“MICROBIOLOGIA GENERALE”

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“MICROBIOLOGIA GENERALE”
“M IC R O B IO L O G IA G E N E R A L E ”
Prof. C. Mazzoni
Corso
di
Laurea
Triennale
Biotecnologie Agro- Industriali
Università di Roma “La Sapienza”
in
Appunti della lezione 12
Diapositive della lezione 12
Capitolo 10
1
Il DNA come materiale genetico
Il primo lavoro di F. Griffith sul trasferimento
della virulenza nel batterio patogeno
Streptococcus pneumonie (diap. 3). Pose la
base per la ricerca che per prima dimostrò che
il DNA era il materiale genetico. Griffith trovò
che, se bolliva batteri virulenti e li iniettava nei
topi, i topi non si ammalavano e non si riusciva
a recuperare nessuno pneumococco dagli
animali. Quando egli iniettava invece una
miscela di batteri virulenti uccisi e di batteri
vivi non virulenti, i topi morivano e si riusciva
ad estrarre batteri virulenti vivi dai topi morti.
Griffith chiamò trasformazione questo
cambiamento di batteri non virulenti in
patogeni virulenti.
Avery e i suoi collaboratori, poi, cominciarono
a cercare di scoprire quale costituente dello
pneumococco virulento ucciso dal calore, fosse
responsabile della trasformazione di Griffith.
Questi ricercatori distrussero selettivamente i
costituenti
cellulari
degli
estratti
di
pneumococchi virulenti, utilizzando enzimi
che idrolizzavano l’RNA, il DNA o le proteine
ed esposero i ceppi non virulenti di
pneumococchi all’azione degli estratti trattati.
La trasformazione dei batteri non virulenti era
dipendente dalla presenza di DNA e questo
suggeriva che il DNA fosse il portatore
dell’informazione
richiesta
per
la
trasformazione (diap. 4). Alcuni anni più tardi,
Alfred Hershey e Martha Chase effettuarono
molti esperimenti che provarono che il DNA
era il materiale genetico nel batteriofago T2. In
questi essi ebbero fortuna perché selezionarono
casualmente un virus a DNA, mentre il
materiale genetico di molti virus è RNA, nel
qual caso si può immaginare quale confusione
si sarebbe creata: la controversia sulla natura
dell’informazione genetica avrebbe potuto
durare molto più a lungo! Hershey e Chase
resero radioattivo il DNA del virus T2 con 32P
o marcarono il rivestimento proteico virale con
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S. Quando i virus radioattivi venivano
mescolati a una coltura di E. coli il DNA
radioattivo veniva iniettato dal virus nella
cellula ospite di E. coli , mentre la maggior
parte delle proteine rimaneva all’esterno (diap.
5).
Le basi molecolari delle mutazioni
Diap. 7-9 e capitolo 10.2
Riarrangiamento tautomerico e sue
conseguenze
Le basi azotate sono più energeticamente più
stabili quando i loro sostituenti ossigenati sono
in forma cheto (=O) ed i loro sostituenti azotati
sono in forma amino (-NH2). In questi stati,
l’adenina si appaia con la timina e la guanina
con la citosina (diap. 10). Con frequenza
significativamente bassa, però, le basi possono,
mediante un riarrangiamento tautomerico,
convertirsi nella loro forma enol (-OH) e imino
(-NH). In questo stato si ha un cambiamento
nella modalità di formazione dei legami
idrogeno e quindi anche degli accoppiamenti
tra basi: ora l’adenina si appaia con la citosina
e la guanina con la timina. Se, quando avviene
la replicazione, una base si trova nella sua
forma
enol-imminica,
nel
filamento
neosintetizzato viene introdotta una base
impropria e, a meno che questa non sia rimossa
dal sistema di correzione collegato con la DNA
polimerasi, in quel punto del genoma verrà
introdotta una mutazione per transizione (diap.
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Mutageni
Diap. 12-17, Cap. 10.3
Le conseguenze fenotipiche delle
mutazioni
Le mutazioni possono cambiare il fenotipo di
una cellula in molti modi diversi. Molte
mutazioni inattivano prodotti genici essenziali
e perciò sono causa di morte per la cellula.
Molte altre inattivano prodotti genici che non
sono essenziali in tutte le condizioni di
crescita, ovvero, la perdita di questi prodotti
non è letale per la cellula. Cloni che portino
questo tipo di mutazioni possono essere
mantenuti in coltura, anche se differiscono
fenotipicamente in molti modi diversi dai
ceppi parentali non mutati che sono definiti
ceppi selvatici. Nella diap. 18 è riportata la
classificazione di alcune mutazioni in base al
loro effetto sul fenotipo.
Mutanti condizionali
L’espressione fenotipica di queste mutazioni è
condizionalmente dipendente dall’ambiente in
cui si trova la cellula; in certi ambienti , cioè, il
clone esprime un fenotipo selvatico, in altri, un
fenotipo mutato. Questa classe di mutazioni è
di particolare importanza per gli studi sulla
fisiologia microbica, perché si possono
mantenere cloni mutanti con mutazioni di
questo tipo in qualsiasi gene, anche in quelli
che
codificano
per
attività
cellulari
indispensabili la cui perdita dovrebbe essere
letale. Il clone mutante può essere mantenuto
in coltura nell’ambiente in cui viene espresso il
fenotipo selvatico (condizione permissiva) e
le conseguenze fisiologiche della mutazione
possono essere valutate nell’ambiente in cui si
esprime il fenotipo mutato (condizione
restrittiva).
Le varie classi di mutanti condizionali con le
loro condizioni permissive e restrittive sono
elencate nella diap. 19. Le basi biochimiche
delle mutazioni condizionalmente espresse
sono varie.
Soppressori (diap. 19 e 20)
I mutanti curati dalla streptomicina esprimono
un fenotipo quasi simile al selvatico quando al
terreno di coltura sono aggiunti piccoli
quantitativi di un antibiotico aminoglicosidico
(streptomicina, neomicina o kanamicina).
Questi antibiotici ripristinano la funzionalità
del prodotto genico non agendo su questo, ma
sul meccanismo di traduzione; infatti essi si
legano alle subunità 30S dei ribosomi ed in
qualche modo aumentano la frequenza di errori
della traduzione (la frequenza cioè con cui
viene inserito in un dato punto del peptide
nascente un aminoacido diverso da quello
codificato). In presenza dell’antibiotico,
quindi, vengono sintetizzate forme scorrette di
tutte le proteine cellulari, inclusa la proteina
codificata dal gene mutato; alcune molecole
della proteina mutata, mal tradotte, sono
funzionali. Gli antibiotici aminoglicosidici,
poiché annullano le conseguenze fenotipiche di
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una mutazione, sono chiamati soppressori dei
difetti portati dai mutanti curati dalle
streptomicine (diap. 19).
Anche certe forme mutanti di molecole di
tRNA possono sopprimere alcune mutazioni.
Queste mutazioni nei geni che codificano per i
tRNA sono chiamate mutazioni soppressori o,
semplicemente, soppressori: una mutazione di
questo tipo, come accade per la streptomicina,
cambia il meccanismo di traduzione, causando
quindi la formazione di alcune molecole di
prodotto genico funzionalmente attive.
L’azione dei soppressori può essere illustrata
prendendo ad esempio l’azione di uno
specifico allele mutante (supF) in E. coli, che
sopprime mutazioni non senso (diap. 20). In
questo caso, il codone di stop UAG è stato
generato da una mutazione per trasversione da
A/T a T/A che ha portato al cambiamento del
codone selvatico UUG, che codifica per
leucina, nel codone non senso UAG, che è uno
dei segnali di terminazione della catena
polipeptidica. La mutazione soppressore è una
trasversione da G/C a C/G in un gene che
codifica per uno dei tRNA per la tirosina. La
mutazione cambia l’anticodone da AUG ad
AUC, permettendo con ciò il riconoscimento
del codone di stop UAG e l’inserimento di un
residuo di tirosina in quel sito. La soppressione
è efficace se la proteina che contiene tirosina è
funzionalmente attiva. Come nel caso del
trattamento con streptomicina, in cellule che
contengono supF (o un’altra mutazione
soppressore) sono sintetizzate molte proteine
difettose, perché frequentemente vengono
inseriti residui di tiroxina nei siti ove altri
codoni di stop hanno il loro corretto significato
di terminazione della sintesi della catena
peptidica. I codoni però che specificano
tiroxina continuano ad essere tradotti
correttamente, perché le cellule contengono
altre specie non mutate di molecole di tRNA
che riconoscono il codone tirosina.
Analoghe forme di mutanti di tRNA
sopprimono altre mutazioni dissenso, fra
queste anche mutazioni dissenso o per
inserzione/delezione di base.
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