Furet su rivoluzione borghese
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Furet su rivoluzione borghese
STORIOGRAFIA François Furet - Il concetto di rivoluzione borghese Rifacendosi in parte agli argomenti di Alfred Cobban, lo storico francese François Furet (1927-97) ha condotto in un suo libro del 1978 la critica più radicale della tesi marxista ortodossa. Furet nega che la borghesia nell'accezione marxista del termine sia quella che ebbe il ruolo decisivo negli anni 1789-92. La borghesia "rivoluzionaria" non è né quella dei grandi mercanti né quella degli industriali, la prima estranea agli eventi del 1789, la seconda troppo debole per far sentire la sua voce. La Rivoluzione francese non preparò la strada a quella industriale, mentre una quota non indifferente della nobiltà apparve disposta ad accettare l'abolizione della proprietà feudale e quindi lo sviluppo del capitalismo rurale. Come Ernest Labrousse - di cui fu allievo - Furet distingue fra le lente trasformazioni delle strutture economiche e gli eventi clamorosi che si consumano nell'arco di una "giornata". Se guardiamo allo sviluppo dell'economia capitalista, si impone la considerazione che l'evento politico "rivoluzione" gli fu più di ostacolo che di stimolo. In primo luogo, la soppressione del feudalesimo aprì la strada a una diffusa piccola proprietà contadina (anche se questa verrà realizzata nel 1792-93, gli anni del potere giacobino) e non al capitalismo agrario basato sul lavoro salariato: un contesto ben diverso da quello esistente in Inghilterra e correlato a un modello di industrializzazione ugualmente assai diverso e comunque più tardivo. In secondo luogo, le vicende della Rivoluzione distrussero totalmente il capitalismo mercantile, quello legato agli armatori di Bordeaux e Nantes, alle piantagioni di zucchero delle Antille e al commercio degli schiavi. La borghesia dei grandi mercanti ebbe una sua rappresentanza nella Convenzione, ma si legò ai girondini ed entrò in rotta con le posizioni democratiche e centraliste dei giacobini; ma più ancora fu rovinata dal dominio inglese dei mari e dalla rivolta degli schiavi negri che condusse Haiti all'indipendenza . Partiamo, per cominciare, dal concetto di "Rivoluzione borghese". Esso offre all'interpretazione storica degli eventi francesi un appiglio quasi provvidenziale, presentando una concettualizzazione generale che consente d'inglobare non soltanto i molteplici e abbondanti dati empirici, ma anche i diversi livelli della realtà, giacché rimanda al livello economico in uno con quello sociale e quello politico-ideologico. Sul piano economico, si presume che gli eventi svoltisi in Francia fra il 1789 e il 1799 liberino le forze produttive e partoriscano con dolore il capitalismo; sul piano sociale, esprimono la vittoria della borghesia sulle vecchie classi "privilegiate" dell'Ancien Régime; in termini politici e ideologici, infine, rappresentano l'avvento di un potere borghese e il trionfo dei "Lumi" sui valori e le credenze dell'era precedente. [...] Se si parla di sostituzione di un "modo di produzione capitalistico" a un "modo di produzione feudale", è chiaro che tale mutazione non può essere connessa a un evento storico della durata di qualche anno appena. Nel quadro di quest'articolo, è impossibile entrare nell'immensa discussione sulla natura dell'Ancien Régime; ma qualunque sia il significato attribuito al concetto di "regime feudale" o di "feudalesimo", questa discussione mette in rilievo l'idea di transizione, ovvero di una natura socio-economica mista in uno con una cronologia lunga. È pertanto del tutto arbitrario isolare la rivoluzione da tutto quanto l'ha preceduta, conservandole tuttavia, al livello del processo sociale obiettivo, il significato di rottura radicale attribuitole dai suoi attori. È vero che il modello concettuale di un "modo di produzione feudale" non è inconciliabile con l'idea che nel XVIII secolo, in Francia, si creino le condizioni della sua abolizione; ma in tal caso bisognerebbe dimostrare in che forma si verifichi l'ipotesi contenuta nel modello, ossia, ad esempio, in che modo i diritti feudali impediscano lo sviluppo del capitalismo nelle campagne, o in che cosa la struttura della società d'ordini e la presenza di una nobiltà ostacolino la nascita di un'economia industriale basata sul profitto e la libera impresa. Questa dimostrazione è tutt'altro che facile e ovvia, in quanto il capitalismo, nelle campagne, si sviluppa capillarmente attraverso la società signorile, e con il massiccio intervento della nobiltà per quanto riguarda l'industria. Nel XVIII secolo, d'altronde, l'economia francese non è bloccata, ma prospera, con ritmi di crescita paragonabili a quelli inglesi; la crisi della fine del secolo è soltanto una cattiva congiuntura in un trend di prosperità. Per finire, se è vero che la Rivoluzione francese può essere interpretata in termini di passaggio da un modo di produzione a un altro, le stesse difficoltà ci aspettano a valle - ce ne vuole perché decolli, questo capitalismo selvaggio di cui si presume ch'essa abbia liberato le forze! Nelle campagne, è frenato, ancor peggio che prima del 1789, dal consolidamento della microproprietà, mentre nelle città non sembra che la rivoluzione ne favorisca il rapido sviluppo, dopo averne ovviamente provocato o accelerato la crisi negli ultimi anni del XVIII secolo. E se è vero che sul piano delle idee e dei meccanismi sociali il 1789 afferma un certo numero di princìpi giuridici che fondano la promozione del merito e l'economia di mercato, non si può certo dire che la gigantesca scorreria militare dei contadini francesi attraverso l'Europa, dal 1792 al 1815, sia dettata dal calcolo borghese della razionalità economica. Se si tiene alla concettualizzazione in termini di "modo di produzione", bisogna assumere come oggetto di studio un periodo infinitamente più ampio dei brevi anni della Rivoluzione francese, giacché altrimenti l'ipotesi intellettuale non ci dirà quasi nulla di nuovo, a paragone dei dati della storia. (Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Bari-Roma 1980)