Hermaphrodito, di Alberto Savinio - Atlante digitale del `900 letterario

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Hermaphrodito, di Alberto Savinio - Atlante digitale del `900 letterario
Hermaphrodito, di Alberto Savinio
Atlante digitale del '900 letterario
Bibliografia
•
Alberto Savinio,
Hermaphrodito,
Torino, Einaudi,
1974 (con nota di
Giancarlo Roscioni)
•
Walter Pedullà,
Alberto Savinio:
scrittore ipocrita e
privo di scopo,
Cosenza, Lerici,
1979
•
Silvia Pegoraro, La
metamorfosi e l’
ironia: Saggio su
Alberto Savinio,
Bologna,
Pendragon, 1991
Contributo
Valeria Marrazza, V I (L.C.
Virgilio, Roma)
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«Hermaphrodito non è un romanzo, benché vi siano più
avventure che in un romanzo; non è un libro di poesie
benché vi sia più fantasia lirica che nella maggior parte
dei libri di versi che si vedono in giro nel dominio di casa
Savoia; non è neppure un diario di spunti e capricci […]; e
neanche una scompigliata sacchetta di frammenti […]. È
un libro che sembra un emporio levantino, un Bazar di
tappeti e d’ottoni. Ma nel disordine c’è un ordine, nella
stravaganza una ragione, nelle dissonanze un’armonia».
(G. Papini, in «Il Resto del Carlino», 1 Gennaio 1919)
Hermaphrodito rappresenta la prima opera dell’artista
Alberto Savinio ed è stata pubblicata per la prima volta
nelle edizioni della rivista fiorentina «La Voce» del 1918
sulla quale erano già usciti, tra il 1916 e il 1917, molti dei
capitoli che l’avrebbero composta, come Epoca
Risorgimento (31 maggio 1916), Il Papa in guerra (30
giugno 1916), “Frara” città del Worbas, (31 ottobre
1916), L’ ora ebrea, La guerra, Drame de l’après-midi
entre deux saisons (31 dicembre 1916).
La scelta del titolo Hermaphrodito preannuncia un testo
dalla valenza simbolica, ambigua e trasgressiva: il
termine, infatti, è la chiave di lettura dell’intera opera ed
è emblema della poetica saviniana. La figura mitologica
dalla duplice sessualità, incarnazione dell’ ambiguo,
dell’equivoco, «luogo di transizione di ogni opposizione,
dio della precarietà e della crisi » (Pedullà) è anche
simbolo del doppio come perfezione, dell’ uomo-donna del
mito platonico, che è perfetta compenetrazione tra virilità
ed effeminatezza e principio di armonia. Savinio predilige
l’equivoco in opposizione a qualsiasi visione univoca del
reale, proponendo una verità che è molteplice e
contraddittoria, che va oltre l’apparenza e non si attiene
ad alcuna convenzione: una verità che spesso fa di
Savinio un ipocrita, parola che, come lui stesso afferma,
non lo offende affatto, poiché ipocrita è «colui che
esamina da sotto, chi intende il tutto, penetrando nel
tutto».
Il sottotitolo della prima parte di Hermaphrodito è
Microscopio-Telescopio: entrambi sono strumenti della
deformazione, alterano le proprietà della vista dilatando e
rimpicciolendo le immagini. Così si propone di fare
l’autore attraverso l’opera: penetrare a fondo ciò che
Hermaphrodito, di Alberto Savinio
all’occhio umano risulta troppo lontano o troppo piccolo
per poterlo conoscere e allo stesso tempo distorcere la
normale concezione delle cose, dare accesso a nuovi
immaginari, spesso surreali e onirici.
Il libro si compone di due parti: la prima si apre con il già
noto poema drammatico Les chants de la mi-mort
pubblicato nel 1914 sull’ultimo numero della rivista «Les
soirées de Paris» e prosegue con i testi sotto il titolo
Hermaprhodito, Microscopio-Telescopio: Canti della
mezza-morte, Dramma della città meridiana, Epoca
Risorgimento, Il papa in guerra, “Frara” città del Worbas,
La guerra, L’ora ebrea, Dramma pomeridiano fra due
stagioni, Finale. Seguono poi i racconti Dio-ruotalibera, Il
rocchetto di Venere, Un bagno russo, Atlas, Ferrarapartenza e La festa muraria. La seconda parte si compone
di tre testi: Isabella Hasson, La partenza dell’ Argonauta e
L’orazione sul tetto della casa. L’ opera nasce
dall’assemblaggio di articoli, frammenti di memorie,
racconti, in parte in prosa in parte in poesia, già realizzati
precedentemente ma pubblicati singolarmente e in tempi
diversi. L’ autore decise poi di metterli assieme in un
progetto unitario che tuttavia risulta quasi irrealizzato,
lasciando i testi accostati l’uno all’altro come privi di un
ordine formale, svincolati da qualsiasi forma costrittiva e
liberi di esprimersi nella loro pluralità di significati e
interpretazioni. Tuttavia Savinio non si lascia mai
trascinare dalla narrazione o dalle aspettative del lettore:
il suo «è spesso un racconto spolpato di tutto ciò che va
crescendo intorno all’ osso per necessità di sviluppo che
non ci si può illudere di bloccare dentro i significati e le
mosse facili da controllare». (Pedullà)
Il mondo dell’inconscio e dell’onirico è costantemente
presente nella poetica saviniana a partire da Les chants
de la mi-mort: qui la mezza-morte è concepita come uno
stato tra il sonno e la veglia che genera nuovi scenari e
nuove realtà, visioni oniriche che permettono di vedere
oltre, svelando l’inaccessibile. Lo stesso Savinio scrive:
«Durante il sonno - che alcuni vogliono una mezza-morte
– io vivo, e anzi in modo più precipitoso del reale»; e
ancora nel finale: «Buona Terra, a te e ai tuoi destini
ripenso, di sera, allorché, spossato, già m’affaccio ai sogni
felici che riuniscono le più grandi impossibilità».
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Preludio e Dramma della città meridiana sono testi in
francese con frammenti in italiano sulla scia de Les chants
de la mi-mort. Ad essi seguono altri brevi racconti che
costituiscono riflessioni, narrazioni di esperienze vissute,
testi chiave per comprendere la poetica saviniana: in
Papa in guerra l’autore si interroga sul ruolo della
religione nella vita moderna e dichiara ancora una volta la
grandezza del sogno, che assume valore assai più
profetico e spirituale della religione; sonno e morte, Ypnos
e Thanatos, sono per Savinio suoi «amici inseparabili»,
legati inscindibilmente da uno stesso destino.
Il tema dell’ equivoco è il pilastro sul quale si costruisce Il
rocchetto di Venere, nel quale il protagonista,
fraintendendo la richiesta avanzatagli dalla donna con cui
giace a letto (in realtà una prostituta) di divenire il suo
magnaccia, si consuma in rapporti passionali di intenso
piacere pensando di soddisfare i desideri dell’amata.
La seconda parte si compone di testi più lunghi e
“romanzati”: Isabella Hasson racconta la storia di
Alberto , soldato che si innamora di una giovane ebrea
dopo averla salvata dal grande incendio che aveva colpito
la città di Salonicco; questa viene dipinta come «città
inquietante» che in un’atmosfera quasi onirica rivela tra le
fiamme una realtà grottesca, animata da presenze
mostruose e misteriose.
Segue poi La partenza dell’ Argonauta, la cui storia è la
prosecuzione di Ferrara-partenza, nella quale era narrata
la partenza del soldato Alberto dalla città di Ferrara; qui si
narrano invece le avventure del protagonista diretto a
Salonicco con il suo reparto, una volta lasciata la città
italiana. L’impresa mitica di Giasone e degli argonauti alla
ricerca del vello d’oro diviene qui un viaggio dai toni più
burleschi, ma animato dallo stesso spirito avventuriero e
voglioso di inoltrarsi in mondi fantastici. Il protagonista si
imbatte in personaggi grotteschi, in terre desolate e
bruciate dal sole come quelle pugliesi («case bianche
calcinate, orti strozzati da siepi di fichi d’india, ulivi grigi
ritorti come donne in calore, terre gialle (..) quelle finestre
anguste come feritoie, quelle graticole che gridano la
gelosia saracena e, sopra tutto, la fosca fatica del sole, la
luce che sbaraglia la sua stessa luce.») in mari insidiosi e
nemici come il Mediterraneo, che egli descrive «grigio,
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pesante, polveroso» e definisce «mare del suo destino»:
«su di esso vedo scivolare il fantasma del dramma che
dilania i continenti, sul suo dorso perfido vedo pesare il
greve passo dell’umanità nemica».
Gli effetti che tali visioni hanno sul protagonista vengono
spesso riportate dall’autore con estrema accuratezza
nonché con sarcasmo, manifestando un interesse quasi
infantile verso gli stimoli più bassi e naturali e i processi
fisiologici dell’ uomo: «non mi schivo dall’ammettere
l’impressione un po’ brusca che l’aspetto di quel mare mi
produce – impressione che, nelle sue conseguenze
patologiche, mi si manifesta con freddo intenso nelle reni,
prepotente stimolo di orina e sensibile rilassamento
intestinale con indirizzo diarreico.»
Anche qui continuo è il riferimento al mondo del sogno ,
spazio sacro e indispensabile nel quale il protagonista non
rinuncia mai di immergersi, per recarsi negli spazi più
reconditi dell’inconscio e accedere a verità sempre nuove
e inaspettate.
L’ultimo brano, L’orazione sul tetto della casa, descrive
l’epilogo del viaggio del protagonista che giunge a
Salonicco, la «città ebrea»; centrale è qui la figura
dell’ermafrodito, creatura tanto strana quanto profetica,
che parla al mondo dal tetto della casa che si è appena
costruita, casa che il protagonista non può togliersi dalla
testa poiché in essa vi è la grandezza dell’ordine quadro,
«sistema eccelso della grazia intelligente».
Spirale e quadrato sono forme costantemente richiamate
nell’intera opera in contrapposizione alla figura del
cerchio, che immobile torna sempre su se stesso: le
molteplici facce del quadrato e il vorticoso andare della
spirale verso l’ignoto, il vuoto e l’aperto divengono le
forme di un’opera che «si giudica e si distrugge via via
che si sviluppa» (Pegoraro) senza fornire alcuna
conoscenza salda e duratura, a prova di un Savinio
socratico che “sa di non sapere” e che fa dell’ignoranza «il
fine supremo della cultura».
«Hermaphrodito è un libro splendente. È vero: anche
Savinio ha compiuto il “gesto di scriverlo”. Ma in lui la
gestualità è stata la scelta di una poetica; scelta realizzata
da un uomo per cui il primum era l’espressione, e dunque
le “regole” scandalizzanti della gestualità rientravano in
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un sistema stilistico. […] Ma tutto si salva nell’ invasata,
febbrile, arida e infine accattivante inventività linguistica,
in cui il succedersi di “analogie” e di “opposizioni” ha una
rapidità e una inclinazione da disorientare piacevolmente,
fino all’entusiasmo». (Pasolini, Descrizione di descrizioni,
p .434)
Ciò che caratterizza maggiormente l’ opera saviniana è la
scrittura, unica nel suo genere: Savinio si dimostra un
abile manipolatore del linguaggio e lo rende volutamente
complesso, criptico, enigmatico, a volte incomprensibile,
quasi come se il suo intento fosse rendere la lettura
insidiosa, difficile da digerire, per nulla scorrevole e piana.
A volte quasi fastidiosa. Il lettore viene disorientato da
molteplici artifici: innanzi tutto il plurilinguismo, che vede
in una fitta compresenza termini in francese, inglese,
latino, russo, greco e neogreco, con stralci di dialetti
(romanesco, milanese e siciliano) e influenze della lingua
serba, turca, ebraica, spagnola. A fianco di una lingua
tanto varia egli accosta un’ampia gamma di neologismi,
anfibologie e neoformazioni e frequenti freddure, tipiche
di quella disposizione ironica e giocosa che è al contempo
dissacrante, dissolvente e autodistruttiva. A proposito
dell’ironia Silvia Pegoraro scrive: «L’ironia saviniana trova
nell’ossimoro lo strumento primario di creazione in un
perpetuo dualismo. La figura dell’ androgino ne è simbolo
e accompagna tutto il suo lavoro; ermafrodito è una
figura continuamente sospesa tra sogno e realtà come in
uno stato di mezza morte o di vita nella morte. L’ironia
svela l’importanza della figura dell’ altro; ma così facendo
l’uomo si allontana dalla Natura e dall’illusione di unicità
che la coscienza propone. In pratica nel processo di
sdoppiamento l’Io dà vita ad un gioco autoironico, che
permette l’adattamento al nuovo disincanto e alla presa di
coscienza del pluralismo metamorfico della realtà.
Savinio utilizza l’ ironia in ogni sua creazione artistica,
mascherando con essa la realtà al di là della realtà
cosciente. Il suo linguaggio è sempre diviso da un
metalinguaggio, in un continuo smascheramento dell’
inconscio e allo stesso tempo nel mascheramento della
realtà medesima, alla stregua di quel fine ultimo
onnipresente di «dare forma all’ informe, coscienza
all’incosciente». Quella di Savinio diventa quindi una
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“meta-ironia”, che non permette mai alla narrazione di
prendere il sopravvento ma porta l’occhio dello scrittore a
essere vigile e distaccato, così da far inoltrare il lettore in
un mondo fantastico, «sottoponendolo ad uno spettacolo
fittizio, o così almeno in apparenza, per intervenire poi in
qualsiasi momento e straniare quel mondo surreale da lui
medesimo creato».
Altro tratto molto marcato nella scrittura saviniana è la
tendenza alla divagazione: l’opera è spesso interrotta da
frequenti digressioni e sembra non seguire mai un’unica
logica, una strada univoca e ben tracciata; il discorso si fa
complesso, contraddittorio, carico di sottotesti e man
mano che prosegue erge attorno a sé una struttura
aperta, che trasporta nella dimensione dell’inconscio e
dell’illogico; di qui il rimando alla figura della spirale con il
suo andamento policentrico e vorticoso.
Così si esprime Savinio riguardo la sua prima opera,
enigmatica e unica nel suo genere, tanto quanto l’autore
stesso: «Nessun altro libro, quanto Hermaphrodito,
respira quell’aria libera, canta quel canto scatenato; onde
a parte le sue profonde qualità poetiche, Hermaphrodito è
un segno nel tempo letterario: un libro “storico”. Tutto
che ho fatto di poi, è formato o in germe in
Hermaphrodito: una lunga variazione su “quel” tema. Lo
dico e lo ripeto. Perché questa è la riprova che “io non ho
tradito”».
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