alleli meno 1 50 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 (ma è possibile trovare testi in cui i gradi di libertà sono pari al numero dei fenotipi meno uno, oppure al numero dei fenotipi meno il numero degli alleli), mentre nel caso del controllo di una segregazione i gradi di libertà sono pari al numero dei fenotipi osservati meno 1. IPOTESI: dominanza completa. Aa x Aa Frequenze osservate (totale 4889): AA + 2Aa = 3655 aa = 1234 Frequenze attese: AA + 2Aa = 3/4 (4889) = 3666,75 aa = 1/4 (4889) = 1222,25 Χ²1gdl = (3655-3.66675)²/3666,75 + (1234-1222,25)²/1222,25 = 0,1507 Il valore di Χ² è inferiore a quello tabulare per P≤0,05 ed 1 g.d.l., per cui la segregazione osservata è in accordo con l'ipotesi. IPOTESI: codominanza. Aa x Aa Frequenze osservate (totale 3536): AA = 868 Aa = 1782 aa = 886 Frequenze attese: AA = 1/4 (3536) = 884 2Aa = 1/2 (3536) = 1768 aa = 1/4 (3536) = 884 Χ²2gdl = (868-884)²/884 + (1782-1768)²/1768 + (886-884)²/884 = 0,405 Il valore di Χ² è inferiore a quello tabulare per P≤0,05 e 2 g.d.l., per cui la segregazione osservata è in accordo con l'ipotesi. IPOTESI: letalità omozigote recessivo. Aa x Aa Frequenze osservate (totale 1282): AA = 414 2Aa = 868 51 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Frequenze attese: AA = 1/3 (1282) = 427,3 2Aa = 2/3 (1282) = 854,7 X²1gdl = (414-427,3)²/427,3 + (868-854,7)²/854,7 = 0,621 Il valore di Χ² è inferiore a quello tabulare per P≤0,05 ed 1 g.d.l., per cui la segregazione osservata è in accordo con l'ipotesi. IPOTESI: segregazione diibrido AaBb. In F2 sono stati osservati su un totale di 4082 fenotipi: [AB] = 2458 [Ab] = 603 [aB] = 598 [ab] = 423 Frequenze attese (9:3:3:1): [AB] = 9/16 (4082) = 2296,125 [Ab] = 3/16 (4082) = 765,375 [aB] = 3/16 (4082) = 765,375 [ab] = 1/16 (4082) = 255,125 Χ²3gdl = (2458 - 2296,125)²/2296,125 + (603 - 765,375)²/765,375 + (598 - 765,375)²/765,375 + (423 - 255,125)²/255,125 = 192,926 Poiché il valore di Χ² osservato è superiore a quello tabulato per 3 g.d.l. e P≤0,001, dobbiamo escludere l'ipotesi di segregazione indipendente del diibrido AaBb. Controlliamo allora se, separatamente, le coppie alleliche Aa e Bb segregano nel rapporto 3 ad 1: [A] = 3061 [a] = 1021 attese = 3/4 (4082) = 3061,5 attese = 1/4 (4082) = 1020,5 Χ²1gdl = (3061-3061,5)²/3061,5 + (1021-1020,5)²/1020,5 = 0,0003 [B] = 3056 [b] = 1026 attese = 3/4 (4082) = 3061,5 attese = 1/4 (4082) = 1020,5 Χ²1gdl = (3056-3061,5)²/3061,5 + (1026-1020,5)²/1020,5 = 0,0395 In entrambi i casi il valore di Χ² è inferiore a quello per 1 g.d.l e P≤0,05, per cui le due coppie alleliche segregano, ciascuna per suo conto, nel rapporto atteso di 3 ad 1, ma complessivamente non nelle classiche frequenze 9:3:3:1. Per dimostrare che si tratta di una segregazione non indipendente, come nel caso di due loci posti sullo stesso cromosoma, verifichiamo per differenza l'interazione dei due loci nella segregazione: 52 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Segregazione g.d.l. X² significatività ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------AaBb 3 192,93 P≤0,001 Aa 1 0,0003 non significativo Bb 1 0,040 non significativo ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------"interazione" 1 192,89 P≤0,001 Si può dunque concludere che si tratta effettivamente di un diibrido, in cui la segregazione delle due coppie alleliche non è però indipendente. CONTROLLO EQUILIBRIO GENETICO: A=a (2595 osservazioni). [AA] = 1760 [Aa] = 620 [aa] = 215 p = (1760 + ½ 620)/2595 = 0,798 q = (215 + ½ 620)/2595 = 0,202 Frequenze attese in base alla legge di Hardy-Weinberg: [AA] = p² (2595) = 1652,5 [Aa] = 2pq (2595) = 836,6 [aa] = q² (2595) = 105,9 Χ²1gdl = (1760-1652,5)²/1652,5 + (620-836,6)²/836,6 + (215-105,9)²/105,9 = 175,47 Il valore di Χ² osservato è superiore a quello tabulare per 1 g.d.l. e P≤0,001, per cui la popolazione non è da considerare in equilibrio secondo Hardy-Weinberg. CONTROLLO EQUILIBRIO GENETICO: Z=z (in un gruppo sanguigno di 2047 bovini Jersey). [ZZ] = 542 [Zz] = 1043 [zz] = 462 p = (542 + ½ 1043)/2047 = 0,5195 q = (462 + ½ 1043)/2047 = 0,4805 Frequenze attese in base alla legge di Hardy-Weinberg: [ZZ] = p² (2047) = 552.44 [Zz] = 2pq (2047) = 1021,94 [zz] = q² (2047) = 472,61 Χ²1gdl = (542-552,44)²/552,44 + (1.043-1.021,94)²/1.021,94 + (462-472,61)²/472,61 = 0,8695 53 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Il valore di Χ² osservato è inferiore a quello tabulare per 1 g.d.l. e P≤0,05, per cui la popolazione è da considerare in equilibrio secondo Hardy-Weinberg, e le differenze fra le frequenze osservate ed attese sono da attribuire al caso. IPOTESI: appartenenza di un campione ad una popolazione (locus AB0, 1000 osservazioni). Frequenze ipotizzate nella popolazione: p = 0,35, q = 0,25, r = 0,4. Campione osservato: [A] = 400 [B] = 260 [AB] =175 [0] = 165 Frequenze attese: (p²+2pr) 1000 = 402,5 (q²+2qr) 1000 = 262,5 (2pq) 1000 = 175 (r²) 1000 = 160 Χ²2gdl = (400-402,5)²/402,5 + (260-262,5)²/262,5 + (175-175)²/175 + (165-160)²/160 = 0,1956 Poiché il Χ² è inferiore a quello tabulato per P≤0,05 e 2 g.d.l., la distribuzione osservata è compatibile con quella attesa: il campione può effettivamente appartenere ad una popolazione con le frequenze alleliche indicate. TABELLE DI CONTINGENZA: servono a verificare se due o più caratteri sono indipendenti (ancor prima di aver chiarito il determinismo genetico dei caratteri stessi). Mantello: fenotipo chiaro o scuro. Occhi: fenotipo chiaro o scuro. Mantello Occhi OSSERVAZIONI ----------------------------------------------------------------------Scuro scuri 1605 Scuro chiari 95 Chiaro scuri 395 Chiaro chiari 405 In totale, su 2500 animali, 1700 hanno mantello scuro ed 800 lo hanno chiaro, mentre, per quanto riguarda il colore degli occhi, 2000 li hanno chiari e 500 scuri; la probabilità di avere mantello scuro è dunque 0,68 (cioè 1700/2500) e quella di averlo chiaro 0,32 (cioè 800/2500, o anche 1-0,68); la probabilità di avere occhi scuri è 0,8 (cioè 2000/2500), quella di avere occhi chiari 0,2 (cioè 500/2500, o anche 1-0,8). Se i due caratteri fossero indipendenti, in base al principio della probabilità composta, gli animali con mantello ed occhi scuri dovrebbero essere 1360 (cioè 0,68 x 0,8 x 2500), quelli con mantello scuro ed occhi chiari 340 (cioè 0,68 x 0,2 x 2500), quelli con mantello chiaro ed occhi scuri 640 (cioè 0,32 x 0,8 x 2500), ed infine quelli con mantello ed occhi chiari 160 (cioè 0,32 x 0,2 x 2500). In altre parole, dei 1700 animali con mantello scuro, 1360 (80%) dovrebbe avere occhi scuri e 340 (20%) occhi chiari, mentre gli 800 animali con mantello chiaro dovrebbero avere, in base alle stesse percentuali, 640 occhi scuri e 160 occhi chiari. 54 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Il tutto può essere riassunto nella seguente tabella di contingenza: OCCHI Scuri Chiari TOTALE MANTELLO Scuro Chiaro Osservati Attesi Osservati Attesi 1605 1360 395 640 95 340 405 160 1700 800 TOTALE 2000 500 2500 In una tabella di contingenza, il numero dei gradi di libertà si calcola con la formula gdl = (r-1) x (c-1) dove r è il numero delle righe e c il numero delle colonne della tabella; nel nostro caso, (2-1) x (2-1) = 1 g.d.l. (tabella 2 x 2). Χ²1gdl = (1605-1360)²/1360 + (395-640)²/640 + (95-340)²/340 + (405-160)²/160 = 689,625 Poiché il valore di Χ² trovato supera il valore tabulare per P≤0,001 ed 1 g.d.l., dobbiamo concludere che i due caratteri non sono indipendenti, e cioè gli animali con mantello scuro hanno più frequentemente occhi scuri, mentre quelli con mantello chiaro hanno più frequentemente occhi chiari (potrebbe ad esempio trattarsi di loci associati). STIMA DELLA FREQUENZA DEI PORTATORI. Supponiamo che in un locus biallelico l'allele recessivo a sia responsabile di una grave malattia: in altre parole, che gli omozigoti recessivi aa siano soggetti ad una selezione naturale o artificiale che li porta a non riprodursi. I genotipi possibili alla nascita sono tre (AA, Aa ed aa), ma gli accoppiamenti possibili, dato che aa non è in grado di riprodursi, si riducono da 6 a 3: ACCOPPIAMENTO RISULTATO ---------------------------------------------------------------------AA x AA tutti AA AA x Aa ½ AA + ½ Aa AA x aa accoppiamento impossibile Aa x Aa ¼ AA + ½Aa + ¼ aa Aa x aa accoppiamento impossibile aa x aa accoppiamento impossibile Vediamo dunque che la nascita degli omozigoti recessivi aa è determinata dalla frequenza degli eterozigoti (portatori, fenotipicamente sani, del gene per la malattia): esprimiamo allora le frequenze in termini di q. La frequenza degli eterozigoti, nell'intera popolazione (compresi gli omozigoti recessivi) è data da 2pq = 2q(1-q); la frequenza degli eterozigoti nella popolazione di individui normali è data da 2pq / (p²+2pq) = 2q(1-q) / [(1-q)²+2q(1-q)] = 2q / (1-q+2q) = 2q/(1+q). 55 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 ESEMPIO: su 55715 bambini nati in 3 anni a Birmingham (G.B.), 5 erano affetti da fenilchetonuria. Stimare la frequenza dei portatori nella popolazione totale e fra gli individui sani. ½ f(a) = q = (5/55715) = 0,0095 frequenza dei portatori sui bambini nati = 2q(1-q) = 0,019 x 0,9905 = 0,0188 frequenza dei portatori nella popolazione sana = 2q/(1+q) = 0,019/1,0095 = 0,0188 Poco meno del 2% della popolazione è costituita da portatori sani: a causa della bassa frequenza di soggetti affetti dalla malattia le due frequenze sono praticamente uguali. GENOTIPI IN UN LOCUS BIALLELICO 1,0 F r e q u e n z e ,8 ,6 ,4 ,2 0,0 0 0,25 0,5 0,75 1 Frequenza di a AA Aa aa ALLELE RECESSIVO LETALE a ,070000 P O R T A T O R I ,060000 ,050000 ,040000 ,030000 / S A N I ,020000 ,010000 0,000000 0,00001 0,0001 0,001 AFFETTI / NATI Se le frequenze geniche non variassero da una generazione alla successiva le popolazioni avrebbero scarsa possibilità di modificarsi; in realtà le popolazioni sono in un continuo divenire, e le nuove generazioni sono sempre diverse dalle precedenti. Occorre, come già ripetuto più volte, superare il concetto statico di razza; all'inizio vennero definiti degli standard, ed alcuni standard di razza sono rimasti invariati per almeno 150 anni; ancora oggi 56 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 è difficile far capire agli stessi tecnici la necessità di aggiornare frequentemente gli standard di razza. Quali sono le forze che fanno variare le popolazioni? Sono quelle forze che fanno variare le frequenze geniche da una generazione all'altra, e che fanno in tal modo variare in misura maggiore o minore l'equilibrio genetico (lo possono far perdere e far attestare su equilibri diversi). La perdita dell'equilibrio genetico può essere molto pericolosa per una popolazione, soprattutto se riguarda più loci. Le forze in grado di far variare l'equilibrio genetico sono 4: - mutazione; - migrazione (o flusso genico); - selezione (riproduzione differenziale dei genotipi); - deriva genetica. Mutazione, migrazione e selezione provocano delle pressioni sistematiche: conoscendole, si può prevedere quali saranno le frequenze geniche nelle generazioni successive; in altre parole, i cambiamenti prodotti da mutazioni, migrazioni e selezione sono prevedibili sia in intensità che in direzione. ∆q (leggi "delta q") è la misura dello spostamento della frequenza genica q da una generazione a quella successiva all'azione della forza stessa. La deriva genetica agisce attraverso una pressione dispersiva: pur conoscendo le frequenze geniche, non si è in grado di prevedere le frequenze della generazione successiva; è una situazione che bisogna cercare di evitare. Nelle popolazioni che vanno scomparendo lo stato "preagonico" della popolazione stessa è rappresentato dalla deriva genetica. Si può solo ipotizzare il grado delle modificazioni dovute alla deriva genetica, ma non la direzione. Mutazioni, migrazioni e deriva genetica provocano delle variazioni fortuite, solo la selezione sembra avere un aspetto "finalistico" di adattamento del fenotipo degli animali; inoltre mutazioni, migrazioni e deriva genetica agiscono su tutti i loci, mentre la selezione interessa esclusivamente i loci non neutri; con la selezione i loci neutri possono variare per il cosiddetto "effetto autostop", cioè "trascinati" dai loci non neutri soggetti a selezione con i quali i loci neutri in oggetto sono associati. Le mutazioni, anche quelle ricorrenti, hanno praticamente nessuna forza nel far variare le frequenze geniche: richiederebbero un numero elevatissimo di generazioni. Ugualmente pochissima forza hanno le migrazioni, per le quali occorre però fare una distinzione fra popolazioni omogenee e popolazioni non omogenee (erosione genetica). Nel far variare le frequenze la forza più importante è la selezione. La deriva genetica esiste sempre, ma è importante solo se la popolazione è piccola. LA SELEZIONE. La selezione fu definita come termine da Charles Darwin (1809-1882); è il metodo con cui l'uomo "migliora" le popolazioni per i suoi fini. Bisogna distinguere una selezione gametica da una selezione zigotica; la selezione gametica è anche detta genica, quella zigotica è anche definita genotipica. La selezione gametica o genica è la riproduzione differenziale dei geni: dato un locus biallelico, un allele ha una capacità riproduttiva superiore all'altro allele perché il gamete con il primo allele si riproduce meglio del gamete con il secondo allele; è un modello teorico, difficile da comprendere (il gamete è espressione del genotipo dell'animale che si riproduce, non dei geni che il gamete stesso porta), ricavato da animali inferiori: non ha significato zootecnico, ed è stato ipotizzato ad esempio come una possibile ipotesi circa le frequenze geniche dei gatti senza coda dell'isola di Man. Nella selezione zigotica la selezione non si verifica sul gene ma sulla combinazione degli alleli di un locus polimorfo (è molto più semplice da capire, giacché il genotipo selezionato si è espresso nel fenotipo). La selezione naturale è in realtà una selezione del fenotipo. Nella selezione zigotica o genotipica la selezione agisce nella riproduzione differenziale dei genotipi all'interno di un locus polimorfo. 57 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Non esiste un solo tipo di selezione: tratteremo la selezione con coefficienti selettivi costanti, ma ne esistono altri tipi. TIPI DI SELEZIONE 1234567- selezione a coefficienti costanti selezione dipendente dalla frequenza selezione dipendente dalla densità valore selettivo ineguale nei due sessi selezione ciclica selezione disruptiva interazione fra tipi di selezione diversa Nella selezione a coefficienti costanti, i valori selettivi sono costanti e non variano al variare delle frequenze alleliche. Nella selezione dipendente dalla frequenza i valori selettivi variano al variare delle frequenze alleliche; la correlazione fra il valore selettivo di un genotipo e la sua frequenza è negativa: un genotipo sarà cioè avvantaggiato dal diminuire della sua frequenza. Nella selezione dipendente dalla densità c'è un variare della fitness dipendente dalla densità della popolazione in un habitat ben definito. Nella selezione con valore selettivo ineguale nei due sessi lo stesso allele è soggetto a pressioni selettive differenti a seconda del sesso. Nella selezione ciclica la fitness cambia ciclicamente, con il variare ciclico dell'ambiente (ad esempio, con le stagioni). Nella selezione disruptiva, due sottopopolazioni separate da una diversa nicchia ecologica, possono riprodursi ed entrare in un nuovo equilibrio. I tipi di selezione citati possono inoltre avvenire anche contemporaneamente. La selezione può anche essere distinta in stabilizzatrice, direzionale, ciclica e diversificante. Nella selezione stabilizzatrice viene selezionato il fenotipo medio (se pensiamo ad una curva normale, si riproducono gli individui prossimi alla media); nella selezione direzionale viene selezionato uno dei due fenotipi estremi (cioè gli individui vicini ad una estremità della curva normale): è il caso tipico degli animali in produzione zootecnica, in cui l'uomo seleziona i migliori; nella selezione ciclica dei fattori ciclici, come ad esempio l'alternarsi delle stagioni, favoriscono in un certo periodo gli individui vicini ad un estremo della curva normale ed in un periodo successivo quelli prossimi all'altro estremo (ad esempio, un mantello bianco quando c'è la neve invernale ed un mantello selvaggio in estate); nella selezione diversificante i due estremi fenotipici vengono selezionati contemporaneamente (si riproducono cioè solo i fenotipi alle due estremità della curva normale, mentre gli intermedi vengono eliminati). Una distinzione molto semplice è quella fra selezione naturale e selezione artificiale: nella selezione naturale è l'ambiente che condiziona la riproduzione dei genotipi, nella selezione artificiale è l'uomo. La selezione artificiale è principalmente effettuata su popolazioni domestiche estremamente migliorate, sulle quali la selezione naturale non è praticamente più attiva; la selezione naturale è attiva soprattutto sulle razze primarie. Lo stesso Darwin ipotizzò la presenza di un altro tipo di selezione, la selezione sessuale, sulla cui esistenza ed eventualmente importanza si hanno ancora oggi pareri controversi; la selezione sessuale è basata sulla preferenza di un sesso ad accoppiarsi con particolari fenotipi dell'altro sesso: è probabilmente alla base dei dimorfismi sessuali più esasperati, che probabilmente non sopravviverebbero alla selezione naturale (ad esempio, la coda di alcuni uccelli maschi, come il pavone, è indispensabile per il corteggiamento ma è sicuramente svantaggiosa perché rende l'animale stesso più vulnerabile ai predatori). Studieremo la selezione a coefficienti selettivi costanti, con particolare riferimento a quella direzionale, cioè alle selezione dei genotipi "estremi". La selezione è la riproduzione differenziale dei genotipi polimorfi. Ogni genotipo ha una sua misura del valore riproduttivo, la fitness, termine già introdotto da Darwin; la definizione di fitness è molto complessa, e noi 58 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 cercheremo di semplificarla utilizzandola in termini relativi, cioè di rapporti fra le efficienze riproduttive dei diversi genotipi. La fitness è dapprima un fenomeno relativo ad un locus, poi relativo all'insieme di loci di un individuo, infine della popolazione di individui con quei loci. La fitness è definibile solo per i loci non neutri, che complessivamente non sono molti. Per la fitness si valutano due elementi: la fertilità e la "viabilità" (un francesismo che potremmo tradurre in compatibilità con la vita). 1)- selezione dovuta ad una differente viabilità (=compatibilità con la vita) nelle varie fasi di sviluppo - selezione gametica - selezione zigotica (prenatale e postnatale) 2)- selezione dovuta ad una differente fertilità - alcuni genotipi sono meno fertili di altri - alcuni tipi di accoppiamento sono incompatibili e la fertilizzazione non avviene 3)- selezione familiare (Haldane, 1924) [di scarsa importanza in zootecnia]: i discendenti di un certo accoppiamento possono avere nel complesso una diversa viabilità in relazione al genotipo di ciascun componente della famiglia. Che cosa è la fitness? Abbiamo visto che si compone di fertilità e viabilità. Possiamo tentare di definirla in maniera assoluta o in maniera relativa. In termini assoluti, la fitness di un genotipo potrebbe essere definita come il numero medio di figli nati vivi e vitali nella carriera riproduttiva di un individuo caratterizzato da quel genotipo: ad esempio, se in una popolazione da 100 omozigoti recessivi ad un locus biallelico nascono 200 individui, la fitness è 200/100=2. Esistono però alcuni problemi nel definire la fitness in questi termini: ad esempio, l'allele recessivo potrebbe essere "dannoso" rispetto al dominante, ma dall'esempio illustrato ciò non si capisce; inoltre se il carattere è raro è difficile avere un campione sufficientemente ampio; la fitness dipenderebbe non solo dal genotipo + esaminato ma anche dai possibili accoppiamenti (ad esempio, per il fattore Rh ed Rh nell'uomo): in tal caso la fitness varierebbe anche al variare delle frequenze geniche; alcuni caratteri potrebbero essere evidenti solo nella vita adulta. Una migliore definizione, sempre in termini assoluti, di fitness di un genotipo è dato dal numero medio di figli per gli individui con quel determinato genotipo, prendendo in considerazione la generazione parentale e quella filiale nella stessa fase di sviluppo. Con questa definizione si tiene conto sia della fertilità che della viabilità del genotipo. La fitness relativa di un genotipo in una popolazione è una grandezza proporzionale al numero medio di figli che tale genotipo produce e che contribuiscono alla generazione successiva: per rendere proporzionale la fitness si confrontano le differenti fitness dei genotipi presenti nella popolazione. Ad esempio: GENOTIPO AA Aa aa -----------------------------------------------------------fitness assoluta 5 3 2 fitness relativa 2,5 1,5 1 fitness relativa 0,5 0,3 0,2 fitness relativa 1 0,6 0,4 (dando valore unitario alla fitness più bassa) (la somma totale delle fitness è 1) (dando valore unitario alla fitness più elevata) Per esprimere la fitness relativa si utilizza in genere l'ultimo metodo, si dà cioè valore 1 alla fitness più elevata: ciò non deve però essere inteso come assenza di selezione per tale 59 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 genotipo (nel nostro caso AA), ma indica solamente che quello è il genotipo con la massima capacità riproduttiva. I genotipi con fitness inferiore ad 1 hanno un coefficiente di selezione (anch'esso relativo), pari ad 1-fitness. La fitness viene generalmente indicata con w, il coefficiente di selezione con s. Nell'esempio, i coefficienti di selezione per l'eterozigote e l'omozigote recessivo sono: sAa = 1-0,6 = 0,4 = 1-0,4 = 0,6 saa E' ovvio che potremmo anche esprimere la fitness come 1-s, cioè nel nostro caso: wAA = 1-sAA = 1-0 = 1 = 1-sAa = 1-0,4 = 0,6 wAa waa = 1-saa = 1-0,6 = 0,4 Nel caso in cui l'eterozigote ha una fitness minore di entrambi gli omozigoti, la popolazione tende a diventare omozigote per il gene con la maggior frequenza iniziale: teoricamente, nel caso le frequenze di partenza siano uguali, la situazione è in equilibrio (con gli eterozigoti si elimina uno stesso numero di alleli A ed a, per cui se gli alleli hanno uguale frequenza si elimina anche un'identica frazione di geni A ed a, lasciando così invariate le frequenze), ma ovviamente anche un minimo effetto delle deriva genetica porta ad uno squilibrio che, per quanto piccolo, è l'inizio della tendenza alla fissazione del gene più frequente. Se un allele è incondizionatamente vantaggioso (cioè l'animale omozigote per questo gene ha una maggiore fitness dell'animale omozigote per l'altro allele, indipendentemente dal fatto che la fitness dell'eterozigote sia come quella dell'uno o dell'altro omozigote) tende a fissarsi nella popolazione; viceversa, se un allele è incondizionatamente svantaggioso (cioè l'animale omozigote per questo gene ha una minore fitness dell'animale omozigote per l'altro allele, indipendentemente dal fatto che la fitness dell'eterozigote sia come quella dell'uno o dell'altro omozigote) tende a scomparire dalla popolazione (ovvero è l'altro allele che tende a fissarsi). Un caso più complesso è il polimorfismo bilanciato o vantaggio dell'eterozigote; un famoso esempio è quello dell'anemia falciforme: un modello di equilibrio simile a questo è chiamato in causa anche in numerose situazioni zootecniche (ad esempio, nascita di ovini a vello colorato). L'anemia falciforme è dovuta ad un gene mutato S, codominante con il gene non mutato A, il quale codifica per una particolare emoglobina in cui un aminoacido è sostituito da un altro: tale sostituzione provoca, a basse tensioni di ossigeno, una particolare disposizione spaziale delle molecole di emoglobina all'interno dell'eritrocita, il quale assume conseguentemente la caratteristica forma a falce che dà il nome alla malattia. L'omozigote SS è affetto da una gravissima forma di anemia; l'eterozigote AS (o SA) ha una forma subclinica di anemia, ed è riconoscibile per la presenza nello striscio di sangue di un certo numero di forme eritrocitarie a falce; l'omozigote AA è l'individuo normale. Date queste premesse, ci si dovrebbe aspettare che la selezione naturale abbia nel tempo abbassato la frequenza q dell'allele S: gli individui SS infatti di regola non si riproducono; in alcune popolazioni umane la frequenza dell'allele S risulta invece elevata. Una prima ipotesi potrebbe essere che la frequenza dell'allele S, nonostante la selezione naturale, non diminuisce perché c'è una mutazione ricorrente dell'allele A in S: tale ipotesi è però da scartare, sia perché la frequenza q è troppo elevata per essere mantenuta da una mutazione, sia perché la mutazione stessa non è stata mai riscontrata in analisi di gruppi familiari. L'osservazione che la frequenza dell'allele S nelle popolazioni umani è proporzionale all'incidenza della malaria, nonché la maggior resistenza degli eterozigoti alla malaria sia in infezioni sperimentali che naturali hanno portato all'ipotesi di una maggior fitness dell'eterozigote rispetto al normale genotipo AA negli habitat dove la malaria è endemica: a favore di tale ipotesi potrebbero esserci diverse basi fisiologiche, ad esempio l'eritrocita con emoglobina SA potrebbe non 60 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 essere un ambiente di vita adatto per il parassita, oppure l'organismo potrebbe meglio individuare e neutralizzare il parassita con le proprie difese macrofagiche quando, alle basse tensioni di ossigeno (come nei capillari), il globulo rosso tende a modificare la propria forma. Nel modello esposto entrambi i genotipi omozigoti hanno una fitness inferiore a quella dell'eterozigote; indichiamo con s1 il coefficiente selettivo dell'omozigote AA e con s2 il coefficiente selettivo contro l'omozigote SS. Se q è la frequenza dell'allele S in una generazione, quale sarà la frequenza q1 dello stesso allele nella generazione successiva? GENOTIPO ¦ AA AS SS ---------------------------------------------------------------------fitness ¦ 1-s1 1 1-s2 q1= q²(1-s2)+pq --------------1-s1p²-s2q² e poiché p=1-q si ha q1= q²(1-s2)+q(1-q) ------------------1-s1p²-s2q² = q²-q²s2+q-q² ----------------1-s1p²-s2q² = q-q²s2 ------------1-s1p²-s2q² Avendo calcolato la frequenza dell'allele S nella nuova generazione, è anche possibile calcolare la differenza di frequenza dell'allele stesso fra le due generazioni: q-s2q² -------------- - q 1-s1p²-s2q² ∆q = = q-s2q²-q+s1p²q+s2q -----------------------1-s1p²-s2q² q1-q = 3 = = q(-s2q+s1p²+s2q²) ----------------------1-s1p²-s2q² q-s2q²-q(1-s1p²-s2q²) -------------------------- = 1-s1p²-s2q² = q[s1p²+s2q(-1+q)] --------------------1-s1p²-s2q² poiché è q=1-p si ha ∆q = q[s1p²+s2q(-1+1-p)] ------------------------1-s1p²-s2q² = q(s1p²-s2qp) -----------------1-s1p²-s2q² = pq(s1p-s2q) -------------1-s1p²-s2q² E' possibile anche calcolare delle frequenze di equilibrio, ovvero delle frequenze in cui ∆q=0: pq(s1p-s2q) --------------1-s1p²-s2q² = 0 Una prima soluzione si ha quando pq=0, il che è possibile, essendo p+q=1, solo quando p=1 e q=0 oppure p=0 e q=1: in altri termini, quando il locus è fisso. 61 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Una seconda soluzione si ha quando s1p-s2q=0, ovvero quando s1p=s2q, da cui si può ricavare s1p=s2(1-p) ¦ ¦ ¦ ¦ ¦ s1p+s2p=s2 p=s2/(s1+s2) s2q=s1(1-q) s2q+s1q=s1 q=s1/(s1+s2) Esistono dunque delle frequenze di equilibrio, ma vengono sempre raggiunte in un simile modello? Sì, perché se la frequenza q è minore di quella di equilibrio, e conseguentemente p è maggiore, s1p-s2q è positivo, e quindi ∆q è positivo, per cui la frequenza q aumenta e p diminuisce; se, al contrario, la frequenza q è superiore a quella teorica all'equilibrio, e di conseguenza p è inferiore, s1p-s2q è negativo, e quindi ∆q è negativo, per cui q diminuisce e p aumenta. ESEMPIO fitness AA = AS = SS = 1-1/9 = 1-0 = 1-1 = 8/9 1 0 frequenze all'equilibrio p = 1/(1+1/9) = q = (1/9)/(1+1/9) = 0,9 0,1 genotipi alla nascita con frequenze all'equilibrio (totale 100) AA = 100 p² = 100(0,9)² = 81 AS = 100 2pq = 200(0,9)(0,1) = 18 SS = 100 q² = 100(0,1)² = 1 genotipi dopo la selezione AA = 81(8/9) = 72 AS = 18(1) = 18 SS = 1(0) = 0 -------------------------------------------------totale 90 Si può controllare che le frequenze geniche dopo la selezione sono rimaste uguali: p = (72+18/2)/90 = 0,9 q = (18/2)/90 = 0,1 Invece, partendo da una frequenza dell'allele S inferiore a quella di equilibrio, la frequenza stessa aumenta: p q = = 0,99 0,01 62 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 genotipi alla nascita (totale 10000) AA = 10000 p² = AS = 10000 2pq = SS = 10000 q² = 10000(0,99)² 20000(0,99)(0,01) 10000(0,01)² = = = 9801 198 1 genotipi dopo la selezione AA = 9801(8/9) = 8712 AS = 198(1) = 198 SS = 1(0) = 0 ----------------------------------------------------totale 8910 frequenze geniche dopo la selezione p = (8712+198/2)/8910 = q = (198/2)/8910 = 0,989 0,011 Al contrario, partendo da una frequenza dell'allele S superiore a quella di equilibrio, la frequenza si riduce: p q = = 0,8 0,2 genotipi alla nascita (totale 100) AA = 100 p² = AS = 100 2pq = SS = 100 q² = 100(0,8)² 200(0,8)(0,2) 100(0,2)² = = = 64 32 4 genotipi dopo la selezione AA = 64(8/9) = 56,889 AS = 32(1) = 32 SS = 4(0) = 0 ------------------------------------------------------totale 88,889 frequenze geniche dopo la selezione p = (56,889+32/2)/88,889 = q = (32/2)/88,889 = 0,82 0,18 L'andamento delle frequenze geniche è dunque prevedibile; si può anche, al contrario, risalire al numero di generazioni trascorse dalla comparsa della mutazione. 63 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 POLIMORFISMO BILANCIATO FREQUENZA DI EQUILIBRIO DELL'ALLELE A 1,0 F R E Q U E N Z A ,8 ,6 ,4 ,2 0,0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 0,8 0,9 FITNESS AA fitness BB = 0,2 fitness BB = 0,6 fitness BB = 0,4 fitness BB = 0,8 Supponiamo ora di avere un campione di individui adulti, ricavato da una popolazione che si presuppone aver ormai raggiunto l'equilibrio: come si calcolano i valori di fitness? Essendo la popolazione in equilibrio, le frequenze alla nascita dovrebbero essere come quelle negli adulti: possiamo allora calcolare le frequenze geniche e da queste le frequenze genotipiche attese secondo la legge di Hardy-Weinberg; la fitness relativa viene calcolata in base ai rapporti fra frequenze osservate ed attese, espressi in proporzione al valore più elevato. ESEMPIO Frequenze genotipiche negli adulti (totale 12387) AA = 9365 AS = 2993 SS = 29 Frequenze geniche di equilibrio p = (9365+2993/2)/12387 q = (29+2993/2)/12387 = = 0,877 0,123 Frequenze attese secondo Hardy-Weinberg AA = 12387 p² = 9527,2 AS = 12387 2pq = 2672,4 SS = 12387 q² = 187,4 Rapporti fra frequenze osservate ed attese AA = 9365/9527,2 = AS = 2993/2672,4 = SS = 29/187,4 = Fitness AA = AS = SS = 0,983/1,12 1,12/1,12 0,155/1,12 = = = 0,983 1,12 0,155 0,878 1 0,138 64 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Se le frequenze non sono in equilibrio per il calcolo della fitness occorrono due campioni, uno relativo alla popolazione prima della selezione ed uno relativo alla popolazione dopo l'azione della forza selettiva: la fitness relativa può essere espressa dal rapporto fra la frequenza genotipica nella popolazione dopo la selezione e la frequenza genotipica nella popolazione non ancora selezionata, sempre in proporzione al genotipo che ha la fitness più elevata. ESEMPIO Campione prima della selezione, ovvero nati (totale 287) AA = 189 AS = 89 SS = 9 Campione dopo la selezione, ovvero adulti (totale 654) AA = 400 AS = 249 SS = 5 Frequenze genotipiche dei neonati AA = 189/287 = AS = 89/287 = SS = 9/287 = 0,6585 0,3101 0,0314 Frequenze genotipiche degli adulti AA = 400/654 = AS = 249/654 = SS = 5/654 = 0,6116 0,3807 0,0076 Rapporti fra le frequenze genotipiche AA = 0,6116/0,6585 = 0,9288 AS = 0,3807/0,3101 = 1,2277 SS = 0,0076/0,0314 = 0,2420 Fitness AA = AS = SS = 0,9288/1,2277 = 1,2277/1,2277 = 0,2420/1,2277 = 0,7565 1 0,1971 E' possibile notare che la frequenza dell'allele S nei due campioni è diversa, a conferma del probabile non equilibrio: q(neonati) q(adulti) = = (9+89/2)/287 = (5+249/2)/654 = 0,1864 0,1980 La frequenza di equilibrio è (1-0,7565)/[(1-0,7565)+(1-0,1971)]=0,2327 65 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Più semplice nel calcolo è: Rapporti fra le osservazioni AA = 400/189 = AS = 249/89 = SS = 5/9 = 2,1164 2,7978 0,5556 Fitness AA = AS = SS = 0,7565 1 0,1986 2,1164/2,7978 = 2,7978/2,7978 = 0,5556/2,7978 = Le differenze rispetto ai valori calcolati in precedenza sono dovute agli arrotondamenti, in quanto i due metodi sono matematicamente equivalenti: Fitness AA = AS = SS = [(400/654)/(189/287)] / [(249/654)/(89/287)] = (400/189) / (249/89) [(249/654)/(89/287)] / [(249/654)/(89/287)] = 1 [(5/654)/(9/287)] / [(249/654)/(89/287)] = (5/9) / (249/89) Se non si fossero campionati i neonati e si fosse utilizzato il metodo precedentemente applicato per una popolazione in equilibrio si sarebbe giunti a conclusioni errate, come dimostrano i calcoli seguenti: Frequenze osservate negli adulti (totale 654) AA = 400 AS = 249 SS = 5 Frequenze attese AA = 654 p² AS = 654 2pq SS = 654 q² = = = 654 (0,80199)² 1308 (0,80199)(0,19801) 654 (0,19801)² = = = 420,64 207,71 25,64 Rapporto fra frequenze osservate ed attese AA = 400/420,64 = 0,95093 AS = 249/207,71 = 1,19879 SS = 5/25,64 = 0,19501 Fitness AA = AS = SS = 0,95093/1,19879 1,19879/1,19879 0,19501/1,19879 = = = 0,79324 1 0,16267 Il modello con vantaggio selettivo dell'eterozigote viene anche indicato come superdominanza: si intende in tal modo dire che l'eterozigote domina, relativamente alla fitness, su entrambi gli omozigoti; attenzione a non confondere fitness e carattere: è ovvio che, riguardando la fitness il fenotipo, essa è influenzata dal tipo di eredità, cioè da come il genotipo si esprime nel fenotipo (cioè dal fatto che i due alleli abbiano rapporti di dominanza 66 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 e recessività completa, A>a, oppure di codominanza, A=B, e dalla penetranza nell'eterozigote). Non confondere, ad esempio, un eterozigote con superdominanza intesa in senso mendeliano, come una maggior quantità del carattere (che, se svantaggioso, potrebbe dare minor fitness), con la superdominanza intesa come maggior fitness dell'eterozigote: fare quindi attenzione, nelle successive figure, alla differente simbologia Aa e AB. Il vantaggio selettivo dell'eterozigote è un modello frequentemente utilizzato in zootecnia per spiegare alcune situazioni particolari (nascita di agnelli a vello colorato, insorgenza della resistenza a rodenticidi o insetticidi). Relativamente alla fitness dell'eterozigote possiamo ipotizzare, oltre alla superdominanza in cui l'eterozigote ha fitness relativa 1 ed i due omozigoti sono soggetti a due coefficienti selettivi s1 e s2, altre quattro possibilità: la dominanza completa, l'assenza di dominanza, la dominanza parziale e la sottodominanza. Nella dominanza completa l'eterozigote ha la stessa fitness di un omozigote: la selezione si ha solo contro un omozigote oppure nella stessa misura contro un omozigote e l'eterozigote; nell'assenza di dominanza la fitness dell'eterozigote è la media delle fitness dei due omozigoti (ovvero il coefficiente selettivo dell'eterozigote è la metà di quello dell'omozigote sfavorito); nella dominanza parziale la fitness dell'eterozigote è intermedia fra quella dei due omozigoti (ma non è la media delle due fitness): è in genere più vicina alla fitness dell'omozigote "dominante", ovvero di quello che ha fitness 1, (la cui fitness penetra appunto parzialmente nell'eterozigote); nella sottodominanza la fitness dell'eterozigote è inferiore alla fitness di entrambi gli omozigoti (che hanno in genere entrambi fitness 1). SUPERDOMINANZA 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| BB AA AB 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| AA AB BB DOMINANZA COMPLETA 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| aa AA Aa 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| AA aa Aa 67 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 ASSENZA DI DOMINANZA 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| BB AB AA AB ha carattere intermedio oppure A>B con penetranza 50% DOMINANZA PARZIALE 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| BB AB AA I caso: AB ha carattere più simile ad AA che a BB II caso: A>B ma con penetranza parziale Solo nel secondo caso è possibile avere: 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| BB AB AA SOTTODOMINANZA 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| AB BB AA 0 fitness 1 |-------------------------------------------------------------------------------------------------------| AB AA BB Come già illustrato per la superdominanza (vantaggio selettivo per l'eterozigote), anche per la dominanza completa, la assenza di dominanza, la dominanza parziale e la sottodominanza si potrebbero calcolare le frequenze geniche nelle successive generazioni: si tratta comunque di tutte situazioni che portano, a differenza del vantaggio selettivo per l'eterozigote, alla fissazione di un allele (l'allele favorito nei casi di dominanza completa, dominanza parziale ed assenza di dominanza, oppure l'allele più frequente nel caso di sottodominanza con omozigoti di fitness 1). Poiché con la sola eccezione della superdominanza l'esito finale della selezione è la fissazione del locus, l'interesse non è tanto nel calcolo delle frequenze di equilibrio e del tempo necessario per raggiungere l'equilibrio, come appunto nel caso della superdominanza, bensì nel calcolo del tempo necessario per raggiungere la fissazione. 68 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Ad esempio, supponiamo di selezionare contro un omozigote recessivo: genotipo frequenza iniziale coefficiente selettivo fitness contributo gametico AA p² 0 1 p² Aa 2pq 0 1 2pq aa q² s 1-s q²(1-s) (totale = 1) (totale = 1-sq²) Le frequenze genica dell'allele recessivo nella successiva è pertanto: q1 = q²(1-s) + pq ---------------1-sq² da cui, poiché p=1-q, si ricava: q1 = q - q²s ----------1-sq² La differenza nelle frequenze geniche fra due generazioni successive è: ∆q = q1 - q = -sq²(1-q)/(1-sq²) Supponiamo che degli omozigoti recessivi aa siano stati favoriti dalla selezione naturale perché meglio mimetizzati, e che l'allele a abbia raggiunto una frequenza di 0,8; con il cambio di stagione, le modifiche del paesaggio rendono però gli animali aa sfavoriti, perché più visibili ai predatori, e lo svantaggio è pari ad una fitness 0,5: come si modificheranno le frequenze nelle due generazioni successive? q1 = q - q²s 0,8 - 0,8² (0,5) 0,48 ------------ = ------------------------- = ------1-sq² 1 - 0,8² (0,5) 0,68 q2 = q1 - q1²s ------------1-sq1² = 0,70588 0,70588 - 0,70588² (0,5) = ------------------------------- = 0,60829 1 - 0,70588² (0,5) Infatti: AA Aa aa = p² = (1-0,8)² = 2pq = 2 (1-0,8) (0,8) = q² = 0,8² = 0,04 = 0,32 = 0,64 ¦ AA Aa aa ¦ 0,04 0,32 0,64 ------------------------------------------------------------------------AA 0,04 ¦ 0,0016 0,0128 0,0256 Aa 0,32 ¦ 0,0128 0,1024 0,2048 aa 0,64 ¦ 0,0256 0,2048 0,4096 69 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 AA Aa aa = 0,0016 + 0,0064 + 0,0064 + 0,0256 = 0,0064 + 0,0256 + 0,0064 + 0,0512 + 0,1024 + 0,0256 + 0,1024 = 0,0256 + 0,1024 + 0,1024 + 0,4096 = 0,04 = 0,32 = 0,64 Azione della selezione: AA = 0,04 Aa = 0,32 aa = 0,64 (0,5) = 0,32 --------------------------------TOTALE 0,68 f(A) = [0,04 + ½ (0,32)] / 0,68 = 0,29412 f(a) = [0,32 + ½ (0,32)] / 0,68 = 0,70588 Trasformiamo le frequenze e calcoliamo la generazione successiva: AA = 0,04 / 0,68 = 0,05882 Aa = 0,32 / 0,68 = 0,47059 aa = 0,32 / 0,68 = 0,47059 ¦ AA Aa aa ¦ 0,05882 0,47059 0,47059 -----------------------------------------------------------------------------------------------------AA 0,05882 ¦ 0,00346 0,02768 0,02768 Aa 0,47059 ¦ 0,02768 0,22145 0,22145 aa 0,47059 ¦ 0,02768 0,22145 0,22145 AA = 0,00346 + 0,01384 + 0,01384 + 0,05536 Aa = 0,01384 + 0,02768 + 0,01384 + 0,11073 + 0,11073 + 0,02768 + 0,11073 aa = 0,05536 + 0,11073 + 0,11073 + 0,22145 = 0,0865 = 0,41523 = 0,49827 Le frequenze sono ancora: f(A) = 0,0865 + ½ 0,41523 = 0,29412 f(a) = 0,49827 + ½ 0,41523 = 0,70589 Ma dopo l'azione della selezione: AA = 0,0865 Aa = 0,41523 aa = 0,49827 (0,5) = 0,24914 -------------------------------------TOTALE 0,75087 f(A) = [0,0865 + ½ (0,41523)] / 0,75087 = 0,39170 f(a) = [0,24914 + ½ (0,41523)] / 0,75087 = 0,60830 (le leggere differenze sono dovute agli arrotondamenti) 70 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Controlliamo le differenze delle frequenze fra una generazione e la successiva: ∆q = q1 - q = -sq²(1-q)/(1-sq²) = -0,8² (0,5) (1 - 0,8) / (1 - 0,8² x 0,5) = 0,09412 ∆q = q2-q1 = -sq1²(1-q1)/(1-sq1²) = -0,70588²(0,5)(1-0,70588)/(1-0,70588² x 0,5) = 0,09759 ed infatti 0,70588-0,8 = -0,09412 ed ancora 0,60829-0,70588= -0,09759. Nel caso la selezione artificiale contro l'omozigote recessivo sia totale (o sia totale la selezione naturale contro questo genotipo, come nel caso di un gene recessivo letale), si ha s=1, per cui nella prima generazione: q1 = q - q² ---------- = 1-q² q ------1+q nella seconda generazione: q1 q2 = -----1+q1 e sostituendo nella formula di q2 il valore già trovato per q1 si ha: q q2 = -----1+2q La frequenza alla generazione t è analogamente: qt = q -----1+tq da cui si ricava: q-qt t = ------- = (1/qt) - (1/q) q qt Ad esempio, quante generazioni di selezione totale contro l'omozigote recessivo occorrono per dimezzare la frequenza 1/20000 di un genotipo omozigote recessivo? ½ ½ q = (1/20000) = (0,00005) = 0,00707 ½ ½ qt = (1/40000) = (0,000025) = 0,005 t = 1/0,005 - 1/0,00707 = 200 - 141 = 59 In generale, poiché i cambiamenti delle frequenze geniche dipendono non solo dall'intensità di selezione, ma anche dalle frequenze geniche iniziali, la selezione è efficace soprattutto quando q ha frequenze "medie", mentre frequenze di q molto elevate o molto basse riducono l'effetto della selezione. Nel caso della selezione contro un omozigote recessivo, quando questo è poco frequente la selezione è particolarmente inefficace, perché il gene è presente principalmente negli eterozigoti. 71 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 EFFETTO DELLA SELEZIONE SELEZIONE CONTRO L'OM OZIGOTE RECESSIVO 1,0 F R E Q U E N Z A D I a ,9 ,8 ,7 ,6 ,5 ,4 ,3 ,2 ,1 0,0 100 GENERAZIONI DI SELEZIONE f it ness aa = 0 f it ness aa = 0,6 f it ness aa = 0,2 f it ness aa = 0,8 f it ness aa = 0,4 Come si può spiegare biologicamente il vantaggio selettivo dell'eterozigote? Potrebbe trattarsi di pleiotropia (cioè il gene influisce su due aspetti, come dimostrato nell'uomo per un allele S che in doppia dose causa l'anemia falciforme ma in eterozigosi conferisce resistenza alla malaria), oppure di una stretta associazione fra due geni (che noi confondiamo in uno solo), oppure avere una spiegazione molecolare, cioè da due codici genetici diversi derivano due proteine che, nel caso di isoenzimi, potrebbero avere complessivamente una adattabilità superiore. L'assenza di dominanza è una situazione rara. La dominanza completa è una situazione molto frequente, caratteristica ad esempio di molte malattie metaboliche: il problema è proprio nella difficoltà ad individuare gli eterozigoti (portatori di malattie neonatali monofattoriali); nella dominanza completa è difficile selezionare per il dominante se l'eterozigote ha la stessa fitness del dominante (ci si trascina dietro l'eterozigote, proprio perché non c'è selezione contro di esso), mentre selezionare per il dominante è facile se l'eterozigote ha la stessa fitness dell'omozigote recessivo (la selezione è infatti di pari intensità contro l'omozigote recessivo e l'eterozigote): nella selezione artificiale il problema si potrebbe risolvere se il gene fosse codominante (si potrebbero identificare gli eterozigoti e decidere se sottoporli o meno a selezione). Ad esempio, nei caprini l'assenza di corna è un carattere dominante, pleiotropico con aspetti dell'apparato genitale sia maschile che femminile in grado di causare ipofertilità o addirittura sterilità, dovuti ad alterazioni dell'epididimo nei maschi e pseudoermafroditismo nelle femmine. Il carico genetico è una misura che fa riferimento non al singolo genotipo ma a tutti i possibili genotipi ad un determinato locus e definisce il valore ottimale di riproduzione del locus stesso. Il carico genetico è la diminuzione relativa della fitness media di una popolazione rispetto alla fitness che si avrebbe qualora tutti gli individui della popolazione stessa avessero il genotipo con la massima fitness; per diminuzione relativa si intende che la diminuzione è rapportata alla fitness massima. wmassima - wmedia carico genetico = ------------------------wmassima 72 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Se per convenzione diamo valore 1 alla fitness massima, il carico genetico è pari a 1-wmedia: tale formula rappresenta chiaramente la misura in cui una popolazione si discosta da una costituzione genetica "perfetta". Il carico genetico misura quanti individui in una popolazione sono destinati ad una "morte genetica". Il carico genetico può essere, anche in una popolazione in equilibrio, mantenuto da diverse situazioni, fra le quali le più semplici sono il carico genetico da mutazione ed il carico genetico da segregazione (o bilanciato). Nel carico genetico da mutazione l'equilibrio è mantenuto da una mutazione ricorrente sfavorevole, la quale comporta la "morte genetica" di un certo numero di individui; anche una mutazione favorevole è però in grado di generare una carico genetico "di transizione", perché la mutazione favorevole va a sostituire degli alleli, un tempo vantaggiosi, divenuti svantaggiosi proprio per la comparsa della mutazione più favorita (il carico è detto "di transizione" perché esiste solo fino a quando l'allele favorevole non si fissa). Il carico genetico da segregazione è anche detto carico bilanciato, e riguarda quei loci in cui l'equilibrio è mantenuto dal vantaggio selettivo dell'eterozigote; in questo caso è pari a (s1 s2)/(s1+s2), in quanto: frequenza iniziale fitness frequenza dopo la selezione AA p² 1-s1 p² (1-s1) Aa 2pq 1 2pq aa q² 1-s2 q² (1-s2) Il carico genetico è: p²s1 + q²s2 e sostituendo a p e q le rispettive frequenze all'equilibrio si ha: [s2/(s1+s2)]²s1 + [s1/(s1+s2)]² s2 = (s2²s1+s1²s2)/(s1+s2)² = = s2s1(s2+s1)/(s1+s2)² = s2s1/(s1+s2) Nella popolazione utilizzata come esempio per mostrare l'equilibrio genetico nel caso dell'anemia falciforme era: genotipo AA AS SS fitness 0,878 1 0,138 coefficiente selettivo 0,122 0 0,862 In base a questi dati è possibile calcolare il carico genetico: carico genetico = (0,122)(0,862)/(0,122+0,862) = 0,107 Se ne deduce che il 10,7% degli individui è destinato ad una "morte genetica"; infatti a partire dalle frequenze di equilibrio: p = 0,877 q = 0,123 frequenze genotipiche alla nascita (su 100 nati): AA = 100 p² = 76,9 AS = 200 pq = 21,6 SS = 100 q² = 1,5 73 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 frequenze genotipiche alla riproduzione (ovvero nati x fitness): AA = 76,9 (0,878) = 67,5 AS = 21,6 (1) = 21,6 SS = 1,5 (0,138) = 0,2 --------Totale 89,3 Carico genetico = 100-89,3 = 10,7% Le altre tre forze che, oltre alla selezione, concorrono a far variare le frequenze geniche, e cioè mutazioni, migrazioni e deriva genetica, non possiedono la stessa potenza della selezione. LE MUTAZIONI. Le mutazioni, pur essendo fortuite, possono sotto certi aspetti agire sistematicamente, e quindi essere prevedibili in forza e direzione. Tutti i loci possono teoricamente mutare: piccole variazioni delle frequenze geniche richiedono però moltissime generazioni. La mutazione è una variazione, spesso puntiforme, della sequenza del DNA: è una variazione strutturale a cui può, a volte, conseguire la variazione funzionale del gene. Le mutazioni possono essere distinte in ricorrenti e non ricorrenti. Le mutazioni ricorrenti (ad esempio l'albinismo) sono quelle che interessano un determinato locus ad ogni -5 generazione e con un tasso di mutazione fisso (in genere nell'ordine di 10 ). Le mutazioni non ricorrenti sono quelle che compaiono fortuitamente senza essere associate ad un tasso di mutazione determinato, per cui la possibilità di ritrovare l'allele mutato nella generazione successiva dipende praticamente solo dall'eventuale riproduzione di individui mutati (ad esempio, una razza statunitense di pecore senza coda, l'acondroplasia Ancon delle pecore, molte malattie monofattoriali); una mutazione non ricorrente ha elevatissima probabilità di essere persa nel corso delle generazioni, e quindi di non riuscire a modificare le frequenze geniche. Calcolare un tasso di mutazione, proprio a causa della bassa frequenza dell'evento, è molto difficile. Nell'uomo si stima che ad ogni generazione si verifichino circa 8 mutazioni. Le mutazioni ricorrenti possono essere ulteriormente distinte in mutazioni dirette e mutazioni inverse: u = tasso di mutazione diretto (A1 diventa A2) v = tasso di mutazione inverso (A2 diventa A1) In presenza della sola mutazione diretta, partendo da una frequenza p la frequenza nella n generazione successiva è p(1-u) e, dopo n generazioni, p(1-u) . Se esiste anche la mutazione inversa, partendo dalla frequenza p nella generazione successiva si avrà: p1 = p - up + vq da cui si ricava: ∆p = p1 - p = p - up + vq -p = vq -up All'equilibrio non si ha variazione di frequenze geniche, per cui da vq - up = 0 si possono ricavare le frequenze all'equilibrio: p= v/(u+v) q= u/(u+v) Ad esempio, con i seguenti tassi di mutazione: -5 u = 10 -6 v = 10 74 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 le frequenze di equilibrio sono: -5 10 1 qe = ---------------------------- = ------------- = 10/11 = 0,9091 -5 -6 10 + 10 1 + 1/10 -6 10 1/10 pe = ---------------------------- = ------------- = 1/11 = 0,0909 -5 -6 10 + 10 1 + 1/10 Infatti: -5 -6 -5 -5 p0 = 1/11 p1 = 1/11 - 10 1/11 + 10 10/11 = 1/11 - 10 /11 + 10 /11 = 1/11 q0 = 10/11 q1 = 10/11 + 10 1/11 - 10 10/11 = 10/11 + 10 /11 - 10 /11 = 10/11 -5 -6 -5 -5 In maniera analoga a quanto fatto per l'equilibrio da vantaggio selettivo per l'eterozigote, anche nel caso di mutazione diretta ed inversa si può dimostrare che l'equilibrio non solo esiste, ma viene effettivamente raggiunto indipendentemente dalle frequenze iniziali: inoltre, a differenza di quanto accade per la superdominanza, se anche il locus fosse inizialmente monomorfo, la possibilità di mutazioni in entrambi i versi porterebbe comunque alla presenza di due alleli, che raggiungerebbero poi nel tempo l'equilibrio. Se q0 < qe, e quindi p0 > pe, allora: q1 = q0 + up0 - vq0 e p1 = p0 - up0 + vq0 e p1 < p0 da cui, poiché up0 > vq0, si ricava: q1 > q0 Utilizzando per un nuovo esempio gli stessi tassi di mutazione dell'esempio precedente e le frequenze iniziali: q0 = 0,8 p0 = 0,2 si ha: q1 = q0 + up0 - vq0 = 0,8 + 0,00001 x 0,2 - 0,000001 x 0,8 = 0,8000012 p1 = p0 - up0 + vq0 = 0,2 - 0,00001 x 0,2 + 0,000001 x 0,8 = 0,1999988 Invece, se q0 > qe, e quindi p0 < pe, si ha: q1 = q0 + up0 - vq0 e p1 = p0 - up0 + vq0 e p1 > p0 da cui, poiché up0 < vq0, si ricava: q1 < q0 75 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Ad esempio, utilizzando ancora una volta i tassi di mutazione -5 u = 10 -6 v = 10 e le seguenti frequenze iniziali: q0 = 0,05 p0 = 0,95 si ha: q1 = q0 + up0 - vq0 = 0,05 + 0,00001 x 0,95 - 0,000001 x 0,05 = 0,05000945 p1 = p0 - up0 + vq0 = 0,95 - 0,00001 x 0,95 + 0,000001 x 0,05 = 0,94999055 Ricordiamo ancora che gli spostamenti nelle frequenze geniche dovuti alle mutazioni sono generalmente molto più lenti di quelli dovuti alla selezione. LE MIGRAZIONI. La migrazione è una forza sistematica; per migrazione si intende, in senso pratico, lo spostamento di riproduttori da una popolazione ad un'altra (dalla popolazione che immigra alla popolazione ricevente); in senso teorico per migrazione si intende un flusso genico da una popolazione ad un'altra: per avere il flusso genico occorre che gli individui si riproducano, e pertanto la definizione teorica e quella pratica vengono a coincidere. Le frequenze geniche che mutano sono essenzialmente quelle della popolazione ricevente. Per la migrazione bisogna considerare due aspetti: 1 - numerosità e struttura genetica della sottopopolazione immigrante; 2 - la differenza di frequenze geniche fra sottopopolazione immigrante e popolazione ricevente. Se non ci sono differenze nelle frequenze geniche fra la sottopopolazione che immigra e la popolazione ricevente le frequenze geniche non cambiano. Se in una popolazione non arrivano nuovi riproduttori per migrazione è più probabile che l'effetto della deriva genetica sia importante. Per spiegare la migrazione si farà uso del modello più semplice possibile, in cui: 1 - all'immigrazione consegue la possibilità riproduttiva fra immigrati e popolazione ricevente; 2 - emigrano in uguale misura maschi e femmine; 3 - emigra un campione casuale, rappresentativo della popolazione. E' comunque difficile che queste tre condizioni siano contemporaneamente rispettate: ad esempio, alle migrazioni umane seguono spesso barriere culturali che ostacolano la riproduzione fra immigrati e popolazione ricevente. POPOLAZIONE I f(A)=pI POPOLAZIONE R f(A)=p0 sia m il tasso di migrazione nei due sessi; nella popolazione R, dopo la migrazione, a determinare p1. cioè la frequenza dell'allele A saranno due componenti: la frazione m di animali immigrati e la frazione 1-m della popolazione ricevente, con le rispettive frequenze dell'allele, e cioè pI e p0. p1 = m pI + (1-m) p0 = p0 + m (pI-p0) 76 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 La frequenza di A dopo la migrazione è dunque la media delle frequenze di A nella popolazione immigrata ed in quella ricevente, ponderate per la relativa numerosità [mpI+(1-m)p0]: dipende dalla frequenza della popolazione ricevente, dal tasso di migrazione e dalla differenza nelle frequenze geniche fra sottopopolazione immigrata e popolazione ricevente [p0 + m (pI-p0)]. La differenza tra le frequenze geniche prima e dopo la migrazione dipende solo dal tasso di migrazione e dalla differenza di frequenze geniche fra sottopopolazione immigrata e popolazione ricevente (non dipende cioè dalla frequenza né della sottopopolazione immigrata né della popolazione ricevente); infatti: ∆p = p1 - p0 = m (pI-p0) Perché ci sia una variazione delle frequenze geniche la sottopopolazione immigrata e la popolazione ricevente debbono avere frequenze diverse. Se la migrazione interessa solo animali di un sesso (ad esempio solo i maschi), il tasso di migrazione globale per i due sessi è m/2, per cui: p1 = p0 + m/2 (pI-p0) Invece che rispetto alla popolazione ricevente, la differenza di frequenze geniche può essere indicata rispetto alla popolazione immigrante: ∆pi = p1 - pi = pr + m (pi - pr) - pi = pr(1-m) - pi(1-m) = (1-m)(pr-pi) Si può dimostrare che, dopo n generazioni, la differenza di frequenze geniche fra la popolazione immigrata e la popolazione immigrante è: n ∆pi = pn - pi = (1-m) (pr-pi) da cui si ricava la frequenza genica della popolazione immigrata dopo n generazioni: n pn = (1-m) (pr-pi) + pi Ad esempio, in una popolazione la frequenza di un allele è 0,1: se, con un tasso di migrazione del 10%, immigra un'altra popolazione, nella quale lo stesso allele ha frequenza 1, quale sarà la frequenza della popolazione immigrata dopo 4 generazioni di immigrazione? m = 0,1 n=4 pr = 0,1 pi = 1 n pn = (1-m) (pr-pi) + pi 4 p4 = (1-0,1) (0,1-1) + 1 = 0,6561 (-0,9) + 1 = 0,40951 In genere, se il tasso di migrazione è basso, la migrazione non ha un evidente impatto genetico nella popolazione ricevente (a meno che non sia accompagnata da un'appropriata selezione): il ripetersi di successive migrazioni può comunque portare a cambiamenti rapidi, come dimostra la tabella seguente. 77 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 f(A) NELLA POPOLAZIONE R TASSO DI MIGRAZIONE (m) 0,5 0,1 0,01 frequenza iniziale gen. 1 gen. 2 gen. 3 ... gen. 5 ... gen. 10 gen. 20 gen. 50 gen. 100 0 0 0 0,50 0,75 0,87 ... 0,97 ... 1,00 1,00 1,00 1,00 0,10 0,19 0,27 ... 0,41 ... 0,65 0,88 1,00 1,00 0,01 0,02 0,03 ... 0,05 ... 0,10 0,18 0,40 0,63 La migrazione di animali di un solo sesso è molto frequente: quasi sempre si fanno immigrare dei maschi; è un modello di incrocio, in cui alla immigrazione dei nuovi maschi consegue però la mancata riproduzione di maschi della popolazione ricevente. Incrociando tori di razze da carne con bovine frisone si pratica una migrazione di soli maschi su sole femmine, senza un successivo atto riproduttivo della generazione dei prodotti. Il caso più semplice è quello dell'incrocio di sostituzione, come nel caso della sostituzione della razza bovina sarda con la bruna alpina: in 5-7 generazioni la sostituzione è da ritenersi completata. E' addirittura possibile che una specie migri su un'altra specie (ibridazione interspecifica): ad esempio, bovino con zebù, maiale con cinghiale; asino e cavalla producono il mulo, ma il prodotto non è fertile, per cui non si può considerare questo incrocio un modello migratorio. Nel modello migratorio la conoscenza delle frequenze di partenza è molto importante, ma in alcuni casi non è possibile: ad esempio, ci si può trovare di fronte ad una popolazione in cui il mescolamento è già avvenuto, senza che siano disponibili dati precedenti alla immigrazione; è possibile, conoscendo le caratteristiche della popolazione immigrata, ricostruire la struttura genetica della popolazione ricevente: si tratta di un modello zootecnico di erosione genetica; uno studio classico è quello delle frequenze geniche nelle razze caprine giapponesi, erose dalla Saanen. L'erosione genetica sta attualmente interessando le nostre popolazioni ovine (Gentile di Puglia e Sopravissana soprattutto). Ad esempio, si è interessati a conoscere le frequenze geniche originarie di una popolazione che ha subito un'immigrazione. Supponiamo che la popolazione immigrata presenti per un determinato allele frequenza 0,4 e che la popolazione immigrante presenti invece per lo stesso allele frequenza 1; le ricerche permettono di stimare il tasso di migrazione in 1% e, in base al rapporto fra il tempo trascorso da quando è incominciata l'introduzione di animali della razza immigrante e l'intervallo di generazione caratteristico della specie, in 20 il numero di generazioni per cui è avvenuta l'immigrazione. In base alla formula n pn = (1-m) (pr-pi) + pi ed essendo n = 20 m = 0,01 pn = 0,4 pi = 1 78 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 si ha: 20 0,4 = (1 - 0,01) (pr - 1) + 1 0,4 = 0,81791 (pr - 1) + 1 da cui si ricava pr = (0,4 - 1 +0,81791) / 0,81791 = 0,267 In altri casi è possibile stabilire le frequenze alleliche, oltre che della popolazione immigrante e della popolazione immigrata, anche della originaria popolazione ricevente (o perché tali frequenze sono state calcolate in precedenti studi o perché la popolazione si è conservata in purezza in alcune zone): si può in questi casi, stimando come nell'esempio precedente il numero di generazioni in base al rapporto fra tempo trascorso ed intervallo di generazione, calcolare il tasso di migrazione. Ad esempio: n = 10 pr = 0,65 pi = 1 pn = 0,88 Sostituendo i valori nella formula n pn - pi = (1-m) (pr-pi) si ricava: 10 0,88 - 1 = (1-m) (0,65-1) 10 (1-m) = (0,88-1)/(0,65-1) = 0,34286 1/10 1-m = (0,34286) 1/10 m = 1 - (0,34286) = 1 - 0,898 = 0,102 LA DERIVA GENETICA. La deriva genetica (o drift o effetto Sewall Wright, dal nome dello scienziato che ne delineò l'importanza) non è una forza sistematica, bensì è dispersiva; la deriva genetica casuale è un processo per cui le frequenze geniche sono soggette a fluttuazioni dovute al caso: è strettamente legata alla numerosità della popolazione. La deriva genetica si accompagna spesso ad altri tre processi dispersivi: la suddivisione delle popolazioni naturali in sottopopolazioni molto differenziate, la diminuzione della variabilità genetica delle piccole popolazioni, l'aumento della frequenza degli omozigoti a discapito degli eterozigoti (in maniera particolare quando si tratta di consanguineità). La conoscenza della deriva genetica è essenziale per lo studio delle piccole popolazioni, il cui comportamento è diverso da quello delle popolazioni mendeliane, che sono teoricamente infinite. L'evento più frequente alla nascita è che la generazione filiale abbia le stesse frequenze geniche dei genitori, ovvero la frequenza attesa della generazione filiale è la frequenza della 79 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 generazione parentale: possono però verificarsi scostamenti dalle frequenze geniche attese, in entrambe le direzioni, con probabilità ben precise; tali scostamenti sono in genere maggiori nelle popolazioni di minori dimensioni; se infatti la popolazione è piccola, anche il numero dei gameti è piccolo e, ad ogni generazione, il campione casuale che passa alla generazione successiva è affetto da fluttuazioni aleatorie, il cui risultato è la impossibilità di prevedere la struttura genica della popolazione nel passaggio da una generazione alla successiva. La deriva genetica è un cambiamento di frequenze geniche casuale che tutte le popolazioni possono seguire, indipendentemente dalla numerosità. Kidd e Cavalli Sforza studiarono i bovini norvegesi, rimasti totalmente isolati da altre razze, ed i bovini islandesi, portati sull'isola dai Vichinghi norvegesi, ed in seguito mai erosi da altre razze; utilizzando alcuni geni neutri (gruppi sanguigni ed altri polimorfismi ematici), per i quali le variazioni di frequenza non possono essere imputate a fenomeni selettivi, i due autori stabilirono la distanza genetica fra le due popolazioni, determinata dalla deriva genetica: riuscirono anche a dimostrare che l'effetto dei fondatori era limitato. E' però difficile distinguere con certezza, anche per geni neutri, che cosa è dovuto alla deriva genetica e che cosa è dovuto alla selezione: secondo una teoria, nessun gene è neutro; i geni potrebbero essere distinti in geni selettivamente attivi e geni selettivamente non attivi, i quali verrebbero selezionati passivamente per associazione (linkage) con geni attivi: il fenomeno è detto "effetto autostop". Nelle piccole popolazioni l'imparentamento fra gli animali porta alla consanguineità ed all'aumento dell'omozigosi: alla fissazione porta anche la deriva genetica. ESEMPIO DI EFFETTO DELLA DERIVA GENETICA 2 individui, un maschio ed una femmina, entrambi eterozigoti Aa n=2 p = 0,5 differenti gameti prodotti: 2n = 4 q = 0,5 2n promemoria: (p+q) differenti combinazioni possibili: 2n+1 = 5 possibili combinazioni di r alleli A: (2n)! / [r! (2n-r)!] r 2n-r probabilità di ogni combinazione con r alleli A: p q r 2n-r probabilità di una frequenza allelica: {(2n)! / [r! (2n-r)!]} p q A 4 3 2 1 0 --- GENERAZIONE SUCCESSIVA --a probabilità 4 0 p = 0,0625 3 1 4p q = 0,25 2 2 2 6p q = 0,375 3 3 4pq = 0,25 4 4 q = 0,0625 p 1 0,75 0,5 0,25 0 (distribuzione binomiale) q 0 0,25 0,5 0,75 1 In un questo esempio la probabilità che, in una sola generazione, uno o l'altro dei due alleli si fissi è complessivamente il 12,5%. L'ipotesi più probabile è il mantenimento delle stesse frequenze (37,5%). In due casi le frequenze geniche sono diventate 0,75 e 0,25 (oppure 0,25 e 0,75, cosa che non farà differenze ai fini dell'esempio). Che cosa succederà nella successiva generazione, ammettendo che la numerosità sia invariata e che sia ancora possibile accoppiare gli animali? Si tratterebbe di una popolazione composta sempre da un maschio ed una femmina, o identica a quella iniziale, o con il locus ormai fissato, o infine formata da un animale omozigote per uno qualsiasi dei due alleli e un altro animale eterozigote. 80 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 In quest'ultimo caso: n=2 p = 0,75 differenti gameti prodotti: 2n = 4 q = 0,25 2n promemoria: (p+q) differenti combinazioni possibili: 2n+1 = 5 possibili combinazioni di r alleli A: (2n)! / [r! (2n-r)!] r 2n-r probabilità di ogni combinazione con r alleli A: p q r 2n-r probabilità di una frequenza allelica: {(2n)! / [r! (2n-r)!]} p q A 4 3 2 1 0 --- GENERAZIONE SUCCESSIVA --a probabilità 4 0 p = 0,31641 3 1 4p q = 0,42188 2 2 2 6p q = 0,21094 3 3 4pq = 0,04687 4 4 q = 0,00391 p 1 0,75 0,5 0,25 0 (distribuzione binomiale) q 0 0,25 0,5 0,75 1 Anche in questo caso la probabilità maggiore è il mantenimento delle stesse frequenze geniche (42,188%), ma le probabilità di fissazione del locus sono complessivamente aumentate (32,032%), con aumento della probabilità di fissare l'allele più frequente. Si noti che la probabilità di un aumento della frequenza dell'allele più frequente è superiore alla probabilità di una diminuzione della frequenza dell'allele stesso. Con la probabilità composta si possono calcolare, a partire dalla generazione iniziale, la probabilità delle frequenze geniche dopo due generazioni: 81 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Generazione iniziale p q 0,5 0,5 Prima generazione P1 0,0625 0,25 0,375 0,25 0,0625 p q 1 0,75 0,5 0,25 0 0 0,25 0,5 0,75 1 Seconda generazione p q 1 0 0,75 0,5 0,25 0 0,25 0,5 0,75 1 P2 P totale p q P1 x P2 1 0 0,0625 0,31641 1 0 0,07910 0,42188 0,75 0,25 0,10547 0,21094 0,5 0,5 0,05274 0,04687 0,25 0,75 0,01172 0,00391 0 1 0,00098 0,0625 1 0 0,02344 0,25 0,75 0,25 0,09375 0,375 0,5 0,5 0,14063 0,25 0,25 0,75 0,09375 0,0625 0 1 0,02344 0,00391 1 0 0,00098 0,04687 0,75 0,25 0,01172 0,21094 0,5 0,5 0,05274 0,42188 0,25 0,75 0,10547 0,31641 0 1 0,07910 1 1 0,0625 1 0 --- probabilità totali dopo due generazioni --0,0625 + 0,07910 + 0,02344 + 0,00098 0,10547 + 0,09375 + 0,01172 0,05274 + 0,14063 + 0,05274 0,01172 + 0,09375 + 0,10547 0,00098 + 0,02344 + 0,07910 + 0,0625 TOTALE = 0,16602 = 0,21094 = 0,24611 = 0,21094 = 0,16602 1,00003 82 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Se la taglia della popolazione iniziale fosse stata più ampia, le probabilità di fissazione alla prima generazione sarebbero state inferiori: 4 individui, 2 maschi e 2 femmine, tutti eterozigoti Aa n=4 p = 0,5 differenti gameti prodotti: 2n = 8 q = 0,5 2n promemoria: (p+q) differenti combinazioni possibili: 2n+1 = 9 possibili combinazioni di r alleli A: (2n)! / [r! (2n-r)!] r 2n-r probabilità di ogni combinazione con r alleli A: p q r 2n-r probabilità di una frequenza allelica: {(2n)! / [r! (2n-r)!]} p q A 8 7 6 5 4 3 2 1 0 a 0 1 2 3 4 5 6 7 8 GENERAZIONE SUCCESSIVA ----------- probabilità ----------8 = 0,00391 p 7 8pq = 0,03125 6 2 = 0,10937 28 p q 5 3 56 p q = 0,21875 4 4 70 p q = 0,27343 3 5 56 p q = 0,21875 2 6 28 p q = 0,10937 7 8 pq = 0,03125 8 q = 0,00391 p 1 0,875 0,75 0,625 0,5 0,375 0,25 0,125 0 (distribuzione binomiale) q 0 0,125 0,25 0,375 0,5 0,635 0,75 0,875 1 Nella deriva genetica una generazione non ha "memoria storica" di cosa è successo nelle generazioni precedenti. Con il tempo, l'accumulo di eventi casuali porta sempre alla fissazione di un allele ed alla perdita (estinzione) di tutti gli altri; la probabilità che un allele si fissi dipende dalla sua frequenza iniziale; il tempo (misurabile come numero di generazioni) necessario per la fissazione di un allele varia da caso a caso, ma è in rapporto con la dimensione della popolazione: più la popolazione è estesa, maggiore è il numero di generazioni necessario per raggiungere la fissazione. La variazione casuale delle frequenze geniche è dispersiva, comporta cioè l'impossibilità di prevedere il verso della variazione: l'intensità della variazione può invece essere predetta; la varianza della variazione di frequenza (σ²∆p) dipende dalle frequenze geniche iniziali e dalla numerosità della popolazione: σ²∆p p0 q0 = -------2N dove: N = numero di individui che compongono la popolazione p0 e q0 = frequenze dei due alleli di un locus biallelico. La formula soprariportata è quella che, in una distribuzione binomiale, rappresenta la varianza di un campione di dimensione 2N ricavato da una popolazione con frequenze p0 e q0. 83 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Ad ogni generazione c'è un nuovo campionamento, che si effettua a partire dalle frequenze geniche realizzatesi nella generazione precedente: la dispersione delle frequenze geniche aumenta ad ogni generazione, e dopo t generazioni sarà: σ²q t = p0 q0 [1-(1-1/2N) ] Si può facilmente controllare che, se t=1, la formula relativa a più generazioni si semplifica e diviene uguale alla precedente, valida per 1 generazione. Il valore calcolato in base alle due precedenti formule rappresenta sia il valore di σ²p (che è per definizione uguale a quello di σ²q) che il valore di σ²∆p (uguale al valore di σ²∆q): infatti il ∆ si riferisce ad uno scostamento dalla media. Utilizzando i dati degli esempi precedenti e ponderando le frequenze geniche alle varie generazioni per le relative probabilità, si può controllare l'esattezza delle formule riportate: Primo esempio: N=2 p0 = 0,5 q0 = 0,5 dopo una generazione si ha: σ²p = σ²q = σ²∆p = σ²∆q = 0,5 x0,0625 + 0,25 x0,25 + 0x0,375 + (-0,25) x0,25 + (-0,5) x0,0625 = 0,0625 2 2 2 2 ed infatti p0 q0 / 2N = 0,5 x 0,5 / 4 = 0,0625 dopo una seconda generazione si ha: σ²p = σ²q = σ²∆p = σ²∆q = 2 2 2 2 = x0,16602 + 0,25 x0,21094 + 0x0,24611 + (-0,25) x0,21094 + (-0,5) x0,16602 = 0,109375 ed infatti t 2 p0 q0 [1-(1-1/2N) ] = 0,5 x 0,5 [1-(1-0,25) ] = 0,109375 Secondo esempio: N=4 p0 = 0,5 q0 = 0,5 dopo una generazione si ha: σ²p = σ²q = σ²∆p = σ²∆q = 2 2 2 2 2 = 0,5 x0,00391 + 0,375 x0,03125 + 0,25 x0,10937 + 0,125 x0,21875 + 0x0,27343 + (-0,125) x0,21875 + 2 2 2 + (-0,25) x0,10937 + (-0,375) x0,03125 + (-0,5) x0,00391 = 0,03125 ed infatti p0 q0 / 2N = 0,5 x 0,5 / 8 = 0,03125 Osservando la formula t σ²p = p0 q0 [1-(1-1/2N) ] si può comprendere che la variabilità è massima quando i due alleli hanno uguale frequenza, diminuisce al crescere del numero di animali ed aumenta di generazione in generazione. 84 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Se l'azione della deriva genetica viene osservata sperimentalmente su più popolazioni che hanno le stesse frequenze geniche iniziali, ad esempio utilizzando delle linee di animali da esperimento, si possono schematicamente osservare tre fasi successive: inizialmente, a partire dai valori iniziali, le frequenze geniche delle varie linee si distribuiscono con diversa probabilità fra 0 ed 1; successivamente le frequenze tendono ad avere le stesse probabilità ma con il tempo, di generazione in generazione, le probabilità di fissarsi aumentano. La probabilità che un allele ha di fissarsi è pari alla sua frequenza iniziale; questa affermazione può essere facilmente compresa se si considerano contemporaneamente due affermazioni già fatte: primo, che l'evento più probabile è che una generazione abbia le frequenze geniche della generazione precedente e, secondo, che dopo un numero infinito di generazioni la deriva genetica provoca la fissazione di un allele; ad esempio, si considerino una serie di linee sperimentali di animali da laboratorio, aventi le stesse frequenze geniche iniziali, e si lasci agire la deriva genetica fino a quando in tutte le linee non si è verificata la fissazione di uno degli alleli considerati: a quel punto, considerando le linee nel loro insieme, l'evento più probabile è che la media delle frequenze sia la frequenza iniziale, il che è possibile (dato che le frequenze geniche dei vari alleli possono essere solo 0 oppure 1) solo se i diversi alleli si sono fissati nelle varie linee con probabilità pari alla frequenza genica iniziale. In una piccola popolazione non si è tanto interessati all'evoluzione delle frequenze geniche, ma alla distribuzione delle possibili frequenze geniche. In una popolazione di N individui, se il locus è polimorfo, le frequenze geniche variano fra 1/2N e (2N-1)/2N: sono quindi maggiori di 0 e minori di 1. La deriva genetica può essere causa di differenziazione geografica: i suoi effetti sono più rilevanti in aree a bassa densità di popolazione e con bassi tassi di immigrazione. Alla deriva genetica consegue un effetto "a collo di bottiglia" sulla taglia della popolazione: si verifica cioè una improvvisa, marcata e progressiva diminuzione del numero di individui (caratteristica anche della consanguineità), legata all'omozigosi. La deriva genetica è uno stato preagonico di una popolazione. L'effetto dei fondatori è stato studiato addirittura come un meccanismo di speciazione. Lo si potrebbe definire come una brusca accelerazione dei processi dinamici di cambiamento delle frequenze geniche in popolazioni fondate da pochi individui (Mayr, 1954). Esistono quattro differenti teorie: 1- teoria di Mayr (1954); 2- teoria di Carson (1967): flush-crash theory (teoria dei cicli di espansione-catastrofe); 3- teoria di Carson e Templeton (1984) founder-flush theory (teoria dei cicli di fondazione-espansione); 4- teoria di Templeton (1980): genetic transilience theory (teoria del "radicale cambiamento di stato" genetico). Tutte le teorie comprendono tre momenti: 1- isolamento spaziale e/o temporale di alcuni individui; 2- rivoluzione genetica che rimette in causa l'insieme funzionale formato dai genotipi della popolazione fondatrice; 3- creazione di un isolamento riproduttivo fra la popolazione fondata e quella di partenza. A titolo di esempio si riassume la teoria di Mayr. Dalla popolazione parentale, la cui coesione è garantita dall'effetto stabilizzatore del flusso genico, si distacca, in seguito a rottura del 85 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 flusso genico causata dall'isolamento geografico, la popolazione fondatrice: a seconda della numerosità, la popolazione fondatrice potrà o meno sopravvivere. Nel caso riesca a sopravvivere, le frequenze geniche della popolazione fondatrice si discostano da quelle della popolazione parentale: si ha infatti una perdita elevata della variabilità della popolazione parentale dovuta alla taglia ridotta, un aumento della consanguineità nelle prime generazioni, una "rivoluzione genetica" intesa come radicale cambiamento dei valori selettivi dovuto all'habitat differente ed al cambio delle frequenze geniche. Successivamente, rimanendo la nuova popolazione isolata, la variabilità riaumenta fino al livello della popolazione parentale, ma le frequenze geniche si attestano su valori differenti. IL POLIMORFISMO. I modelli finora trattati sono tutti teorici, avendo ipotizzato l'esatta conoscenza degli alleli di un locus: nella realtà bisogna chiedersi quali geni siano realmente identificabili, in quanto il punto di partenza sono le osservazioni reali. Non solo la maggior parte dei geni non sono praticamente identificabili, ma nelle popolazioni zootecniche non si possono utilizzare modelli programmati di genetica di popolazione: si deve nella pratica cercare di ottenere informazioni da quello che già esiste per motivi completamente differenti e da sistemi riproduttivi già scelti; proprio per queste difficoltà, basandosi sul principio dell'omologia, la maggior parte degli esperimenti sono stati effettuati su animali differenti (drosofila, topo, etc.) e le conoscenze acquisite sono state quasi interamente trasferite agli animali di interesse zootecnico. Poiché le unità di misura sono le frequenze geniche, è sempre necessario ricorre a dei loci polimorfi. In teoria, con il termine polimorfismo, si intende l'esistenza di alleli differenti in un determinato locus, ma nella pratica la definizione è più complessa: secondo Ford (1965) il polimorfismo genetico è la comparsa in uno stesso habitat di due o più forme discontinue (o "fasi") di una specie in una proporzione tale che la forma più rara non può mantenersi con la sola mutazione ricorrente. Attualmente, ai fini pratici, si considera polimorfo un sistema genetico in cui il più raro dei due alleli esistenti ha una frequenza superiore a 0,01 (cioè 1%): se la frequenza dell'allele più raro è inferiore a questo limite si parla semplicemente di sistema genetico variabile (escludendo sempre la semplice mutazione ricorrente). E' evidente che il numero dei sistemi genetici variabili è superiore a quello dei loci polimorfi; tutti i loci di un organismo hanno infatti possibilità di mutare, ma non tutti esisteranno in forma polimorfa. Come si origina il polimorfismo? Come si crea la variabilità genetica? Sono due le teorie che cercano di rispondere: la teoria neutralista (Kimura, 1968), detta anche "teoria della mutazione neutra" o "ipotesi della deriva casuale", e la teoria selezionista; come intuibile dai loro nomi, le due teorie citate danno principale importanza rispettivamente alla deriva genetica oppure alla selezione naturale. Secondo la teoria neutralista, esiste una elevata quantità di variazioni a livello proteico che non comportano alcun vantaggio o svantaggio selettivo: un esempio di polimorfismo selettivamente neutro sono i gruppi sanguigni, che potrebbero rappresentare semplicemente un residuo evolutivo. Nelle proteine, considerando le sostituzioni aminoacidiche, è stata riscontrata una notevole uniformità dei tassi di mutazione fra linee evolutive differenti: a livello molecolare la deriva casuale prevale rispetto alle forza selettive naturali. La maggior parte delle sostituzioni che si osservano a livello molecolare sono il risultato di fissazione casuale di mutazioni selettivamente neutre (o quasi neutre) piuttosto che di mutazioni vantaggiose. 86 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Secondo la teoria selezionista, è il vantaggio selettivo che spiega la creazione ed il mantenimento della variabilità genetica. I meccanismi del vantaggio selettivo potrebbero essere spiegati con tre differenti modelli: 1 - eterosi (positiva o negativa); 2 - selezione dipendente dalla frequenza (esperienza di Clarke, 1975); 3 - modelli di scelta dell'habitat (Powell e Taylor, 1975). L'eterosi positiva consiste in una superiore fitness riproduttiva degli eterozigoti; secondo Berger (1975), in condizione di eterozigosi gli enzimi avrebbero una migliore efficienza catalizzatrice: ne conseguirebbe una riduzione della quantità di energia metabolica necessaria per sostenere i livelli di attività enzimatica, pertanto una maggior percentuale di energia potrebbe essere indirizzata verso la riproduzione. Nell'eterosi negativa, più rara di quella positiva, gli eterozigoti hanno una fitness inferiore: il fenomeno è difficilmente spiegabile. Nella selezione dipendente dalla frequenza, la rarità di una variante genetica conferisce all'individuo che la esprime una migliore sopravvivenza rispetto alle forme più comuni: tale modello venne verificato da Clarke (1975) sul polimorfismo dell'alcol-deidrogenasi della drosofila; una ipotesi è che i nutrienti consumati dai genotipi più comuni subiscano una più rapida deplezione rispetto a quelli consumati dai genotipi più rari. Nei modelli di scelta dell'habitat (teoria di Powell e Taylor, 1975) fra più genotipi che competono per uno stesso ambiente i genotipi rari sono avvantaggiati dal basso numero di competitori con lo stesso genotipo; la diversità ambientale incoraggia la variazione genetica. Abbiamo visto come può originarsi e mantenersi il polimorfismo: nella realtà, anche se il gene più frequente è sfavorito, esso tende a rimanere il più rappresentato; ciò dipende quasi sempre dal fatto che l'allele più frequente è quello wild, cioè l'unico presente quando il locus era monomorfo. Le mutazioni che compaiono rispetto all'allele wild quasi mai in una popolazione sufficientemente numerosa riescono a diventare più frequenti dell'allele wild, anche se sono vantaggiose rispetto a quest'ultimo. Per parlare di polimorfismo occorre che in un locus ci siano almeno 2 alleli, il meno rappresentato dei quali abbia una frequenza ≥ 1%. Si pensa che il polimorfismo riguardi il 30% dei loci. Bisogna distinguere fra un polimorfismo a livello di marcatore ed un polimorfismo a livello di DNA: il polimorfismo a livello di marcatori è inferiore a quello a livello di DNA. Il marcatore genetico è un fenotipo a partire dal quale si può risalire al genotipo che lo determina; il polimorfismo deve quindi essere fenotipico: è una minima parte rispetto a quello genetico. Ad esempio, alcuni fenotipi si evidenziano immediatamente: sono i marcatori ad effetto visibile; altri fenotipi richiedono tecniche particolari, come nel caso dei marcatori immunochimici. Le alloproteine: si tratta di proteine con la stessa funzione ma con piccole differenze a livello aminoacidico; vengono evidenziate mediante tecniche elettroforetiche: si mettono le proteine in soluzione in un campo elettrico (gel di amido, di poliacrilammide, di agarosio, di acetato di cellulosa) e le proteine stesse migrano secondo la loro solubilità e punto isoelettrico e secondo il pH. L'elettroforesi non è in grado di evidenziare tutta la variabilità alloenzimatica; ad esempio, nella capra abbiamo αs1, αs2, ß e k caseine, ognuna con il suo polimorfismo: un'alloproteina dell'αs1 non si evidenzia all'elettroforesi perché in quantità piccolissima ("allele nullo" o "silenzioso"); variazioni di pochi aminoacidi possono non evidenziarsi all'elettroforesi. Il polimorfismo studiato è solo quello che riguarda il DNA che si esprime nel fenotipo: circa il 10%; ci sono notevoli quantità di DNA che non codificano ma che sono quasi sicuramente variabili: questo campo di studio appare ricco di prospettive. 87 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 I caratteri a variazione continua sono sicuramente molto variabili, ma ancora oggi si prestano male agli studi di genetica di popolazione perché non si riesce a risalire dal fenotipo al genotipo. Le mutazioni che causano anomalie, anche se ricorrenti, sono mal campionabili e non si possono utilizzare negli studi di genetica di popolazione. Il campionamento per gli studi di genetica di popolazione si fa attraverso una selezione completa; nel caso delle mutazioni che causano anomalia il campione viene allestito attraverso una selezione incompleta: il campione è costituito solo da quelle famiglie in cui esiste un probando o proposito, cioè l'individuo che evidenzia l'anomalia. Nell'uomo ci sono oltre 5.000 loci affetti da anomalie ereditarie. La selezione incompleta può essere troncata, singola o multipla in funzione dell'accertamento svolto sulle famiglie di probandi; viene definita troncata quando la probabilità di trovare tutte le famiglie con almeno un probando è 1, come negli studi di genetica umana; viene definita singola quando il probando individua solo la sua famiglia ed ogni famiglia ha un solo probando; un caso intermedio fra i due precedenti è quello della selezione incompleta multipla. I marcatori genetici ad effetto visibile, (quali quelli della pigmentazione o di caratteri quali corna, coda, orecchie, tettole, etc.), hanno soprattutto importanza storica; si sono rivelati utili per studiare la diffusione del gatto a partire dal suo centro di domesticazione (probabilmente l'Egitto); nel gatto sono disponibili 5-6 loci ad effetto visibile (fra i quali il nero non-agouti, l'orange, l'assenza di coda) che non sono stati oggetto di selezione per un lungo periodo (frequenze influenzate solo dalle migrazioni e dalla deriva genetica). MARCATORI GENETICI 1- MARCATORI AD EFFETTO VISIBILE - pigmentazione - caratteri morfologici ad eredità semplice - malattie ereditarie monofattoriali 2- MARCATORI EMATICI - marcatori a funzione fisiologica sconosciuta - marcatori a funzione fisiologica conosciuta 3- MARCATORI DEL LATTE - caseine - proteine del siero 4- SISTEMI DI ISTOCOMPATIBILITA' I marcatori proteici del sangue si distinguono in marcatori dei gruppi sanguigni, a funzione biologica sconosciuta, ed in marcatori a funzione biologica conosciuta, quali ad esempio le emoglobine, le transferrine (nel bovino presentano 6 loci codominanti), che si evidenziano con tecniche elettroforetiche. I gruppi sanguigni vengono evidenziati mediante tecniche immunologiche; si pensa che siano dei residui di sistemi di difesa dell'organismo, sostituiti nel corso dell'evoluzione da meccanismi più efficaci. I marcatori del latte sono delle proteine più o meno direttamente assemblate nella mammella; le caseine precipitano con l'abbassamento del pH, con l'aumento di temperatura, con enzimi ("caglio"); si conoscono 4 loci, αs1, αs2, ß e k, in stretta associazione: lo stretto linkage ha reso difficile l'individuazione delle αs2, perché non si trovavano ricombinanti αs1-αs2. Le proteine del siero restano in soluzione. 88 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 I sistemi di istocompatibilità sono un importante insieme di sistemi della risposta immunitaria; in quasi tutte le specie è stato evidenziato un sistema maggiore e dei sistemi minori. Il sistema HLA, evidenziabile soprattutto su leucociti e piastrine, si è rivelato importante in medicina umana nello studio del rigetto, dei tumori, della resistenza alle malattie. Che cosa si intende per "sistema"? Che rapporti ci sono fra fenotipo, genotipo ed allele? Si parla di "fenogruppo": probabilmente consegue a più loci o a loci molto complessi, suddivisibili in frazioni quasi indipendenti (ad esempio, i loci che regolano la sintesi degli anticorpi e quelli dei gruppi sanguigni e dei sistemi di istocompatibilità). Si tratta di DNA in cui l'attività ricombinante è molto frequente: ciò spiega ad esempio come una frazione limitata di DNA possa produrre una grande varietà di anticorpi. I sistemi di istocompatibilità sembrano mediare anche negli animali la resistenza genetica ad alcune malattie (ad esempio la tripanosomiasi). Quale rapporto c'è fra il polimorfismo ed i caratteri zootecnici, cioè la produzione, la riproduzione, la resistenza alle malattie? I primi studi sui marcatori risalgono nell'uomo agli anni '50-'60, negli animali sono cominciati circa 10 anni dopo: ci si interessava ad un loro valore "predittivo" delle produzioni animali (ad esempio, un animale con un certo tipo di emoglobina avrà una produzione maggiore?). Nella maggior parte dei casi l'esito è stato negativo. Le premesse di un rapporto marcatore-carattere zootecnico si fondavano su due possibilità: l'associazione (linkage) fra il locus responsabile del marcatore ed un secondo locus responsabile del carattere economico oppure l'esistenza di un rapporto funzionale fra il marcatore ed il carattere zootecnico (soprattutto per quanto riguarda i caratteri qualitativi in cui il marcatore stesso fa parte della produzione: ad esempio, tipo di caseina e qualità del coagulo). Nel caso di associazione, un problema è che questa potrebbe essere molto blanda, cioè con frequenti ricombinazioni; in ogni caso, con il tempo una ricombinazione potrebbe comunque avvenire, facendo perdere significato ad un allele un tempo associato ad un carattere vantaggioso: si potrebbe addirittura verificare il caso in cui, selezionando gli animali con un certo allele marcatore favorevole prima di poter misurare il carattere produttivo ci si ritrovi, in seguito alla ricombinazione, ad aver selezionato gli animali meno produttivi. Un esempio di rapporto funzionale è quello fra caseine e produzione del latte (l'allele ß delle kcaseine negli animali Bruno Alpino viene utilizzato nella selezione), oppure fra transferrine ed accrescimento (soprattutto nel suino): esistono comunque dei problemi pratici, ad esempio il fatto che nelle bovine il latte spesso non è costituito da campioni individuali; è inoltre sempre da presumere che, anche se la relazione fra marcatore e carattere produttivo esiste, essa non possa avere applicazioni pratiche, perché la selezione sul carattere produttivo ha influenzato le frequenze geniche del marcatore ("linkage disequilibrium"). Quali sono i fini pratici dello studio del polimorfismo? Il polimorfismo è innanzitutto utile nella identificazione degli animali; i marcatori genetici, soprattutto quelli immunoelettroforetici, consentono di ottenere un sistema di classificazione degli animali; la classificazione dell'animale alla nascita rimarrà valida fino alla morte: i "gruppi sanguigni" utilizzati a questo scopo comprendono non solo i gruppi sanguigni propriamente detti, ma anche tutta una serie di altri enzimi. La probabilità che due individui abbiano la stessa formula è bassa. L'accertamento dei gruppi sanguigni è obbligatorio nella Frisona, nella Bruna Alpina, sta per diventarlo nei bovini da carne, mentre lo è già nella pecora Sarda, nel cavallo Puro Sangue Inglese e Trottatore. Le formule vengono utilizzate per il disconoscimento di paternità (ed a volte di maternità): conoscendo la formula di padre e/o madre e figlio, è possibile stabilire se uno o entrambi i genitori sono biologicamente inaccettabili. Non è un riconoscimento, ma un disconoscimento: anche nel caso di sistemi più sofisticati, quali ad esempio l'impronta del DNA, si ha sempre una piccola probabilità di trovare due individui uguali (e sicuramente lo sono i gemelli identici). Le errate attribuzioni di paternità, accidentali o fraudolente, sono un grande ostacolo alla selezione (nella Frisona da un 30% circa di false 89 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 attribuzioni si è ormai scesi in dieci anni a meno del 5%). Il costo di una prova dei gruppi sanguigni è 80.000-100.000 lire; si sta attualmente studiando un sistema basato direttamente sul DNA, più sicuro ma anche più caro, da utilizzare nei casi in cui il problema non possa essere chiarito solamente con i gruppi sanguigni. Nei bovini i gruppi sanguigni sono utilizzati per il freemartinismo: nei parti con gemelli di sesso diverso delle anastomosi vascolari provocano in circa il 90% delle femmine una mascolinizzazione; il fenomeno si verifica raramente anche negli ovini, ed è causato dal passaggio di cloni cellulari dell'altro sesso che attecchiscono, in quanto si verificano prima che il sistema immunitario sia in grado di riconoscere cellule eterologhe. Il freemartinismo può essere chiarito mediante i gruppi sanguigni perché, se la femmina ha ricevuto cloni cellulari del fratello, ha due tipi di antigeni: il proprio e quello ricevuto con i cloni eritroblastici del gemello (il clone eterologo è meno rappresentato, ma comunque evidenziabile). Se l'animale ha ricevuto cloni eterologhi, è anche possibile evidenziare chimerismo cromosomico: all'esame cariologico oltre alle cellule con corredo eterocromosomico XX si evidenziano quelle del fratello recanti XY. I gruppi sanguigni si utilizzano anche per la diagnosi di gemellarità monozigotica: per essere monozigoti i gemelli devono avere la stessa formula, mentre se dizigoti è molto probabile che abbiano gruppi diversi (ad eccezione del gruppo J del bovino, il quale è in realtà non un antigene di superficie dell'eritrocita, ma un componente solubile del plasma che si deposita sulla membrana del globulo rosso); in precedenza ci si basava quando possibile sulle pezzature, le quali possono sì essere simili nei gemelli identici, ma a volte non sono sovrapponibili. Occorre comunque ricordare che c'è sempre la possibilità di mutazioni individuali (nell'uomo, da genitori a figli, circa 8-10 mutazioni). Quali sono le applicazioni del polimorfismo allo studio della caratterizzazione genetica delle popolazioni? Occorre prima di tutto distinguere fra una diversità intrapopolazione ed una diversità fra le popolazioni. La diversità intrapopolazione viene studiata attraverso il tasso di polimorfismo, il tasso di eterozigosi o indice di diversità di Nei e l'indice di identità. La diversità fra le popolazioni viene studiata attraverso le distanze genetiche. Il tasso di polimorfismo è la probabilità di non mettere in evidenza in una popolazione un allele raro, cioè con frequenza <0,01: 2n TP = (1-p) dove p è la frequenza dell'allele raro ed n il numero di individui della popolazione. RISCHIO DI NON EVIDENZIARE L'ALLELE individui 25 50 75 100 150 200 250 500 p = 0,01 0,605 0,366 0,221 0,134 0,049 0,018 0,007 0,00004 p = 0,005 0,778 0,606 0,471 0,367 0,222 0,135 0,082 0,007 90 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Il tasso di eterozigosi o indice di diversità di Nei misura la probabilità di estrarre a caso dalla popolazione un individuo eterozigote al locus k: l TEk = 1 - Σ p²i i=1 esimo dove TEk è l'indice di diversità al locus k, pi la frequenza dell'i allele al locus k ed l il numero di alleli al locus k. Nel caso di n loci, l'indice può essere calcolato come media con la relativa varianza: n TEmedio = 1/n Σ TEi i=1 σ²TE = (TE - TEmedio )² / (n-1) La varianza può ulteriormente essere suddivisa in due parti: una varianza intralocus ed una varianza interloci. Il tasso di eterozigosi rappresenta una stima teorica della frequenza degli eterozigoti fatta a partire dalle frequenze geniche. Se si usano più loci, occorre che abbiano tutti lo stesso numero di alleli: il valore massimo dipende infatti dal numero di alleli, e si ha quando gli alleli hanno tutti la stessa frequenza (è 0,5 con due alleli, 0,666 con tre alleli, 0,75 con quattro alleli, etc.). La varianza della stima diminuisce all'aumentare del numero di loci utilizzati: idealmente bisognerebbe utilizzare circa 50 loci, mentre negli animali domestici ne vengono in genere utilizzati 10-15; se sono disponibili pochi loci bisogna aumentare il campionamento. L'indice di identità è la probabilità di estrarre a caso dalla popolazione due individui con lo stesso genotipo; aumenta all'aumentare della consanguineità. Per un locus biallelico, l'indice di identità è pari a: 2 2 2 2 4 2 2 4 I Ik = p p + 2pq 2pq + q q = p + 4p q + q Per un locus poliallelico, l'indice di identità è pari a: 4 2 I Ik = Σpi + 4Σ(pipj) Nel caso di n loci: n I I = 1/n Σ I Ii i=1 La diversità fra le popolazioni viene studiata attraverso le distanze genetiche; per distanza genetica fra due popolazioni si può intendere il numero medio di sostituzioni aminoacidiche fra proteine omologhe, in assenza di varietà intrapopolazione. Esistono tre differenti presupposti teorici per il calcolo delle distanze genetiche, basati rispettivamente sul sequenziamento delle proteine, sulle frequenze geniche e sulle frequenze genotipiche. Le distanze genetiche basate sul sequenziamento delle proteine si fondano sul tasso di mutazione molecolare: il principio è quello di una relazione lineare fra la distanza genetica ed il tempo a partire dal quale le popolazioni si sono separate ("orologio molecolare"); attualmente queste tecniche vengono applicate direttamente agli acidi nucleici. Le distanze genetiche basate sulle frequenze geniche presuppongono delle relazioni fra la distanze e le differenze di frequenza nelle proteine alloenzimatiche: le frequenze geniche possono essere utilizzate tal quali (metodi non geometrici) oppure trasformate in coordinate 91 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 spaziali (metodi geometrici). I metodi per la valutazione delle distanze genetiche basati sulle frequenze genotipiche hanno attualmente scarso significato. In sintesi, i metodi di calcolo delle distanze genetiche possono essere distinti in due gruppi: quelli che rappresentano le popolazioni come punti di uno spazio multidimensionale e considerano le distanze fra le popolazioni come le distanze geometriche fra i punti stessi, oppure quelli che affrontano il problema delle distanze genetiche in senso dinamicoevolutivo. Una distanza genetica "ideale" dovrebbe avere diverse proprietà, ma nessuno dei metodi di calcolo proposti risponde a tutti i requisiti (Gregorius, 1984); ad esempio, la distanza fra la popolazione x e la popolazione y dovrebbe essere la stessa che separa y da x; la distanza di una popolazione da se stessa dovrebbe essere 0; la distanza fra due popolazioni deve essere inferiore o uguale alla somma delle distanze fra le due popolazioni stesse ed una terza popolazione; la distanza massima deve essere 1; se due popolazioni non hanno alcun allele in comune devono essere alla massima distanza; spostando una popolazione lungo una retta passante per la popolazione stessa la distanza fra la popolazione considerata ed un'altra deve variare linearmente; se due popolazioni vengono traslate parallelamente in uguale misura la distanza deve rimanere invariata; la somma di tutte le distanze deve essere 0. Attualmente per il calcolo delle distanze genetiche vengono utilizzate delle tecniche statistiche di analisi multivariata, e l'andamento evolutivo delle popolazioni viene rappresentato in delle strutture chiamate dendrogrammi. Fra le più utilizzate ricordiamo: la distanza genetica di Nei (1972): D =- Log cos θ ½ dove θ = arc cos Σ (xiyi) la distanza euclidea di Cavalli-Sforza e Edwards (1967): ½ d''corda = (1-cos θ) la distanza genetica di Balakrishnan e Sanghvi (1968), o del Χ²: dΧ² = Σ [(xi-yi)² / ½(xi+yi)] Affinché il calcolo delle distanze sia attendibile, il numero di loci utilizzato dovrebbe essere il più elevato possibile ed analogamente la stima delle frequenze geniche deve essere la più accurata possibile. Bisogna inoltre rimanere a livello intraspecifico, utilizzare molti geni piuttosto che molti individui, calcolare più di un tipo di distanza genetica, controllare la struttura genetica delle popolazioni utilizzate (ad esempio la consanguineità), essere prudenti nel trarre inferenze evolutive. Esempio di applicazione pratica. Astolfi P., Pagnacco G., Guglielmino-Matessi C. R. (1983): PHYLOGENETIC ANALYSIS OF NATIVE ITALIAN CATTLE BREEDS. Z. Tierzüchtg. Züchtgsbiol. 100:87-100. Sappiamo che la domesticazione del bovino è avvenuta in medio-oriente. L'indagine è stata effettuata sulle razze che in Italia hanno i Libri Genealogici (razze in selezione) o i Registri Anagrafici (razze in via di estinzione); sono entrambi affidati dal Ministero per il Coordinamento delle Politiche Alimentari Agricole e Forestali (ex Ministero dell'Agricoltura e Foreste) alle associazioni di razza ed all'Associazione Italiana Allevatori, con compiti differenti. L'A.I.A. gestisce i libri genealogici attraverso le Associazioni Provinciali Allevatori, mentre i registri anagrafici sono gestiti direttamente da un Ufficio Piccole Razze dell'A.I.A.; esiste anche un Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche per la conservazione del germoplasma animale, con sede a Milano, ed un centro per la salvaguardia degli animali di razze in via di estinzione con sede al Circiello (NA). Si sono dovute escludere 92 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 alcune razze, tipo la Pontremolese e la Garfagnina, il cui numero era insufficiente: le razze utilizzate sono state una ventina, su alcune delle quali erano disponibili notizie storiche. I primi trattati di zootecnia sono della fine dell'800, ed il primo trattato di zootecnia speciale, il Mascheroni, è dell'inizio del'900. Per l'analisi sono stati utilizzati 13 loci indipendenti: 8 relativi a gruppi sanguigni e 5 a proteine ematiche. Non si sono utilizzate le caseine sia perché determinate da loci strettamente associati che perché probabilmente selezionate (più o meno direttamente); inoltre i dati sulle caseine sono di più difficile reperimento. I polimorfismi visibili non sono stati utilizzati perché, nel bovino, fortemente selezionati dall'uomo ("razze standardizzate"). Tutti i loci utilizzati possono essere considerati neutri: anche per emoglobina e transferrina non ci sono nel bovino studi che dimostrino la non neutralità; si tratta dunque di loci non soggetti a selezione naturale. Tutte le variazioni sono frutto di migrazioni, deriva genetica e (forse) di "effetto autostop". I loci non sono numerosi, ma i campioni erano considerevolmente consistenti; si trattava inoltre di loci polimorfi in tutte le razze studiate, in alcuni casi anche poliallelici. Inizialmente sono state calcolate le frequenze geniche: per i loci codominanti biallelici mediante la conta diretta, per quelli a dominanza completa mediante il metodo della radice quadrata del genotipo recessivo e per i loci poliallelici mediante il metodo della massima verosimiglianza (maximum likelihood). Si è poi controllato il rispetto dell'equilibrio secondo la legge di Hardy-Weinberg: nel 20% circa dei casi l'equilibrio non era rispettato, ma non si sono evidenziate particolari tendenze (trend); una spiegazione potrebbe essere nella difficoltà di identificare alcuni alleli in loci poliallelici, oppure nella presenza di consanguineità (la quale era comunque bassa). Si è quindi passati allo studio della variabilità entro e fra popolazioni; per valutare l'importanza della deriva genetica si è utilizzato il test di Wahlund (1928); la varianza standardizzata di Wahlund è pari a: σ² / p (1-p) dove σ² è la varianza delle frequenze geniche fra le popolazioni e p la frequenze genetica media di ogni allele in tutta la popolazione. La varianza fra le popolazioni cresce, approssimativamente, con il tempo: la varianza standardizzata di Wahlund considera la deficienza in eterozigoti che si ha nella popolazione totale rispetto ad una popolazione panmittica. Le metodiche utilizzate si concludono con il calcolo delle distanze genetiche con un metodo geometrico e la valutazione con una tecnica di analisi multivariata, detta analisi delle componenti principali, dell'importanza da attribuire ai singoli loci. Il lavoro ha permesso di concludere: - che la razza Frisona rappresenta una popolazione a sé stante, come è anche storicamente noto; - che la Romagnola non rientra fra le podoliche propriamente dette: forse si tratta di animali arrivati in Italia successivamente alle altre razze podoliche, probabilmente in epoca longobarda; - che alcune razze sono mal collocabili, o perché ibride o perché di non precisa identità genetica: Montana o Castana, Sarda; - che tutte le altre razze finora non citate si possono suddividere in tre gruppi: di montagna (Pinzgauer, Tarina, Grigia Alpina, Bruna Alpina, Pezzata Rossa d'Oropa, Valdostana pezzata nera, Pezzata Rossa Friulana), di pianura (Reggiana, Valdostana pezzata rossa, Modenese, Rendena, Piemontese), e podoliche (ulteriormente suddivisibili in due gruppi, il primo comprendente Modicana e Maremmana ed il secondo comprendente Marchigiana, Chianina, Cinisara e Pugliese). 93 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 L'origine dei bovini è da ricondurre, secondo la classificazione del Rutimeyer, al tipo Brachyceros per i gruppi di montagna e di pianura ed al tipo Primigenius per le podoliche. Per quanto riguarda le vie migratorie attraverso le quali gli animali sono giunti in Italia, le razze dei gruppi di montagna e di pianura sono giunte dall'Europa centrale infiltrandosi nelle Alpi oppure con le invasioni barbariche (da Oriente, diffondendosi nella pianura padana e nell'Appennino settentrionale); per le podoliche si sono invece avute tre vie di immigrazione: dal Medio-Oriente attraverso i Balcani ed il Friuli (3000 a.C.), dal Nord Africa (Modicana) e dalla Spagna attraverso la Francia meridionale (Maremmana). LA PARENTELA La parentela è una caratteristica di una coppia formata da due individui, A e B. La parentela si ha quando A e B hanno degli antenati comuni: qualunque sia la natura e la complessità dei legami di parentela tra i due individui, l'effetto della parentela sulla loro costituzione genetica è la possibilità che dei geni di A e di B siano identici, cioè siano la copia di uno stesso gene presente in un antenato comune. Il legame di parentela fra A e B può quindi essere descritto, da un punto di vista genetico, mediante la probabilità di identità dei loro geni. Per la misurazione della parentela si possono utilizzare diversi sistemi di calcolo: il coefficiente dettagliato d'identità, il coefficiente contratto d'identità, il coefficiente di relazione ed il coefficiente di parentela p.d.. Il coefficiente dettagliato d'identità: in un qualsiasi locus, due individui A e B possiedono, in totale, 4 geni, i quali possono essere identici o non identici a due a due, a seconda della configurazione del sistema di ascendenza. Le possibili situazioni d'identità sono 15. Lo studio di questo coefficiente è utile nei casi in cui si è interessati al genotipo degli individui ed all'origine paterna o materna dei geni che lo costituiscono. COEFFICIENTE DETTAGLIATO D'IDENTITA' individuo 1 individuo 2 AA AA AA AAA -A AAA -A AA AA BB AA --AA AB AB AB BA AAA-A -A A-A -A --- Il coefficiente contratto d'identità: analogo al precedente, è utilizzato quando non esiste la necessità di distinguere le origini paterne e materne dei geni. Sono possibili 9 situazioni d'identità. 94 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 COEFFICIENTE CONTRATTO D'IDENTITA' individuo 1 individuo 2 AA AA AA A-A o A-A AA o AA BB AA --AA AB AB BA o A-A A-A o o --- Se si è interessati solo alla presenza di un gene, preso isolatamente, e non alla costituzione del genotipo, si può utilizzare il coefficiente di relazione ed il coefficiente di parentela. Il coefficiente di relazione (Wright, 1922) è la probabilità per un gene di A, di essere identico ad un gene di B. Si può distinguere fra la parentela dovuta ad un rapporto diretto di discendenza (ad esempio, genitore-figlio) e quella dovuta alla discendenza da un antenato comune (parentela collaterale, come nel caso di due fratelli pieni, che discendono dagli stessi genitori). La parentela fra due individui è la sommatoria di tutte le parentele, dirette e collaterali. n'+n" RAB = ½ (1+FC) Σ -----------------------------½ [(1+FA) (1+FB)] RAB è la parentela collaterale fra A e B; ½ rappresenta la probabilità che il gene passi da una generazione parentale ad una generazione filiale; n' ed n" è il numero di generazioni che separano A e B da un antenato comune C, di consanguineità FC; FA e FB rappresentano i coefficienti di consanguineità di A e di B. RAB = n Σ ½ [(1+FA) / (1+FB)] ½ RAB è la parentela diretta fra l'ascendente A ed il suo discendente B; ½ è la probabilità di un gene di passare da una generazione alla successiva; n è il numero di generazioni che separano l'ascendente A dal discendente B; FA e FB sono i coefficienti di consanguineità dei due parenti. Si può notare che la differenza fra parentela diretta e parentela collaterale è solo teorica, anche dal punto di vista del calcolo: infatti la formula per la parentela collaterale si trasforma in quella per la parentela diretta quando l'antenato comune C è lo stesso ascendente A. Il coefficiente di parentela (Malecot, 1948) corrisponde alla probabilità di identità tra due geni omologhi (cioè entrambi di origine paterna oppure entrambi di origine materna), l'uno dall'individuo A e l'altro dall'individuo B; è anche la probabilità che due gameti, presi a caso in ognuno dei due individui A e B, portino alleli identici. Il coefficiente di consanguineità di un individuo X è uguale al coefficiente di parentela tra suo padre e sua madre e, viceversa, il coefficiente di parentela tra due individui è identico al coefficiente di consanguineità di un loro (teorico) figlio. ΦAB = Σ½ n'+n"+1 (1+FC) 95 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 dove ½ è la probabilità di un gene di passare da una generazione alla successiva, n' ed n" è il numero di generazioni che separano A e B dall'antenato comune C, il cui coefficiente di consanguineità è FC. Fra il coefficiente di parentela ed il coefficiente di relazione esiste il seguente rapporto: n'+n" n'+n"+1 Σ½ (1+FC) ½ (1+FC) / Σ --------------------------- = ½ [(1+FA) (1+FB)] n'+n"+1 ½ (1+FC) ½ ½ = ------------------- [(1+FA) (1+FB)] = ½ [(1+FA) (1+FB)] n'+n" ½ (1+FC) In particolare, se A e B non sono consanguinei, il coefficiente di relazione è il doppio del coefficiente di parentela. L A C O N S A N G U I N E I T A' La selezione genetica utilizza elevati livelli di consanguineità. Le popolazioni di dimensioni ridotte hanno elevati livelli di consanguineità. La consanguineità è quindi una condizione a volte da ricercare, a volte da evitare. La registrazione anagrafica è il metodo per conoscere l'ascendenza degli individui. La consanguineità risulta dall'analisi degli alberi genealogici. La consanguineità è una caratteristica dell'individuo: un individuo può essere consanguineo o non-consanguineo. La condizione genetica di consanguineità deriva dalla riproduzione fra individui parenti, legati cioè l'uno con l'altro da origini comuni: sistema riproduttivo omeogamico consanguineo. Gli anglosassoni usano il termine inbreeding (inincrocio). La consanguineità può essere caratteristica di una popolazione solo se intesa come media della consanguineità degli individui che la compongono. La consanguineità è una caratteristica dell'individuo, mentre la parentela mette in relazione più individui. Teoricamente si possono ipotizzare due tipi di accoppiamenti: gli accoppiamenti che favoriscono l'unione di gameti dissimili (accoppiamenti eterogamici o eterogamia) e gli accoppiamenti che favoriscono l'unione fra individui che si assomigliano (accoppiamenti omeogamici o omeogamia); nell'ambito degli accoppiamenti omeogamici particolare importanza rivestono quelli fra parenti, da cui origina la consanguineità. I due differenti tipi di accoppiamenti non modificano le frequenze alleliche, ma modificano le frequenze di eterozigoti ed omozigoti, percentualmente più rappresentati rispettivamente in eterogamia ed in omeogamia. Lo studio della consanguineità aiuta a capire la parentela intercorrente all'interno di un gruppo di individui appartenenti alla stessa popolazione; infatti, all'interno di una popolazione, due individui che si riproducono possono essere imparentati: si parla di riproduzione consanguinea quando il legame di parentela fra gli individui che si accoppiano è più stretto di quello esistente, in media, all'interno della popolazione alla quale gli individui stessi appartengono. In zootecnia, lo studio della consanguineità permette di migliorare le produzioni animali. Wright (1922) definì la consanguineità come coefficiente di correlazione gametica: intendeva misurare la correlazione fra il gamete paterno e quello materno. Oggi sia la definizione di consanguineità che il modo per calcolarla sono cambiati, ma il valore che si ottiene è il medesimo. La definizione attuale di consanguineità è una definizione probabilistica (Malecot, 1948), per comprendere la quale occorre chiarire il concetto di identità genica (o allelica). Nel caso di un locus monomorfo si ha una sola forma allelica, mentre nel caso di un locus 96 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 polimorfo due o più forme alleliche; per definizione, geni alleli non possono mai essere identici; nel locus monomorfo tutti i geni sono uguali; l'identità (per copia) è un ulteriore gradino dopo l'uguaglianza (identità funzionale): sono identici due geni che hanno la stessa ascendenza genealogica, ovvero derivano da copie di uno stesso gene, portato da un individuo (antenato comune). Secondo Malecot la consanguineità di un individuo rappresenta la possibilità che nell'individuo stesso in un qualsiasi locus siano presenti geni identici (per copia). La definizione di Malecot sottolinea che si tratta di una probabilità e non di una certezza: ciò è legato al fatto che da genitore a figlio passa sicuramente il 50% del patrimonio genetico, mentre da nonno a nipote passa, in media, il 25%, ma potrebbe anche essere un altro valore compreso fra 0 e 50%. La consanguineità di Malecot è una consanguineità genica. Lo studio della consanguineità si effettua a livello di individuo e quindi a livello di popolazione. Per calcolare la consanguineità si utilizza la formula seguente: FA = Σ (½) n+n'+1 (1+FC) dove: FA è il coefficiente di consanguineità dell'individuo A; Σ rappresenta la sommatoria dei valori riferiti ai diversi antenati comuni; ½ rappresenta la probabilità che il gene passi da genitore a figlio; n ed n' rappresentano il numero di generazioni che separano i genitori di A dall'antenato comune C; FC è il coefficiente di consanguineità dell'antenato comune C. Il valore può essere compreso fra 0 ed 1. In pratica, l'individuo comune è un antenato sia del padre che della madre di A. La sommatoria indica che si tratta della probabilità totale, ricavata sommando la probabilità riferita a ciascun antenato comune. L'esponente a cui si eleva la base 0,5 dovrebbe essere n+n'+2: rappresenterebbe la probabilità composta del passaggio di un gene dall'antenato comune C fino ad A attraverso entrambi i genitori: poiché però è indifferente quale dei due alleli di un locus C trasmetta per entrambe le vie, il valore va raddoppiato (probabilità totale), da cui n+n'+1. La consanguineità FC dell'antenato comune può variare fra 0 ed 1, per cui il termine in parentesi può quindi variare fra 1 e 2: se l'antenato comune è a sua volta consanguineo, per una frazione dei suoi geni proporzionale alla sua consanguineità non potrà fare a meno di trasmettere ai suoi figli un gene identico, il che aumenta proporzionalmente la probabilità di consanguineità di A (probabilità composta). Attenzione al fatto che in alcuni testi la formula è n FA = Σ (½) (1+FC) perché in questo caso n rappresenta il numero di individui che compongono la catena di parentela che unisce i due genitori, compresi i genitori stessi: è numericamente uguale a n+n'+1 dell'altra formula. Secondo Malecot, la parentela che lega due individui è pari alla consanguineità di un loro (teorico) figlio: nel caso della parentela intesa come relazione additiva (coefficiente di relazione di Wright), essa è pari al doppio della consanguineità di un (teorico) figlio. Ciascun termine della sommatoria rappresenta una differente catena di parentela che lega i genitori di A e che passa obbligatoriamente per un antenato comune C; tutti gli individui di una catena di parentela debbono essere differenti, ma più di una catena di parentela può passare per lo stesso individuo; ci sono tanti termini nella sommatoria per quante sono le catene di parentela distinte che legano il padre di A alla madre di A: in altri termini, la somma dell'espressione è da effettuarsi ogni volta che esistano antenati comuni e parenti indipendenti a partire da tali antenati. 97 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Ad esempio: A C B D E F G X Quale probabilità ha l'individuo X di ereditare 2 alleli identici derivati dallo stesso ascendente? 1)- A potrebbe teoricamente essere consanguineo per un incrocio precedente: FA è il suo coefficiente di consanguineità. La probabilità totale che A trasmetta a B e C 2 alleli identici è: ½+½FA = ½(1+FA); 2)- la probabilità che B trasmetta ulteriormente il gene, derivato da A, ad F è ½; 3)- la probabilità che F lo trasmetta a X è ½; 4)- la probabilità che C lo trasmetta a D è ½; 5)- la probabilità che D lo trasmetta a E è ½; 6)- la probabilità che E lo trasmetta a G è ½; 7)- la probabilità che G lo trasmetta a X è ½. La probabilità composta è: 2+4 ½ (1 + FA) ½ =½ 2+4+1 (1 + FA) A B C D E X 98 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 antenato comune A A 0+2+1 FX = ½ padre A A 0+2+1 (1+0) + ½ madre A-C-E A-D-E 3 n 0 0 n' 2 2 Fantenato 0 0 n 1 3 3 2 n' 0 2 3 3 Fantenato FK 0 0 0 n 1 1 n' 2 3 Fantenato 0 0 3 (1+0) = ½ + ½ = 0,25 A C B D G F E H I K J X antenato comune K A A D padre J-K J-E-D-A J-E-D-A J-E-D madre K K-H-A K-I-F-A K-I-F-D Occorre calcolare anche la consanguineità di K: antenato comune A A 1+2+1 FK = ½ 1+0+1 FX = ½ padre H-A H-A 1+3+1 (1+0) + ½ madre I-F-A I-F-D-A (1+0) = 0,09375 (1+0,09375) + ½ 3+2+1 (1+0) + ½ 3+3+1 2+3+1 (1+0) + ½ (1+0) = 0,3125 Ricordando la definizione di parentela intesa come coefficiente di relazione, e cioè la probabilità che un gene dell'individuo A sia identico ad un gene dell'individuo B, si può cercare di capire anche il concetto di "relazione di un animale con se stesso"; infatti la relazione fra due animali è anche pari al doppio della probabilità che, estraendo a caso un gene da ciascuno dei due animali, il gene estratto sia identico: la relazione additiva di un animale con se stesso è la probabilità che, estraendo due volte a caso un gene dall'animale, si estraggano due geni identici. La relazione additiva di un animale C con se stesso è pari ad 1+FC. Scomposizione della consanguineità (Robertson e Asker, 1951). La consanguineità totale può essere scomposta in consanguineità prossima (o current inbreeding), consanguineità a 99 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 lungo termine e consanguineità di linea: la consanguineità a lungo termine e quella di linea costituiscono insieme il non current inbreeding. La consanguineità prossima è quella dovuta ad accoppiamenti fra individui strettamente parenti. La consanguineità a lungo termine è dovuta all'influenza di antenati che hanno giocato un grosso ruolo nella riproduzione della popolazione; è quella parte di consanguineità che si otterrebbe in una situazione di panmissia, ed è pari a R/(2-R), dove R è il coefficiente di relazione media di una popolazione (la misura della parentela definita da Wright). La consanguineità di linea è dovuta alla suddivisione della popolazione in linee; viene calcolata sottraendo alla consanguineità totale la consanguineità prossima e la consanguineità a lungo termine. Quando è disponibile un numero elevato di generazioni, per il calcolo della consanguineità vengono utilizzati i metodi accorciati. Il metodo di Wright e Mc Phee consiste nello scegliere casualmente, in ciascuna generazione, la linea da seguire e nel calcolare, nel caso di un antenato comune, la consanguineità ad esso dovuta con la formula consueta: l'antenato n+n' comune è però uno solo dei 2 possibili antenati comuni, per cui il suo contributo alla n+n' consanguineità dell'individuo va moltiplicato per 2 . Il metodo di Robertson e Mason è simile a quello di Wright e Mc Phee: ad ogni generazione si tiene però conto non solo dell'individuo scelto ma anche dell'individuo con cui è stato accoppiato; si ottiene così una "doppia linea di ascendenza"; vengono presi in considerazione solo gli antenati comuni che hanno fornito discendenti diversi da parte di padre e di madre e la consanguineità si calcola con una formula simile alla precedente. Nell'uso i metodi accorciati hanno fornito valori praticamente coincidenti con quelli ottenuti con il metodo completo. Nel caso occorra conoscere la consanguineità e la parentela esistenti fra tutti gli individui di una popolazione si può utilizzare il metodo tabulare di Emik e Terrill, mentre se bisogna calcolare solamente la consanguineità il metodo più opportuno è quello di Henderson & Quaas (1976): entrambi i metodi presuppongono che gli animali siano ordinati cronologicamente e si prestano particolarmente per l'uso degli elaboratori elettronici. Effetti zootecnici della consanguineità. La consanguineità ha un effetto indiretto sulle frequenze geniche ed un effetto diretto (depressione da consanguineità). L'effetto indiretto di una elevata consanguineità su una popolazione è la tendenza all'omogeneità della popolazione: si hanno cioè meno eterozigoti e più omozigoti; anche se diminuisce la frequenza degli eterozigoti (i "portatori"), compaiono più frequentemente le anomalie da omozigosi recessiva: ciò è dovuto all'aumentata probabilità di accoppiamento fra parenti (il portatore viene accoppiato con un parente, e la probabilità che anche questo parente sia un portatore è aumentata proprio dal fatto di essere parente di un portatore). L'effetto diretto è la depressione da consanguineità: all'aumentare della consanguineità diminuisce la fitness dei genotipi; il valore riproduttivo dei genotipi diminuisce linearmente all'aumentare della consanguineità, perché all'aumentare della consanguineità aumentano linearmente i carichi genetici da mutazione e da segregazione; la spiegazione biologica della depressione da consanguineità è difficile: forse l'omozigosi è dannosa all'adattabilità, con un meccanismo inverso a quello che provoca l'eterosi (positiva). La consanguineità sopportabile senza danno da una popolazione dipende dalla specie: sembrano più sensibili le specie multipare; nei bovini, gli animali da latte sembrano più sensibili di quelli da carne. Particolarmente colpita dalla consanguineità è l'efficienza riproduttiva. 100 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 LA CONSANGUINEITA' NELLE SPECIE ZOOTECNICHE 1) LA CONSANGUINEITA' NEI BOVINI a) GENERALITA' Sebbene il bovino non sia molto sensibile ai fenomeni legati alla depressione da consanguineità, sono stati messi in evidenza diversi problemi conseguenti ad un aumento del livello d'inincrocio: il rischio risulta amplificato dall'uso massiccio della fecondazione artificiale. Quando il numero di padri utilizzati per la fecondazione artificiale scende al di sotto di un certo livello, la razza viene minacciata dall'aumento dell'insorgenza delle anomalie ereditarie o dal presentarsi di una maggiore predisposizione ereditaria alle malattie; tanto maggiore risulta l'evidenza di tali effetti quanto più piccola è la popolazione inincrociata. Per evitare nell'uso della fecondazione artificiale simili inconvenienti bisogna seguire alcuni accorgimenti: 1)- il liquido seminale di tori con un antenato portatore di un difetto ereditario, o comunque sospetto, non deve essere usato per l'inseminazione di vacche tra i cui figli maschi verranno scelti i tori per la raccolta del seme da utilizzare per la fecondazione artificiale; 2)- è necessario avere a disposizione studi preliminari e compilare schemi di riproduzione controllata, in modo tale da evitare di accoppiare tori portatori di difetto o utilizzare il loro seme per fecondare femmine eterozigoti riconosciute; 3)- gli accoppiamenti padre-figlia vengono utilizzati per rilevare anomalie rare o ereditate recessivamente; 4)- utilizzare il progeny test per i tori per individuare l'eventuale trasmissione di difetti ereditari; 5)- distribuire fra gli allevatori opuscoli informativi riguardanti le tecniche di individuazione delle anomalie e dei difetti ereditari che potrebbero comparire nei soggetti in loro possesso. b) CONSANGUINEITA', RIPRODUZIONE E MORTALITA' NEONATALE L'elevata consanguineità provoca una riduzione della percentuale di concepimento e diminuzione della vitalità fetale; le perdite embrionali sono maggiormente elevate se la consanguineità interessa le madri, inferiori se è il padre ad essere consanguineo. Vacche appartenenti alla stessa mandria hanno richiesto una media di 3 inseminazioni per concepimento se veniva impiegato il liquido di un toro consanguineo e di solo 1,92 inseminazioni se il toro donatore non risultava consanguineo; un aumento graduale della percentuale di aborti è un altro dei segni dell'aumento dell'indice di consanguineità. Alcuni autori riferiscono che con l'aumento della consanguineità aumenta il numero di alterazioni testicolari, quali la distrofia dei tubuli seminiferi oppure l'ipoplasia della gonade maschile; la misura della diminuzione della fertilità del toro in relazione alla consanguineità differisce tra le varie linee, ma quasi tutti i tori di ogni linea sono interessati allo stesso modo da alterazioni della qualità delle cellule germinali e della fecondità. L'eccesso di consanguineità diminuisce la fertilità anche nel bovino da carne, sebbene in misura minore di quanto accade nel bovino da latte. I soggetti che nascono da accoppiamenti fra genitori strettamente parenti risultano maggiormente sensibili alle forme infettive neonatali sia enteriche che broncopolmonari. In razze da latte, accoppiamenti genitore-figlia e genitore-sorellastra hanno causato perdite di quasi il 40% per aborti e parti di feti morti. Nella Frisona americana sono state registrate perdite di oltre il 25% dovute alla consanguineità della madre. Nella Jersey aborti e parti di feti morti hanno causato, per valori di consanguineità superiori al 12,5%, perdite di oltre il 36%. In bovine Hereford, una consanguineità del 15-20% ha provocato un aumento di oltre il 4% delle perdite per parto di feti morti; nella stessa razza, una consanguineità del 13-25% ha causato perdite fino al 50% per morte delle bovine. 101 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 c) CONSANGUINEITA' E COMPARSA DI ANOMALIE GENETICHE La frequenza di comparsa di fenotipi recessivi indesiderabili è direttamente collegata al grado di consanguineità. Fra le forme più frequenti di anomalie genetiche sono riportate in letteratura sindattilia, deformità della mandibola, alterazioni nervose quali la lipodistrofia neuronale; da ricordare il cosiddetto "Morbo di Adema", (così definito perché comparso nella progenie di 10 tori, tutti figli del toro Adema-H), descritto per la prima volta nella razza Pezzata Nera Danese e caratterizzato da paracheratosi ed ipercheratosi cutanee. d) CONSANGUINEITA' E PRODUZIONE DEL LATTE E' stato osservato che l'aumento dell'1% del coefficiente di consanguineità medio comporta una diminuzione della produzione di gruppo pari a 15,2 Kg di latte, mentre il grasso del latte diminuisce di 4,05 Kg. Nella razza Rossa delle Steppe una stretta consanguineità ha ridotto la durata della carriera del 38% e la produzione per lattazione del 17%, causando una riduzione complessiva della produzione durante la vita di una bovina del 58%. e) CONCLUSIONI L'utilizzo di alti livelli di consanguineità ha permesso di ottenere razze e linee genetiche da latte ad elevata produzione. Restando su livelli di consanguineità del 3-5%, generalmente non si verificano fenomeni depressivi: già a questi livelli conviene però assicurarsi che solo animali geneticamente sani vengano utilizzati nella riproduzione. Occorre un continuo monitoraggio dei difetti ereditari provocati dai padri utilizzati in grossi gruppi di progenie: per fare ciò è possibile utilizzare il "test automatico" o l'accoppiamento del padre con le figlie e/o mezze-sorelle. La consanguineità andrebbe comunque evitata nei grossi sistemi di produzione di carne. 2) LA CONSANGUINEITA' NEGLI OVINI a) GENERALITA' Anche in questa specie l'interesse per la consanguineità è venuto crescendo a partire dagli anni '40; le razze maggiormente studiate sono state, in ordine decrescente, le Merinos, le Rambouillet, le Blackface, la Columbia, la Karakul, la Targhee, la Cheriot, la Welsh Mountain e la Hampshire; la più studiata in Italia è stata la Sarda. In linea di massima i lavori si sono occupati di due aspetti principali: 1)- l'analisi della struttura genetica di una popolazione mediante il calcolo del coefficiente medio di consanguineità; 2)- l'esame degli effetti dell'aumento del tasso di consanguineità, applicato in piccole popolazioni all'interno delle quali si attuano particolari schemi d'accoppiamento allo scopo di aumentare la consanguineità degli individui. Relativamente ai rapporti tra consanguineità e produzione, sono studiati il vello, l'accrescimento, la conformazione corporea ed i caratteri di allevamento. b) LA PRODUZIONE DEL VELLO L'effetto della consanguineità è stato correlato al peso del vello sucido, del vello pulito e del vello grasso. Per valori della consanguineità oscillanti fra 4,5 e 17,6, un aumento dell'1% del coefficiente di consanguineità provoca, in media, una riduzione di 0,017 Kg del peso del vello sucido e di 0,018 Kg del peso del vello pulito. 102 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 In tutti i casi, gli effetti della consanguineità materna sono prossimi allo zero. Alcuni autori hanno esaminato 13000 pecore per stimare l'effetto della consanguineità sulla lunghezza del filamento di lana ed hanno dimostrato che, per un coefficiente di consanguineità che varia tra l'1,8% e il 29,8%, il suo aumento per valori dell'1% provoca in taluni casi l'aumento della lunghezza della lana (per valori di 0,016 cm), mentre in altri casi ne causa la diminuzione (per valori di 0,292 cm): comunque i valori non risultano statisticamente significativi e l'effetto negativo tende ad essere maggiore nelle varietà statunitensi e minore nelle Merinos Australiane. L'aumento di consanguineità non mostra effetti di sorta sulla produttività del vello e sul diametro delle fibre, influenza negativamente la densità del vello, il numero di arricciature per centimetro ed aumenta la copertura lanosa della faccia. c) ACCRESCIMENTO La letteratura mostra che l'aumento del tasso di consanguineità individuale e materna hanno un effetto negativo sul peso alla nascita, sul peso allo svezzamento degli agnelli ed anche sul peso post-svezzamento: in media, un aumento dell'1% del coefficiente individuale fa diminuire il peso alla nascita di 0,013 Kg, quello allo svezzamento di 0,011 Kg e quello nelle fasi successive di 0,178 Kg. Gli effetti appaiono più evidenti nelle razze da carne che in quelle da latte. d) CONFORMAZIONE Un aumento della consanguineità provoca una significativa diminuzione del numero di pliche cutanee ed una peggiore conformazione. e) CARATTERI DI ALLEVAMENTO La consanguineità possiede un effetto negativo nei confronti della fertilità delle femmine: i dati si riferiscono sia a razze Merinos sia a razze Blackface scozzesi. Nel primo caso, con un coefficiente medio del 24,2%, partorivano il 24,6% delle pecore ad elevata consanguineità mentre quelle non consanguinee partorivano con percentuali intorno al 58%; nel secondo caso le femmine non consanguinee raggiungevano la percentuale del 86,1%, mentre le femmine con un tasso medio di consanguineità del 25% partorivano al 45%. Per ogni 1% di aumento del tasso medio si stima una diminuzione della fertilità che va dall'1,2% all'1,6%. Scarsa sembra l'influenza sulla prolificità. Sull'effetto della consanguineità nei feti i risultati sono contrastanti; alcuni autori registrano una diminuzione di 0,0012 agnelli nati per parto per ogni aumento dell'1% nel coefficiente di consanguineità del feto o dei feti, mentre altri riscontrano una prolificità maggiore per le femmine madri di agnelli consanguinei. Altri dati riguardano l'effetto della consanguineità sulla sopravvivenza degli agnelli: in genere, l'aumento dell'1% del tasso di consanguineità provoca una diminuzione della sopravvivenza per valori oscillanti tra lo 0,7% ed il 7,2%. In media la consanguineità materna presenta un effetto negativo minore rispetto a quella dell'agnello. Alcune sperimentazioni hanno documentato gli effetti della consanguineità sui caratteri riproduttivi complessi, quelli cioè che associano due o più fattori precedentemente discussi: i risultati hanno confermato le conclusioni già elaborate negli studi compiuti per ognuno dei singoli aspetti. f) CONCLUSIONI L'aumento del livello di consanguineità produce una diminuzione del rendimento dell'allevamento ovino in termini economicamente rilevanti. Un aumento del 10% del tasso di consanguineità di un individuo provoca la diminuzione del peso del vello pulito di 0,18 Kg, del peso allo svezzamento dell'agnello di 1,1 Kg, del numero di parti per 100 femmine 103 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 accoppiate pari a 14, del numero di agnelli sopravvissuti allo svezzamento per 100 agnelli nati pari a 28. 3) LA CONSANGUINEITA' NEI CAPRINI Nei caprini l'aumento del tasso di consanguineità provoca una modificazione dei caratteri produttivi del latte: in particolare, un aumento significativo del coefficiente medio del 20% all'interno di un gregge sembra in grado di provocare una diminuzione della produzione di latte per lattazione pari a 7,6 Kg; inoltre provoca un peggioramento delle caratteristiche qualitative, diminuendo la percentuale di sostanza secca. Secondo altri dati l'effetto è duplice: se il tasso oscilla tra il 5 ed il 25% si ha una regressione della produzione, mentre se supera il 25 e raggiunge il 45% provoca un aumento della quantità di latte prodotta. 4) LA CONSANGUINEITA' NEI SUINI a) GENERALITA' La specie suina è la specie domestica di interesse zootecnico maggiormente sensibile agli effetti dell'aumento di consanguineità; la depressione di consanguineità comincia ad essere evidente per valori appena superiori al 3%. b) CARATTERI RIPRODUTTIVI E DI ALLEVAMENTO Un aumento del numero di scrofe infeconde con l'aumento dell'intensità della consanguineità fu notato per la prima volta in scrofe Poland-China; aumenta anche la lunghezza media della gestazione, con una notevole diminuzione del numero dei nati, i quali presentano un peso alla nascita ed allo svezzamento molto più basso rispetto a suinetti nati da madri meno consanguinee. In un grosso lotto di figliate (996) ottenute da 297 verri a partire da un livello di consanguineità medio del 2,02%, alcuni autori hanno osservato i seguenti effetti: 1)- diminuzione della taglia per un valore pari allo 0,32%; 2)- diminuzione del peso medio della figliata di 0,318 Kg; 3)- aumento di 0,716 giorni per arrivare al peso corporeo di 20 Kg. Per ogni 1% di consanguineità in più, il peso finale è ritardato di 0,20 giorni, l'aumento del peso giornaliero diminuisce di 0,22 grammi mentre la quantità di nutrimento necessaria a produrre 1 Kg aumenta dello 0,2%. Anche il maschio subisce l'influenza negativa della consanguineità: la fertilità diminuisce ed in alcuni casi si hanno delle aberrazioni del comportamento sessuale per disturbi al sistema nervoso centrale che provocano una depressione della libido che raggiunge perfino l'impotentia coeundi. c) LE ANOMALIE EREDITARIE L'aumento del tasso di consanguineità comporta l'aumento del livello di omozigosi e con l'omozigosi si evidenziano molto precocemente una lunga serie di anomalie ereditarie. Uno studio compiuto in Gran Bretagna ha mostrato che le perdite produttive causate da un aumento delle anomalie da consanguineità sono economicamente ingenti. La frequenza delle anomalie raggiunge valori del 13,07% nelle figliate e di 1,62% nei maiali che sopravvivono e sono rappresentate con maggior frequenza da ernie scrotali, ernie ombelicali, criptorchidismo, atresia dell'ano, intersessualità. 104 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 5) LA CONSANGUINEITA' NEGLI EQUINI Fra tutte le specie domestiche, il cavallo è il meno sensibile alla consanguineità; per questo motivo, l'inincrocio è stato molto utilizzato per uniformare i tipi morfologici e migliorare le prestazioni sportive delle varie razze. In alcune razze l'esistenza di libri genealogici e registri molto antichi (il libro del purosangue inglese esiste da oltre 2 secoli), ha facilitato lo studio delle relazioni fra la consanguineità e le prestazioni. Purtroppo le anomalie ereditarie che compaiono per consanguineità troppo alta non sono state mai studiate dato che tutto l'interesse era rivolto alle prestazioni sportive: gli animali non conformi agli standard di razza sono stati sempre eliminati senza alcun esame, tanto meno di natura genetica. La depressione da consanguineità è stata esaminata in rapporto alle prestazioni sportive; lo studio degli alberi genealogici nei purosangue ha mostrato che: 1)- le massime prestazioni sportive sono date da soggetti che hanno 3,4 o 5 linee di ascendenti libere; alcuni autori parlano di stalloni che danno ottimi risultati se ottenuti in riproduzione stretta e cioè con un massimo di una o due linee di ascendenza libere; 2)- la consanguineità sembra essere stata più elevata 100 anni fa rispetto agli stalloni esaminati negli anni più recenti; 3)- la consanguineità ha un effetto negativo maggiore sugli stalloni rispetto alle giumente; 4)- poco si conosce dell'effetto della consanguineità nei confronti della mortalità embrionale e neonatale, sulle perdite perinatali e su altri segni di deterioramento costituzionale come la ridotta resistenza ad alcune malattie infettive. Anche nei mezzosangue si hanno gli stessi risultati, sebbene siano stati selezionati più per le caratteristiche morfologiche che per le prestazioni sportive. Fra questi animali è possibile osservare esempi di depressione da consanguineità come la necessità di coprire 4 o 5 volte una giumenta per ottenere una gravidanza, la scarsa vitalità, la ridotta resistenza alle malattie, il manifestarsi di alterazioni alla testa ed alle estremità. La depressione da consanguineità interessa anche il comportamento. Attualmente si è notevolmente ridotto l'uso dell'inincrocio rispetto agli anni passati. Indagini condotte negli U.S.A. hanno indicato valori del 3,2-8,4% sia nel Purosangue che nel trottatore e dell'1,7% nell'Arabo. In Europa, i valori più elevati sono stati riscontrati nel Clydesdale (6,2%) e nei Ponies della Polonia (5,41-25%). In razze da sella tedesche (Hannover, Trakhenen) sono stati riscontrati valori dell'1-2,3% mentre nel Maremmano il coefficiente medio di consanguineità è del 3,5% ca.. 6) LA CONSANGUINEITA' NEGLI AVICOLI La consanguineità è stata utilizzata come sistema di miglioramento prima dell'affermarsi degli attuali ceppi poliibridi, specializzati nella produzione delle uova e della carne. Anche tra gli avicoli è presente la depressione da consanguineità: ad esempio, studi compiuti su 23 linee consanguinee di White Leghorn hanno mostrato che per ogni aumento dell'1% del coefficiente di consanguineità si provoca una diminuzione media dello 0,43% della produzione di uova. La depressione interessa anche altri aspetti produttivi: l'aumento del tasso di consanguineità provoca diminuzioni dell'incremento ponderale giornaliero, del tasso di covata, della fecondità delle uova, della percentuale di schiusa, della vitalità dei pulcini. Nello stesso tempo è possibile rilevare diverse anomalie congenite quali anoftalmia, brachignatismo, ernia ombelicale ed anche una forma di trisomia eterosomica (ZZZ). Con l'aumento della 105 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 consanguineità si altera anche la composizione chimica centesimale dell'uovo: si rileva una diminuzione della quantità totale di materia secca ed in particolare del tasso di proteine, e diminuzione del contenuto di tiamina e riboflavina. Incrociando linee consanguinee tra di loro i risultati sono buoni per cui conviene rinfrescare geneticamente le linee quando si è raggiunto un tasso di consanguineità variabile fra lo 0,375 e lo 0,50. ELEMENTI DI DEMOGRAFIA ZOOTECNICA La demografia zootecnica è una scienza relativamente giovane, che ha per oggetto lo studio della struttura e della dinamica delle popolazioni di animali allevati a scopo zootecnico. Studiare a livello di struttura vuol dire analizzare un'immagine statica della popolazione (come fosse una foto), mentre per studio della dinamica si intende lo studio del divenire della popolazione zootecnica. Lo studio può essere sia a livello aziendale che a livelli più ampi (provincia, regione, nazione, etc.). Nell'uomo e nelle popolazioni selvatiche la struttura e la dinamica sono determinati da due forze "naturali", la fertilità e la mortalità; nelle popolazioni zootecniche agisce anche la eliminabilità, una forza "culturale": l'uomo individua una quota di animali che non è ritenuta idonea, per motivi diversi, ad essere conservata; è chiaro che motivi economici tendono a far coincidere questa quota con quella necessaria per la mattazione e con quella eccedente le necessità di rimonta. La eliminabilità dipende da diversi fattori (sesso, età, genotipo, etc.) ed incide sulla popolazione zootecnica più delle forme naturali di mortalità (la mortalità senile, la mortalità patologica, la mortalità accidentale): pertanto la demografia zootecnica, pur mutuando alcuni parametri dalla demografia umana, ha una sua specificità. La demografia zootecnica ha innanzitutto uno scopo descrittivo (studio della struttura e della dinamica delle popolazioni zootecniche): a ciò segue un momento di interpretazione, che consente di identificare i fattori che influiscono sulla efficienza produttiva e riproduttiva delle popolazioni e quindi di fornire parametri utili ad impostare razionalmente i piani di miglioramento (ottimizzazione produttiva). Tutto questo richiede una buona padronanza della metodologia statistica applicata alle scienze biologiche ed una precisa definizione dei termini utilizzati. Molto importante è il problema della raccolta dei dati. Esistono delle difficoltà oggettive, che nonostante le molteplici fonti di informazioni lasciano aperto il problema della completezza e dell'attendibilità dei dati raccolti: il campione deve essere adeguato per dimensione e per rappresentatività. Fra le possibili fonti di informazioni, ognuna delle quali deve essere convenientemente interpretata, ricordiamo: le Associazioni Provinciali Allevatori (A.P.A.), organi periferici dell'Associazione Italiana Allevatori (A.I.A.), le quali curano i controlli funzionali: queste fonti forniscono quindi dati affidabili soprattutto per quanto riguarda i soggetti sottoposti ai controlli funzionali; i Libri Genealogici (LL. GG.), i quali possono fornire dati relativi ai soli soggetti iscritti (prevalentemente riproduttori); i mattatoi ed i caseifici, per i quali esiste però il problema dell'area geografica di provenienza degli animali o del latte; le Unità Sanitarie Locali, i cui dati si riferiscono prevalentemente ad animali sottoposti a misure sanitarie obbligatorie (profilassi, etc.); 106 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 i documenti relativi a mostre, premi, richieste di fondi e contributi (con il rischio di sovrastime del numero di animali), dati fiscali e pagamenti di pascoli (con il rischio di sottostime); i censimenti generali dell'agricoltura, uno strumento costoso i cui risultati dipendono molto dalla serietà del rilevatore e dalla collaborazione da parte dell'imprenditore agricolo; i censimenti diretti a campione, ai quali però spesso sfuggono molti l'imprenditori agricoli (soprattutto se senza terra, oppure se proprietari di un numero ridotto di animali). Per età puberale si intende l'età in cui il maschio è sessualmente maturo e capace di accoppiarsi con successo e la femmina presenta il primo calore fecondo (o depone il primo uovo nel caso si tratti di un uccello). L'età puberale è influenzata da fattori genetici (gli stessi che danno precocità di accrescimento e di sviluppo) e da fattori ambientali (soprattutto alimentazione e fotoperiodo). Ritardata rispetto all'età puberale è l'età al primo servizio; essa è influenzata da fattori ambientali, ma nel bovino soprattutto dalla mole della razza: il primo servizio è più precoce nelle razze di piccola mole (le razze da latte sono più precoci di quelle da carne). Al fine di anticipare razionalmente l'età al primo servizio, rendendola dipendente dall'effettivo sviluppo dell'animale e non dalla sua età, gli allevatori tendono a fecondare le manze quando queste hanno all'incirca raggiunto i 2/3 del peso adulto (ad esempio, nella Frisona, quando l'animale pesa 400 Kg): questo anticipo non comporta generalmente difficoltà di parto. Più o meno superiore rispetto all'età al primo servizio, a seconda della percentuale dei ritorni in calore, è l'età media al primo concepimento. L'età media al primo parto è l'età in cui le femmine della popolazione considerata partoriscono in media per la prima volta; la distribuzione dei parti nei mesi dell'anno tende nelle varie specie zootecniche a non essere uniforme, o per motivi fisiologici o per scelte economiche degli allevatori. Per intervallo interparto si intende il tempo che intercorre fra due parti consecutivi della stessa femmina: esso è composto dall'intervallo di servizio (dal parto al concepimento) e dalla durata della gestazione (dal concepimento al parto); nell'intervallo di servizio si può ulteriormente distinguere un intervallo parto-primo servizio ed un intervallo primo servizioconcepimento. L'interservizio è l'intervallo medio fra due servizi consecutivi nella stessa femmina. L'età media di una popolazione è la media delle età degli individui che la compongono. L'età media è essenzialmente determinata da due fattori: il rapporto nascite/morti e la distribuzione delle morti per età. Riguardo al rapporto nascite/morti, una popolazione in cui le nascite sono più delle morti appare in espansione, e quindi più giovane di una popolazione stazionaria: al contrario, una popolazione in contrazione tende a sembrare più vecchia di una stazionaria. Se la popolazione è stazionaria, l'età media è determinata dalla distribuzione delle morti per età: tale distribuzione dipende da una mortalità senile o fisiologica e da una mortalità "anticipata", cioè dovuta a patologia o accidenti; se le cause di morte anticipata si riducono, l'età media della popolazione aumenta e l'età di morte tende a distribuirsi normalmente. Nelle popolazioni di interesse zootecnico non ha significato parlare genericamente di età media; l'età media dipende essenzialmente dall'azione dell'uomo: a seconda del sesso, della specializzazione produttiva, della categoria funzionale, etc., l'uomo effettua uno scarto tecnologico, a seguito del quale l'età media delle varie categorie di animali è una misura della durata della loro vita produttiva. In zootecnia la conoscenza dell'età media può essere vantaggiosamente sostituita dalla conoscenza del rapporto di composizione, cioè della incidenza che sulla popolazione totale hanno le varie categorie produttive. In una popolazione zootecnica gli animali possono essere funzionalmente classificati sotto l'aspetto riproduttivo e sotto l'aspetto produttivo. Dal punto di vista riproduttivo, si possono distinguere i riproduttori, la rimonta e gli animali che non si riproducono (questi ultimi dal punto di vista genetico non fanno parte della popolazione). Dal punto di vista produttivo, negli animali da latte femmine produttrici e riproduttrici coincidono, negli animali da carne i 107 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 riproduttori forniscono gli animali per la produzione, negli animali da lana tutti i soggetti producono. Per fecondità si intende la capacità del maschio di produrre spermatozoi e della femmina di produrre ovocellule: è dunque una caratteristica individuale; per fertilità si intende la percentuale di ovocellule che esitano in nati vivi: è pertanto dipendente non solo dalla fecondità maschile e femminile, ma anche dall'interazione maschio-femmina. La prolificità è il numero di nati nelle femmine multipare. Sterile è l'individuo incapace di avere figli. La fertilità potenziale è il numero di figli che una femmina può avere durante la sua vita riproduttiva; la fertilità generale il rapporto fra nati vivi e femmine in età feconda. La fecondabilità femminile (o percentuale dei non-ritorni) è il rapporto fra femmine rimaste gravide al primo servizio e femmine inseminate; la inseminabilità è il numero dei servizi necessari per ottenere in media il concepimento (nel bovino un valore buono è intorno ad 1,61,7: ottimi i valori intorno a 1,25 e negativi i valori superiori a 2). Per nascita si intende nei mammiferi l'espulsione del feto e negli uccelli la schiusa dell'uovo; a seconda della durata della gravidanza rispetto al tempo medio di gestazione, si possono distinguere le nascite in premature, a termine e tardive: fra i fattori che influenzano la durata della gravidanza si ricordano la razza, l'età della madre, il numero ed il sesso dei feti. Per cause accidentali o per frode ci può essere una errata attribuzione di paternità (più raramente l'errata identificazione riguarda la madre): si può ricorrere alle prove di disconoscimento di paternità basate sui gruppi sanguigni e gli altri polimorfismi ematici (prove obbligatorie per alcuni libri genealogici) o all'impronta del DNA. Regola base del disconoscimento di paternità è che, se un allele di un gruppo sanguigno è presente nel prodotto, esso deve ritrovarsi o nel padre o nella madre: se un allele non si trova né nel padre né nella madre, si possono disconoscere entrambi i genitori (ovviamente le informazioni che si possono ricavare da un locus codominante sono superiori a quelle ricavabili da un locus a dominanza completa); poiché in genere il problema è di accertare la paternità, si può distinguere un disconoscimento incondizionato ed un disconoscimento condizionato: nel primo caso il maschio non può essere il padre del prodotto, a prescindere da quale sia la madre, mentre nel secondo caso il maschio non può essere il padre del prodotto ottenuto da una femmina che si presume identificata con certezza. In alcuni casi gli alleli non vengono trasmessi indipendentemente ma sono associati in dei fenogruppi, che vengono ereditati contemporaneamente. Ricordiamo che si tratta comunque di un disconoscimento di paternità (o di maternità), non di un accertamento: il risultato finale della prova dice che il riproduttore in esame può essere il genitore, ma non è detto che lo sia realmente (anche se, considerando più polimorfismi, le probabilità di individui identici si riducono notevolmente). Un aiuto supplementare all'identificazione di errate attribuzioni può essere fornito dal polimorfismo visibile (ad esempio, colore del mantello degli equini) e si può, attraverso l'impronta del DNA, basata sul polimorfismo di alcune regioni ipervariabili, giungere ad un vero e proprio accertamento. La riproduzione animale è stata, nel corso degli anni, regolamentata da differenti leggi. Nel 1929, nell'ambito di una legge organica sulla produzione zootecnica, venivano istituite le "cattedre ambulanti", con compiti di assistenza e di divulgazione agli agricoltori; venivano stanziati dei contributi per creare stazioni di monta (per diffondere gli animali miglioratori) e per istituire i Libri Genealogici; si fissavano le modalità di concorsi, rassegne, valutazioni; particolare risalto e retribuzione veniva data alla produzione equina. In una legge del 1952 (e relative norme attuative del 1958) veniva regolamentata la F.A.: le si riconosceva un ruolo nel miglioramento genetico e la si consentiva solo ai veterinari che avessero seguito un apposito corso; i veterinari abilitati alla F.A. non potevano essere gestori o titolari di impianti di F.A.; si fissavano i requisiti degli animali da ammettere alla F.A., dei centri di produzione del seme, dei centri di F.A. e dei recapiti (posizione intermedia fra produzione di seme e centri di F.A.); venivano presi in considerazione soprattutto gli aspetti igienico-sanitari. Nella legge del 1963 108 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 che disciplinava la riproduzione bovina si consentiva l'uso di un toro solo se iscritto ad un Libro Genealogico, con comprensibili effetti negativi sulle razze locali (salvatesi, fino all'opera di recupero e valorizzazione del germoplasma animale, iniziata fra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, solo per inosservanza della norma di legge). Nel 1974 venne modificata ed integrata la legge del 1952, consentendo la F.A. anche ai non-veterinari ("fecondatori laici"). La legge del 1991 (e relativo regolamento del 1994) si limita nella sostanza a "razionalizzare" la situazione di fatto esistente: fra gli aspetti da ricordare, l'inseminazione artificiale per le razze autoctone e la disciplina della produzione e raccolta degli embrioni. La differente numerosità fra i due sessi può essere indicata attraverso varie misure; si parla di rapporto di coesistenza indicando il rapporto fra numero di maschi e numero di femmine ("rapporto di mascolinità", cioè m/f) o viceversa ("rapporto di femminilità", cioè f/m): tale valore è 1 nel caso i due sessi siano ugualmente rappresentati; il rapporto di composizione indica l'incidenza di un sesso sul totale degli animali, cioè m/(m+f) oppure f/(m+f), ed ha valore 0,5 nel caso i due sessi siano ugualmente rappresentati; per differenza relativa fra i due sessi si intende il rapporto fra la differente numerosità nei due sessi ed il totale degli animali, cioè (m-f)/(m+f) oppure (f-m)/(m+f): se i due sessi sono ugualmente rappresentati la differenza relativa è 0. Il rapporto fra i sessi può essere distinto in primario (cioè relativo al concepimento) e secondario (cioè alla nascita): la differenza fra i due è legata alla mortalità prenatale dei due sessi; il rapporto fra i sessi alla nascita vede un maggior numero di maschi nella maggior parte delle specie, ad eccezione del cavallo. Esiste anche un rapporto fra i sessi riproduttivo, influenzato da situazioni naturali (ad esempio il colombo è monogamo) ed economiche; molta influenza su tale rapporto ha l'inseminazione strumentale. Per ordine di parto si intende l'ordine numerico della gestazione; una femmina al primo parto è detta primipara, una femmina con due o più parti multipara; generalmente la mortalità neonatale è superiore nelle femmine primipare. A seconda del numero di ovuli che, nella specie considerata, la femmina porta a maturazione in un ciclo estrale si distinguono femmine monoovulatrici (dette anche unipare) e femmine poliovulatrici (o pluripare); possono anche aversi, nello stesso parto, fratelli che non sono figli dello stesso padre (superfetazione). Nel caso che una femmina unipara abbia un parto plurimo i prodotti vengono detti gemelli e possono, in base alla loro origine, essere distinti in gemelli identici (o monozigotici o monoovulari) e gemelli fraterni (o dizigotici o biovulari); i gemelli identici sono portatori della medesima informazione genetica, mentre i gemelli fraterni possono essere considerati come due fratelli "normali", anche se l'aver ricevuto il medesimo effetto materno li rende più simili fenotipicamente, con il rischio di considerarli gemelli identici. I gemelli identici sono spesso utilizzati per scopi sperimentali (a titolo di curiosità, l'armadillo partorisce 4 gemelli identici). Da ricordare che, nel bovino, a causa di anastomosi vascolari che consentono il passaggio di ormoni e cloni cellulari fra i gemelli, il 90% ca. delle femmine gemelle di un maschio è costituito da intersessi sterili (free-martin): il fenomeno è evidenziabile attraverso lo studio dei gruppi sanguigni e la dimostrazione del chimerismo; problemi riproduttivi si hanno anche nel gemello maschio. La mortalità può essere distinta in prenatale, perinatale (da 24 ore prima a 24 ore dopo la nascita, essenzialmente dovuta al parto e più pronunciata nelle primipare) e postnatale. L'aborto è l'interruzione, spontanea o provocata (anche a scopo terapeutico, come nel caso della gemellarità della cavalla o della tossiemia gravidica della pecora), della gravidanza prima che il prodotto del concepimento sia in grado di sopravvivere fuori dell'alveo materno; viene distinto in completo (se sono espulsi il prodotto del concepimento e gli annessi), incompleto (se il prodotto del concepimento viene espulso e gli annessi no, o viceversa) e ritenuto (né il prodotto del concepimento né gli annessi vengono espulsi dall'alveo materno, ma vengono riassorbiti o mummificati). Il prodotto del concepimento può morire in differenti 109 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 stadi: allo stadio blastocistico (cioè prima di completare l'annidamento), allo stadio embrionale (cioè prima della differenziazione completa di organi e tessuti), allo stadio fetale. Gli aborti vengono rivelati, se precoci, dal ritorno in calore, o, se tardivi, dai fenomeni espulsivi. La mortalità neonatale è quella che colpisce nei primi giorni di vita (in genere si considera la prima settimana), mentre per mortalità infantile si intende quella che si verifica fino allo svezzamento. La mortalità dopo lo svezzamento è, nelle specie zootecniche, molto bassa: la principale causa di morte è la eliminazione per motivi legati alla produzione (l'animale viene macellato per ottenere la produzione, oppure perché non produce o produce in maniera antieconomica, oppure per essere sostituito da un soggetto più produttivo). Le morti possono essere distinte in senili ed anticipate: queste ultime possono essere ulteriormente divise in patologiche ed accidentali; la distribuzione delle morti senili rappresenta la lunghezza fisiologica della vita e dovrebbe essere di tipo gaussiano, ma viene modificata dalle cause di morte anticipata (o per meglio dire, di eliminazione), che negli animali in produzione zootecnica rendono praticamente nulla la mortalità senile. Per esprimere le cause di eliminazione si parla di eliminabilità specifica, intendendo la frazione della popolazione che viene eliminata in un certo periodo per una determinata causa; se si uniscono tutte le cause di eliminazione si parla di eliminabilità generale; al numeratore si possono, a seconda dei casi, anche includere gli animali morti. Collegato al concetto di eliminabilità è quello di conservabilità, che esprime la speranza di vita in allevamento: è il rapporto fra il numero degli individui che sopravvivono in un determinato periodo ed il numero degli individui che erano presenti all'inizio del periodo stesso; anche in questo rapporto gli animali morti possono essere considerati o meno. La longevità degli animali in produzione zootecnica non può essere confrontata con quella dell'uomo: si tratta non di una longevità fisiologica, ma di una semplice lunghezza media della vita in allevamento; pertanto la longevità è un parametro di produzione, non un parametro biologico. La compenetrazione fra produzione e lunghezza della vita in allevamento fa sì che ad un maggior livello produttivo corrisponda una minore "longevità" (più la "macchina-animale" viene "spinta" e meno "resiste", ed inoltre per ottenere un maggior livello produttivo si scartano più soggetti meno produttivi). Sotto l'aspetto riproduttivo, ai fini del miglioramento genetico, distinguiamo all'interno di una popolazione i riproduttori, sia maschi che femmine, dagli altri animali: all'interno di questi ultimi bisogna ulteriormente individuare la quota destinata alla rimonta, cioè alla sostituzione dei riproduttori. Dal punto di vista strettamente genetico gli animali che non si riproducono non fanno parte della popolazione, ma questa distinzione non è applicabile in zootecnia. Una prima considerazione riguarda la maggior presenza, in uccelli e mammiferi, delle femmine nella categoria dei riproduttori, legata alla biologia stessa della riproduzione: ciò implica una maggiore possibilità di scelta nel decidere quali maschi avviare alla riproduzione. Il rapporto fra rimonta e totale dei nati determina l'intensità di selezione, e viene riferito alla generazione: ai fini pratici, poiché nelle popolazioni animali le generazioni si sovrappongono, si preferisce riferire il parametro all'anno (c.d. quoziente annuo di avvicendamento). Per stimare l'efficienza riproduttiva si utilizzano diverse misure; il problema è particolarmente sentito nelle specie unipare. Una misura relativa all'intera popolazione è la natalità, cioè il rapporto fra nati vivi nel corso dell'anno e numero medio delle fattrici presenti durante l'anno. Per il singolo animale è una misura interessante la frazione di nato (annuale), proposta dal Pilla: è il rapporto fra giorni di gravidanza nel corso dell'anno e durata media della gravidanza (permette di aggirare il problema dovuto al verificarsi o meno del parto nel corso dell'anno considerato); la frazione di nato può essere anche calcolata in carriera, dividendo la durata della carriera riproduttiva (dal primo concepimento all'ultimo parto) per il numero dei giorni di gravidanza in carriera (ricavato dal numero dei parti moltiplicato per la durata media della gravidanza); la frazione di nato in carriera può anche essere corretta per la 110 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 precocità dell'individuo sostituendo all'età del primo concepimento l'età media della razza al primo concepimento. La produzione è determinata dal corretto rapporto fra genetica, alimentazione ed ambiente; l'alimentazione è ovviamente una componente ambientale, ma a motivo della sua importanza e soprattutto della sua elevata incidenza sui costi viene considerata a parte; nell'ambiente rientra sia l'ambiente di allevamento propriamente detto che tutte le influenze esterne (clima, agenti patogeni). Poiché il patrimonio genetico dell'individuo non varia, la produzione può essere ottimizzata (ma non aumentata) oppure ridotta da ambiente ed alimentazione. L'economia della produzione può essere valutata sia da un punto di vista fisiologico (efficienza della trasformazione delle risorse, soprattutto alimentari, in prodotto animale) che da un punto di vista economico p.d. (differenza fra ricavo e costo). L'efficienza produttiva, così come quella riproduttiva, può essere studiata a differenti livelli: a livello di individuo, di popolazione, di azienda, di nazione. Per poter correttamente stimare l'efficienza produttiva occorrono adeguati controlli di produzione. L'efficienza (o rendimento) è il rapporto fra l'energia contenuta nel prodotto e quella contenuta nell'alimento: questo semplice rapporto diviene però complicato se si cerca di tenere conto della energia destinata al mantenimento. Per gli animali da latte e le ovaiole, teoricamente bisognerebbe tenere conto dell'energia della produzione e dell'energia destinata al mantenimento (la quale dipende dal peso vivo); per la produzione della carne il problema è ancora più complicato, perché bisogna tenere conto dell'efficienza della madre nel produrre i figli (ed eventualmente nello svezzarli) e dell'efficienza dei figli nel convertire gli alimenti in carne: si possono quindi calcolare indici relativi solo alla madre, solo ai figli o contemporaneamente alla madre ed ai figli. LE CATEGORIE FUNZIONALI Nell'ambito di ogni specie zootecnica si identificano delle categorie funzionali, le quali non sono necessariamente presenti in ogni tipologia di allevamento; generalmente tutte le categorie funzionali sono presenti negli allevamenti di tipo più tradizionale o nel "ciclo chiuso". BOVINO Vitello-vitella: bovino sia maschio che femmina dalla nascita fino ad 8-10 mesi di età, con un peso vivo variabile fra i 180 ed i 230 Kg. Le oscillazioni nel peso dipendono dalla razza (superiore nelle razze da carne), dal sesso (superiore nei maschi), dal tipo di parto (singolo o gemellare), dall'attitudine materna (non solo come nutrice), dall'alimentazione (qualità e quantità), dall'ambiente (inteso come clima, come tecnologia, come condizioni igienicosanitarie). In alcune tipologie di allevamento i vitelli non sono presenti: ad esempio, aziende che ingrassano dai 250 Kg alla macellazione; in molti casi c'è in azienda un notevole squilibrio fra i sessi. Vitellone: bovino sia maschio che femmina di oltre un anno, destinato alla macellazione; l'età di macellazione dipende dalle richieste del mercato, dalla razza, dal sesso (le femmine sono macellate prima perché tendono ad ingrassare) dall'alimentazione. In determinate condizione, come ad esempio in Argentina, si può arrivare alla macellazione a 4 o 5 anni di età, con pesi analoghi a quelli dei nostri vitelloni di 18 mesi. Manzo: maschio castrato con un peso vivo superiore ai 350 Kg (questa categoria è in Italia praticamente scomparsa dal sistema produttivo). Quello che viene indicato dal macellaio come manzo è o un vitellone o una vacca (o un toro) di scarto. Manzetta: femmina destinata alla riproduzione, sia ad attitudine carne che ad attitudine latte, dallo svezzamento (4-6 mesi) alla pubertà (12-15 mesi). L'età di svezzamento (cioè di passaggio da un'alimentazione a base di latte materno o sostitutivo ad un'alimentazione da 111 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 adulto, a base di foraggi e di complementi concentrati) può ridursi a 2 mesi in allevamenti intensivi, oppure allungarsi fino ad 8-9 mesi in allevamenti molto estensivi (nei quali al ritardo dello svezzamento si accompagna in genere un allungamento del periodo di interparto della madre). Per pubertà si intende la maturità sessuale accompagnata dalla capacità riproduttiva (in termini potenziali): il primo accoppiamento coincide con la pubertà solo nel caso di mancato controllo da parte dell'uomo; alla pubertà l'animale non viene subito accoppiato perché non ha ancora il peso adatto per la gestazione (pericolo di distocie) e perché con la gravidanza si ha un blocco dello sviluppo della bovina. Per parlare di pubertà occorre che la produzione di ovuli sia regolare e continua, e che l'utero sia teoricamente in grado di portare avanti la gravidanza. Manza: femmina, sia ad attitudine carne che ad attitudine latte, destinata alla riproduzione, dalla pubertà al primo accoppiamento (18-20 mesi); l'accoppiamento si può avere intorno ai 16 mesi per le razze da latte, oppure intorno ai 24 mesi in allevamenti estensivi (nei quali si può verificare, nonostante la bovina sia un animale a ciclo continuo, una certa stagionalità dell'attività riproduttiva). Giovenca: femmina dal primo accoppiamento al primo parto (termine poco utilizzato, generalmente sostituito da manza gravida). Vacca: femmina che ha già partorito almeno una volta; le vacche vengono poi distinte a seconda dell'attitudine carne o latte, dell'età, del numero di parti. Vacca in asciutta: a seconda dello stadio fisiologico, nella produzione di latte si distingue la vacca in lattazione da quella che non è più in lattazione (in asciutta, a partire dal VII mese di gravidanza). Torello: maschio destinato alla riproduzione, da 8-10 mesi fino alla prima monta (14-15 mesi). Si tratta di una categoria poco presente negli allevamenti, perché in genere concentrati nei centri di valutazione genetica o nei centri di produzione di materiale seminale. Toro: maschio intero di oltre 15 mesi adibito alla riproduzione. La carriera riproduttiva del toro è più corta di quella della vacca, soprattutto dove c'è molto miglioramento genetico. Negli allevamenti, anche in quelli dove si pratica di routine l'inseminazione strumentale, c'è in genere un toro adibito alla monta naturale delle "vacche-problema". Bue: maschio castrato adibito al lavoro o alla produzione di carne (in Italia questa categoria è praticamente scomparsa, con l'eccezione di alcune zone del Piemonte, Cuneo in particolare, dove è tradizionale il consumo del bollito di bue grasso di razza Piemontese, macellato ad 8-9 quintali di peso). OVINO Agnello da latte: maschio e femmina alimentati con solo latte (materno o ricostituito) e macellati a 25-40 giorni, ad un peso vivo di 8-15 Kg (molto richiesto, soprattutto in Italia centrale, per Natale e per Pasqua). L'allattamento naturale sotto la madre può durare da 1224 ore (cioé il tempo necessario per l'assunzione del colostro) fino a 2 mesi (nel caso dell'allevamento tradizionale da latte o dell'allevamento da carne): comunque, nel caso dello svezzamento a due mesi, a partire dai 20 giorni di età l'agnello assume anche altri alimenti (per gioco o imitando la madre, assume in piccole quantità sia foraggi che concentrati). L'allontanamento precoce dalla madre è caratteristico degli allevamenti da latte, nei quali si tende a destinare prima possibile il latte materno per la trasformazione casearia: il latte prodotto ad inizio lattazione contiene anche del colostro (il formaggio che ne risulta è più friabile, meno compatto). Agnello: maschio e femmina dalla nascita alla pubertà (9 mesi). Agnella: con agnella si intende la femmina destinata alla riproduzione. La componente femminile destinata alla rimonta è in genere di origine aziendale, mentre i maschi provengono più frequentemente dall'esterno del gregge. 112 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Agnellone: maschio e femmina da ingrasso, macellati a 3-5 mesi ad un peso vivo di 25-40 Kg. Il peso vivo varia in funzione della razza (le razze da latte crescono più lentamente e tendono ad ingrassare) e delle richieste del mercato: gli agnelloni sono distinti in leggeri, semi-pesanti e pesanti. Gli allevamenti che praticano solo l'ingrasso sono molto rari. Castrato: maschio castrato macellato ad un peso vivo superiore ai 40 Kg (in Italia questa categoria è praticamente scomparsa). Pecora: femmina che ha già partorito almeno una volta; le pecore vengono distinte in base all'età e/o all'ordine di parto. Le pecore che, al termine della lattazione, vengono eliminate sono dette "pecore di scarto". Nel periodo in cui le femmine non sono "in quiete" riproduttiva, le pecore sono distinte in "gravide" e "vuote" (dette comunemente "sode"). Ariete o montone: maschio adulto adibito alla riproduzione. CAPRINO Capretto da latte: maschio e femmina alimentati con solo latte (o prevalentemente con latte) e macellati a 20-40 giorni di età. Caprettone: maschio e femmina macellati a 3-4 mesi di età. Gli allevamenti che effettuano solo l'ingrasso sono rarissimi. Capretta: femmina destinata alla riproduzione, dallo svezzamento alla pubertà. Capra: femmina che ha già partorito almeno una volta. Becco o caprone: maschio adibito alla riproduzione. SUINO Lattone o lattonzolo: maschio e femmina dalla nascita allo svezzamento. Magrone: maschi castrati e femmine (che oggi non vengono più castrate), destinati all'ingrasso, dallo svezzamento alla macellazione. Scrofetta: femmina destinata alla riproduzione che non ha ancora partorito. Verretto: maschio destinato alla riproduzione che non ha ancora montato. Scrofa: femmina che ha già partorito almeno una volta. Verro: maschio adibito alla riproduzione. EQUINO Puledro-puledra: maschio e femmina dalla nascita fino a 2-4 anni di età (quando può cominciare il lavoro). Castrone: maschio castrato adibito allo sport o al lavoro. Cavallo: maschio intero adibito allo sport o al lavoro. Cavalla o giumenta: femmina che ha già partorito almeno una volta. Stallone: maschio di 3 anni ed oltre adibito alla riproduzione. STRUTTURA FUNZIONALE DELL'ALLEVAMENTO BOVINO RIPRODUZIONE PRODUZIONE LATTE FEMMINE SOTTOPRODOTTO CARNE (carne) in carriera per rim onta finita finita da trasform are vacche vitelli (vitelle) latte (se da latte) vitello-vitellone vitello fine carriera manzette accidenti manze eliminazione giovenche MASCHI tori vitelli torelli 113 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 STRUTTURA FUNZIONALE DELL'ALLEVAMENTO SUINO RIPRODUZIONE in carriera FEMMINE scrofe PRODUZIONE per rim onta finita da trasform are lattonzoli maiale lattone SOTTOPRODOTTO scrofette fine carriera accidenti eliminazione MASCHI verri lattonzoli verretti L' A T T I V I T A' R I P R O D U T T I V A BOVINO Pubertà: 9-11 mesi. I servizio: 12-24 mesi nel maschio, 16-24 mesi nella femmina. Lunghezza ciclo: 21 giorni (durata calore: 1 giorno). Ovulazione: 10-14 ore dopo l'estro. Lunghezza gestazione: 9 mesi (280-290 giorni). Maschi/Femmine (in F.N.):1/30 - 1/100. Parti/anno: 0,8-1,0 (interparto12-14 mesi). Nati/parto: 1-1,1. Peso alla nascita: 35-45 Kg. Età allo svezzamento: 12 ore (allontanamento) - 60 - 90 - 180 giorni (brado). Calore dopo il parto: 35-60 giorni. OVINO Pubertà: 6-8 mesi; il mese di nascita può influire sulla comparsa della pubertà: un leggero ritardo alla nascita può comportare un marcato ritardo dell'inizio dell'attività riproduttiva. I servizio: 10-14 mesi nel maschio, 10-12 mesi nella femmina. Rapporto maschio/femmine: in proporzione variabile da 1/20 - 1/30 fino a 1/50 - 1/60, secondo il tipo di azienda. Lunghezza ciclo: 16-18 giorni (durata calore: 1 giorno). Ovulazione: fine estro. Lunghezza gestazione: 5 mesi (145-150 giorni). Maschi/Femmine (in F.N.):1/40 - 1/50. Parti/anno: 1-1,5 (tre parti in due anni)-2. La pecora Massese presenta una naturale tendenza alla destagionalizzazione dei calori. Nati/parto: 1,2-1,8. Peso alla nascita: 2,5-4 Kg. Età allo svezzamento: 12 ore (allontanamento) - 30-40 giorni. Calore dopo il parto: primavera successiva. CAPRINO Pubertà: 6-8 mesi. I servizio: 12-15 mesi nel maschio, 10-12 mesi nella femmina. Lunghezza ciclo: 16-18 giorni (durata calore: 1 giorno). Ovulazione: fine estro. Lunghezza gestazione: 5 mesi (150-155 giorni). Maschi/Femmine (in F.N.):1/20 - 1/40. Nati/parto: 2-3. Calore dopo il parto: primavera successiva. 114 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 SUINO Pubertà: 7-8 mesi. I servizio: 8-11 mesi nel maschio, 8-12 mesi nella femmina. Lunghezza ciclo: 21 giorni (durata calore: 2 giorni). Ovulazione: 24-48 ore dopo l'inizio dell'estro. Lunghezza gestazione: 114 giorni. Maschi/Femmine (in F.N.):1/20 - 1/50. Parti/anno: 2,4 (interparto 150 giorni). Nati/parto: 8-12. Peso alla nascita: 800-1500 g. Età allo svezzamento: 28 giorni (precoce) - 35 giorni (funzionale) - 60 giorni (naturale). Suinetti svezzati/anno: 24. Calore dopo il parto: allo svezzamento. EQUINO Pubertà: 10-12 mesi. I servizio: 3-4 anni nel maschio, 2-3 anni nella femmina. Lunghezza ciclo: 22 giorni (durata calore: 5-7 giorni). Ovulazione: 24-48 ore dopo l'inizio dell'estro. Lunghezza gestazione: 330-340 giorni. Maschi/Femmine (in F.N.):1/30 - 1/100. Nati/parto: gemellarità molto rara. Calore dopo il parto: 8-14 giorni. POSSIBILITA' DELLA INSEMINAZIONE STRUMENTALE NELLE SPECIE ZOOTECNICHE volume eiaculato (ml) concentrazione spermatozoi (milioni / ml) BOVINO OVINO CAPRINO SUINO EQUINO 5 - 15 0,8 - 1,2 0,5 - 1,5 100 - 300 30 - 100 150 - 300 800 - 1200 2000 - 3000 3000 - 6000 200 - 300 spermatozoi / eiaculato (miliardi) 5 - 15 1,6 - 3,6 1,5 - 6 30 - 60 15 raccolte / settimana 2-6 7 - 25 7 - 20 2-5 2-6 1500 spermatozoi / dose (milioni) 5 120 - 200 100 - 200 5000 dosi / eiaculato 300 15 15 10 5 dosi / settimana 1000 150 150 30 15 >60 <50 60 65 30 - 50 successi (%) MODALITA' DI RIPRODUZIONE NELLE SPECIE ZOOTECNICHE BOVINO OVINO E.T. * sperimentale I.S. SUINO EQUINO sperimentale **** * (difficoltà congelamento) ** * Monta controllata (aziendale) ** *** **** * Monta controllata (stazione di monta) - - Monta libera (compresi i gruppi di monta) * * *** in poche aree * 115 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 LA DISTRIBUZIONE E LA CONSISTENZA. L E P R O D U Z I O N I (1) Ogni specie animale allevata a scopo zootecnico ha una sua distribuzione caratteristica. I bovini e gli ovini sono le specie più rappresentate (oltre un miliardo di capi per ciascuna specie) e, da un punto di vista del tutto generale, i bovini e gli ovini sono anche le specie più uniformemente distribuite sulla terra (neutralità termica fra 4 e 13 gradi centigradi, ma allevati da sotto zero ad oltre +30): i bovini prevalentemente in Europa, America ed Asia (per la disponibilità di foraggi e di cereali), gli ovini in Africa ed Oceania (per la disponibilità di pascoli); nonostante i bovini e gli ovini siano diffusi in maniera relativamente uniforme, le loro produzioni nel pianeta sono molto diverse, a motivo dei diversi tipi di allevamento, dei diversi tipi genetici, delle diverse condizioni ambientali. Le altre specie hanno habitat più delimitati: i bufali soprattutto nelle aree calde ed umide di Africa ed Asia; i caprini nelle aree marginali, dove gli altri ruminanti hanno difficoltà; i cavalli nei paesi freddi e temperati, gli asini nei climi caldi ed aridi, mentre i muli hanno una distribuzione relativamente uniforme; i camelidi nelle aree desertiche dell'Africa e dell'Asia o ad altitudini elevate (camelidi andini); le renne nella tundra. Un discorso a parte meriterebbero i suini, la distribuzione dei quali è fortemente condizionata dai precetti religiosi. DISTRIBUZIONE DELLE SPECIE ZOOTECNICHE PER AREA GEOGRAFICA - 1992 Bovini Bufali Ovini Caprini Suini Equini Africa 14 2 18 29 2 8 America del Nord e centrale 13 2 3 11 23 America del Sud 22 1 9 4 6 25 Asia 30 96 30 60 52 26 Europa 9 0.5 12 3 20 7 Oceania 3 18 0 ca. 1 1 Russia 9 0.5 11 1 8 10 Totale 100 100 100 100 100 100 Il numero dei bovini nel mondo è stimato in circa 1.300.000.000: fra i paesi con il maggior numero di capi, l'India (180.000.000), il Brasile (135.000.000), i paesi dell'ex U.R.S.S. (120.000.000), gli U.S.A. (110.000.000), l'Argentina (55.000.000), la Cina (50.000.000); in Europa il maggior numero di capi è in Francia (23.000.000), quindi Germania (21.000.000) e Gran Bretagna (13.000.000). La produzione bovina annuale è di 50.000.000 di tonnellate di carne e di 455.000.000 di tonnellate di latte. Gli ovini nel mondo sono circa 1.200.000.000: il 30% in Asia, 18% in Oceania ed in Africa, il 12% in Europa, l'11% in Russia, il 9% in Sud-America e solo il 2% in Nord e Centro America. Nel bacino del Mediterraneo sono presenti quasi il 14% degli ovini del mondo e viene prodotto oltre il 54% del latte ovino. L'Australia (30%) e la Nuova Zelanda (16%) sono i maggiori produttori mondiali di lana. La produzione ovina annuale è di 7.000.000 di tonnellate di carne, di 8.000.000 di tonnellate di latte e di 1.600.000 tonnellate di lana. I caprini nel mondo sono 520.000.000: la gran parte è presente in Asia ed Africa (rispettivamente il 60% ed il 29%); il 4% è presente in Sud-America, il 3% in Centro-Nord America ed in Europa, l'1% in Russia e meno dell'1% in Oceania. Nel bacino del Mediterraneo sono presenti il 7,5% ca. dei caprini e viene prodotto quasi il 29% del latte di capra. (1) I dati riportati provengono da diverse fonti (FAO, AIA, ISTAT, CNR), per cui si potrebbero riscontrare alcune incongruenze. 116 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 I suini sono stimati in circa 800.000.000, il 40% dei quali presenti in Cina; in Europa sono presenti il 20% dei capi (la sola Germania rappresenta il 4,5% del totale mondiale), quindi il Nord-America (11%) e i paesi dell'ex U.R.S.S. (10%). La produzione annuale di carne suina è di 72.000.000 di tonnellate. Per quanto riguarda le altre specie, le consistenze mondiali sono stimate in 150.000.000 per i bufali, 60.000.000 per i cavalli, 40.000.000 per gli asini, 15.000.000 per i muli e 17.500.000 per i cammelli. Non sono disponibili statistiche attendibili per polli, anatre, tacchini (allevamenti familiari ed allevamenti senza terra delle aree industrializzate). CONSISTENZA E PRODUZIONE PER AREA GEOGRAFICA - 1992 BOVINI OVINI SUINI capi carne latte capi carne latte capi carne Africa 14 7 3 18 13 16 2 1 America del Nord e centrale 13 26 19 2 3 11 14 America del Sud 22 15 7 9 4 6 3 Asia 30 11 14 30 32 50 52 45 Europa 9 21 34 12 20 33 20 29 Oceania 3 5 3 18 17 1 1 Russia 9 15 20 11 11 1 8 7 Totale 100 100 100 100 100 100 100 100 PRODUTTIVITA' DEL BOVINO PER AREA GEOGRAFICA - 1992 Capi / tonnellata di carne Capi / tonnellata di latte Africa 54.5 2.25 America del Nord e centrale 11.9 0.24 America del Sud 35.8 0.93 Asia 70.7 0.92 Europa 10.8 0.24 Oceania 14 0.29 Russia 15 0.46 Media mondiale 25.3 0.49 DISTRIBUZIONE DEI CAPI NELL'UNIONE EUROPEA - 1992 (percentuali più interessantI) BOVINI OVINI CAPRINI SUINI EQUINI BUFALI POLLI Belgio + Lussemburgo 6% Danimarca 10% Francia 26% 10% 10% 12% 19% 24% Germania 21% 24% 27% 14% Gran Bretagna 29% 7% 10% 15% Grecia 9% 47% Irlanda Italia 10% 10% 10% 8% 16% 99% 16% Olanda 13% Portogallo Spagna 24% 24% 16% 13% TOTALE (milioni di capi) 81 101 12 107 1.8 0.08 853 Interessante è un esame dell'andamento della consistenza delle specie zootecniche in Italia a partire dai dati del primo censimento (1881). Nel 1881 la consistenza era di 16.000.000 di capi, il 50% dei quali rappresentati da ovicaprini: il 29% bovini e bufali, il 7% suini ed il 14% equidi (asini, cavalli e muli). Nel 1908 la consistenza era salita a 25.000.000 di capi, con un incremento anche in percentuale degli ovicaprini (56%) e dei suini (10%); i bovini ed i bufali, pur essendo passati 117 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 da poco più di 4,5 milioni di capi ad oltre 6 milioni, si erano ridotti percentualmente al 25% mentre gli equidi, la cui consistenza era rimasta poco oltre i 2.200.000 capi, erano percentualmente scesi al 9%. Nel 1930 la consistenza era di 24.000.000: i bovini erano saliti a 7.000.000 (28%) mentre gli ovicaprini erano scesi da 14.000.000 ad 11.500.000 (48%); stabili gli equidi ed aumentati da 2.500.000 a 3.200.000 (13%) i suini. Nel 1950 la consistenza del bestiame allevato in Italia era salita a 26.000.000; i bovini superavano gli 8.000.000 di capi (31%) e gli ovicaprini, la cui incidenza percentuale non era variata, i 12.000.000 (38% ovini e 9% caprini); i suini erano oltre 3.500.000 ed anche percentualmente erano saliti al 15%; gli equini erano scesi di poco sotto i 2.000.000 (7%). Nel 1960 il patrimonio zootecnico era di 25.000.000: quasi 10.000.000 i bovini (39%), di cui 3.400.000 vacche da latte; i suini erano saliti a 4.300.000 (17%) e gli ovicaprini scesi a poco più di 9.500.000 (38%), di cui 8.200.000 ovini e 1.380.000 caprini; gli equini si erano ridotti a circa il 5% (1.250.000 capi). Nel 1970 la consistenza del patrimonio zootecnico sfiorava i 27.500.000 capi; in questo anno approssimativamente i bovini, i suini e gli ovicaprini rappresentavano ciascuno 1/3 del bestiame: i bovini si erano ridotti di circa 1.000.000 di capi e le vacche da latte erano scese a 3.200.000; i suini erano più che raddoppiati rispetto a 10 anni prima, e sfioravano i 9.000.000 di capi: dei 9.000.000 di ovicaprini circa 1.000.000 erano i caprini (è un periodo di crisi e trasformazione dell'allevamento ovino, con il superamento della transumanza e la specializzazione verso la produzione del latte). Gli equini si erano ridotti a poco più di 700.000 mentre i bufali erano triplicati rispetto a 10 anni prima, raggiungendo i 55.000 capi. Nel 1980 il patrimonio era aumentato ad oltre 28.500.000 capi. Il numero di bovini era rimasto invariato a circa 8.700.000 capi (31%), ma le vacche la latte si erano ridotte a 3.000.000; invariato anche il numero dei caprini, sempre di poco superiore ad 1 milione di capi. In aumento i suini e soprattutto gli ovini: i suini raggiungevano quasi i 9.000.000 di capi, pari al 31,2%, mentre gli ovini erano 9.300.000. In ulteriore declino erano gli equini (480.000 capi) mentre i bufali erano praticamente raddoppiati nel corso del decennio e superavano i 100.000 capi. Nel 1990 il patrimonio superava i 29.500.000 capi. Il numero di bovini era ridotto a 8.140.000 capi, ed anche il numero delle vacche da latte si era ridotto a 2.960.000. Praticamente invariata la consistenza dei suini (8.840.000 capi), risultavano incrementati solo ovi-caprini: quasi 10.850.000 gli ovini e quasi 1.300.000 i caprini (in flessione rispetto alla metà degli anni '80, in seguito ad una crisi che mantiene sul mercato solo chi è in grado di trasformare direttamente). Ancora in diminuzione risultavano gli equini (370.000) ed in flessione anche i bufali (poco sotto i 100.000). CONSISTENZA DEL PATRIMONIO ZOOTECNICO IN ITALIA (migliaia di capi) BOVINI vacche vacche da latte SUINI scrofe OVINI pecore CAPRINI EQUINI 1975 8 446 3 578 2 883 8 888 746 8 152 6 099 940 540 BUFALI 82 1980 8 734 3 706 3 012 8 928 744 9 277 6 789 1 009 483 103 101 1985 8 908 3 458 3 075 9 169 682 11 293 7 238 1 189 398 1990 8 140 3 294 2 881 8 837 582 10 848 6 551 1 298 372 95 1992 7 602 2 963 2 317 8 307 516 10 403 6 286 1 321 328 103 118 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 DISTRIBUZIONE DELLE SPECIE ALLEVATE IN ITALIA - 1992 (migliaia di capi) NORD-OVEST BOVINI vacche da latte altre vacche SUINI OVINI CAPRINI EQUINI 2 970 929 145 3 661 239 116 70 2 299 770 43 2 634 219 60 56 807 212 143 1 136 2 989 134 98 851 249 135 457 1 799 557 75 776 157 180 357 5 188 446 73 7 703 2 317 646 8 245 10 434 1 313 372 (Val d'Aosta, Piemonte, Lombardia, Liguria) NORD EST (Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna) CENTRO Marche, Lazio, Abruzzo) SUD (Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria) ISOLE (Sicilia, Sardegna) TOTALE Per quanto riguarda la distribuzione approssimativa delle specie sul territorio nazionale, i bovini risultano distribuiti per il 68% al Nord, l'11% al centro, l'11% al Sud ed il 10% nelle isole; i suini sono distribuiti al Nord per il 76%, al centro per il 14%, al Sud per il 6% ed il rimanente 4% nelle isole. Molto differenti sono le distribuzioni degli ovi-caprini: gli ovini sono presenti al Nord per il 4%, al centro per il 29%, al Sud per il 17% e le isole per il 50%; i caprini sono rappresentati per il 13% al Nord, il 10% al centro, il 43% al Sud ed il 34% nelle isole. La distribuzione degli equini è: 34% al Nord, 26% al Centro, 20% al Sud e 20% nelle isole. La "zonazione" è una conseguenza di aspetti ambientali più o meno controllabili (clima, temperatura, piovosità influiscono sulle colture agricole, e quindi sulla disponibilità alimentare, ma anche direttamente sugli animali), di aspetti umani (cultura, tradizione, tecnica), di interesse alla produzione (richieste del consumatore), dell'quilibrio con altre specie animali (un allevamento sottrae spazio ad un altro). Per quanto riguarda i bovini, Lombardia e Veneto sono le zone di maggior interesse per gli animali da latte, mentre nel Piemonte è prevalente l'indirizzo carne; Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige hanno un elevato rapporto animali/superficie agricola (in Valle d'Aosta è elevato anche il rapporto bovini/abitanti); al centro, la produzione lattiera è concentrata nel Lazio; al Sud il maggior numero di animali è in Campania e Sicilia. Per i suini, la produzione è concentrata in Lombardia ed Emilia Romagna, seguite a distanza dal Veneto; in Italia centrale spicca il contributo dell'Umbria. Per gli ovini, il 35% dei capi è presente in Sardegna; zone di espansione della razza Sarda sono, in ordine decrescente, Lazio, Toscana, Umbria e Marche. PRODUZIONE DI LATTE IN ITALIA (Bovino+ovino+caprino+bufalino) in milioni di quintali TOTALE CONSUMO DIRETTO TRASFORMAZIONE 91 1975 35 57 105 1980 38 67 108 1985 38 71 113 1990 35 78 1992 33 77 110 119 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 PRODUZIONE DI CARNE IN ITALIA in migliaia di quintali BOVINA SUINA OVICAPRINA EQUINA POLLAME CONIGLI E SELVAGGINA 1975 8 114 5 492 438 107 8 329 1 342 1 433 1980 8 930 7 980 650 170 10 140 1 840 1 675 FRATTAGLIE 1985 9 333 9 017 470 119 9 963 2 004 1 803 1990 8 912 9 761 536 144 11 040 2 029 1 846 1992 9 451 10 004 560 200 10 947 2 250 1 917 L'interpretazione dei dati statistici relativi alla carne è resa difficile dal fatto che le differenze non dipendono solo dal numero di capi, ma anche dal mutare dell'età e dei pesi di macellazione; nel settore bovino, l'aumento della produzione carne è anche conseguenza della macellazione forzata di vacche da latte. Fattori contingenti possono essere profilassi, risanamenti, epizoozie, etc.. La produzione di vitelli da latte è praticamente scomparsa. Nei suini, si nota un aumento della produzione di carne accompagnato da una riduzione sia del numero di capi che del numero delle scrofe; il settore sta risentendo negativamente sia delle aperture con i paesi dell'Est che dei vincoli di carattere ecologico. Negli ovini, l'aumento della produzione di carne è conseguenza dell'aumentato peso alla macellazione degli agnelli delle razze da latte: il settore carne è infatti in netta flessione. L'aumento della selvaggina è in relazione all'interesse per le aziende collinari e le aree boscate. Il latte bovino prodotto in Italia copre il 55-60% della richiesta interna. Il consumo di carne bovina risente particolarmente, a causa del costo del prodotto, del periodo di recessione: è un fenomeno verificatosi anche negli altri periodi di crisi economica; nonostante i tentativi di orientare il consumatore attraverso campagne pubblicitarie, le carni più consumate sono quelle di suino e bovino (l'inversione dei consumi a vantaggio di quest'ultima carne è molto recente, e ci allinea alle preferenze nelle altre nazioni europee). CONSUMO DI CARNE IN ITALIA in migliaia di quintali BOVINA SUINA OVICAPRINA EQUINA POLLAME CONIGLI E SELVAGGINA 1975 12 425 8 594 745 597 8 801 1 673 1 684 1980 14 384 11 919 805 620 10 290 2 080 2 102 1985 14 339 13 547 861 641 10 243 2 203 2 157 1990 15 338 15 555 1 008 746 11 151 2 279 2 213 1992 14 675 16 419 1 014 762 11 143 2 461 2 263 FRATTAGLIE IMPORTAZIONE DI CARNE IN ITALIA in migliaia di quintali 1975 1980 1985 1990 1992 BOVINA 3 205 8 503 5 073 4 576 4 785 SUINA 2 341 3 318 4 129 5 040 5 822 OVICAPRINA 126 115 191 226 246 POLLAME 133 106 196 381 395 IMPORTAZIONE DI BESTIAME IN ITALIA in m igliaia di capi 1975 1980 1985 1990 1992 BOVINI 2 304 2 350 2 406 1 973 1 848 SUINI 570 1 137 963 1 880 1 741 OVICAPRINI 1 324 1 263 1 809 2 386 2 535 EQUINI 221 180 201 182 171 120 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 In base alla consistenza, le razze bovine allevate in Italia possono essere distinte in: allo stato di reliquia (<1.000 capi): Agerolese, Burlina, Cabannina, Calvana, Garfagnina, Montana, Pisana, Pontremolese, Pustertaler; allo stato di semi-reliquia (>1.000 e <5.000 capi): Cinisara, Modenese, Reggiana (all'interno del consorzio del Parmigiano Reggiano, è stato riconosciuto un ulteriore marchio alle forme prodotte con latte di vacca Reggiana), Valdostana pezzata nera; a ridotta consistenza (>5.000 e <25.000 capi): Pezzata rossa d'Oropa, Pinzgau, Rendena, Romagnola, Sardo-Modicana, Valdostana Castana, Valdostana pezzata rossa; a discreta consistenza (>25.000 e <100.000 capi): Grigia alpina, Maremmana, Podolica; a buona consistenza (>100.000 capi): Chianina, Marchigiana, Modicana, Piemontese (quest'ultima razza è stata particolarmente colpita dell'alluvione del 1994); a grande diffusione: Bruna Alpina, Pezzata Rossa Italiana, Frisona. CONSISTENZA DELLE RAZZE BOVINE IN ITALIA (m igliaia di capi) Bruna Frisona Pezzata Rossa Piemontese Romagnola Chianina Marchigiana Maremmana Podolica 1975 1980 1985 1990 860 1 280 1 110 930 3 290 3 490 3 190 3 250 390 370 440 510 310 510 580 630 20 130 18 15 130 370 180 150 580 220 10 60 40 80 140 La consistenza della Maremmana e quella della Podolica non impensieriscono, in quanto si tratta di animali che non hanno concorrenza da parte di altre razze (allevamenti estensivi, allevamenti promiscui, allevamenti in aree demaniali, in aree gravate da uso civico, etc.); nella Podolica viene praticata una forma di alpeggio (estate in altura e "discesa a marina" in inverno). Per le razze ovine, le razze da latte con 5.859.000 capi (Altamurana con 8.000 capi, Comisana con 700.000 capi, pecora delle Langhe con 27.000 capi, Leccese con 184.000 capi, Massese con 185.000 capi e Sarda con 4.755.000) rappresentano in Italia il 50% circa dei capi e l'84% circa dei 6.988.000 capi iscritti al libro genealogico. Le razze da carne con 424.000 capi (Appenninica con 190.000 capi, Barbaresca con 43.000 capi, Bergamasca on 60.000 capi, Biellese con 56.000 capi, Fabrianese con 25.000 capi e Laticauda con 50.000 capi) rappresentano il 6% degli animali iscritti al Libro Genealogico. Le razze merinizzate (Gentile di Puglia con 365.000 capi e Sopravissana con 340.000 capi), nelle quali l'attitudine carne è per ragioni di mercato diventata la sola fonte di reddito, rappresentano il 10% degli animali iscritti. A parte la Sarda e la Comisana, le altre razze si sono prevalentemente diffuse in prossimità della loro area di origine. Lungo tutto l'arco alpino sono diffuse delle popolazioni locali. La tendenza demografica è all'aumento nell'Italia centrale e, in minor misura, in quella settentrionale: stazionario il numero di capi nelle isole ed in leggera diminuzione quello nell'Italia meridionale. Solo una parte degli animali iscritti al libro genealogico è sottoposta ai controlli funzionali, e solo una parte dei controlli funzionali sono effettivamente utilizzati per il miglioramento genetico. 121 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 Per le capre, sono iscritti al Libro Genealogico 532.000 capi, la metà circa dei quali di razza Sarda (267.000). Le altre razze sono, in ordine decrescente di diffusione, la Garganica (107.000 capi), la Maltese (48.000 capi), la Saanen (42.000 capi), la Camosciata delle Alpi (40.000 capi), la Jonica (19.000 capi) e la Girgentana (9.000 capi). Anche nei caprini, lungo l'arco alpino, sono presenti popolazioni locali e, in Italia centrale, popolazioni eterogenee. Recentemente è stata proposta la razza Derivata di Siria. La Saanen, introdotta massicciamente in passato, ha dato risultati negativi per la cattiva qualità del latte. In linea generale, l'allevamento è di tipo più tradizionale al Sud, mentre impiega maggiore tecnologia nell'Italia centro-settentrionale. La tendenza demografica è all'aumento soprattutto nell'Italia centrale ed in minor misura in quella insulare: stazionario il numero di capi nell'Italia meridionale mentre è in marcata flessione il numero di capi nell'Italia settentrionale. 122 Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95 INDICE IL DNA .................................................................................... pag. 3 La duplicazione del DNA - La divisione funzionale del DNA - Il codice genetico - Le mutazioni - L'RNA - La trascrizione - La traduzione - La maturazione dell'RNA L'espressione dei geni - Gli introni, gli esoni e l'evoluzione - La biologia molecolare e lo studio dell'evoluzione filogenetica - I geni homeobox La domesticazione .................................................................... " 17 La domesticazione dell'ovino - La domesticazione della capra - La domesticazione del bovino - La domesticazione del suino - La domesticazione del cavallo - La domesticazione del cane - La domesticazione del gatto - La domesticazione del coniglio - La domesticazione del lama e dell'alpaca - La domesticazione della renna La domesticazione dell'elefante - La domesticazione della cavia - La domesticazione del cammello e del dromedario - La domesticazione del bufalo - La domesticazione dello yack - La domesticazione del gallo - La domesticazione del colombo - La domesticazione della gallina faraona - La domesticazione dell'oca - La domesticazione del tacchino - La domesticazione della carpa - La domesticazione del pesce rosso - Le conseguenze della domesticazione La genetica di popolazione ........................................................ " 37 Il controllo dell'equilibrio genetico - La selezione - Le mutazioni - Le migrazioni - La deriva genetica - Il polimorfismo La parentela .............................................................................. " 94 La consanguineità ..................................................................... " 96 Elementi di demografia zootecnica ........................................... " 106 Le categorie funzionali .............................................................. " 111 L'attività riproduttiva .................................................................. " 114 La distribuzione e la consistenza. Le produzioni ....................... " 116 Questi appunti, preparati da Camillo Pieramati, sono stati ricavati da lezioni svolte da diversi Docenti durante i corsi di "Etnografia e demografia zootecnica" degli AA. AA. 1991-'92, 1992-'93, 1993-'94 e 1994-'95. Copyright 1991-1995 Camillo PIERAMATI, Carlo RENIERI, Bruno RONCHI & Maurizio SILVESTRELLI. E' CONSENTITA LA LIBERA RIPRODUZIONE DI QUESTI APPUNTI MEDIANTE COPIA FOTOSTATICA PURCHE' IL MATERIALE CONSERVI L'INDICAZIONE DEL COPYRIGHT E LA RIPRODUZIONE NON ABBIA FINE DI LUCRO. 123