View Book Sample - Dunwich Edizioni

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View Book Sample - Dunwich Edizioni
Stefano Dipino
La Porta dei Cieli
Dunwich Edizioni
La Porta dei Cieli di Stefano Dipino
© 2014 – Stefano Dipino
Dunwich Edizioni
Via Albona, 95 – 00177 Roma
www.dunwichedizioni.it
Codice isbn 9788898361212
Illustrazione di copertina: Saber Core
http://covercorpz23.wix.com/sabercore23
Foto di Daniele Pierangeli
Dunwich Crime
Ad Alessandra e a Roma: entrambe
mi abbracciano con il loro calore.
Stefano Dipino
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Svanita nel nulla
La strada era deserta a eccezione delle prostitute e dei loro clienti,
squali silenziosi che si aggiravano nella notte di una Roma estiva in
macchine anonime. Da via Cristoforo Colombo, invece, proveniva il
ruggito del traffico costante. Sveva camminava spedita verso casa,
la borsa stretta sotto il braccio destro e lo sguardo fisso sul marciapiede scuro, dove i lampioni alti creavano zone di luce. Il tragitto
tra la fermata della metro e il portone non le era mai sembrato così
lungo. Nonostante tutto, ogni cosa le appariva più bella quella sera,
persino l’ombra, le prostitute e la Cristoforo Colombo stessa. Il
lavoro iniziava a ingranare e la sua inchiesta, ne era certa, le avrebbe fatto fare un salto di qualità nella redazione. Chissà, magari
avrebbe anche ricevuto una proposta di lavoro da Il Messaggero, o
da Il Tempo. La testardaggine che l’aveva resa una donna sola
finalmente stava tornando utile almeno dal punto di vista professionale. Il dossier che aveva scritto riguardo ad alcuni influenti e
illustri personaggi della Capitale era un vero e proprio scoop e il direttore lo sapeva. Non aveva dubitato neanche per un istante del
lavoro di Sveva né della validità delle informazioni.
«Davvero notevole. Dove hai trovato questi dati?» le aveva chiesto.
«Preferisco non parlare dei miei informatori, signor direttore»,
aveva risposto Sveva. «Lei capisce…»
«Ma certo, ci mancherebbe. Tu sai, però, che si tratta di una
notizia a dir poco eclatante. Dovremo inventarci qualcosa quando
arriverà all’opinione pubblica.»
Quel vecchio viscido aveva fiutato la portata dell’indagine e voleva impadronirsi delle scoperte di Sveva, così la ragazza aveva
dovuto abbassarsi a contrattare con lui. Dopo tutta la gavetta che
aveva fatto nelle redazioni locali di Roma sapeva bene cosa fare per
difendere la sua posizione. Se avesse rivelato tutto, soprattutto al
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direttore, sarebbe diventata un’appendice dello scoop e nient’altro.
D’altro canto, però, si rendeva conto che in un modo o nell’altro il
giornale doveva giustificare un servizio del genere. Ma al diavolo,
aveva tutto sotto controllo.
Sono io ad avere il coltello dalla parte del manico, vecchio idiota.
Quando arrivò al civico 63 aprì il portone rapidamente e si infilò
nell’atrio. Viveva in uno degli alti edifici che costellavano la zona a
sud della Cristoforo Colombo, vecchi di vent’anni ma circondati da
parchi. Dopotutto non poteva proprio lamentarsi di quella zona per
il prezzo che pagava.
Forse, però, ora non dovrò più preoccuparmi delle spese. Forse
siamo veramente vicini alla svolta.
I suoi non potevano avere figli, così l’avevano adottata quando
era ancora troppo piccola per ricordare qualcosa dei suoi genitori
biologici. Il padre e la madre adottivi erano morti quando era ancora una bambina, così Sveva era stata affidata a uno zio, ma dopo la
laurea aveva deciso di trovarsi una stanza in affitto e buttarsi a capofitto nel lavoro in attesa di poter volare con le sue ali, senza
gravare su nessuno.
Mentre apriva le doppie porte dell’ascensore, il silenzio del palazzo le ricordò che era praticamente sola. I ragazzi che dividevano
l’appartamento con lei erano studenti universitari fuori sede,
tornati a casa per le vacanze estive. Poi c’era la sua amica Pia, anche
lei giornalista, anche lei fuori sede e quindi tornata in Calabria per
trascorrere un po’ di tempo con la famiglia. Sveva una famiglia non
ce l’aveva, così era rimasta con Roberto. A dire il vero non le era dispiaciuto stare da sola con lui, visto che era, si poteva dire, il suo
ragazzo. Si erano conosciuti due anni prima durante una festa a
casa di amici. Lui era a Roma per un paio di settimane, così si erano frequentati finché era stato possibile. Da quel momento in poi
era tornato spesso nella Capitale per vederla ed erano sempre
rimasti in contatto. Non si definivano fidanzati e lei detestava il
fatto che lui fosse distante. Poi, appena un anno prima, Roberto
aveva deciso di trasferirsi a Roma. Aveva trovato un lavoro per man6
tenersi durante gli studi e, quando si era liberata una stanza, Sveva
gli aveva proposto di andare a vivere lì.
La loro era una casa sempre affollata e piena di amici e amici di
amici, per cui si stava godendo il silenzio di quei giorni come una
pausa rilassante. Stava imparando con il tempo a fidarsi di Roberto
e ad aprirsi con lui, anche se aveva ancora paura di ammettere di
essere innamorata come un’adolescente. Nell’ultima settimana,
però, avevano litigato animatamente a causa del lavoro. Il ragazzo
così attento e presente di cui Sveva si era invaghita era anche un lavoratore che troppo spesso non riusciva a staccare la spina. Mentre
l’ascensore saliva, la ragazza pregò che Roberto non fosse in casa.
Quando raggiunse il piano, Sveva spalancò le doppie porte
dell’ascensore e si accorse che il pianerottolo era buio.
Si è fulminata di nuovo la lampadina, pensò mentre cercava le chiavi. Quando uscì nel ballatoio, però, si rese conto di non essere sola.
«C-Chi c’è?»
«Ciao.»
Sveva sobbalzò con un lieve gemito e schiacciò la schiena sulla
porta della signora Macrì con la borsa al petto e il cuore in gola. Le
girevoli dell’ascensore ondeggiarono e cigolarono, illuminate dalla
scarsa luce al neon.
«R-Roberto, ciao», disse con voce incerta.
Aveva riconosciuto troppo tardi la voce pacata e melodiosa del
suo fidanzato, o qualsiasi cosa ora fosse in quel momento. Roberto
le aveva chiesto scusa in tutti i modi, facendole presente come non
poteva rifiutarsi di aiutare il suo principale, una persona che di fatto rappresentava l’unico sostentamento certo per poter continuare
a rimanere a Roma. Lei non aveva voluto sentire ragioni, così il ragazzo si era irrigidito e l’orgoglio li aveva portati al litigio e poi a
uno stato di freddezza innaturale.
«Scusami, non volevo spaventarti.»
«Dovremmo chiamare il padrone di casa per dirgli della luce»,
rispose lei, avviandosi verso la porta.
«Vediamo se entro domani risolvono il problema, altrimenti chia7
miamo Giovanni», ridacchiò il giovane mentre il raggio di luce
dell’ascensore illuminava il suo volto tondo, decorato da una barba
rada. Aveva occhi scuri, ma Sveva non aveva ancora capito se fossero neri o castani. Portava capelli corti, sempre disordinati e spesso
raccolti in una cresta bassa, affatto volgare. Era un ragazzo di venticinque anni e a lei piaceva da morire. Non era tanto l’aspetto fisico,
quanto il suo carattere deciso che la faceva sentire sicura.
«Va bene. Ci vediamo domani sera allora, io sarò tutto il giorno
fuori per lavoro.»
«Dormi bene, Sveva.»
L’ascensore iniziò la sua discesa e gettò nuovamente il ballatoio
nel buio. Trovò a tentoni il buco della chiave e aprì la porta di casa.
Era come l’aveva lasciata, cosa rara quando c’erano tutti i ragazzi.
Roberto invece era ordinato e dedito alle pulizie, molto più simile a
lei che agli altri. E con orari strani come i suoi.
Chissà dove va a quest’ora di notte, pensò. Gettò rabbiosamente
la borsa in sala e accese le luci. Quel buio iniziava a infastidirla. E
anche l’uscita notturna di Roberto.
Un film comico anni ’70 le fece compagnia mentre cucinava un’amatriciana. Non riusciva a smettere di pensare all’indomani e a quello
che avrebbe fatto appena arrivata in ufficio. Innanzitutto avrebbe
smesso di guardare con deferenza quell’idiota di Gianna, la tirapiedi
ufficiale del direttore a cui era permesso tutto. Ogni idiozia che uscisse
dal suo computer era un articolo da prima pagina. Sveva si era fatta
una sua idea, ma era troppo anticonformista per accettare il cliché
della storiella tra capo e sottoposta sul luogo di lavoro. Il figlio di Gianna di chi era? Il misterioso uomo-meteora di cui raccontava sempre chi
era? Secondo lei erano tutte balle e magari c’era dietro proprio il direttore. Certo, con tutte le praticanti che c’erano in giro, scegliere proprio
lei era stata davvero una mossa infelice.
Si sedette davanti alla televisione con il suo piatto fumante e lo
divorò senza quasi gustarlo. Si vide riflessa nella finestra con una
stella di sugo sulle labbra e scoppiò a ridere da sola, una risata lunga
e quasi nervosa, un modo piacevole di scaricare un po’ della tensione
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accumulata durante la giornata. Fu in quell’attimo che un movimento rapidissimo oltre il vetro la costrinse a sbattere più volte le
palpebre, frastornata. Posò il piatto vuoto su un bracciolo di legno
del divano e aprì la finestra per uscire. Il piccolo balcone era largo
non più di due metri nel punto più ampio e, sporgendo il capo, ebbe
la visuale dei quattro piani che precipitavano sotto di lei.
La strada era deserta e non troppo distanti c’erano dei campi di
calcetto, un parchetto e poi la Cristoforo Colombo. Un venticello
frizzante stava finalmente smuovendo l’afa insopportabile, quel ponentino tanto decantato dai romani che serpeggiava sul fare della
sera tra le strade della città eterna, rinfrescando i suoi viottoli e
ispirando poeti e artisti. Anche per un’amante del caldo come lei
quel clima umido era intollerabile: era come indossare una cappa di
piombo nel deserto. Rientrò lesta, già dimentica di quell’ombra insolita che le era sembrato di scorgere. Etichettò la visione come
l’esito di una giornata troppo lunga. In casa, poi, si stava decisamente meglio e il climatizzatore rendeva l’aria molto più gradevole.
Riempì la lavastoviglie con le orecchie tese mentre la rassegna
stampa in televisione riassumeva le prime pagine del giorno dopo.
Era già l’una e la pesantezza che sentiva sulle palpebre non era poi
così strana. Prese il telecomando del condizionatore per spegnerlo,
l’aria stava diventando troppo fredda. Forse quella notte avrebbe
dormito fresca. Quando alzò lo sguardo sul bocchettone, però, si
rese conto che il climatizzatore era spento.
Come diavolo è possibile?
Un brivido più forte degli altri risalì lungo la schiena e le immagini di quel movimento visto nel riflesso della finestra tornarono alla
sua mente come una scarica elettrica, si insinuarono tra i suoi
pensieri come un tarlo insistente. Bastò qualche istante perché la
consapevolezza di ciò che aveva visto avvampasse dentro di lei e su
ogni centimetro della sua pelle come un fuoco invisibile.
Era un riflesso. Quel movimento era dentro!
L’adrenalina la travolse come un fiume in piena mentre correva
rapida verso l’ingresso. Si aggrappò alla maniglia della porta per
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aprirla e scappare, ma l’uscio era serrato.
Si voltò verso il tavolino dove di solito posava le chiavi, ma non
trovò nulla: erano scomparse. Le mani iniziarono a tremarle. Non
sentiva più le gambe, la lingua era incollata al palato. Iniziò a sudare.
«Chi c’è?» cercò di domandare, ma non udì la propria voce. Era
paralizzata da un terrore ancestrale di cui non era in grado di spiegare l’origine. L’aria fredda le ghiacciava la pelle e i denti sbattevano tra di loro producendo rintocchi secchi nella casa silenziosa.
Posò la schiena contro la porta blindata e si guardò attorno senza
riuscire a muoversi. Alla sua destra si allungava il corridoio buio, a sinistra si apriva il salone, dal quale proveniva ancora la voce del
giornalista televisivo. Era paradossale sentire quelle parole pronunciate così pacatamente: le davano una sensazione di normalità
rispetto all’orrore di quell’aria pesante e fredda.
«Chi c’è?» riuscì finalmente a chiedere al nulla, la voce strozzata,
attraversata da una vena di disperazione allo stato puro.
La casa non rispose.
Forse il direttore aveva mandato qualcuno da lei per rubare i documenti. Era senz’altro così, solo che l’avevano trovata in casa.
Cosa sarebbe successo ora? Che stupida era stata a fidarsi di
quell’uomo, un bastardo disposto a tutto pur di avere successo. Ora
avrebbe pagato per il suo errore. Ma allora cos’era quel dannato
freddo che le ghiacciava le ossa? Era terribile trovarsi lì, nella penombra dell’ingresso appena squarciata dal velo di luce
proveniente dalla sala. Avrebbe voluto non essere da sola. Roberto
avrebbe saputo cosa fare. L’avrebbe salvata.
Lui voleva parlare e io l’ho mandato via. Se glielo avessi chiesto
sarebbe rimasto.
D’un tratto ebbe un’idea. Il balcone della signora Macrì era comunicante. Era senz’altro pericoloso sporgersi per scavalcare, ma ce
l’avrebbe fatta. L’unico problema era che non riusciva più a
muoversi. L’adrenalina iniziale aveva lasciato lo spazio alla disperazione. Ma c’era dell’altro. Era come se qualcosa la immobilizzasse a
terra e le impedisse di muovere le gambe, di parlare persino. C’era
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un’aura di terrore che le ghiacciava la pelle e rendeva faticoso ogni
minimo movimento, una sensazione che era sicura di aver provato
almeno un’altra volta in vita sua, ma non avrebbe saputo dire
quando. La sua lucidità veniva meno, la razionalità la stava abbandonando proprio come la vita lascerebbe un moribondo. Troppo
lentamente e allo stesso tempo troppo in fretta. Si trascinò verso il
salone e le sembrò una conquista. Riusciva a muoversi meglio, forse
galvanizzata dalla luce della lampadina e dalla televisione che le davano ancora una piacevole sensazione di normalità. Arrivata alla
finestra, però, ebbe una spiacevole sorpresa.
La voce si ruppe mentre riuscì a dire: «Chi sei?»
Poi barcollò indietro con le lacrime agli occhi fino a sbattere la
schiena contro la penisola della cucina.
Iniziò a piangere, ma i suoi singhiozzi erano distanti, come se
provenissero da un’altra persona. I suoi sensi la stavano abbandonando, anche il suono della televisione giungeva distorto. L’aria
gelida era entrata nei polmoni e appesantiva il suo corpo come un
fardello insostenibile. Iniziò a scivolare verso il basso fino ad accasciarsi sul pavimento duro. D’improvviso la luce si spense e rimase
solo lo schermo a illuminare la stanza. Sveva si rese conto che tutto
questo non poteva essere vero, ma era troppo tardi.
Il giornalista della TV sembrò voltarsi verso Sveva e lei allungò
una mano verso di lui. Avrebbe voluto chiedergli aiuto, ma tre
parole sussurrate dalle ombre attorno a lei l’atterrirono.
«Non lottare, Sveva.»
La televisione si spense e Sveva urlò. Le tenebre l’avevano
avvolta nel loro spaventoso abbraccio.
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Invereray, Contea di Argyll, Scozia
15 dicembre 2011
Il Range Rover serpeggiava tra le colline scozzesi, assecondando la fantasiosa armonia della campagna tra boschi rigogliosi e prati mossi dal
vento gelido. Dal cielo plumbeo occhieggiava la luce timida tipica delle
giornate nordeuropee in pieno dicembre, un chiarore diffuso del tutto
insufficiente a intiepidire l’aria. Appena oltre i bordi della strada, dove
la campagna lasciava spazio alla collina e la collina alla montagna, coltri di neve appesantivano il paesaggio conferendogli un aspetto quasi
lunare. Ma nelle vicinanze, a costeggiare la strada tra le querce secolari, resistevano indefessi gli spinosi cardi e le abbondanti felci. Tra i
pascoli innevati trovavano riposo le mucche Highlander, pigre e pelose
presenze che accompagnavano il viaggio della coppia da qualche ora.
Quando superarono un cartello bianco con su scritto Earra
Ghaidheal, capirono di essersi avvicinati alla loro meta.
«Quanto manca, Vann?» chiese la ragazza.
Giovan Battista Morelli chinò il capo e osservò la giovane oltre gli occhialini a mezzaluna. I capelli lunghi di Sveva erano schiariti sulle punte
dallo shatush, con una tonalità che si adattava alla perfezione all’ovale
del suo volto. Era una ragazza attraente con occhi verdi profondi ed
espressivi. Non era molto alta né slanciata, ma la forma delle labbra, i
denti perfetti, bianchissimi, e la fossetta sul mento appena accennata la
rendevano estremamente affascinante. Lui, Giovan Battista Morelli detto Vann, era un signore sulla settantina con un pizzetto brizzolato elaborato e lunghi capelli bianchi legati in una coda. Era ormai pienotto e l’età
stava aprendo progressivamente una piazza sulla sua fronte.
«Non essere impaziente. Goditi il panorama, questa è una terra
magica.»
Era abituato a guidare a destra. Aveva visitato spesso la Scozia e
il Regno Unito per lavoro e diletto.
«Interessante, la magia ultimamente fa scoop.»
Vann la guardò perplesso. «È questo il tuo spirito per il viaggio?»
«Ascolta, è tutto meraviglioso, ma ho il fiato di Altieri sul collo.
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Vuole sapere ogni cosa a qualsiasi ora. Non sono abituata a lavorare
così e sono nervosa.»
Giovan Battista sorrise. Era tipico di Paolo. «Ti posso assicurare che se
ti sta addosso così non è perché non si fidi di te, ma perché sta morendo
di curiosità. Avrebbe voluto esserci e, dal momento che noi siamo i suoi
occhi, vuole essere tenuto al corrente di tutto. Non ce l’ha con te.»
Costeggiarono il Loch Lomond, assecondando pigramente le
curve. L’asfalto era pulito e la neve era stata accatastata sui lati della
strada, ma di tanto in tanto gli pneumatici termici del SUV
mordevano il ghiaccio mattutino.
«Riposa finché puoi, questa mattina ci siamo alzati presto.»
«Peraltro vorrei sapere il perché», disse Sveva. «Il volo era
privato, eppure siamo partiti alle sei di mattina.»
Era stanca e la preoccupava il fatto che il viaggio fosse appena
iniziato. Abbassò il parasole e si specchiò. Non dimostrava i suoi
ventotto anni, ma la levataccia aveva lasciato il segno tra i suoi
lineamenti limpidi e distesi.
«Avresti dovuto leggere il briefing della spedizione. In Scozia in
questo periodo dell’anno fa buio dopo pranzo.»
A quel punto si sentì una vera idiota. «Scusami, mi sento molto
sciocca. Devo solo riposare un po’.»
Vann le sorrise dietro al suo pizzo sale e pepe. «Non
preoccuparti. Manca ancora almeno un’ora, approfittane per
dormire. Dovrai essere sveglia per il nostro colloquio con il duca.»
Sveva reclinò lo schienale e si addormentò in un istante.
***
Costeggiavano il Loch Fyne da poco più di dieci minuti quando raggiunsero il ponte sotto il quale si sfogava il Gearr Abhainn, fiume che
collegava due piccoli laghi a monte e infine raggiungeva il grande
loch marino. Un cartello verde diede loro il benvenuto a Inveraray e
l’infinita Old Military Road divenne Main Street dopo averli
introdotti nel villaggio. Tutto aveva uno stile ottocentesco e la
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tranquillità dei paesi della tipica campagna scozzese era palpabile.
Sveva aprì il finestrino e tirò fuori una mano. Il clima lacustre inumidiva l’aria gelida e il placido Loch Fyne assisteva silenzioso alla vita di
tutti i giorni, riflettendo come uno specchio gli edifici pittoreschi
della cittadina e trasformandoli in spettri grigi che sembravano pronti a emergere dall’acqua da un momento all’altro.
Raggiunsero Front Street in breve tempo e occuparono uno dei
tanti parcheggi che costeggiavano il lago. Vann spense il motore e
scese dalla macchina per sgranchirsi le gambe. Dovevano essere almeno le dieci, ma del sole non c’era traccia. C’era una luce metallica
che illuminava l’area con un lieve bagliore diffuso. Il silenzio tombale
che regnava in quella cittadina era rotto solo dallo stridio dei gabbiani e dallo sciabordare quieto dell’acqua scura, pianura sgombra da
imbarcazioni e sulla quale densi banchi di alghe fluttuavano come
ammassi di foglie bruciate. Il riflesso plumbeo del cielo assumeva
sulla superficie liquida una sfumatura metallizzata quasi accecante.
Alle loro spalle si udì il rombo di un motore e dal parcheggio tra
due edifici bianchi con travi a vista uscì una Rolls-Royce Phantom
con vetri oscurati. La macchina si accostò alla Range Rover di Vann
e Sveva, e si fermò.
Dallo sportello del guidatore uscì un uomo di mezza età con baffi
bianchi e un completo da autista. Aprì la portiera posteriore e fece un
inchino, sorridendo. «Good evening, Milady. Sir. Prego, il duca vi attende.» Il suo italiano era fortemente imbastardito dalla stretta
pronuncia scozzese.
Vann e Sveva si guardarono, quindi entrarono nella Rolls-Royce e
l’autista fece altrettanto. Attraversarono la città e si inoltrarono per
qualche miglio nell’entroterra fino a raggiungere un cancello in ferro
battuto dalle alte punte dorate che si schiuse davanti a loro. Imboccarono un viale costeggiato da alti arbusti. Davanti a loro si stagliava la
sagoma grigia del castello, sormontata dalle bandiere del Regno
Unito e della Scozia, alte sulla struttura centrale della piccola fortezza. Due torri cilindriche laterali dai tetti conici incastravano una
facciata con ventuno finestre divise su tre piani. Un mare verde
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circondava l’edificio e la strada che lo attraversava conduceva a una
porta d’ingresso dalle forme gentili e dal colore chiaro. Nello stile
gotico del maniero si innestavano elementi barocchi e palladiani
che rendevano unico il complesso architettonico.
«Fine Ottocento», disse Vann.
«È meraviglioso», commentò Sveva in tono meno professionale.
Aggirarono il castello e rallentarono in uno spiazzo laterale ricoperto di ghiaia finché il gemito dei sassolini non cessò e la macchina
fu ferma. L’autista aprì la portiera dapprima a Sveva e poi a Giovan
Battista, quindi li condusse verso una porta di legno antico, dove li
attendeva il duca di Argyll con un paio di attendenti al seguito. Il
duca era un uomo avvenente con capelli castani ordinati da una riga
laterale, occhi scuri appena ravvicinati e la fronte alta. Il volto pulito
incorniciava un sorriso smagliante. Per l’occasione indossava il kilt
con il tartan del clan Campbell, una camicia azzurrina e una giacca
grigia di lana. L’indistinguibile tartan Campbell blu e verde era arricchito da una linea bianca riservata esclusivamente al capo clan.
Uno degli attendenti annunciò a gran voce. «Alistair Ian
Campbell, tredicesimo e sesto duca di Argyll…»
«Grazie, Will, può bastare», disse il nobile in inglese con il suo
accento scozzese. «Signor Morelli, io non parlo italiano, spero
possiate adeguarvi alla mia lingua.» La voce dell’uomo era delicata,
ma allo stesso tempo decisa.
«Non sarà un problema», rispose Morelli. «È un onore essere
ospitati nella vostra splendida dimora.»
Il duca di Argyll si inchinò a Sveva, quindi tutti insieme
entrarono nel castello.
«Lasciateci soli, grazie», ordinò il duca ai suoi domestici.
«Signori, sono stato sgarbato. Non vi ho ancora chiesto com’è
andato il viaggio.»
Attraversarono una sala dalle ampie volte in legno e con un porticato sulla destra. Una scalinata di legno portava a un piano superiore
che affacciava nella sala stessa e il pavimento era ricoperto di tappeti
di svariata provenienza. Sveva era persa nella contemplazione di
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quello che sembrava un teatro e Morelli fu costretto a richiamarla
quando il duca si voltò per capire il motivo di tanta lentezza.
Sveva sorrise. «Meravigliosa costruzione, sua grazia.»
«È il nostro teatro», spiegò l’uomo. «Usiamo questa stanza per le rappresentazioni e questa sera è prevista una messa in scena del Macbeth.»
Attraversarono quindi la grande sala principale nella quale si
snodava una scalinata verso i piani superiori. Le volte del soffitto in
pietra erano sormontate da cupole affrescate in cui campeggiavano
momenti salienti di importanti battaglie scozzesi. Tra drappi e tende,
la luce filtrava a stento nell’ampia sala, dove il rumore dei loro passi
riecheggiava, cupo.
Risalendo la rampa di marmo, il duca additò diversi dipinti. «Ovviamente i ritratti più grandi sono dei miei avi. Il clan dei Campbell
ha origini molto antiche nonostante la modernità di questo castello.
Avrete individuato, ne sono certo, che sotto la sua parvenza gotica si
nasconde una modernità artistica non indifferente.»
Morelli annuì. «Abbiamo avuto modo di apprezzarne la
magnificenza. Un vero gioiello nella campagna scozzese. Non mi
meraviglio che sia una meta turistica molto ambita.»
«Il castello per oggi è chiuso ed è riservato a voi, miei signori. È
molto importante gestire le priorità negli affari.»
Questa volta Sveva anticipò la risposta di Morelli. «Concordo
pienamente.»
Un attendente li aspettava davanti alla porta dello studio di Sir
Campbell e la richiuse alle loro spalle una volta entrati.
Era una stanza a pianta rettangolare divisa da due colonne larghe di
marmo. Il primo dei due lati della doppia sala era adibito ad anticamera e un enorme finestrone davanti alla porta si apriva con una vista
mozzafiato sul Loch Fyne e Invereray. La luce cupa e grigia di quella
giornata di dicembre incombeva nella zona lacustre e si rifletteva sulla
campagna scozzese. Alla loro sinistra un enorme camino scoppiettava
allegro e il suo fuoco alto illuminava e riscaldava l’ambiente con un abbraccio tiepido. I pilastri formavano un arco al centro dello studio,
oltre il quale si trovava un’enorme scrivania di legno circondata da nu17
merose librerie in cui riposavano tomi antichi e moderni.
Il duca fece loro cenno di accomodarsi e raggiunse il tavolo, si sedette sulla poltrona e iniziò ad armeggiare con una pipa. La luce
delle fiamme dardeggiava nei suoi occhi scuri, le cui profondità si
aprivano enigmatiche davanti ai suoi ospiti. Vann prese posto,
mentre Sveva era rimasta a osservare fuori dalla finestra, incantata.
«Signori, non perdiamo tempo. Tra poco sarà buio», disse il duca
in un italiano fin troppo spigliato. Si alzò dalla poltrona e iniziò a
passeggiare. «Ho ricevuto il messaggio di Altieri e mi attengo al
contratto che abbiamo stipulato.»
«Io non ho firmato niente», disse Sveva.
«Questo significa ben poco per me, signorina.» Il duca indicò
Vann con la pipa, abbozzando un sorriso sornione.
«Temevo mi avresti costretto a indossare un kilt.» Vann aggirò la
scrivania per abbracciare Sir Alistair Campbell. «Ragazzo mio,
quanto tempo è passato. Come sta Corinne?»
Sveva si aspettava una reazione sdegnosa da parte del nobile, ma
questi ricambiò il gesto con un sorriso.
«Non ti donerebbe il kilt, Vann. Corinne sta bene, Kate è nata.
Ora possiamo accettare uno dei tuoi inviti.»
Morelli scosse il capo. «Il 2012 non è un buon anno per venire a
Roma. Abbiamo resistito tanto, aspettiamo un altro annetto.»
«Ne sai sempre una più degli altri, vero?»
Il duca aveva cambiato atteggiamento e Sveva ne rimase colpita.
Sembrava conoscere Morelli da sempre. Era stupita dalla confidenza tra i due, ma era lieta che avessero smesso di parlare scozzese.
«Andiamo, avremo modo di parlare per strada, immagino»,
tagliò corto Morelli.
Alistair annuì e si voltò verso la libreria. Cercò con attenzione un
volume, quindi lo prelevò. La rimozione del tomo causò un rumore
secco e il fondo del ripiano, perso il peso, attivò un meccanismo interno. L’intero scaffale si spostò in avanti, quindi si divise in due,
rivelando un arco di pietra che scendeva nelle profondità del castello. Una torcia sfrigolava sulla sinistra appena oltre la soglia,
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illuminando una scalinata ripida. Il lato destro della rampa era senza parete e sembrava dare nel vuoto.
«Seguitemi, prego.»
Il duca prese la torcia e cominciò la lenta discesa nelle viscere del
castello, illuminando la scalinata e conferendo profondità allo strapiombo che sembrava precipitare negli abissi della terra. Azionò
una leva e la libreria si richiuse alle loro spalle lasciandoli
brancolare nei sotterranei alla luce ondeggiante della fiamma.
L’ambiente nel quale stavano scendendo era enorme: scampoli di
luce diurna filtravano faticosamente in quelle sale umide, illuminando altre scale. Numerose scale.
«Appoggiatevi al muro, è pericoloso qui», li avvertì il nobile.
«Questa è la Stanza delle Scale. Tutti i passaggi segreti del castello
confluiscono in questa enorme sala.»
«Mi auguro tu sia rimasto soddisfatto della proposta del signor
Altieri, Alistair», riprese Vann.
«È stato molto gentile da parte sua.» La voce di Sir Campbell riecheggiava nell’androne nel suo italiano dall’accento tipicamente
britannico. «Come ben sai, la mia famiglia è antica e ci sono molti
di quei diari sparsi per il mondo. Ho già recuperato gran parte di
essi, ma quello che possedeva il signor Altieri è molto importante
perché svela dei segreti su alcune stanze che non avevo ancora
neanche visitato. Devi sapere che questa costruzione, per quanto
relativamente recente, pare custodisca un nucleo antichissimo. Immagino che un giorno potrò chiederti una consulenza personale.»
«E sarò lieto di fornirtela a una tariffa scontata!» rise Vann.
Il duca si unì a quell’accesso di ilarità, spaventando un nugolo di pipistrelli che esplose nella sala, lanciando lamenti lontani nelle tenebre.
Sveva percepì, sempre più vicino, un rumore d’acqua corrente.
«Cos’è questo suono?»
«Deve sapere, miss, che in questo castello scorrono acque
sotterranee», rispose il Duca.
«E da dove provengono?» chiese la ragazza.
«Si tratta di un ramo del Loch Fyne che si addentra con il nome
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di fiume Aray nell’entroterra e risale a nord seguendo la strada. Ma
in questi sotterranei è perdurato nei secoli un salto che dà vita a
delle cascate nelle fondamenta stesse del castello. Le sue origini
sono molto misteriose ed è proprio per questo che ho bisogno del
diario del signor Altieri.»
«Dev’essere un enigma molto importante per scambiarlo con
quel monolite», azzardò Morelli.
«Più importante di quanto tu creda, vecchio mio», replicò
affabile il duca, «soprattutto perché non si tratta di una semplice
pietra. Ma non siamo interessati a quell’artefatto né alla sua storia.»
L’altro annuì. «Capisco.»
Stiamo scendendo al centro della terra, pensò Sveva, mentre
l’umidità delle cascate li avvolgeva come un mantello.
«In ogni caso ho preso precisi accordi con il signor Altieri. La
pietra appartiene all’Italia di diritto. Non a me. Allo stesso modo il
diario appartiene alla mia famiglia. Non a lui.»
«Uno scambio culturale», disse Sveva.
«Esatto.»
Un arco si aprì davanti a loro e la scalinata divenne un tunnel
che sprofondava nella roccia umida. Il rumore delle rapide si fece
sempre più vicino e la torcia illuminava scintille d’acqua che
trasudavano dal soffitto e precipitavano su di loro.
Il duca di Argyll si voltò verso i due ospiti. «Ora potreste
bagnarvi un po’.»
Il passaggio era alto almeno due metri e mezzo e largo tre, scavato nella roccia, procedeva in discesa e attutiva il frastuono
provocato dalle cascate. Piccole gocce gelide scendevano dall’alto,
ma la torcia intrisa di pece non vacillò. Il nobile non sembrò farci
caso, probabilmente abituato a quei cunicoli, ma Vann e Sveva sentivano il gelo di quell’antro affondare nelle ossa. Dopo un lungo
silenzio interrotto unicamente dallo stillicidio dell’acqua sul terreno
scivoloso, il tunnel terminò e davanti ai tre si aprì un molo di legno
sotterraneo. Una piccola imbarcazione era lì ad attenderli con il
motore ritirato. Il duca di Argyll affisse la torcia in un supporto
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vuoto. Il raggio di luce illuminava un agitato fiume la cui corrente
spingeva in una direzione che, dopo tutta quella strada, Sveva non
avrebbero saputo determinare.
«In questo momento siamo sul livello del mare», spiegò Alistair.
«Usciremo dai sotterranei tramite un passaggio segreto e ci immetteremo nel corso d’acqua, quindi lo risaliremo per diverse miglia
fiancheggiando la strada a distanza. Se non vi spiace, datemi una
mano con le cime.»
Giovan Battista e Sveva aiutarono il duca, quindi salirono cauti
sullo scafo. Sir Campbell sembrava pratico a discapito del suo titolo
nobiliare: accese le quattro lampade a petrolio agganciate ai bordi e
strattonò un paio di volte il motore per farlo partire, quindi si mise
al timone. La barca segnò un solco nel fiume e i tre si avventurarono in quelle acque scure fendendo le tenebre del sottosuolo con la
luce delle lanterne.
«Non capisco perché tutta questa segretezza, Alastair. Che
succede in Scozia?» chiese Morelli.
«Lo scavo al vecchio Castello Campbell è troppo fresco, Vann. È
successo tutto troppo in fretta.»
«Temo dovrai spiegarmi.» Morelli sorrise. «Da quello che ho
capito ci sarà parecchio lavoro da fare e se devo passare Natale e
Capodanno a scavare nella neve vorrei almeno vederci chiaro.»
«Hai ragione», gli concesse il duca. «Ma non saremo soli. Lascerò
una guardia di quattro uomini fidati.»
Sveva iniziava a preoccuparsi. Altieri aveva promesso un viaggio
di piacere e ora si ritrovavano in un fiume sotterraneo con il duca
di Argyll che offriva loro un lavoro così pericoloso da richiedere
addirittura quattro gorilla.
«Perché, ragazzo?» chiese Vann.
«Sono stato chiamato per un crollo nel rudere del vecchio Castello dei Campbell, la dimora del mio clan fino al trasferimento a
Inveraray. Mi sono recato sul posto con i miei collaboratori ed è
stato subito chiaro che non si trattava di un crollo. Qualcuno aveva
fatto saltare una parete nel tentativo di introdursi tra le stanze.
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Nell’ultimo mese avevo messo sotto sorveglianza l’isola dove sorge
il maniero perché avevo intenzione di celebrare lì il battesimo di
mia figlia. A qualcuno l’idea non dev’essere piaciuta. Fortunatamente i ragazzi della guardia erano lontani dall’esplosione e non ci
sono stati feriti. Hanno visto qualcuno fuggire su un motoscafo.»
«Qualcuno sa della pietra dunque?»
Alistair annuì con uno sbuffo. «Sì.»
«Questa è una pessima notizia», mormorò Sveva.
«Vi metterò a disposizione una squadra di dieci uomini per scavare e parteciperò anche io. La stanza in cui è custodito il monolite
è appena sotto la sala principale e non sarà difficile portarlo alla
luce.» Sir Campbell assecondò una curva con il motoscafo, il suo
sguardo scuro cercava di fendere le tenebre di quel dedalo inestricabile di stalattiti e stalagmiti.
«Non è rischioso per te, Alistair?» chiese Vann.
«Sai che mi annoio al castello senza far niente. Questa sera i miei
attendenti diranno agli ospiti che sono a letto con la febbre e continueranno a farlo per qualche giorno», spiegò Sir Campbell. «Vedrete
che passeremo una bella settimana insieme e nulla andrà storto.»
Sveva non era più così sicura al riguardo. Sembrava tutto troppo
complicato e si parlava di esplosioni. Morelli dovette cogliere la sua
preoccupazione nello sguardo perché improvvisamente scoppiò a
ridere. La risata, aspirata come la sua cadenza toscana, fu contagiosa e tutti e tre iniziarono a ridere nell’eco dell’ampia grotta.
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Lezioni di Antropologia
«Qualcuno ha mai sentito parlare del villaggio di Kisilova?»
domandò il professore all’aula.
Come spesso accadeva, nessuno rispose. Il professor Alessandro
Altieri era solito fare domande alle quali nessuno sapeva replicare.
Roberto era uno dei tanti studenti che affollavano la sala per seguire le lezioni del corso di Antropologia culturale, un esame inutile
quanto interessante, e per questo scelto da tutti i suoi colleghi per
completare il piano di studi.
Quel giorno, però, un assolato martedì di luglio, studenti di ogni indirizzo erano accorsi nell’Aula V della facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza non per una lezione di corso, ma per seguire un appassionante seminario tenuto dal professor Alessandro Altieri sulle leggende
europee sui vampiri. Nessuno si sarebbe atteso quell’affluenza, in un
periodo denso di esami come quello e men che meno Roberto, che
sperava di poter parlare a tu per tu con il docente.
«Ovviamente no. Kisilova è stato il teatro di una delle prime cronache moderne di vampiri. A causa della confusione politica che ha
investito la regione nei secoli scorsi esso è stato a lungo erroneamente collocato in Ungheria, ma in realtà si trova in Serbia, a un
centinaio di chilometri da Belgrado. Il resoconto originale della vicenda venne riportato per la prima volta dal vicario austriaco
Fromann sulla celebre rivista viennese Das Wienerischen Diarium,
nel 1725. Questa storia è stata successivamente riveduta, modificata
e ampliata da vari autori ed esperti d’occulto, perciò oggi cercherò di
riportarvi la versione che, dall’analisi filologica dei documenti, risulta
la più plausibile e veritiera.»
Il professore camminava davanti alla cattedra, gli occhi verdi rivolti
all’aula gremita e silenziosa. Era un uomo sulla trentina, alto e slanciato con lunghi capelli scuri tenuti dietro le orecchie.
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L’abbigliamento era forse bizzarro, uno strano ibrido tra eleganza e
sportività: sotto un completo blu scuro indossava una camicia azzurrina in pendant con la pochette a pois bianchi che saltava fuori dalla
giacca. Sotto, con un accostamento di colori che cercava di rimediare
alla differenza di stili, un paio di sneakers. L’originalità nel vestire e i
capelli lunghi attiravano professoresse e studentesse come api al
miele. A Roberto non sembrava un granché, ma era senz’altro simpatico, dote decisamente apprezzabile in un docente universitario.
«Si narra che un certo Pietro Plogojowitz, di cui non viene indicata
professione o provenienza sociale, si ammalò nell’autunno del 1724 e
morì in circostanze misteriose dopo pochi giorni. La mattina successiva al suo funerale, il figlio di Plogojowitz raccontò di aver ricevuto una
visita del padre durante la notte, il quale gli avrebbe chiesto del cibo.
Questi glielo portò e Pietro si dileguò dopo aver mangiato un pasto abbondante. All’indomani di questa apparizione il giovane raccontò il
fatto ad amici e conoscenti, suscitando ovviamente lo scetticismo di
tutti. La sera seguente il padre non fece ritorno ma, il terzo giorno
dopo la sua morte, Pietro Plogojowitz riapparve affamato in casa del
figlio. Lo sappiamo perché furono le uniche informazioni che questi
riuscì a fornire prima di morire, la mattina dopo. Nel giro di una settimana trapassarono in totale dieci persone e tutte giurarono in punto
di morte di aver ricevuto una visita notturna da Pietro Plogojowitz.
Ora fate attenzione, perché il discorso diventa più complesso. Le
vittime parlano del ritorno di Pietro come una visita nel sonno. Sembra che Plogojowitz senior si “coricasse sulle sue vittime, costringendole a soggiacere allo spettro”, come riporta Fromann. Dunque il
nostro mostro viene definito uno spettro. Noi sappiamo, o meglio
dovremmo sapere, che la figura mitologica descritta ha una nomenclatura ben precisa. Si tratta infatti di quello che nella scorsa lezione
abbiamo chiamato incubo, un demone-vampiro notturno che normalmente approfitta di donne indifese per turbarne i sogni e cibarsi delle
loro paure o, ancora peggio, intrattenere rapporti sessuali con loro e
inseminarle per creare incroci. Ricordate? Abbiamo parlato della
fecondazione assistita dei demoni.»
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L’aula scoppiò a ridere, mentre il professore si avvicinava alla
prima fila.
«A te piacciono gli incubi, Dorelli?» domandò a una ragazza,
suscitando ulteriori schiamazzi nell’aula.
La ragazza scosse timidamente il capo e si fece rossa.
«Non ti vergognare, non piacevano neanche agli jugoslavi. Infatti
venne ordinata immediatamente la riesumazione del cadavere di
Plogojowitz, mentre le persone visitate da Pietro, come abbiamo già
accennato, morirono tutte di una strana malattia che divorava letteralmente il sistema respiratorio. La domanda che dovrebbe sorgervi
spontanea in questo momento non è se Plogojowitz fosse o meno un
vampiro, che immagino sia quello che Rotti sta chiedendo a Dorelli,
ma... Perché Fromann sapeva tutte queste cose? Semplicemente,
Fromann partecipò in prima persona all’esumazione del cadavere
del povero Pietro Plogojowitz. A questa operazione presero parte anche medici, funzionari pubblici e persone di tutto rispetto, ben
lontane dallo stereotipo del villico facilmente impressionabile.»
L’intera aula era tesa all’ascolto di quelle vicende. Come sempre
il carisma del docente aveva superato la barriera dello scetticismo e
tutti i presenti pendevano dalle sue labbra.
«La descrizione fisica che Fromann ci fa del morto è interessante.
Infatti egli parla di “assenza di odore di morte, corpo fresco in tutto
e per tutto a eccezione del naso; capelli, barba e unghie ricresciuti;
vecchia pelle sostituita da pelle nuova; viso, mani, piedi e corpo
hanno un aspetto vitale.” Queste caratteristiche già riportano alla
nostra mente la figura del vampiro, ma a ciò si aggiunge un dettaglio che, citando il testo, “destò meraviglia nei presenti”.»
Altieri attese qualche istante. Sembrava voler creare suspense,
osservando gli studenti uno a uno mentre gesticolava con grande
carisma.
«Sulle labbra vennero ritrovate tracce di sangue fresco.»
La sala esplose in un miscuglio di esclamazioni di vario tipo, ma
il professore sorrideva apertamente. Roberto si rese conto che aveva ottenuto l’effetto desiderato. Alessandro Altieri attese minuti
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interi prima di tornare verso la cattedra e sedersi su di essa, le
braccia larghe e le mani aggrappate ai bordi.
«Questo…» riprese a voce alta per smorzare il chiacchiericcio. «Questo diede adito al pensiero che Plogojowitz avesse succhiato il sangue
alle sue vittime, infettandole. Al giorno d’oggi, tuttavia, le condizioni
appena descritte sono facilmente spiegabili dalla medicina legale. Allora venne visto da jugoslavi e austriaci come la manifestazione dei
poteri di quelli che Fromann definì per la prima volta in lingua tedesca
vanpir. Non c’è bisogno che aggiunga altro, immagino.»
Il brusio si placò lentamente e un ragazzo alzò la mano. La lezione stava diventando più informale. «Professore ma è possibile che
queste credenze facessero presa sugli austriaci? Voglio dire, parliamo di un vicario austriaco, non di paesani jugoslavi. E lei ha citato
addirittura un giornale viennese.»
«Lei non contestualizza. È molto importante che impariate a farlo
quando vi fornisco le notizie. Dovete analizzare l’impatto che queste
credenze ebbero sulla società dell’epoca, molto diversa da quella di
oggi. Stiamo parlando di quasi trecento anni fa, di regioni che tuttora
suggestionano turisti provenienti da ogni angolo del pianeta.»
«Non dico questo», proseguì il ragazzo, «mi stupisce che Fromann sia tornato immediatamente in patria e abbia definito quel
Pietro un vampiro. Non è un po’ eccessivo?»
Si girarono tutti a osservare la reazione del professore.
Alessandro Altieri rispose pacatamente. «Se non ci credesse un
po’ anche lei non avrebbe scelto questo corso.»
Il ragazzo non trovò nulla da obiettare né qualcun altro si fece
avanti. Il docente sorrise a tutti e iniziò a riordinare le sue cose. Il
tempo passava in fretta durante le sue lezioni.
«Andate pure, oggi finiamo un po’ prima. L’esame si avvicina, sappiate che potete scrivermi via email per concordare programmi o per
qualsiasi altra cosa. Ho scritto l’indirizzo sulla lavagna, segnatevelo.»
Nel giro di qualche minuto sparirono tutti dall’aula, tranne Roberto.
Continuava a guardare il professore in silenzio, assorto nella rielaborazione mentale di quell’episodio. Era spesso sua abitudine perdersi in
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personali rivisitazioni di storie e leggende. Prima o poi, ne era convinto, avrebbe dovuto riordinare le idee e scrivere un libro. Eppure questa
volta non stava fantasticando riguardo alle vicende narrate dal
professor Altieri. Non riusciva a smettere di pensare a Sveva.
L’aveva lasciata su quel pianerottolo buio e ora non c’era più,
come se non fosse mai esistita. Tornato a casa, aveva notato l’interruttore centrale della luce staccato. Poi, quella strana striscia di
sangue sulla penisola della cucina e delle gocce rosse a terra, poche
per giustificare un omicidio, ma abbastanza per preoccuparsi.
La cosa peggiore era che la stanza di Sveva era vuota. Ogni cosa
appartenesse alla sua ragazza, o qualunque cosa fosse, era svanita
nel nulla.
«Si è data, ma mi farò sentire. Se crede di non pagarmi l’affitto si
sbaglia di grosso», aveva dichiarato Giovanni, il loro padrone di casa.
Lui aveva cercato di farlo ragionare. «Giovanni, ma ti rendi conto
che qui c’è del sangue? Potrebbe esserle successo qualcosa.»
«Ma se ha lasciato tutto com’era prima che arrivasse. Dai,
Roberto, è evidente. Ma il contratto c’è e dovrà pagarmi.»
E poi c’era quella sensazione di cui non aveva parlato a nessuno,
neanche ai suoi amici, per evitare di essere scambiato per pazzo.
Appena entrato in casa quella notte aveva sentito un freddo spaventoso, come se ci fosse il condizionatore acceso da ore. Aveva
pensato che Sveva lo avesse spento poco prima del suo arrivo e forse era così, ma la sensazione di vuoto appena entrato nella stanza?
Era ancora preso dai suoi pensieri quando si ritrovò a fissare la
schiena del professor Altieri mentre questi ritirava le sue cose in
una borsa di pelle nera. Svicolò dal banco e si avvicinò al docente.
«Per qualsiasi domanda potete usare l’email, ora sono un po’ di
fretta», rispose questi ancora prima che Roberto potesse aprire bocca.
«A… A dire il vero, sarebbe meglio che le parlassi di persona,
professore.»
Roberto aveva sempre avuto un modo molto diretto di
esprimersi, senza fronzoli o vie di mezzo. Il professore si voltò di
scatto, allarmato da quella dichiarazione. «Prego?»
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«Chiedo scusa, ma vorrei parlarle di una faccenda privata. So che
le sembrerà strano, ma non saprei a chi rivolgermi e lei mi sembra
la persona adatta. E non sono il solo a pensarla così.»
Qualcosa dovette stuzzicare l’attenzione del docente, perché si
sedette sul bordo della scrivania e incrociò le braccia. «Ah sì? E chi
altri la pensa così?»
«Non è importante» tagliò corto Roberto. «Vede… Oggi stavo
sentendo la sua lezione e sono rimasto molto colpito. Non so se ha
letto la notizia, ma una mia… amica è scomparsa nel nulla non più
di due giorni fa.»
«Ho sentito qualcosa. Zona Marconi, vero?» chiese Altieri.
Roberto annuì. «È sparita nel nulla e tutti pensano sia scappata. Il
problema è che nessuno muove un dito, sono tutti convinti che si tratti
di una scappatella, che tornerà, che aveva solo bisogno di una pausa.»
«Un buon motivo per aspettare anche noi fiduciosi il suo ritorno.
Sarà senz’altro tornata a casa, non trovi? D’altronde siete studenti
fuori sede se non ho letto male.»
«Lei non ha i genitori, ha solo uno zio qui a Roma. La polizia…
mi è sembrata sbrigativa al riguardo. Troppo. E poi Sveva me lo
avrebbe detto se avesse avuto intenzione di andarsene.»
«E perché avrebbe dovuto?» chiese Altieri.
«Be’, vede», titubò il ragazzo, «eravamo più che amici.»
«Ah, capisco.» Altieri accavallò le gambe tese davanti alla
scrivania. «Ascolti…»
«Guerrini, Roberto», si affrettò a precisare il ragazzo.
«Ascolti, la cosa è senz’altro singolare, ma c’è la polizia per le indagini. La ragazza potrebbe non essere nuova a certi comportamenti, ci sono molti motivi per cui potrebbe essere scomparsa. Mi
rendo conto della sua posizione, ma non vedo in che modo io potrei aiutarla, sul serio. Ora, se non le dispiace dovrei andare perché
mi aspettano per l’orario di ricevimento e ho molte cose da fare.»
«C’era una macchia di sangue, ma ora è sparita.»
«Cosa?»
«Una macchia di sangue, era sul bancone della cucina. Io l’ho
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vista, ma poi in qualche modo è stata rimossa. Nessuno poteva
avere accesso alla casa se non la polizia e io non so cosa pensare.
L’unica cosa che mi è venuta in mente…»
«… l’unica cosa che le è venuta in mente», l’interruppe
Alessandro Altieri, «è la mia lezione sugli spettri? Davvero è l’unica
spiegazione che è riuscito a darsi, Guerrini?»
«Esatto. Lei ha affermato che alcuni spettri sono in grado di trascinare i vivi nel regno dei morti e, se questo accade, ogni cosa appartenuta alla vittima sparisce nel giro di poche ore, anche il sangue.»
«Sì, l’ho detto. Ma...»
«Svanisce anche il loro ricordo» lo incalzò Roberto. «Il ricordo
della loro esistenza dalla memoria dei loro cari.»
«Non sarebbe più facile pensare che la polizia abbia ripulito la
scena dopo aver raccolto i referti che riteneva opportuni?» chiese
Altieri, ironico. «E poi lei è il suo fidanzato, eppure si ricorda
perfettamente di lei. Mi spiace, ma lei mi sembra sconvolto.
Troppo, non è lucido.»
«Le forze dell’ordine non hanno raccolto nulla.»
«Ancora meglio. Qual è la sua perplessità allora? Quel sangue
poteva essere di chiunque, ha pensato a un banale incidente domestico?» Altieri iniziava a perdere la pazienza. «Roberto, capisco che
sia sconvolto, la sua ragazza ha mollato tutto, anche lei, ma pensare
agli spettri dopo una lezione di antropologia mi sembra un po’ eccessivo. Io non ho tempo da perdere, in particolare con queste
sciocchezze.» Il professore raccolse la sua valigia e sfilò via verso
l’uscita dell’aula. «Arrivederci, signor Guerrini.»
L’insegnante varcò la soglia e Roberto rimase solo.
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