Laocoonte: il mito e la statua nelle fonti classiche Per una lettura di
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Laocoonte: il mito e la statua nelle fonti classiche Per una lettura di
Laocoonte: il mito e la statua nelle fonti classiche Per una lettura di Virgilio e Plinio, con un’appedice petroniana «Ille simul manibus tendit divellere nodos» (Eneide II, 220) Valeria Airaldi Indice 1) Le fonti e le versioni del mito troiano 2) Il sacrificio di Laocoonte in Virgilio tra presagio della fine e tensione dell’inizio 3) Plinio: l’opus omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum 4) Petronio e l’ékfrasis della Troiae halosis 1. Le fonti e le versioni del mito troiano Sebbene la statua del Laocoonte sia ricordata nelle fonti classiche dal solo testo pliniano, il mito del sacerdote troiano è stato narrato da molti autori greci e latini, secondo versioni talora differenti.1 Nell’Ilioupersis di Arctino (VI secolo a.C.), che noi conosciamo mediato dal resoconto di Proclo, la morte di Laocoonte è presentata come segno funesto che gli dèi inviano a Enea affinchè, nell’imminenza della caduta di Troia così prefigurata, si affretti a mettersi in salvo. Pochi frammenti sono sopravvissuti al naufragio del Laocoonte di Sofocle che sembra seguire Arctino per quanto riguarda il valore di segno attribuito alla morte del sacerdote, ma che palesa anche rapporti con altre fonti, contaminando una variante del mito diversa, attestata, come nota Servio nel suo commento all’Eneide, da Bacchilide (V secolo a.C.) e riportata da Euforione: in questa variante viene posta al centro la colpa di Laocoonte di essersi unito alla moglie davanti all’ara di Apollo, da cui la terribile morte come punizione per l’empio sacrilegio. Per quanto riguarda le fonti latine, fin dall’epoca arcaica è vitale nella tradizione tragica la presenza del ciclo troiano, sebbene lo stato frammentario in cui versano le tragedie di Livio Andronico e di Nevio non consenta di esprimere considerazioni sull’effettiva presenza del mito di Laocconte in particolare e sulle modalità della sua trattazione. La versione romana più nota e diffusa è senz’altro quella che ci consegna Virgilio nel II libro dell’Eneide e che, nell’ergersi a punto di riferimento primario per la vicenda, viene presto a eclissare le fonti greche. L’episodio, così come è descritto da Virgilio, centrale nella dinamica complessiva del libro II, diviene elemento topico e imprescindibile con il quale, fin dall’epoca della sua scoperta, si sono confrontate e relazionate le descrizioni del noto gruppo Vaticano.2 1 2 Per la rassegna delle fonti classiche sul mito, cfr. S. SETTIS, Laocoonte. Fame e stile, Roma, Donzelli, 1999, pp. 86-89. SETTIS, Laocoonte, pp. 99 ss. 2 Al di là delle differenze presenti nelle versioni del mito sul motivo dell’attacco dei serpenti, sul fatto che Laocoonte fosse il sacerdote di Apollo o di Nettuno, come vuole Virgilio, l’elemento discriminante sembra essere l’effettiva ragione della morte: se in Sofocle sembrano operanti entrambi i punti di vista – Laocoonte vittima innocente e Laocoonte punito per l’oltraggio alla divinità – nel caso particolare di Virgilio il sacerdote sembra punito apparentemente per il gesto sacrilego compiuto contro il cavallo di legno e quindi ai danni di Minerva che, adirata, non tarda nel suo implacabile intervento di vendetta. In realtà, vedremo come il testo virgiliano consenta una lettura in grado di attribuire alla vicenda un’altra funzione, a questa sicuramente complementare. Sempre nella tradizione latina, il mito è narrato anche in una Fabula di Igino, mitografo del I secolo d.C. che segue la tradizione greca della colpa punita, contaminandola con Virgilio.3 In età giulio-claudia e neroniana si colloca invece un passo del Satyricon di Petronio; in esso viene presentata l’ekphrasis di un dipinto raffigurante la presa di Troia che segue la formula iconografica riscontrabile nelle pitture pompeiane, più tarde rispetto al gruppo Vaticano, secondo la datazione proposta da Settis, ma testimoni di un’inesauribile persistenza del tema.4 Infine, una fonte greca tarda (Quinto Smirno, IV secolo d.C.) si presenta vicina al testo virgiliano, seppur con varianti peculiari. 3 IGINO, Fabulae 135: «Laocoon Acoetis filius Anchisae frater Apollinis sacerdos contra voluntatem Apollinis cum uxorem duxisset atque liberos procreasset, sorte ductus ut sacrum faceret Neptuno ad litus. Apollo occasione data a Tenedo per fluctus maris dracones misit duos qui filios eius Antiphantem et Thymbraeum necarent, quibus Laocoon cum auxilium ferre vellet ipsum quoque nexum necaverunt. Quod Phryges idcirco factum putarunt quod Laocoon hastam in equum Troianum miserit». Igino riporta la notizia dell’oltraggio ad Apollo, di cui Laocoonte è sacerdote, ma segue poi la tradizione virgiliana (con citazione letterale) nel collocare l’episodio della morte al momento del sacrificio a Nettuno e nel fornire la motivazione che i Troiani ne danno, sebbene la divinità oltraggiata sia Apollo e non Minerva. 4 SETTIS, Laocoonte, pp. 67-70. 3 2. Il sacrificio di Laocoonte in Virgilio tra presagio della fine e tensione dell’inizio Dopo la stesura delle Georgiche, terminata intorno al 29 a.C. quando Virgilio potè leggere l’opera a Ottaviano sulla via del ritorno da Azio, il poeta si dedicò interamente fino alla fine della sua vita (19 a.C.) alla composizione dell’Eneide, il poema che doveva celebrare la pace portata da Roma al mondo e con essa quella pax specificatamente augustea. Ottaviano, ormai Augusto, seguì con sollecitudine la stesura dell’opera di cui Virgilio ebbe occasione di anticipare alcune parti alla corte. Al momento della morte, l’autore, ritenendo incompiuto il suo poema, pregò gli amici di darlo alle fiamme: fortunatamente il desiderio ultimo di Virgilio rimase inascoltato e Augusto stesso affidò a Vario, amico del defunto poeta, la revisione e la pubblicazione dell’opera, il cui successo fu immediato. L’Eneide è la storia della missione di Enea, esule troiano, scelto dai Fati perché la sua discendenza fondasse l’impero di Roma: quella di Enea è una missione che continua e conclude quanto i poemi omerici lasciavano in sospeso. Ilio distrutta verrà rifondata e sulle ceneri della guerra fratricida contro i Latini, si costituirà un nuovo ordine all’insegna della pace e dell’unità. Lo sforzo di Virgilio è in questo senso quello di creare una vera epica nazionale romana, densa di significato storico, politico e ideologico: un poema in cui la collettività si deve rispecchiare e sentire unita, così come identità e unione sono le garanzie alla base del programma di restaurazione augustea. Pur tuttavia, il valore del poema virgiliano e la sua peculiarità non si esauriscono nell’ideologia e nella celebrazione: anche dopo l’estinzione del messaggio augusteo, la fortuna dell’opera si è mantenuta a lunga distanza per il forte coinvolgimento del lettore di ogni tempo, chiamato ad accettare insieme l’oggettività epica, che dall’alto osserva la provvidenzialità della storia, e la soggettività tragica individuale, disputa di ragioni personali e di verità relative. E oggettività epica e soggettività tragica vengono a saldarsi insieme proprio nell’episodio di Laocoonte, collocato in apertura del II libro, del quale costituisce snodo centrale. Nota al commento di Eneide II, 40-56 e 199-233. Il testo di commento che segue è frutto di un’analisi guidata dalla sensibilità personale di chi scrive, è l’esito delle suggestioni che il verso epico, con il suo stile, i suoi toni e il suo linguaggio, ha prodotto nella sua lettura. Oltre a testimoniare un’adesione spirituale al dettato virgiliano, il commento fa leva anche su alcuni aspetti stilistici dell’epica plasmata da Virgilio, di cui è bene fornire qualche indicazione preliminare di validità generale, utile anche a un’eventuale lettura più estesa del testo. Per quanto concerne la modulazione del verso, Virgilio sviluppa insieme il massimo della regolarità e il massimo della flessibilità: l’esametro diviene strumento di narrazione lunga e continua, svincolata all’occasione dalla schiavitù nei confronti del metro. A livello linguistico, nel complesso, al di là della solennità tipica in un contesto epico, la cifra caratteristica del linguaggio virgiliano consiste in uno stile fatto di parole “normali”, non marcatemente poetiche, che subiscono tutta la potenza espressiva degli inediti accostamenti e collegamenti che il poeta instaura fra di esse: un lessico semplice e diretto, soggetto però a una forzatura di significato che gli conferisce rilievo particolare nel contesto 4 di appartenza. Non mancano i moduli epici tradizionali, tuttavia essi vengono caricati di una nuova sensibilità. Un esempio è l’uso degli epiteti che, fissi e talora avulsi e inappropriati nel contesto omerico, in Virgilio tendono a suggerire di più di quello che la narrazione dice esplicitamente. Gli epiteti contribuiscono alla costruzione del senso e costituiscono un invito al lettore a collaborare per esplicitare gli accenni e integrare i vuoti. Infine è da segnalare, di contro all’oggettività omerica, l’aumento della soggettività che caratterizza lo stile virgiliano: una maggior iniziativa è accordata, oltre che al lettore, ai personaggi, dei quali a tratti emerge il punto di vista e al narratore, che si affaccia a più livelli nel racconto. L’accresciuta soggettività, lungi dal compromettere la struttura epica dell’impianto, è sapientemente calibrata dall’autore che garantisce, attraverso la ricomposizione dei singoli punti di vista soggettivi, l’immagine di un progetto unitario. «Immo age, et a prima dic, hospes, origine nobis / insidias» (Aen. I, 53-54). Il primo libro dell’Eneide si chiudeva sulla sospensione di una richiesta, quella della regina Didone che invita l’ospite forestiero a fornire un resoconto delle vicende troiane a prima origine. Il clima di partecipata attesa conduce al silenzio attento degli astanti con cui si apre il II libro, che riporta il doloroso e commosso racconto dell’esule troiano. Enea, seppur chiamato a rinnovare un infandum dolorem (v.3) e sebbene il suo animo meminisse horret (v.12), non si sottrae, in virtù di quella pietas che lo contraddistingue, alla richiesta di colei che gli ha offerto ospitalità. Proprio ab origine della sciagura troiana si colloca l’episodio del cavallo di legno, dono esiziale di carattere sospetto che divide il volgus incertum (v.39) in pareri contrastanti. È a questo punto che s’inserisce la vicenda di Laocoonte, sacerdote di Nettuno, che irrompe con forza sulla scena per ammonire i troiani sulle insidie che sicuramente si celano dietro a qualsiasi dono da parte dei Greci. Virgilio presenta Laocoonte che accorre per primo e che incombe ardente dall’alto della rocca: la potenza del dettato virgiliano, la sapiente collocazione delle parole, l’abile perizia retorica conferiscono da subito alla figura del sacerdote un carattere di indiscussa preminenza e autorità: Laocoonte non ha bisogno di presentazioni, la sua presenza sulla scena dice tutto del suo temperamento, tenace al punto da richiamere a sé l’attenzione, sebbene imperversi il caotico delirio della folla turbata. I versi 40-42 presentano in posizione iniziale tre termini che concorrono alla costruzione della solida presenza di Laocoonte che, come si diceva, accorre primus, ardens e che pronuncia il suo lapidario monito procul, distante quindi, ma non solo: egli parla infatti ab arce, dall’alto dela rocca. Le sue parole si snodano nell’incalzare vorticoso delle domande, nel ritmo martellante dell’anafora, per culminare nel sentenzioso appello finale, divenuto celebre: «equo ne credite, Teucri. / Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis» (vv. 48-49). A suggello di questo potente disorso, Laocoonte scaglia con forza mirabile la sua lancia contro il ventre cavo del cavallo, che risuona vibrando sotto il colpo: «Sic fatus validis ingentem viribus hastam / in latus inque feri curvam compagibus alvom / contorsit. Stetit illa tremens, uteroque percusso / insonuere cavae gemitumque dedere cavernae» (vv. 5053). Sembra quasi che nell’espressione contorquere hastam riecheggi quell’idea di torsione, di piegamento, di tensione che sarà propria delle membra marmoree del gruppo vaticano. Di grande efficacia fonosimbolica sono i vv. 52-53: l’allitterazione della vibrante rievoca alla mente il tremore della lancia confitta; l’isolamento del termine gemitum, incastonato in una struttura parallela in cui interviene la figura 5 etimologica, conferisce al verso grande potenza espressiva e un potenziale sonoro che sembra non esaurirsi in quel punto, quando il racconto rimane sospeso, interrotto dall’intrusione del rimpianto di Enea. Le parole dell’eroe sono caricate della consapevolezza ex post dell’inesorabilità, che a livello testuale si esprime attraverso un costrutto ipotetico irreale bimebre: «et si fata deum, et si mens non laeva fuisset/…Troiaque nunc staret, Priamique arx alta maneres» (vv. 54 e 56). Il polisindeto in variatio, il brusco passaggio dalla terza alla seconda persona segnalano l’accorata tensione di un desiderio che sa di rimpianto per una patria ormai perduta, ma che alle nostre orecchie consapevoli giunge come annuncio che altre saranno le mura che s’innalzeranno sopra le ceneri di quella Troia distrutta, unde altae moenia Romae (Aen. I, 7). L’intromissione di queste parole di Enea ha la funzione di stemperare nel rimpianto sofferto tutta la carica eversiva del gesto di Laocoonte che ancora sembra rimbombare sulla pagina, come l’alvo percosso dalla lancia. Segue ai vv. 57-198 l’improvvisa apparizione di Sinone che, con il suo discorso ingannevole cerca di persuadere i Troiani ad accettare il dono del cavallo, lasciato dai Greci per placare l’ira di Minerva, oltraggiata dal furto del Palladio: non accettarlo, si preme di far notare il malevolo Sinone, comporterebbe la rovina del regno di Priamo. La retorica manipolatoria del greco riesce a convincere la parte troiana, quando aliud maius multoque tremendum si offre agli occhi degli astanti, quasi a stabilire l’affidabilità delle parole di Sinone, a corroborarne la validità. Quello che segue è per i Troiani un segno inequivocabile, è il monito della vendetta divina. Col v. 199 infatti inizia la concitata descrizione della morte di Laocoonte e dei suoi figli: il verso, scandito fonicamente da un’insistita allitterazione della labiale, marcato lessicalmente da una serie aggettivale incalzante all’insegna della grandezza e della turbolenza dell’evento, indirizza l’attenzione del lettore e attira lo sguardo dei Troiani verso quell’altare dove Laocoonte, prossima vittima sacrificale, in qualità di sacerdote tratto a sorte da Nettuno, sta per immolare un grande toro: «Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos / solemnis taurum ingentem mactabat ad aras» (vv. 201-202. Ma ecco che a interropere la solennità del rito sopraggiungono dal mare tranquillo gemini angues, due serpenti immensis orbibus. Una battuta fuori campo ci consegna l’orrore di Enea nel raccontare quae ipse miserrima vidi(t) / et quorum pars magna fui(t) (Aen. II, 3-4). Enea è lì, è presente, assiste con orrore all’evento che, proprio in qualità di testimone diretto, egli può raccontare nei particolari più inquietanti che ora, alla corte cartaginese, gli si affacciano alla mente nella veste di segno incontrovertibile delle fine di Troia. Ben otto versi sono impiegati nella descrizione dell’avvicinarsi dei serpenti al lido: il loro moto di avanzamento è deciso, inesorabile; essi solcano i flutti con determinazione, scagliati come dardi infuocati ( e i loro occhi sono ardentis e suffecti sanguine et igni) verso il loro bersaglio: «Illi agmine certo / Laocoonta petunt» (vv. 212-13). La scena, inquietante, tocca qui il culmine della tensione: primum, l’abbraccio mortale implicat corpora duorum natorum e le loro membra (miseros artus) subiscono lo strazio dei morsi. L’attenzione è senz’altro posta sulla corporetità, sulla concretezza e consistenza di quei corpi avvinghiati dalle spire: non i loro volti sconvolti, non le loro grida e il loro terrore, ma i loro parva corpora e i loro miseros artus. 6 Post, è il turno di Laocoonte, che il sentimento paterno spinge a intervenire in soccorso dei figli brandendo le armi: anche lui viene afferrato con forza, anche lui è avvinto dalle spire stringenti, in una sorta di spirale vorticosa in cui i serpenti ormai «bis medium amplexi, bis collo» (v. 218). Interessante e forse funzionale a isolare al centro la figura di Laocoonte, a consacrarne l’importanza in questa scena, il fatto che egli sia inserito in un sistema fatto di coppie, scandito da elementi binari: i serpenti sono gemini (v. 203) e si dirigono verso la terra pariter (v. 205); due sono i figli (v. 213) avvinti dall’uno e dall’altro serpente (serpes uterque, v. 214); e sempre gemini poi essi si dirigeranno delubra ad summa (v. 225); ma solo è quell’ipsum (v. 216) avvinghiato da un doppio giro di spire che il testo moltiplica, di nuovo per due, mediante l’anafora asindetica al v. 218. Ancora al v. 220 quell’ille si staglia solo all’inizio del verso, nel tentativo estremo e disperato di tendere le mani per divellere nodos: un solo verso per rendere con efficacia lo sforzo, la tensione di quelle membra che sembrano non arrendersi sotto la stretta dei nodi, mentre al cielo si levano clamores horrendos. Ecco il grido di Laocoonte che irrompe in una scena tutta visiva e tattile e vi si accorpa in un tutt’uno: «simul manibus tendit… clamores simul horrendos ad sidera tollit» (vv. 220 e 222). Il Laocoonte di Virgilio grida nel contorcersi e, del resto, il grido è la naturale espressione del dolore fisico: come fa notare Lessing5, gli eroi greci, superiori in relazione alla loro azione, sono uomini veri nel sentire, temono e gridano, senza per questo compromettere la grandezza d’animo che li distingue. Sofferenza, grida e magnanimità si possono per la mentalità antica conciliare.6 E Virgilio insiste sulle grida, inserendo in chiusura dell’episodio una potente similitudine che con la sua irresistibile evidenza e densità paragona il sacerdote alla vittima: Laocoonte, che non a caso è stato presentato nell’atto di compiere un sacrificio a Nettuno, ora è divenuto a sua volta vittima designata e i suoi gesti, le sue grida vengono accostati a quelli del toro ferito che tenta di divincolarsi sotto i colpi della scure. Vittima e carnefice si scambiano i ruoli, ma se ci si sofferma sull’accostamento, si ha l’impressione che Virgilio abbia voluto suggerire di più: non è senza conseguenze il fatto di designare Laocoonte come vittima sacrificale e quindi innocente e necessaria insieme. La logica del sacrificio7 implica l’apertura di un orizzonte di necessità, guida lo sguardo del lettore, avvisato della dinamica progettuale sottesa agli eventi narrati, verso quei Lavina litora (Aen. I, 2-3) su cui hanno da sorgere le altae moenia Romae (I, 7). Ma agli occhi dei Troiani la morte di Laocoonte appare come monito, come punizione per il sacrilegio di aver violato il sacrum robur con quell’asta scagliata con forza: lo conferma loro l’acquattarsi dei serpenti ai piedi di Minerva oltraggiata, il loro acquietarsi, consumata la vendetta, al riparo sotto lo scudo del nume. La morte di Laocoonte vien così a caricarsi di almeno tre significati, in corrispondenza dei tre punti di vista che si fondono insieme in quella scena di morte, come le spire dei serpenti sui corpi: punizione divina per la 5 G.E. LESSING, Laocoonte, a c. di M. COMETA, Palermo, Aestethica, 2007, pp. 23-24. Le osservazioni di Lessing sono il frutto delle perplessità in lui suscitate dalle considerazioni di Winckelmann su questo punto. Egli afferma che se il Laocoonte di marmo non leva alcun grido di dolore durante il suo sacrificio, come invece avviene in Virgilio, è perché l’artista ha dovuto a sua volta sacrificare l’espressione deturpante del patimento fisico alla legge prima dell’arte, la legge della bellezza, e non perché l’assenza del grido, mitigato in un sospiro, fosse espressone di sngolare fermezza d’animo. (cfr. LESSING, Laocoonte,pp.27-28). 7 A questo proposito cfr. gli studi di RENÉ GIRARD, fra i quali Il capro espiatorio, Adelphi, 1986; Il Sacrificio, Cortina Raffaello, 2004; La pietra dello scandalo, Adelphi, 2004; Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia, Trasnseuropea, 2006. 6 7 lancia scagliata e conferma della verità delle parole di Sinone per i Troiani, presagio di fine imminente e dolore per l’errore del suo popolo da parte di Enea che racconta, e infine, per il lettore, sacrificio che, nel farsi segno (solo il primo di una serie), permette la fuga di Enea e la futura fondazione di Roma. La prefigurazione, nell’angoscia della morte del sacerdote troiano, della futura gloria e del futuro splendore di Roma, è senz’altro il motivo per il quale Virgilio ha riservato all’episodio una parte significatica e consistente del testo e una posizione incipitale rispetto allo svolgersi dei fatti. Lo sguardo è in definitiva sempre posto su quella Roma che il poema celebra: la tragedia personale di Laocconte, anche nei suoi aspetti più tremendi, è inevitabile allo sviluppo epico, tantae molis erat Romanam condere gentem (Aen. I, 33). 3) Plinio: l’opus omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum Relativamente scarse e poco accertate sono le notizie biografiche intorno a Gaio Plinio Secondo, originario di Como dove nacque nel 23 o 24 da famiglia di rango equestre. Fu amministratore, politico, uomo d’armi, ma anche dotto studioso di scienze naturali, ricercatore instancabile e autore di uno sterminato lavoro compilatorio. L’immagine di Plinio veicolata dalla tradizione è indubbiamente legata alle circostanze della sua morte, che il nipote racconta in una lettera inviata a Tacito (Ep. 6, 16), non senza intenti teatrali e agiografici: Plinio sarebbe morto il 24 agosto del 79 in seguito all’esposizione alle esalazioni tossiche del Vesuvio in eruzione, nel tentativo di soccorrere la popolazione di Stabia e per la curiosità suscitata dal prodigioso fenomeno. Il racconto sembra così consacrare allo stesso tempo le due componenti essenziali della figura di Plinio: da una parte la filantropia dell’uomo d’azione, il negotium del bonus civis, dall’altra l’impeto conoscitivo delle studioso, l’otium attivo dell’intellettuale. Proprio nei momenti di interruzione dell’impegno politico, Plinio potè dedicarsi alla sua attività di ricerca e alla composizione di un corpus enciclopedico di notevoli dimensioni: accanto alle opere tecniche, storiografiche, retorico-grammaticali, per noi quasi interamente perdute, l’attività dotta di Plinio è legata alla redazione della Naturalis Historia in 37 libri, dedicata all’imperatore Tito. Enciclopedia monumentale, la Naturalis Historia ha come oggetto centrale nel suo complesso la natura e la sua tassonomia, identificata come garanzia di conoscibilità del reale e come criterio fondante dei diversi aspetti assunti dalla natura in un percorso di stampo evoluzionistico. Al suo interno l’opera presenta un gruppo di tre libri di carattere storico-artistico, in cui l’indagine pliniana si volge verso le arti figurative, che rientrano a buon diritto nella trama classificatoria in quanto luoghi di trasformazione materiale: l’opera d’arte è per Plinio un prodotto in qualche misura naturale, derivato dalla trasformazione della materia. È bene notare che la trattazione storico-artistica non costituisce l’asse strutturante dell’itinerario pliniano, né le arti sono evocate come prodotti intellettuali. Il paradigma sotteso è sempre quello naturalistico per cui le arti non sono altro che manifestazioni materiali, soggette alla legge inesorabile del processo vitale. I libri storico-artistici sono, come accennato, tre: il XXXIV (aeris metalla) è consacrato alla scultura in bronzo; il 8 XXXV (honos picturae) è riservato alla pittura; infine, il XXXVI (naturae lapidum) è dedicato all’uso dei marmi. Cenni di toreutica e oreficeria sono posti in chiusura del libro XXXIII. Il passo pliniano sul Laocoonte è l’unica fonte classica che ricordi la statua: proprio per questo motivo il testo e la sua interpretazione sono divenuti oggetto di interesse da parte degli studiosi che in esso hanno cercato conferma alle loro ipotesi circa l’origine e la natura del gruppo scultoreo vaticano.8 In particolare, a più riprese è stata avanzata la tesi che il Laocoonte di marmo non sia un originale, ma una copia. Due sono le varianti di questa ipotesi: la prima, più antica e diffusa, vuole il Laocoonte copia marmorea di un originale bronzeo, pur mantendo fermo il fatto che ad esso si riferisca Plinio nel suo racconto;9 la seconda ipotesi, più recente, vuole che il gruppo vaticano non sia quello menzionato da Plinio, ma una sua copia più tarda o una versione più antica del tema che i summi artifices citati nel passo avrebbero visto e superato con la loro creazione: viene insomma avanzata l’idea di un “perduto” Laocoonte di Plinio, di cui non sono mancati tentativi di ricostruzione.10 Nota al commento di Plinio, Naturalis Historia, XXXVI, 37. Nel commento al passo pliniano sulla statua del Laocoonte si cercherà di dare spazio e di mettere in evidenza quei punti che sono stati oggetto di discussione critica, in particolare promuovendo la lettura contestuale fornita da Salvatore Settis e, di contro, riportando le interpretazioni concorrenti proposte da Bernard Andreae a sostegno della tesi da lui avanzata. La menzione della statua del Laocoonte s’inserisce nella Naturalis Historia alla fine di una lunga sezione del libro XXXVI dedicata alle varie qualità del marmo e alla rassegna dei suoi celebri scultori (parr. 1-14). Al par. 15 Plinio afferma la maggior antichità dell’arte marmoraria rispetto alla pittura e alla scultura in bronzo (hanc vetustiorem fuisse quam picturam aut statuariam): è questo un argomento, insieme con l’elogio della maestria tecnica degli scultori, che Plinio adduce come parametro encomiastico per una tecnica, quella della scultura in marmo, ampiamente riconosciuta inferiore alla scultura in bronzo nella tradizionale gerarchia dei materiali. Il contesto dell’intero passo è dominato dal motivo della marmoris gloria e dalla claritas artificum, elementi che secondo Settis devono guidare nella lettura e nell’interpretazione.11 Così ai parr. 1626, Plinio avanza un primo elenco in sequenza cronologica di famosi artisti che hanno praticato l’arte del marmo. La rassegna s’interrompe per lasciare spazio al lamento dell’autore sull’anonimità di molte sculture a Roma a causa della loro moltitudine; pur tuttavia, afferma Plinio, molte opere piacciono anche se anonime 8 SETTIS, Laocoonte, pp. 19-25. Questa tesi è stata ripresa in tempi recenti da BERNARD ANDREAE, Laokoon und die Gründund Roms, Mainz, 1988, trad. it. Laocoonte e la fondazione di Roma, Milano, 1989. I suoi studi hanno portato da un lato alla ricostruzione dell’assetto originale delle statue nella grotta di Sperlonga, parte di un’antica villa sulla costa laziale in cui è stato rinvenuto un complesso di sculture affini al Laocoonte per stile e per la presenza di un’iscrizione che attesta i nomi dei medesimi artisti del gruppo vaticano, dall’altro a una nuova lettura del Laocoonte, del suo contesto creativo e del significato del testo di Plinio. 10 In particolare, risale a un modello estremistico di «filologia archeologica» il tentativo di ricostruzione di tale “perduto” Laocoonte ad opera di G. HAFNER, Die Laokoon-Gruppen. Ein gordischer Knoten, Stuttgart, 1992. 11 SETTIS, Laocoonte, pp. 41-50. 9 9 (parr. 27-29). Il discorso ritorna poi su Scopas che era stato introdotto nella rassegna dei paragrafi prededenti, e qui indicato come uno degli artefici che lavorò ai rilievi del Mausoleo di Alicarnasso: Plinio insiste sull’idea di lavoro a più mani: «Scopas habuit pariter emulos…de quibus simul dicendum est, quoniam pariter caelavere Mausoleum» (par. 30). La collaborazione di più artisti all’opera impedisce tuttavia la sicura attribuzione delle diverse parti e quindi non permette di distribuire meriti individuali. A questo punto (par. 37) viene introdotta la menzione della statua del Laocoonte come caso esemplare della difficile gloria del nome dell’artista nel caso di capolavori che siano il risultato di un impresa collettiva: (37) Nec deinde multo plurium fama est, quorundam claritati in operibus eximiis obstante numero artificum, quoniam nec unus occupat gloriam nec plures pariter nuncupari possunt, sicut in Laocoonte, qui est in Titi imperatoris domo, opus omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum. Ex uno lapide eum ac liberos draconumque mirabiles nexus de consilii sententia fecere summi artifices Hagesander et Polydorus et Athenodorus Rhodii.(38)Similiter Palatinas domos Caesarum replevere probatissimis signis Craterus cum Pythodorus, Polydeuces cum Hermolao, Pythodorus alius cum Artemone; at singularis Aphrodisius Trallianus. Una descrizione breve che, nell’apparente immediatezza e semplicità dei termini, contiene una fitta trama di allusioni altamente significative, che concorrono a fare del Laocoonte il massimo exemplum della marmoris gloria che appunto si sta celebrando; un opus proprio per questo omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum. Dal passo si ricavano alcuni dati essenziali che verranno esaminati di seguito: 1) la collocazione dell’opera in Titi imperatoris domo; 2) il giudizio di eccellenza opus praeferendum; 3) l’opera fatta ex uno lapide; 4) l’opera realizzata de consilii sententia; 5) il nome e la provenienza dei summi artifices Hagesander et Polydorus et Athenodorus Rhodii. 1) La collocazione dell’opera in Titi imperatoris domo è un elemento che contribuisce ad assicurare la fama e la gloria del Laocoonte: la domus Titi e le Palatinae domus Caesarum del par. 38 costituiscono garanzia di qualità, gusto ed eccellenza delle opere che custodiscono. Il fatto che Plinio affermi di aver visto l’opera nella residenza imperiale di Tito, di per sé nulla dice di sicuro sulla committenza e sulla prima collocazione del gruppo: era un fatto usuale che i palazzi imperiali fossero affollati di sculture di varia natura e disparata provenienza. Tuttavia, nella formulazione della sua tesi sul Laocoonte come copia, Andreae ritine l’indicazione della collocazione come elemento a sostegno del fatto che l’opera sarebbe di committenza imperiale e, in particolare, sarebbe stata commissionata nel I secolo d. C. da Tiberio, impegnato, per ragioni ideologiche e di mitopoiesi personale, nel rilanciare il mito troiano. Tale commissione ufficile confermerebbe secondo Andreae la valenza pregnante, marcatamente politica del tema.12 12 SETTIS, Laocoonte, pp. 6-9; ANDREAE, Laokoon, pp.133-80. 10 2) Il giudizio di eccellenza espresso da Plinio è da leggersi contestualmente all’incomparabile pregio tecnico e alla qualità artistica dell’opera: nel contesto di un passo tutto inteso a celebrare la nobiltà dell’ars marmoraria, Plinio evidenzia che il Laocoonte, pur essendo una scultura in marmo, quindi tradizionalmente subordinata nella gerarchia dei materiali al bronzo, è preferibile ad ogni altra opera, sia pittorica, sia scolpita in bronzo. Sembrerebbe questa la lettura più immediata del dettato pliniano, sebbene a tale giudizio assoluto di eccellenza, Andreae contrappone una lettura che relativizza il giudizio tra i vari Laocoonte eseguiti fino ad allora in marmo e in bronzo, onde sostenere la tesi delle copia. 3) Il punto più discusso è la traduzione e interpretazione della locuzione ex uno lapide. Infatti se si interpreta la locuzione pliniana nel suo primo, e più ovvio, significato di "fatta di un solo blocco di marmo", la definizione non si attaglierebbe più al Laocoonte vaticano, che è scultura realizzata in più pezzi, poi assemblati insieme. Ma l'occorrenza della firma degli stessi artisti citati da Plinio sulla Scilla di Sperlonga e le notevoli consonanze stilistiche tra le sculture di quel ciclo e il Laocoonte vaticano portano alla conclusione che l'opera citata da Plinio sia con tutta probabilità da identificare con il gruppo rinvenuto a Roma nel 1506. L'espressione ex uno lapide va quindi interpretata diversamente rispetto alla prima, e più piana, lettura. Settis mette in gioco il confronto con altre ricorrenze di locuzioni analoghe in riferimento a opere di scultura, nella trattatistica antica e poi moderna.13 Del resto, lo stesso Plinio in altri loci dell’opera ricorre per quattro volte, in successione, all’espressione, riferendola a opere di grande complessità compositiva per celebrare la maestria tecnica degli scultori in marmo che, come accennato, costituisce il contesto entro il quale s’inserisce la menzione del Laocoonte.14 L'espressione ex uno lapide secondo Settis costituirebbe un topos elogiativo ben documentato che non va preso alla lettera; sottolineerebbe in definitiva l'alta qualità tecnica del lavoro e la grande maestria dei tre artisti che scolpiscono un'opera compatta, all'apparenza tutta omogenea e integra, tanto perfetta da sembrare realizzata in "un solo blocco lapideo". Ex uno lapide rimarcherebbe quindi, con l'enfasi del ricorso al topos, l'accento posto da Plinio sulla compattezza e sulla perfezione dell'opera, in cui l'intervento delle mani diverse dei tre artisti, ma anche le connessioni e le commessure tra gli elementi, sono dissimulati ad arte, per conferire all’opera “un’apparenza monolitica”. Secondo Settis, sarebbe questa un' ulteriore conferma del fatto che Plinio, nel contesto in cui occorre l'espressione – un brano, come si è visto, tutto inteso ad argomentare la nobiltà della scultura in marmo – anche mediante l'espressione ex uno lapide, investe enfasi retorica non già per decantare una copia, ma per evidenziare l'eccellenza dell'arte di Atanadoro, Agesandro e Polidoro, "summi artifices" di un'opera originale in marmo, capolavoro di altissimo pregio tecnico e di sommo valore artistico. Secondo Andreae invece indicherebbe il materiale con cui l'opera fu realizzata: copia lapidea, letteralmente "tutta di marmo", che presuppone però un originale di altro materiale, con ogni probabilità il più prestigioso bronzo. La locuzione 13 14 SETTIS, Laocoonte, pp. 79-81. SETTIS, Laocoonte, p. 42, n. 3. 11 pliniana contribuirebbe dunque a confermare l'ipotesi dell'esistenza di un perduto originale più antico: la scultura bronzea, rodio-ellenistica che Andreae considera il modello per il Laocoonte replicato in marmo da Atanadoro, Agesandro, Polidoro. 4) Anche la locuzione de consilii sententia è oggetto di interpretazioni diverse. Secondo Andreae è da interpretare come "per decisione del consilium": si tratta di una versione storicamente consolidata e diffusa del passo pliniano, che vede nel vocabolo consilium il riferimento a un organo politicodecisionale di tipo civico (Senato o Boulè); questa traduzione viene però ripresa da Andreae anche nel senso di consilium principis, ovvero come possibile indicazione del collegio dei consiglieri dell'imperatore Tiberio. Secondo Settis, che prende in considerazione altre occorrenze dell'espressione in altri passi pliniani e di altri autori latini,15 Plinio sottolineerebbe ancora l'eccezionale coerenza e compattezza stilistica del Laocoonte. Decisivo secondo Settis è il contesto del brano, e cioè il fatto che la menzione dell'opera, con questa specificazione, si trovi in una sequenza testuale che dagli scultori singoli passa a quelli che lavorarono in collaborazione, a più mani: l'espressione de consilii sententia è dunque da intendere come: "in [stretta] collaborazione e di comune accordo [fra i tre diversi autori]". 5) Un altro punto oggetto di discussione critica è la definizione dei tre autori come summi artifices: secondo Andreae il termine artifices potrebbe riferirsi anche a dei copisti (ché tali sarebbero, secondo lo studioso, i tre artisti nominati da Plinio e attivi a Sperlonga); secondo Settis la definizione pliniana può intendersi solo in un senso: affatto improbabile è un'accezione dell'espressione summi artifices nel senso di 'i più bravi copisti' e, d'altro canto, la presenza della firma degli stessi artisti a Sperlonga comprova che non di copisti, ma di veri e propri 'autori' si tratta. Inoltre, grazie alla preziosa indicazione dei nomi degli scultori, sulla base di altre testomonianze epigrafiche che ne attestano l’attività, oltre che a Sperlonga, anche a Rodi, è stato possibile ricostruire una plausibile datazione del gruppo su base prosopografica, che Settis stabilisce tra il 40-20 a. C. Sulla scorta di varie ricostruzioni genealogiche16 è possibile sostenere che Atanodoro e Agesandro siano contemporanei, attivi a Rodi tra il 50-40 a. C. e che forse siano addirittura parenti, data la pratica delle botteghe rodie in età ellenistica di costituirsi come collaborazioni di membri familiari, con sporadici contributi esterni (questo spiegherebbe la presenza del terzo autore, Polidoro). I tre artifices, che collaboravano a Rodi, si sarebbero verosimilmente trasferiti a Roma in seguito alla crisi economica e alla fine dell’attività delle botteghe all’indomani del saccheggio ad opera di Cassio nel 43-42 a. C. Proprio a Roma avrebbero eseguito tra il 40-20 a. C. l’opus praeferendum. 15 Cfr. i loci paralleli citati da SETTIS, Laocoonte, pp. 78-79: in particolare il riferimento è a espressioni analoghe presenti in Cicerone, Plinio il Giovane e Seneca. 16 SETTIS, Laocoonte, pp. 27-40. 12 4) Petronio e l’ékfrasis della Troiae halosis La figura e l’opera di Petronio sono da sempre oggetto di una vivace querelle critica:17 le scarse e spesso controverse notizie documentarie non consentono una pacifica identificazione dell’autore del Satyricon con il Petronio protagonista della memorabile pagina tacitiana (Ann. 16, 18-19) in cui lo storico fornisce un magistrale ritratto di Petronio, inizialmente tratteggiato all’insegna del carattere neghittioso e molle della vita, poi ampiamente riscattato dall’energia con cui più tardi egli seppe gestire il proconsolato in Bitinia e ricoprire il consolato a Roma. Una volta esaurito il pubblico mandato, Petronio attirò l’attenzione della dissoluta corte neroniana, dove divenne elegantiae arbiter, ma anche bersaglio delle invidie di corte, che lo fecero cadere in disgrazia presso l’imperatore: vittima della seconda ondata delle repressioni neroniane (66 d. C.) dopo la scoperta della congiura ordita da Calpurnio Pisone l’anno precedente, Petronio, insieme ad altri, fu costretto al suicidio, atto che, nel ritratto di Tacito, si rivela come manifestazione estrema della libertà di non procrastinare oltre l’oscillazione tra speranza di condono e timore per la conferma della condanna. Come gesto di estrema protesta, Petronio inviò a Nerone un testamento contenente la minuziosa descrizione delle dissolutezze sessuali, con tanto di nomi di amasii e donnine, che l’imperatore aveva esperito. La possibilità di identificare il Petronio elegantiae arbiter di Tacito con il Petronio Arbitro della tradizione del Satyricon non è tuttavia suffragata da testimonianze che esplicitino tale sovrapposizione, sebbene la sovrapponibilità delle due figure continui a sembrare la soluzione più affascinante, ma anche più corretta filologicamente, tra le altre ipotesi che sono state avanzate. Questa tesi, oltre che essere affidata alle suggestioni indotte dalla descrizione di Tacito, improntata alla forza d’animo di un cortigiano e alla raffinatezza di una vita inimitabile in consonanza con il sistema di idee su cui poggia il Satyricon, è suffragata anche da dati di evidenza interna che suggeriscono per l’opera una datazione neroniana. La trama del Satyricon, che per la parte superstite è ambientato in Italia, è costruita sulle vicende dei giovani protagonisti, Encolpio e Gitone, due ragazzi di vita in costante peregrinazione nel mondo sordido e opulento dell’Italia imperiale. In un universo narrativo in cui si fondono i materiali più disparati emergono i richiami alla realtà contemporanea, a un tessuto storico-sociale fatto di liberti arricchiti e tracotanti, studenti sbandati, intellettuali velleitari, parassiti e ninfomani. Una mescolanza insolita di sesso e avventure, dibattiti e aneddoti, arte culinaria e mondanità. La narrazione è orientata nella prospettiva dell’Io narrante, Encolpio, che è insieme personaggio, protagonista e narratore. Contenuti e forma fanno ascrivere il Satyricon al genere del “romanzo” prosimetro, sebbene tale definizione, peraltro anacronistica, non esaurisca la portata di un’opera che si pone, nei confronti della tradizione letteraria latina, in posizione del tutto eccentrica e originale, eludendo i canali dei generi consacrati. Il Satyricon è un’opera di carattere inedito: non esiste 17 Per la ricostruzione della figura di Petronio, i caratteri e la trama dell’opera, nonché per le note relative al testo, cfr. PETRONIO ARBITRO, Satyricon, a c. di A. ARAGOSTI, Milano, BUR, 1995. 13 infatti nell’antichità un testo narrativo costruito sull’alternanza di prosa e versi. Nel tessuto prosastico della narrazione, i versi sono inseriti con tecniche varie, secondo le molteplici possibilità offerte dal genere: talora sono pronunciati esplicitamente dai personaggi; in altri casi, pur non essendo annunciati da alcuna formula, costituiscono l’evidente prosecuzione di un discorso avviato dal personaggio e improvvisamente affidato alla poesia; altrove, il brano poetico sembra sorgere dalla narrazione come una sorta di commento indiretto che funga da supporto argomentativo. Il componimento che descrive un quadro raffiguarnte la presa di Troia (Satyricon 89), recitato dal poeta Eumolpo sullo sfondo di una pinacoteca napoletana, appartiene alla prima tipologia: «Sed video te totum in illam haerere tabula, quae Troia halosin ostendit. Itaque conabor opus versibus pandere». Segue, liberamente adattando nella forma del senario giambico il dettato virgiliano del II libro dell’Eneide, la descrizione della costruzione del cavallo di legno, l’eccitazione dei Troiani alla partenza della flotta greca, il vano tenativo di Laocoonte di smascherare l’insidia, l’uccisione sua e dei suoi figli e la presa della città. Sebbene i materiali della lunga ékfrasis poetica siano quelli virgiliani, la fonte letteraria diretta va ricercata piuttosto nella fitta produzione di opere riguardanti la saga e l’epilogo di Troia, che caratterizza l’età giulioclaudia e neroniana in particolare.18 A parte le due traduzioni iliadiche incompiute, in età preneoterica, da Gn. Mazio e Ninnio Crasso, si ha notizia di una traduzione dei poemi omerici compiuta da Azzio Labeone; una parafrasi latina di Omero aveva fatto Polibio, liberto di Claudio e ancora all’età giulio-claudia va ricondotta una compilazione dal titolo Ilias Latina. Secondo alcune testimonianze poi, Lucano scrisse un Iliacon e lo stesso Nerone fu autore di una Halosis Ilii, che egli volle declamare in teatro: secondo l’ipotesi di Aragosti, tale circostanza avvicinerebbe, all’insegna della polemica diretta, il poemetto di Eumolpo, scritto in senari, metro tipico del teatro, all’opera neroniana. Il testo del Satyricon modula la descrizione dell’episodio di Laocoonte secondo la scansione, già in Virgilio, dei due momenti cruciali:19 il lancio dell’asta contro il ventre del cavallo e il monstrum, l’aliud maius multoque tremendum virgiliano, l’arrivo dei serpenti e la misera morte dei figli e di Laocoonte stesso. Al primo momento, nel testo di Petronio è dedicato uno spazio più ampio che tuttavia non comprende il discorso ammonitore del sacerdote, che qui si limita a «replere clamore vulgus». A un primo tentativo fallito di colpire il cavallo con la lancia («Fata sed tardant manus»), segue l’atto probatorio con la scure: «altaque bipenni latera pertemptat», questa volta con mano più ferma: «confirmat invalidam manum». Sembra così svigorito dal volere dei Fati quell’impeto con il quale il Laocoonte virgiliano «validis ingentem viribus hastam /…contorsit» (Aen., II, 50 e 52): il Laocoonte cantato da Eumolpo devo sforzare una mano che è invalidam, di contro alle validae vires del Laocoonte raccontato da Enea. Il secondo momento, il dramma dell’attacco e della morte, segue in rapida successione, introdotto da uno stilema, carico di mostruosa sospensione cataforica, presente anche in Virgilio: «Ecce alia monstra». Anche qui i serpenti sono due, 18 19 PETRONIO, Satyricon, p. 352, n. 261. Cfr. il testo latino qui antologizzato per esteso, p. 18. Sono evidenziate le parti oggetto del commento. 14 «angues orbibus geminis», espressione che con la variatio dell’ipallage ricalca quella virgiliana «gemini…immensis orbibus angue» (Aen., II, 203-204). Maggior attenzione rispetto a Virgilio è dedicata alla morte dei «gemina nati pignora / Lauconte», di cui viene sottolineato in più modi il sentimento di pietas fraterna, di unione stretta dal vincolo gemellare e di mutuo soccorso: «Parvulas illi manus/ ad ora referunt, neuter auxilio sibi, / uterque fratri; transtulit pietas vices / morsque ipsi miseros mutuo perdit metu». Efficace l’effetto sonoro di quest’ultimo verso, così marcato dall’allitterazione e dal prevalere di vocali cupe, che contribuiscono a evocare la tragica scena di morte. Segue nel testo l’intervento del parens, ad accrescere il funus liberum ormai consumatosi. Laocoonte di nuovo è presentato sotto il segno della infirmitas, è definito «infirmus auxiliator». Un Laocoonte che è invalidus et infirmus nella misura in cui ogni suo gesto di intervento assume il valore di vana rivolta contro un destino già scritto. La sua morte si risolve in poco più di un verso, senza nulla concedere alla tensione delle membra, ai clamores horrendi e al pathos dell’intensa descrizione virgiliana: «Invadunt virum / iam morte pasti membraque ad terram trahunt». Quelle membra tese, avvolte dall’abbraccio mortale delle spire, giacciono ora a terra inter aras di una Troia peritura che, in forza di questa profanzione, per prima cosa ha perduto i propri dèi. Appendice Virgilio, Eneide II, 40-56 e 199-233. Primus ibi ante omnis magna comitante caterua 40 Laocoon ardens summa decurrit ab arce, et procul 'o miseri, quae tanta insania, ciues? creditis auectos hostis? aut ulla putatis dona carere dolis Danaum? sic notus Vlixes? aut hoc inclusi ligno occultantur Achiui, 45 aut haec in nostros fabricata est machina muros, inspectura domos uenturaque desuper urbi, aut aliquis latet error; equo ne credite, Teucri. quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis.' sic fatus ualidis ingentem uiribus hastam 50 in latus inque feri curuam compagibus aluum contorsit. stetit illa tremens, uteroque recusso insonuere cauae gemitumque dedere cauernae. et, si fata deum, si mens non laeua fuisset, impulerat ferro Argolicas foedare latebras, 55 Troiaque nunc staret, Priamique arx alta maneres. Hic aliud maius miseris multoque tremendum obicitur magis atque improuida pectora turbat. Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos, sollemnis taurum ingentem mactabat ad aras. ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta (horresco referens) immensis orbibus angues incumbunt pelago pariterque ad litora tendunt; pectora quorum inter fluctus arrecta iubaeque sanguineae superant undas, pars cetera pontum pone legit sinuatque immensa uolumine terga. fit sonitus spumante salo; iamque arua tenebant ardentisque oculos suffecti sanguine et igni sibila lambebant linguis uibrantibus ora. 200 205 210 15 diffugimus uisu exsangues. illi agmine certo Laocoonta petunt; et primum parua duorum corpora natorum serpens amplexus uterque implicat et miseros morsu depascitur artus; 215 post ipsum auxilio subeuntem ac tela ferentem corripiunt spirisque ligant ingentibus; et iam bis medium amplexi, bis collo squamea circum terga dati superant capite et ceruicibus altis. ille simul manibus tendit diuellere nodos 220 perfusus sanie uittas atroque ueneno, clamores simul horrendos ad sidera tollit: qualis mugitus, fugit cum saucius aram taurus et incertam excussit ceruice securim. at gemini lapsu delubra ad summa dracones 225 effugiunt saeuaeque petunt Tritonidis arcem, sub pedibusque deae clipeique sub orbe teguntur. tum uero tremefacta nouus per pectora cunctis insinuat pauor, et scelus expendisse merentem Laocoonta ferunt, sacrum qui cuspide robur 230 laeserit et tergo sceleratam intorserit hastam. ducendum ad sedes simulacrum orandaque diuae numina conclamant. Petronio, Satyricon 89 Sed video te totum in illa haerere tabula, quae Troiae halosin ostendit. Itaque conabor opus versibus pandere: Iam decuma maestos inter ancipites metus Phrygas obsidebat messis, et vatis fides Calchantis atro dubia pendebat metu, cum Delio profante caesi vertices Idae trahuntur, scissaque in molem cadunt robora, minacem quae figurarent equum. Aperitur ingens antrum et obducti specus, qui castra caperent. Huc decenni proelio irata virtus abditur, stipant graves recessus Danai et in voto latent. O patria, pulsas mille credidimus rates solumque bello liberum: hoc titulus fero incisus, hoc ad fata compositus Sinon firmabat et mendacium in damnum potens. Iam turba portis libera ac bello carens in vota properat. Fletibus manant genae, mentisque pavidae gaudium lacrimas habet. Quas metus abegit. Namque Neptuno sacer crinem solutus omne Laocoon replet clamore vulgus. Mox reducta cuspide uterum notavit, fata sed tardant manus, ictusque resilit et dolis addit fidem. Iterum tamen confirmat invalidam manum altaque bipenni latera pertemptat. Fremit captiva pubes intus, et dum murmurat, roborea moles spirat alieno metu. Ibat iuventus capta, dum Troiam capit, bellumque totum fraude ducebat nova. Ecce alia monstra: celsa qua Tenedos mare dorso replevit, tumida consurgunt freta undaque resultat scissa tranquillo minor, qualis silenti nocte remorum sonus 16 longe refertur, cum premunt classes mare pulsumque marmor abiete imposita gemit. Respicimus: angues orbibus geminis ferunt ad saxa fluctus, tumida quorum pectora rates ut altae lateribus spumas agunt. Dat cauda sonitum, liberae ponto iubae consentiunt luminibus, fulmineum iubar incendit aequor sibilisque undae tremunt. Stupuere mentes. Infulis stabant sacri Phrygioque cultu gemina nati pignora Lauconte. Quos repente tergoribus ligant angues corusci. Parvulas illi manus ad ora referunt, neuter auxilio sibi, uterque fratri; transtulit pietas vices morsque ipsa miseros mutuo perdit metu. Accumulat ecce liberum funus parens, infirmus auxiliator. Invadunt virum iam morte pasti membraque ad terram trahunt. Iacet sacerdos inter aras victima terramque plangit. Sic profanatis sacris peritura Troia perdidit primum deos. 17