Dove la divina Duse incontra “il falso” Veronese

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Dove la divina Duse incontra “il falso” Veronese
Per le antiche scale
Costruita nel 1643
da Baldassarre
Longhena, l’imponente
scalinata porta alle sale
superiori dove c’erano
gli appartamenti
dell’abate.
Luoghi senza tempo / 5 La Fondazione Cini di Venezia, tra memoria e innovazione
Dove la divina Duse
incontra “il falso” Veronese
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Il monastero dei benedettini, sull’isola di San Giorgio, conserva
nelle sue biblioteche antichi tesori. Ma anche la copia hi-tech
delle Nozze di Cana, il dipinto che Napoleone fece a pezzi e portò a Parigi
di Manuela Mimosa Ravasio - foto di Enrico De Santis
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oco più che la replica di un illustre spettacolo. Questo pare,
dalla riva di San Giorgio Maggiore, piazza San Marco. E questo è il primo privilegio di cui gode la piccola isola affidata nel 982 dal Doge Tribuno
Memmo al monaco benedettino Giovanni
Morosini, ancora oggi unico bene demaniale in laguna. Un punto di vista aristocratico, nel suo geografico distacco, un’isola
nell’isola, che nei secoli ha mantenuto la
sua indipendenza dagli obblighi, ieri dogali e ora turistici, di Venezia. Una condizione di naturale libertà di cui bisogna avere
consapevolezza anche quando si varca il
cancello del vecchio monastero benedettino, oggi Fondazione Giorgio Cini. Discreto
e indifferente ai più, esso protegge un tesoro dietro un campanello di ottone. Ma,
appunto, ciò non sarebbe possibile se quei
vincoli, religiosi, culturali o amministrativi,
non fossero stati rimossi dalla Storia. Come
ama ripetere Pasquale Gagliardi, segretario
della Fondazione nonché promotore delle
importanti trasformazioni che l’hanno in-
Stanze del passato
A fianco, da sinistra: il
cancello del monastero
benedettino, ora Fondazione
Cini; il corridoio al primo
piano che porta alle
biblioteche e, nel refettorio,
la riproduzione delle Nozze
di Cana, dipinto del 1563
dal Veronese. L’originale si
trova al Louvre: nel 1797
Napoleone Bonaparte lo fece
tagliare e portare a Parigi.
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teressata negli ultimi anni: «Noi siamo qui
e, allo stesso tempo, non siamo. Il nostro
è uno statuto di indipendenza assoluta, il
terreno migliore per la costruzione di un
mondo ideale». Un mondo scolpito da simmetrie classiche e armonie meditative in
cui si passa da un chiostro del Palladio a un
altro del Buora. Colonnati bianco e rosa e
perfetti, coppie di cipressi che si guardano
l’un l’altro, geometrie verdi, un piccolo pozzo, e sei altrove. Condotto per mano nello
spazio imponente del refettorio oppure, su
per la scala di Baldassarre Longhena, fino a
quelli che una volta erano gli appartamenti
dell’abate. Da qui, ancora, si ha forse la migliore vista sulla piazza, ma il brulichio delle
genti è lontano e l’eco del silenzio concilia
solo studio e pensiero. Non che a Venezia, e
ancor più a San Giorgio, ci si trovi a proprio
agio. La laguna è ancora oggi, come lo era
per il romanziere tedesco Theodor Fontane o il filosofo Georg Simmel – ci istruisce
Gino Benzoni – una favola di una difficile
bellezza che richiede continuo adattamento. Eppure persino i Medici, che certo non
la amavano, a San Giorgio si rifugiarono
quando da Firenze furono cacciati. Cosimo de Medici il Vecchio, nonno di Lorenzo il Magnifico, lasciò al monastero di San
Giorgio, come compenso dell’accoglienza
ricevuta, i disegni del Michelozzo per una
biblioteca. Era il 1434, e nel 1614 della libreria già non c’era più traccia. Altre, però,
ne seguirono. Perché in fondo, quest’isola
lontana dalla tirannia della terraferma, è
sempre rinata dalle proprie ceneri. Le ceneri, per esempio, in cui la trovò Vittorio
Cini nel 1951. Colpito dalla morte del figlio
Giorgio in un incidente aereo il 31 agosto
del 1949, forse anche lui era alla ricerca di
una rinascita.
Le Nozze di Cana “rubate”. Questo spie-
ga in parte la fretta con cui, in un anno
e mezzo, restituì all’ex monastero la sua
vocazione umanistica. Ripulì la biblioteca
del Longhena dalle baionette, ne recupe-
rò parte delle librerie in noce in un liceo
classico della città, restituì al refettorio
del Palladio i lavatoi e la sua piena architettura, dimezzata da un soppalco che sosteneva un teatrino per i militari e faceva
da tetto a una segheria. Senz’altro, quella
frenesia laboriosa spiega il genere di bellezza che avvolge la Cini. Non una bellezza
contemplativa o immobile, ma una bellezza continuamente ricercata. Nella meditazione, nello studio, nell’invenzione. E tanto più potente ed edificante quanto più il
lavoro dell’uomo ha saputo mantenere negli anni, intatta e viva, l’identità di questo
luogo. Ora et labora, in fondo, era il motto
dei benedettini e oggi, in chiusura di ogni
progetto della fondazione, una frase di
Gustav Mahler: «La tradizione non è culto
delle ceneri, ma la custodia del fuoco».
L’intera operazione per riportare nel refettorio palladiano i quasi 70 metri quadrati
di tela di lino d’Irlanda su cui il Veronese
dipinse Le Nozze di Cana (1563), non è stata che questo. Operoso desiderio di riaccendere il senso compiuto di un’architettura privata del suo suggello, da quando,
l’11 settembre 1797, i commissari napo-
San Giorgio veglia su Borges
Nell’altra pagina: in alto, il chiostro progettato
da Andrea Palladio e completato nei primi del
Seicento; in basso, la Basilica di San Giorgio e la
Fondazione Cini. Qui sopra, la ricostruzione del
giardino-labirinto che l’architetto Randoll Coate
progettò in onore dello scrittore Luis Borges.
leonici strapparono l’opera che il Vasari
descriveva come «maravigliosa per grandezza, numero di figure e varietà d’abiti»,
dalla parete di fondo, per farla a pezzi,
chiuderla in una scatola e portarla, con un
viaggio di dieci mesi, a Parigi. Al di là delle dispute sulla riproducibilità di un’opera
d’arte, della lunga lista di tentativi fatta per
riavere l’originale, la visione delle Nozze di
Cana nello spazio e nella cornice per cui
erano state pensate, è, prima di tutto, la
riapertura di una finestra prospettica sul
racconto di un miracolo, che nel Vangelo
di Giovanni cambiava l’acqua in vino e che
qui riconsegna alla copia l’autenticità delle sue origini. L’osservatore attento vedrà
che il facsimile, riprodotto con tecnologie
digitali dall’atelier Factum Arte di Madrid
di Adam Lowe, è identico in ogni tocco di
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pennello, nello spessore del gesso, nei deterioramenti del tempo e persino nei segni
degli strappi. E ora che anche il restauro
del refettorio è completo, che Michele De
Lucchi ha protetto con una boiserie quello
spazio termale su cui si affacciano, come
su una piazza, le grandi finestre volute dai
monaci per rendere ancora più aulica la
sala, l’unica a cui potevano accedere i laici,
il lavoro è terminato.
Il “deposito” di libri. Michele De Luc-
chi ha anche trasformato in biblioteca la
Manica Lunga, il vecchio dormitorio dei
monaci, con le ex cellette oggi sale lettura,
uffici, e archivi per accogliere parte delle
collezioni di libri antichi donati da Cini.
E si tratta solo di una parte dei tesori qui
Lasciti ed epistolari
A fianco, da sinistra: l’atto II
del copione della Francesca da
Rimini usato da Eleonora Duse;
la sala con i cimeli dell’attrice;
l’Hypnerotomachia Poliphili,
romanzo allegorico pubblicato
da Aldo Manuzio nel 1499; libri
antichi custoditi nella biblioteca della Fondazione; foto di
Eleonora Duse, di D’Annunzio e
una lettera del poeta all’amata.
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custoditi. Racconta Gagliardi che quando
cominciò a occuparsi della Fondazione
chiese a Massimo Cacciari di darne una
definizione. Deposito di libri o gerontocomio, rispose il filosofo. C’è voluto qualche anno, l’apertura degli scrigni e di una
residenza per gli studiosi che intendano
concentrarsi su ricerche umanistiche, il
Centro Branca, ma di quella sorta di feticismo del passato e della conservazione non
è rimasto più nulla. Bisognava, ancora,
tornare alla vocazione originaria del luogo. All’etica del lavoro, all’amore per l’arte
e, come fu per Vittorio Cini, a quel senso
di responsabilità misto a gratitudine che,
attraverso cospicue donazioni, ha costruito il grande patrimonio della Fondazione.
Buona parte del fondo antico dei libri a
stampa, più di duemila volumi del Quattro
e Cinquecento, di cui almeno 40 sono unici esemplari in Italia, arriva dalla raccolta
di François Victor Masséna principe di Essling, che Cini acquistò a un’asta di Zurigo
nel 1939. Poi ci sono le opere donate dal
bibliofilo Tammaro de Marinis. Si dice che
l’Hypnerotomachia Poliphili pubblicato da
Aldo Manuzio sia il libro più bello stampato nel Cinquecento, ma sono i volumi di
preghiere, quelli per il cucito, i trattati di
chiromanzia o le raccolte di motti ironici che colpiscono per vitalità e bellezza.
Tutto, con qualche cautela per i volumi
più preziosi, è a portata di mano. Anche
per questo, molti scelgono di donare alla
Cini i loro archivi. Sempre protetti, ma allo
stesso tempo aperti e fruibili. Come i mi-
Spazi rivisitati
per lo studio
Nell’altra pagina, la
biblioteca del Longhena,
del 1671, con le librerie
originali. Qui a sinistra, la
gigantografia della biblioteca del Longhena tratta
dal libro Singolarità di
Venezia, conservato alla
Fondazione Cini. Sotto,
la biblioteca Nuova
Manica Lunga, ricavata
dall’antico dormitorio.
crofilm e le copie fotografiche o digitali di
tutte le musiche di Antonio Vivaldi, o gli
archivi dei più grandi compositori italiani
del Novecento, da Respighi a Rota. Come la
corrispondenza privata di Eleonora Duse
con nomi importanti della letteratura e del
teatro, i suoi appunti autografati, i copioni
annotati, gli abiti e le foto inedite scattate
da D’Annunzio, lasciati dalla nipote monaca dell’attrice, e che dal 2011 hanno trovato
spazio nell’ex Sala del Tesoro. E come le
collezioni di libretti d’opera e di miniature, seconde solo a quelle del Metropolitan
Museum di New York, o, ultima in ordine
di donazione, l’intera biblioteca e archivio
fotografico di Tiziano Terzani con cui, il
9 e 10 maggio prossimi, sarà allestita una
mostra in occasione delle giornate di studio sulla Cambogia. Sempre a maggio, dal
17 al 21, anche la prima mondiale di sette
cantate inedite del compositore barocco
Alessandro Stradella: a ritrovarle, negli
archivi della Fondazione, Giulia Giovani,
una musicologa ospite nel Centro Branca
nel 2012, che si è trovata a ripetere un’impresa simile a quella compiuta da Veniero
Rizzardi anni prima quando, nel carteggio
tra Casella e Malipiero, rintracciò il Requiem perduto di Maderna.
Le nuove Stanze del Vetro. Ecco l’ambi-
zione della Fondazione Cini: trasformare
la ricerca in scoperta, mantenere viva la
fiamma di ogni sapere, costruire ponti di
cultura tra questa piccola isola e la terraferma che è il mondo intero. Non si può
non dire che, per seguire questa vocazione
umanistica, sono stati investiti negli ultimi dieci anni 18 milioni di euro.
Denari privati spesi per conservare al meglio un patrimonio
che è di tutti, mura comprese.
Anche in questa alleanza forse,
in questo privilegio di libertà
e bellezza ricambiato con una
dedizione mai esaurita – basti
pensare alle nuove Stanze del
Vetro che ospitano due grandi
mostre l’anno sull’arte vetraria
veneziana finanziate dalla svizzera Pentagram Stiftung o alla
riapertura di Palazzo Cini a San
Vio dove saranno finalmente visibili pregiati dipinti di scuola
toscana e ferrarese del Rinascimento – sta il senso di una realtà, e di un luogo, come la Fondazione Cini. Tra i grandi nomi
che si sono fermati in questo
piccolo mondo a parte, da Ungaretti a Rossellini, da Gropius
a Le Corbusier, dai reali di Spagna a Margaret Thatcher, c’è
anche quello di Jorge Luis Borges. Dopo la
sua morte, la moglie Marìa Kodama chiese alla Fondazione di realizzare in uno dei
giardini il labirinto che Randoll Coate disegnò per lo scrittore argentino agli inizi
degli anni Ottanta e ispirato al racconto Il
giardino dei sentieri che si biforcano. Saliti sulla terrazza, il gioco del libro aperto
in cui si leggono le lettere del nome di
Borges mescolate a segni simbolici come
il punto interrogativo o il bastone, ci ricorda che nei tanti e diversi percorsi della
conoscenza non bisogna cercare una via
d’uscita, bensì perdersi. E perdersi, proprio qui dove la sacralità dell’architettura
palladiana si sposa con gli spazi dello studio e del lavoro, dove la ricerca umanistica
è tutt’uno con quella spirituale, è sempre
stato il modo migliore per ritrovarsi.
@manuelamimosa
(5 - le precedenti puntate sono uscite
su Sette nei numeri 44 e 50 del 2012
e nei numeri 9 e 25 del 2013)
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