Sanzioni per la violazione delle norme sul consenso informato

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Sanzioni per la violazione delle norme sul consenso informato
Tre voci sul consenso informato (luglio 2009):
 Genesi ed evoluzione del consenso informato
 Valori e fondamenti costituzionali del consenso informato.
 Sanzioni per la violazione delle norme sul consenso informato.
Genesi ed evoluzione del consenso informato
Giampaolo Azzoni
1. La duplice genesi concettuale del consenso informato.
Da un punto di vista concettuale sono due i principali ambiti teoretici a partire dai quali il consenso
informato (informed consent, consentement éclairé, consentimiento informado, Einwilligung nach
erfolgter Aufklärung / informierte Einwilligung) del paziente si costituisce come pre-condizione
dell‟intervento diagnostico-terapeutico: l‟ambito della filosofia morale e quello della scienza
giuridica. In estrema sintesi, si può affermare che è sulla base dei concetti della filosofia morale che
il consenso informato diventa un mezzo attraverso cui il paziente acquisisce un ruolo attivo nella
relazione con il medico; mentre è a partire dalla scienza giuridica che il consenso informato assume
una connotazione difensivistica, di garanzia, dell‟operato del medico verso il paziente. La duplicità
di funzioni del consenso informato (empowerment del paziente e legittimazione dell‟intervento del
medico) è dunque correlativa a due distinte tradizioni disciplinari.
1.1. Consenso informato e filosofia morale.
Nella filosofia morale il consenso informato si definisce a partire dal principio di autonomia in
connessione con quello della proprietà di sé stessi. In questa prospettiva, il consenso informato si
inscrive nel superamento del c.d. “paternalismo” secondo cui il medico dovrebbe (e dunque
potrebbe) farsi carico del bene del paziente prescindendo anche dal suo consenso; ad es. in un
approccio paternalistico sarebbero giustificate le “bugie pietose” così come non vi sarebbe un
dovere di esplicitazione e motivazione delle scelte terapeutiche. Riferendoci a Immanuel Kant (uno
dei massimi teorici dell‟autonomia in morale), si può affermare che il consenso informato sia uno
strumento di attuazione dell‟“illuminismo” (Aufklärung) nello specifico contesto della relazione
diagnostico-terapeutica in quanto attraverso di esso il paziente esce dalla situazione di “minorità” in
cui è incapace “di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”.1 In particolare,
l‟autonomia qui si esercita sul proprio corpo su cui vi sarebbe, secondo un orientamento sviluppato
da John Locke, una originaria proprietà, un‟auto-proprietà (self-ownership). L‟ampiezza poi
dell‟autonomia varia a seconda dei vincoli che le differenti teorie pongono ad una deliberazione
affinché essa sia autenticamente autonoma: tali vincoli se sono molto severi in una prospettiva
kantiana (richiedendosi sia coerenza concettuale, sia sostenibilità pratica)2, lo sono molto meno in
alcuni pensatori libertari in cui l‟autonomia incontra l‟unico limite degli altrui diritti fondamentali,
configurandosi quindi come autodeterminazione soggettiva e, potenzialmente, arbitraria.
1.2. Consenso informato e scienza giuridica.
Il secondo ambito teoretico rilevante è quello della scienza giuridica, ove il consenso informato
emerge come requisito di concreta liceità della pratica medica e, quindi, come sviluppo del
principio secondo cui non è antigiuridica la lesione di un diritto soggettivo (right) quando vi è il
consenso di chi ne è titolare (volenti et consentienti non fit iniuria). Tale principio risale al diritto
Ci si riferisce all‟incipit dell‟articolo di Immanuel Kant del 1783 Risposta alla domanda: cos’è illuminismo?
Ricordo che per Kant, non solo non si può volere, ma neppure pensare senza contraddizione, di universalizzare la
massima secondo la quale “per amore di me stesso, io assumo a principio di abbreviarmi la vita se essa, protraendosi,
minaccia più male di quanto mi prometta piacere”.
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romano (“nulla iniuria est, quae in volentem fiat”, D. 47, 10, 1, 5), e arriva all‟art. 50 del Codice
penale italiano secondo cui “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della
persona che può validamente disporne”. Il consenso dell‟avente diritto diventa, pertanto, una causa
di esclusione dell‟antigiuridicità per la lesione di quei diritti di cui la persona può validamente
disporre e, in questo senso, quando sia presente, esclude sicuramente l‟antigiuridicità di eventuali
comportamenti del medico astrattamente riconducibili a fattispecie di delitti contro l‟incolumità
individuale. Ma, analogamente al caso dell‟autonomia, è problematica l‟estensione dell‟insieme dei
diritti disponibili. Ad esempio, una tradizione consolidata ritiene che la vita non rientri tra i diritti
disponibili; e, a favore di tale posizione, vi è anche il fatto che, nell‟ordinamento giuridico italiano,
siano previsti sia il delitto di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), sia quello di aiuto al suicidio
(art. 580 c.p.), cioè reati di cui il consenso della vittima è un elemento costitutivo. Ora, però, la tesi
dell‟indisponibilità della vita umana è stata fortemente circoscritta non tanto nel suo principio
generale, quanto nelle sue applicazioni, poiché si è ritenuto che il rifiuto e la rinuncia alle cure
possano comprendere, da un punto di vista giuridico, anche terapie salvavita.
1.3. Il presupposto della relazione comunicativa.
Dai due ambiti della filosofia morale e della scienza giuridica si sviluppano altrettante serie di
declinazioni concettuali ed argomentazioni giustificative che si intrecciano e si richiamano
vicendevolmente senza però assorbire interamente la loro duplice polarità genealogica. Così il
consenso informato è un modo in cui il paziente interviene attivamente nella relazione con il
medico (sulla base del principio di autonomia e di auto-proprietà) e, insieme, una garanzia del
medico riguardo alla liceità dei suoi interventi sul corpo del paziente (sulla base della previsione
normativa del consenso quale causa di esclusione dell‟antigiuridicità).
Le due prospettive convergono nel presupporre, tra medico e paziente, una deliberazione condivisa
come esito di una relazione comunicativa. Si può dire che molti autori intervenuti sul tema si
dividano proprio sulla praticabilità (e anche sulla stessa auspicabilità) di subordinare la relazione
diagnostico-terapeutica ad una previa relazione comunicativa. I critici del consenso informato
mettono in evidenza i casi in cui non si può dare una autentica relazione comunicativa (soggetti
incapaci e situazioni d‟emergenza) o anche gli esiti negativi derivanti dal non coinvolgere in tale
relazione soggetti terzi che pure sono coinvolti dai suoi esiti (ad es. i familiari e le altre persone più
vicine al paziente). Invece i difensori del consenso informato non nascondono che vi sono difficoltà
applicative, ma ritengono irrinunciabili considerare una previa relazione comunicativa come ideale
regolativo e attribuire al solo paziente il potere di condividere con il medico la decisione
terapeutica.
2. La novità del consenso informato.
Quantunque il consenso informato abbia profonde radici nella filosofia morale e nella scienza
giuridica e quantunque sia divenuto un elemento fondamentale nella relazione tra medico e paziente
(al centro della riflessione bioetica e con significativi rilievi per il diritto), tuttavia la sua emersione
in forma esplicita ed effettiva è relativamente recente. Basti pensare che in Italia il primo autorevole
e pieno riconoscimento giurisprudenziale risale solo al 1992 (la c.d. “Sentenza Massimo”, Cass.,
Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639) e che la prima esatta e generale affermazione legislativa è del 2001
con la Legge 145 che autorizza la ratifica della Convenzione del Consiglio d‟Europa sui diritti
dell‟uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, il cui art. 5 stabilisce, come regola
generale, che un intervento nel campo della salute può essere effettuato solo dopo che la persona
interessata abbia dato all‟intervento il suo “consenso libero e informato”.3
Il sintagma „consenso informato‟ nel diritto italiano ricorre per la prima volta, in riferimento alla sperimentazione
clinica, nel Decreto ministeriale 12.05.1986, n. 436200 e, in riferimento all‟attività di donazione di sangue e di
emocomponenti, nell‟art. 3 della L. 107/1990. La volontarietà di principio dei trattamenti sanitari era stata già
affermata, oltre che dal 2° comma dell‟art. 32 della Costituzione, dal 1° comma dell‟art. 1 della L. 180/1978
3
2
L‟intera storia della medicina occidentale s‟è svolta, fino ad anni recenti, nel presupposto pressoché
indiscusso che il consenso fosse implicito (“per fatti concludenti”) nell‟affidarsi del paziente al
medico o che, addirittura, il prendersi cura del paziente da parte del medico non richiedesse alcun
previo consenso in quanto necessariamente benefico. Lo scenario era quello che è ben sintetizzato
dal titolo di un noto libro sul tema: Il silenzioso mondo di medico e paziente,4 dove l‟eticità della
relazione di cura era interamente risolta nel rispetto del principio di beneficenza (spinto fino al
paternalismo) e nella corretta applicazione delle leges artis.
2.1. Le anticipazioni dottrinali.
Ovviamente vi sono state, in dottrina, nobili eccezioni da parte di singoli studiosi (prevalentemente
medici) che hanno auspicato una maggiore e più trasparente comunicazione con il paziente. Ad
esempio, va ricordato Worthington Hooker che nel 1849, in Physician and Patient, anche se non
aderì pienamente ad una concezione secondo cui il paziente ha una sua autonomia decisionale,
sostenne il dovere per il medico di non mentire.5 Va poi menzionato Richard Clarke Cabot che nel
19036, guidato oltre che dai suoi valori profondi anche dal pensiero di Immanuel Kant7, portò prove
sperimentali a favore della bontà terapeutica del dire la verità ai pazienti.8 Per quanto riguarda
l‟Italia, va citato il giurista Filippo Grispigni che, in un articolo del 1921, ritenne che il valido
consenso del paziente o del suo rappresentante legale costituisse requisito di liceità dell‟intervento
del medico.9 Ma si tratta di singoli casi, che ebbero scarsa influenza nelle pratiche diffuse, anche se
importanti in una storia dell‟evoluzione della conoscenza morale.
2.2. Le anticipazioni giurisprudenziali.
Passando dalla dottrina alla giurisprudenza, si ricorda una sentenza inglese del 176710 (rimasta
peraltro isolata) che, anche se non riconobbe un potere decisionale al paziente11, affermò che debba
essergli detto ciò che sta per essergli fatto così che possa essere messo in condizione di affrontare al
meglio l‟operazione. Occorre poi giungere ai primi del XX per trovare nel mondo anglosassone
decisioni pertinenti. In particolare è da segnalare una sentenza emessa nel 1914 a New York e che,
forse per la prima volta in un tribunale, ha dichiarato necessario il consenso del paziente per la
liceità di un intervento chirurgico, in assenza del quale il medico risponderebbe di violenza.12 Ma si
(“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”); e dal 1° comma dell‟art. 33. della L. 833/1978
(“Istituzione del servizio sanitario nazionale”): “Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”.
4
Jay Katz, The Silent World of Doctor and Patient, New York, The Free Press, 1984.
5
Ruth R. Faden / Tom L. Beauchamp / Nancy M. P. King, History and Theory of Informed Consent, New York, Oxford
University Press, 1986, p. 76.
6
Richard Clarke Cabot, The Use of Truth and Falsehood in Medicine: an Experimental Study. In: “American
Medicine”, 5 (1903), pp. 344-349.
7
Ricordo che per Immanuel Kant la regola di dire la verità “non ammette eccezioni di sorta” (cfr. Giampaolo Azzoni,
Menzogna come contraddizione pragmatica, in: Gianfranco A. Ferrari (ed.), Verità e menzogna: profili storici e
semiotici, Torino, Giappichelli, 2007, p. 84).
8
Ruth R. Faden / Tom L. Beauchamp / Nancy M. P. King, History and Theory of Informed Consent, New York, Oxford
University Press, 1986, p. 85.
9
“Un trattamento medico-chirurgico, compiuto bensì secondo le regole dell‟arte medica, ma senza il valido consenso
del paziente o del suo rappresentante legale, costituisce - a meno che non si verta in stato di necessità - un fatto
civilmente illecito e, dal punto di vista penale, se l‟esito dell‟operazione è sfavorevole, costituisce il delitto di lesione
personale o di omicidio colposo, mentre se l‟esito è favorevole può dar luogo, ove concorrano altre circostanze, ad un
delitto contro la libertà” (Filippo Grispigni, La volontà del paziente nel trattamento medico-chirurgico, in: “La Scuola
Positiva”, 1921, p. 493; citato da Amedeo Santosuosso / Francesca Fiecconi, Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e
necessità, in: “Nuova Giurisprudenza Civile Commentata”, 2005, II, p. 40).
10
La sentenza Slater v. Baker and Stapleton.
11
Hugo Tristram Engelhardt, The Foundations of Bioethics, New York, Oxford University Press, 21996, p. 303; tr. it. di
Stefano Rini: Manuale di bioetica, Milano, il Saggiatore, 1999, p. 323.
12
“Every human being of adult years and sound mind has a right to determine what shall be done with his own body;
and a surgeon who performs an operation without his patient‟s consent, commits an assault, for which he is liable in
damages” (Sentenza Schloendorff v. The Society of the New York Hospital).
3
dovette attendere il 1957 perché il sintagma „informed consent‟ apparisse in una sentenza in cui la
Corte d‟Appello della California attribuiva un dovere al medico di fornire al paziente, utilizzando le
modalità più adeguate nel caso specifico, tutti gli elementi utili affinché potesse acconsentire in
modo consapevole al trattamento terapeutico proposto.13 E, nonostante alcune successive decisioni
sulla linea della sentenza californiana del 1957, anche negli USA la prassi medica si mantenne
distante dal coinvolgimento del paziente e solo a partire dal 1975 il consenso informato entrò a fare
parte della legislazione di un numero significativo di Stati.
3. L’emersione del consenso informato nella sperimentazione clinica.
Ma le più evolute concezioni del consenso informato non hanno la loro genesi in riferimento alla
relazione diagnostico-terapeutica. L‟articolazione concettuale e le modalità operative del consenso
informato si sono storicamente definite a partire dai problemi della sperimentazione clinica, e da lì
si sono estese gradualmente al trattamento terapeutico.14 Nella sperimentazione clinica il consenso
si pone, infatti, come fondamento necessario di liceità, essendo per definizione dubbio il beneficio
che possa trarne il soggetto che vi si sottopone.
3.1. Le normative tedesche dell’inizio del XX secolo.
Le prime regolazioni del consenso informato nelle sperimentazioni cliniche sono state prodotte in
area tedesca. Risale al 29 dicembre 1900 una direttiva di Heinrich Konrad Studt (Ministro prussiano
per la religione, l‟educazione e la medicina) indirizzata ai direttori di ospedali universitari,
policlinici ed altri ospedali che condizionava alla manifestazione di un consenso univoco
(“unzweideutig”) la liceità di tutti gli interventi medici (ad eccezione di quelli con scopi diagnostici,
terapeutici e di immunizzazione); cioè si richiedeva il consenso per le sperimentazioni cliniche
intese in senso lato (e quindi ulteriormente rispettoso del paziente). In particolare, la direttiva
escludeva la possibilità di coinvolgere minori o altre persone incapaci di esprimere un valido
consenso e richiedeva che la manifestazione del consenso fosse preceduta da un‟adeguata
spiegazione delle possibili conseguenze negative dell‟intervento. Stabiliva poi che solo i direttori o
le persone da loro autorizzate potessero effettuare sperimentazioni sui malati e che di esse fosse
data documentazione scritta.15
Ancora più complete e precise furono le linee-guida sulle nuove terapie e le sperimentazioni umane
elaborate dal Reichsgesundheitsrat (Consiglio sanitario del Reich: un consiglio rappresentativo
delle professioni mediche, delle istituzioni e di altri soggetti interessati) su impulso determinante del
medico e deputato Julius Moses16 ed emanate il 28 febbraio 1931 dal Ministro dell‟Interno sotto
forma di circolare valevole per tutto il Reich. Tali linee-guida, articolate in 14 punti, colpiscono per
“A physician violates his duty to his patient and subjects himself to liability if he withholds any facts which are
necessary to form the basis of an intelligent consent by the patient to the proposed treatment. Likewise the physician
may not minimize the known dangers of a procedure or operation in order to induce his patient‟s consent. At the same
time, the physician must place the welfare of his patient above all else and this very fact places him in a position in
which he sometimes must choose between two alternative courses of action. One is to explain to the patient every risk
attendant upon any surgical procedure or operation, no matter how remote; this may well result in alarming a patient
who is already unduly apprehensive and who may as a result refuse to undertake surgery in which there is in fact
minimal risk; it may also result in actually increasing the risks by reason of the physiological results of the apprehension
itself. The other is to recognize that each patient presents a separate problem, that the patient‟s mental and emotional
condition is important and in certain cases may be crucial, and that in discussing the element of risk a certain amount of
discretion must be employed consistent with the full disclosure of facts necessary to an informed consent” (Sentenza
Salgo v. Leland Stanford Jr. University Board Trustees).
14
Per quanto riguarda l‟etica delle sperimentazioni cliniche, nel 2008 è stata edita un‟opera che, per la sua ampiezza e
analiticità, probabilmente resterà negli anni come punto di riferimento: Ezekiel J. Emanuel / Christine Grady / Robert
A. Crouch / Reidar K. Lie / Franklin G. Miller / David Wendler (eds.), The Oxford Textbook of Clinical Research
Ethics, New York, Oxford University Press.
15
Jochen Vollmann / Rolf Winau, Informed consent in human experimentation before the Nuremberg code, in: “BMJ”
(“British Medical Journal”), 313 (7070), 7 December 1996, pp. 1446–1447.
16
Julius Moses, figura emblematica di medico impegnato della Repubblica di Weimar, sarebbe morto nel 1942
deportato, quale ebreo e socialdemocratico, nel campo di concentramento di Theresienstadt.
13
4
la loro elevata qualità (stilistica e concettuale) che è giudicata superiore anche a quella di documenti
internazionali che sarebbero stati prodotti nella seconda metà del XX secolo (ad esempio, si
introducono la necessità di una proporzione tra rischi e benefici per il paziente; una particolare
cautela nel praticare terapie innovative verso bambini e minori, oltre che verso soggetti socialmente
deboli; il divieto assoluto di sperimentazioni su soggetti morenti e, quando vi siano dei rischi, su
minori; l‟inserimento nei curricula universitari di una formazione all‟etica della ricerca).17 Per
quanto riguarda il consenso informato esso è ritenuto sempre necessario nelle sperimentazioni,
mentre nelle terapie innovative si ammette la sola eccezione dei casi d‟urgenza in cui non sia
possibile ottenere un consenso preventivo e in cui l‟intervento venga praticato per salvare la vita di
una persona o per prevenire danni gravi. È da segnalare poi l‟introduzione di strutturati protocolli di
ricerca insieme alla documentazione scritta della prestazione del consenso.
3.2. Il cosiddetto “Codice di Norimberga”.
Sembra, anche se le valutazioni non sono unanimi, che la circolare del 1931 sia rimasta in vigore
durante il regime nazista; sicuramente, se richiamata ed applicata, sarebbe potuto essere una fonte
normativa adeguata (dal punto di vista formale e materiale) per il Tribunale che a Norimberga,
dall‟ottobre 1946 al luglio 1947, giudicò il medico Karl Brandt e altri 22 imputati (tra cui 19 altri
medici) per gravi crimini commessi su prigionieri utilizzati come cavie in sperimentazioni.18 Tale
“Medical Case” ha costituito sia la più importante applicazione del principio del consenso del
paziente come requisito necessario per la liceità di una sperimentazione clinica, sia l‟occasione per
redigere quello che, dopo il “Giuramento di Ippocrate”, è divenuto il più influente e noto testo di
deontologia medica. Il Tribunale utilizzò infatti il principio del consenso volontario (nel senso di:
consenso libero, informato, revocabile e fornito da soggetto capace) come criterio per distinguere
una sperimentazione umana lecita da un reato contro la persona. Nella motivazione della sentenza,
il Tribunale sviluppò poi tale principio in un vero e proprio decalogo che divenne noto come Codice
di Norimberga (anche se formalmente non è né un codice, né un‟autonoma norma giuridica o
deontologica, ma l‟esplicitazione degli argomenti che guidarono il Tribunale nel definire a quali
condizioni una sperimentazione umana sia permessa).
In tale elaborazione ebbero un ruolo importante, oltre al giudice Harold Siebring (a cui si deve
probabilmente la stesura finale del decalogo)19, il giurista Telford Taylor (responsabile dell‟accusa),
il neurologo Leo Alexander (che inviò dei memoranda sul tema allo stesso Taylor) e lo psicologo e
scienziato Andrew C. Ivy (che intervenne personalmente nel processo e a cui si deve forse la prima
versione).
4. L’evoluzione della normativa internazionale sul consenso informato nelle sperimentazioni
cliniche.
Dopo Norimberga, il principio del consenso informato nelle sperimentazioni cliniche si legittimò
superando un pregiudizio latente, ma diffuso, che lo voleva non necessario in situazioni più
garantite quali quelle della ricerca nelle società democratiche. Anche in seguito alle denunce di
abusi sui pazienti, si rafforzò un orientamento internazionale che portò la World Medical
Association ad adottare la Dichiarazione di Helsinki nel 1964 e a migliorarla più volte negli anni
successivi; tale dichiarazione non ha, come tale, valore giuridico, ma è costante punto di riferimento
delle legislazioni nazionali (ad esempio essa è più volte richiamata dal diritto italiano).
17
Hans-Martin Sass, Reichsrundschreiben 1931: Pre-Nuremberg German Regulations Concerning New Therapy and
Human Experimentation, in: “The Journal of Medicine and Philosophy”, 8 (1983), pp. 99-112; Michael Grodin,
Historical Origins of Nuremberg Code, in: George J. Annas / Michael A. Grodin (eds.), The Nazi Doctors and the
Nuremberg Code: Human Rights in Human Experimentation, New York, Oxford University Press US, 1992, p. 129.
18
Hans-Martin Sass, Ambiguities in Judging Cruel Human Experimentation: Arbitrary American Responses to German
and Japanese Experiments, in: “Eubios: Journal of Asian and International Bioethics”, 13 (2003), pp. 102-104.
19
Michael Grodin, Historical Origins of Nuremberg Code, in: George J. Annas / Michael A. Grodin (eds.), The Nazi
Doctors and the Nuremberg Code: Human Rights in Human Experimentation, New York, Oxford University Press US,
1992, p. 137.
5
Un momento importante della positivizzazione del principio del consenso informato è stato il Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici (firmato a New York il 19 dicembre 1966 e
ratificato dall‟Italia con la L. 881/1977) il cui articolo 7 recita: “Nessuno può essere sottoposto ...,
senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico”.
4.1. Le linee-guida di buona pratica clinica.
Molto influenti sono state (e continuano ad essere) le Linee-guida di buona pratica clinica
CPMP/ICH/135/95 (recepite, divenendo così norme valide per il diritto italiano, sia pure di livello
regolamentare, dal D.M. 15.7.1997), il cui paragrafo 4.8. è interamente dedicato al consenso
informato. Da segnalare, in particolare, alcune indicazioni sul linguaggio da utilizzare e sulle
modalità per raccogliere il consenso. Così l‟art. 4.8.6. recita che “Il linguaggio usato nelle
informazioni orali e scritte concernenti lo studio, compreso il modulo di consenso informato scritto,
deve essere il più possibile pratico, non tecnico”. E secondo l‟art. 4.8.7., “Prima che possa essere
ottenuto il consenso informato, lo sperimentatore od una persona da lui designata deve lasciare al
soggetto, od al suo rappresentante legalmente riconosciuto, tutto il tempo necessario e la possibilità
di informarsi in merito ai particolari dello studio prima di decidere se partecipare o meno ad esso”.
4.2. La Direttiva 2001/20/CE.
Infine, almeno per quanto riguarda l‟Europa, la tematica del consenso informato nelle
sperimentazioni cliniche ha trovato una significativa (anche se forse non ancora definitiva)
sistematizzazione nella Direttiva 2001/20/CE (recepita in Italia dal D.Lgs. 211/2003). Secondo l‟art.
3, 2° comma, lettera d, della Direttiva, la sperimentazione clinica può essere intrapresa
esclusivamente a condizione che “il soggetto che partecipa alla sperimentazione o, qualora la
persona non sia in grado di fornire il proprio consenso informato, il suo rappresentante legale abbia
dato il suo consenso informato dopo essere stato informato della natura, dell‟importanza, della
portata e dei rischi della sperimentazione clinica”. E l‟art. 2, lettera j, così definisce il consenso
informato: “la decisione scritta, datata e firmata, di partecipare ad una sperimentazione clinica presa
spontaneamente, dopo essere stata debitamente informata della natura, dell‟importanza, della
portata e dei rischi della sperimentazione ed aver ricevuto una documentazione appropriata, da una
persona capace di dare il proprio consenso ovvero, qualora si tratti di una persona che non è in
grado di farlo, dal suo rappresentante legale o da un‟autorità, persona o organismo previsti dalla
legge”. È da segnalare poi che la Direttiva ha previsto speciali garanzie a tutela dei minori (art. 4) e
degli adulti incapaci di dare validamente il proprio consenso (art. 5).
Riguardo ai contenuti e alle modalità del consenso, le indicazioni della Direttiva sono state poi
specificate in Italia dal paragrafo 6.1.2.5. dell‟Allegato 2, e dall‟Appendice 14 del D.M. 21.12.2007
(Modalità di inoltro della richiesta di autorizzazione all’Autorità competente, per la comunicazione
di emendamenti sostanziali e la dichiarazione di conclusione della sperimentazione clinica e per la
richiesta di parere al comitato etico).
5. L’evoluzione del consenso informato ai trattamenti sanitari in Italia.
A differenza che per le sperimentazioni cliniche, la genesi e l‟evoluzione del consenso informato ai
trattamenti sanitari ha avuto, anche in Italia, una dinamica tipica degli ordinamenti di Common Law.
È mancata una legge di carattere generale (come è stato il D.Lgs. 211/2003 che ha recepito la
Direttiva 2001/20/CE), ma sono mancate anche norme applicative organiche (come sono le Lineeguida di buona pratica clinica o come è il D.M. 21.12.2007). La genesi e l‟evoluzione del consenso
informato ai trattamenti sanitari è avvenuta attraverso la giurisprudenza che ha fatto riferimento a
norme costituzionali e a princìpi che ha elaborato a partire da una legislazione frammentaria
prodotta per situazioni particolari (es. trapianti, interruzione della gravidanza, procreazione
medicalmente assistita, ...).
In questo scenario, hanno svolto un ruolo importante la proposta etica della Chiesa cattolica e,
soprattutto, la deontologia medica e, in tempi più recenti, il Comitato Nazionale per la Bioetica.
6
5.1. La Chiesa cattolica.
Nel 1952, Papa Pio XII in un discorso ai partecipanti al I Congresso Internazionale di
“Istopatologia del Sistema Nervoso” affermò che il medico “non può prendere misura alcuna, né
tentare alcun intervento senza il consenso del paziente”, e che “non ha sul paziente se non i poteri e
i diritti che questi gli conferisce, sia esplicitamente, sia implicitamente e tacitamente”.20
5.2. La deontologia medica.
Nel 1954, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici pubblicò il suo primo Codice di
deontologia medica (c.d. “Codice Frugoni”21) in cui all‟art. 55 già si affermava che il “consenso
dell‟ammalato” era necessario per intraprendere qualsiasi atto operativo, salvi i casi di assoluta
impossibilità ed urgenza; e nel caso di rifiuto di un intervento indispensabile, si richiedeva che il
medico si facesse rilasciare una liberatoria scritta. È da segnalare però che il Codice del 1954
ammetteva, all‟art. 52, che nel caso di prognosi grave fosse lecito tenere nascosta la verità al
malato, anche se non alla famiglia. Ancora più significativo è che tale ultima previsione, avallata
dalla giurisprudenza, restò sostanzialmente in vigore fino alla revisione del Codice deontologico
effettuata nel 199522 (revisione che, peraltro, all‟art. 29, consentì di declinare il dovere di verità
verso il paziente “tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e della sua capacità di
discernimento”). È solo con le modifiche introdotte nel 1998 e nel 2006 che il principio del
consenso informato si afferma in modo compiuto e in coerenza con la Convenzione del Consiglio
d‟Europa sui diritti dell‟uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997 (e di cui è stata
autorizzata la ratifica dalla L. 145/2001).
Nella versione del 2006 del Codice di deontologia medica, all‟art. 33 si legge che il medico “deve
fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le
eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate” e
che “dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di
promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l‟adesione alle proposte
diagnostico-terapeutiche”. Coerentemente, secondo l‟art. 35 il medico “non deve intraprendere
attività diagnostica e/o terapeutica senza l‟acquisizione del consenso esplicito e informato del
paziente”; “in presenza di documentato rifiuto di persona capace”, “deve desistere dai conseguenti
atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della
persona”. L‟art. 34 stabilisce che, in linea generale, l‟“informazione a terzi presuppone il consenso
esplicitamente espresso dal paziente”. L‟art. 36 precisa che “allorché sussistano condizioni di
urgenza”, “il medico deve attivarsi per assicurare l‟assistenza indispensabile” però sempre “tenendo
conto delle volontà della persona se espresse”. L‟art. 37 considera l‟ipotesi dei soggetti incapaci e
prevede che allorché “si tratti di minore o di interdetto il consenso agli interventi diagnostici e
terapeutici ... deve essere espresso dal rappresentante legale”, ma anche in questi i casi, secondo
l‟art. 38, il medico, “compatibilmente con l‟età, con la capacità di comprensione e con la maturità
del soggetto, ha l‟obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua
volontà”. L‟art. 38 considera anche le “direttive anticipate” prescrivendo che il medico “se il
paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di
quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”.
5.3. Il Comitato Nazionale per la Bioetica.
20
Papa Pio XII, Discorso ai partecipanti al I Congresso Internazionale di “Istopatologia del Sistema Nervoso” (14
settembre 1952), § 9.
21
Cesare Frugoni (dal 1942 al 1958 Presidente della Società Italiana di Medicina Interna) presiedette la Commissione
della FNOM incaricata di elaborare il Codice di deontologia medica.
22
Nel 3° comma dell‟art. 39 del Codice di deontologia medica del 1989 (rimasto in vigore fino al 1995) si legge: “Il
medico potrà valutare, segnatamente in rapporto con la reattività del paziente, di non rivelare al malato o di attenuare
una prognosi grave o infausta, nel qual caso questa dovrà essere comunicata ai congiunti”; cfr. Sandro Spinsanti, Chi ha
potere sul mio corpo? Nuovi rapporti tra medico e paziente, Milano, Paoline, 1999, pp. 64-66.
7
Per quanto, infine, riguarda il Comitato Nazionale per la Bioetica, si deve ricordare l‟importante e
ampio parere espresso nel 1992, intitolato Informazione e consenso all’atto medico. Si tratta di un
testo formulato a partire da una ricca documentazione anche internazionale e da un‟attenta
ricognizione di tutti i principali problemi teorici ed applicativi. In un momento storico di passaggio
da una concezione paternalistica ad una basata sull‟autonomia della persona, il Comitato Nazionale
per la Bioetica appoggiò decisamente il nuovo paradigma in cui diventa centrale una comunicazione
autentica tra medico e paziente. Tra le molte considerazioni interessanti ancora oggi (e per le quali
si rinvia alla lettura del documento integrale), vanno ricordati i quattro requisiti che, secondo il
Comitato Nazionale per la Bioetica, devono caratterizzare un consenso informato: una corretta
informazione da parte del medico, la quale ponga il paziente in grado di scegliere anche tra terapie
alternative; la comprensione effettiva dell‟informazione con riguardo al singolo paziente; la libertà
di decidere senza subire influenze e pressioni; la reale capacità decisionale (competence nel
linguaggio degli anglosassoni) che va verificata nella situazione concreta.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica è tornato ad occuparsi di consenso informato nel 2003
(Dichiarazioni anticipate di trattamento) e nel 2005 (Le medicine alternative e il problema del
consenso informato), ma è soprattutto nel 2008 con il parere su Rifiuto e rinuncia consapevole al
trattamento sanitario nella relazione paziente-medico che ha ripreso ampiamente il tema. Tale
parere ha registrato su alcune questioni una diversità di orientamento tra i membri del Comitato, ma
ha visto l‟assenso unanime riguardo al fatto che fra “i doveri etici, giuridici e professionali del
medico” rientri “anche la necessità che la formale acquisizione del consenso non si risolva in uno
sbrigativo adempimento burocratico, ma sia preceduta da un‟adeguata fase di comunicazione e
interazione fra il soggetto in grado di fornire le informazioni necessarie (il medico) ed il soggetto
chiamato a compiere la scelta (il paziente)”. Il Comitato ha ritenuto poi come “ormai acquisito” che
il consenso informato non possa “considerarsi implicito o automaticamente desumibile dal fatto che
l‟attività del medico sia preordinata al bene del paziente” e che, nell‟etica medica attuale, il
consenso informato abbia assunto “un ruolo chiave, consentendo la piena valorizzazione delle scelte
compiute dal paziente competente, sulla base del principio di autonomia”.
6. I problemi ancora aperti.
Il fatto che il consenso informato spesso si presenti nella discussione pubblica con le caratteristiche
di un dogma sottratto ad ogni considerazione critica e il fatto che abbia ottenuto un significativo
riconoscimento giuridico fino ad essere menzionato all‟art. 3 della “Carta dei diritti fondamentali
dell‟Unione” (L. 57/2005 e L. 130/2008)23, non deve fare dimenticare che restano numerosi i
problemi teorici ed applicativi che lo riguardano.
6.1. I problemi teorici.
Tra i problemi teorici va menzionata proprio l‟irrealistica assolutezza con cui è presentato il
principio dell‟autonomia individuale; così Neil C. Manson e Onora O‟Neil, in un libro
emblematicamente intitolato Rethinking Informed Consent in Bioethics, scrivono che il principio
dell‟autonomia individuale dovrebbe essere invece bilanciato con altri importanti princìpi quali
quelli di beneficenza, non-maleficenza, giustizia ed altri.24 In sintonia con questo orientamento, è
stato proposto di modulare l‟ampiezza e la profondità dei contenuti su cui raccogliere il consenso in
Anche se non hanno un valore strettamente giuridico, vanno altresì ricordati gli articoli 5 e 6 della “Dichiarazione
universale sulla bioetica e i diritti umani”, adottata per acclamazione il 19 ottobre 2005 dalla Conferenza generale
dell‟Unesco. L‟art. 5 (“Autonomy and individual responsibility”) afferma che deve essere rispettata l‟autonomia delle
persone nel prendere decisioni, purché le persone si assumano la correlativa responsabilità e rispettino l‟autonomia
altrui. L‟art. 6 (“Consent”), al 1° comma, richiede, per qualsiasi intervento medico, il consenso previo, libero e
informato (sulla base di elementi adeguati) della persona interessata e richiede che tale consenso sia dato, quando
opportuno, in modo esplicito, oltre a poter essere sempre revocato senza pregiudizio.
24
Neil C. Manson / Onora O‟Neil, Rethinking Informed Consent in Bioethics, Cambridge, Cambridge University Press,
2007, p. 186.
23
8
funzione inversa del beneficio e in funzione diretta del rischio per il paziente: un consenso tanto
maggiore quanto minori sono i benefici e maggiori i rischi.25
Tra i problemi teorici va poi inserita l‟antropologia del consenso informato, cioè la concezione
dell‟uomo richiamata dalle meta-narrazioni sul consenso informato. L‟atteggiamento che emerge,
almeno nella versioni correnti, è un misconoscimento della natura relazionale e situata dell‟essere
umano a favore di un ritorno di mitologie individualistiche tipiche della prima modernità.26
Strettamente connesso ai temi dell‟autonomia e della concezione antropologica, è anche il problema
della rappresentanza di chi non può consentire.
Infine, tra gli aspetti più critici, va citato proprio il modello di comunicazione presupposto
dall‟attuale configurazione del consenso informato: un modello troppo semplificato in quanto
prevalentemente centrato sul trasferimento di informazioni da un soggetto che si ritiene che sappia
(il medico) a uno che si ritiene non sappia (il paziente); mentre, invece, il modello che sembrerebbe
più adeguato è quello di un dialogo basato sulla cooperazione comunicativa, sulla valorizzazione
delle reciproche conoscenze e sul rispetto delle altre regole conversazionali.27
6.2. I problemi applicativi.
Tra i problemi applicativi forse il maggiore è quello della deriva formalistica del consenso
informato. Infatti, se il processo comunicativo si esaurisce in meccaniche attività formali come
l‟apposizione di crocette e firme, o in altre modalità di documentazione estrinseche alla realtà della
relazione, da un lato, l‟operato del medico non vi può trovare il requisito della sua concreta liceità e,
dall‟altro, l‟autonomia del paziente si rovescia in eteronomia.
25
Giampaolo Azzoni, Consenso informato nelle sperimentazioni cliniche: la necessità di un equilibrio tra diritti
confliggenti, 2009. Consonante con la proposta di correlare (secondo una proporzione inversa) il consenso al beneficio è
la sentenza n. 2437, 18.12.2008, delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione che, innovando un precedente
orientamento giurisprudenziale, ha escluso la rilevanza penale del comportamento del medico che, in assenza di
dichiarazioni contrarie del paziente, realizzi, nel rispetto delle leges artis, un intervento chirurgico diverso da quello
concordato (e quindi senza uno consenso specifico) se dall‟intervento sia derivato un apprezzabile miglioramento delle
condizioni di salute del paziente.
26
Un contributo interessante è quello recente di Robin L. West, che si chiede se sia sufficiente il consenso per
legittimare ogni atto sessuale (Robin L. West, Sex, Law and Consent, in: Alan Wertheimer / William Miller (eds.), The
Ethics of Consent: Theory and Practice, New York, Oxford University Press, 2009; disponibile online in SSRN).
Secondo West, il consenso è una scriminante penale, ma non è una requisito sufficiente affinhé l‟azione consentita sia
coerente con il benessere della persona.
27
H. Paul Grice, Studies in the Way of Words, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1989, pp. 24-31.
9
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and Practice, New York, Oxford University Press, 2009 (disponibile online in SSRN).
10
Valori e fondamenti costituzionali del consenso informato.
Giampaolo Azzoni
1. Il fondamento costituzionale del consenso informato.
È ormai opinione largamente condivisa che il consenso informato quale diritto del paziente sia da
considerarsi tra i “diritti inviolabili dell‟uomo”, di cui all‟art. 2 della Costituzione, e che abbia il suo
fondamento nel 1° comma dell‟art. 13 e nel 2° comma dell‟art. 32, secondo i quali rispettivamente
“La libertà personale è inviolabile” e “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge”.
1.1. La giurisprudenza della Corte costituzionale.
Va però ricordato che è solo nel 1990 che, per la prima volta, la Corte costituzionale ha interpretato
il 1° comma dell‟art. 13 come libertà “nella quale è postulata la sfera di esplicazione del potere
della persona di disporre del proprio corpo”.28 Ed è nel 1996 che la stessa Corte ha escluso che una
persona, in assenza di una norma che esplicitamente lo imponga, possa essere costretta a subire un
intervento sanitario non voluto (nella specie un prelievo ematico ai fini di una perizia in un processo
penale), essendo coinvolto “un diritto inviolabile, quello della libertà personale, rientrante tra i
valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell‟individuo, non diversamente dal contiguo
e connesso diritto alla vita ed alla integrità fisica, con il quale concorre a creare la matrice prima di
ogni altro diritto costituzionalmente protetto della persona”.29
Ancora più recentemente la Corte costituzionale è intervenuta in modo specifico ed argomentato sul
consenso informato, affermando solennemente che esso, “inteso quale espressione della
consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico”, “si configura quale vero e
proprio diritto della persona”.30 Proprio la sua duplice legittimazione nell‟art. 13 e nell‟art. 32 della
Costituzione, fa sì che il consenso informato sia “sintesi di due diritti fondamentali della persona:
quello all‟autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il
diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla
natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle
eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al
fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà
personale”.31 In questo senso, secondo la Corte costituzionale, il consenso informato è “un principio
fondamentale in materia di tutela della salute”.32
Questa lettura è coerente con il rilievo assunto dal consenso informato nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione (L. 57/2005 e L. 130/2008) il cui art. 3 (“Diritto all‟integrità della
persona”) al 2° comma proclama che nell‟ambito della medicina e della biologia deve essere
rispettato “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite
dalla legge”. La Corte di Cassazione ha poi interpretato l‟art. 3 della Carta nel senso che “il
consenso libero e informato del paziente all‟atto medico vada considerato, non soltanto sotto il
profilo della liceità del trattamento, ma prima di tutto come un vero e proprio diritto fondamentale
del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all‟integrità della persona”.33
1.2. Consenso informato e principio personalistico.
Oltre allo specifico riferimento agli articoli 13 e 32, il consenso informato ha il suo fondamento
costituzionale anche nel meta-principio personalistico che impronta di sé il nostro ordinamento.
28
Corte costituzionale 471/1990.
Corte costituzionale 238/1996.
30
Corte costituzionale 438/2008.
31
Corte costituzionale 438/2008.
32
Corte costituzionale 438/2008.
33
Cassazione civile, sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748.
29
11
Come ha scritto Ferrando Mantovani, in un lavoro che è divenuto ormai un classico della scienza
giuridica, il principio personalistico “pone al primo posto nella gerarchia dei valori la persona
umana”34, il che implica il suo più ampio riconoscimento quanto ai diritti e il conseguente divieto di
strumentalizzazione “in funzione di finalità egoistiche o di utilità superiori ed assorbenti”35. Su
questa linea di riflessioni, Mantovani, già nel 1974, riteneva “il principio del consenso del soggetto
agli interventi sul proprio corpo” ricompreso nel più generale principio personalistico.
In modo simile, anche la Corte di Cassazione, in riferimento al consenso informato, ha affermato
che il principio personalistico “anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un
valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed
assorbente, concepisce l‟intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo
sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al
singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell‟integralità della sua persona, in
considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue
determinazioni volitive”.36
Però occorre aggiungere, in termini critici, che, se v‟è accordo sulla centralità del principio
personalistico, problematico è come esso venga poi interpretato in quanto ad essere problematici
sono il concetto stesso di persona e la concezione che di essa è assunta dalla Costituzione. Si tratta
ovviamente di temi amplissimi che in questa sede non possono essere svolti. Va comunque almeno
detto che sembra riduttivo considerare la persona (come spesso avviene in dottrina e
giurisprudenza) in termini di individuo astrattamente isolato e che, come tale, prescinde da quel
sistema di relazioni che sembrano necessari non solo per la sua esistenza ontica, ma anche per la sua
pensabilità ontologica.
1.3. La questione del rifiuto degli interventi salvavita.
Secondo un‟ormai consolidata giurisprudenza,37 la necessità del consenso informato riguarda anche
gli interventi salvavita, così che al paziente è attribuito, su un piano di “indubbia rilevanza
costituzionale”, “un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio
stesso della vita”.38 E, in questa prospettiva, il “rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche
quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un‟ipotesi di eutanasia, ossia per un
comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo
piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo
corso naturale”.39 Rispetto a tale orientamento giurisprudenziale, merita attenzione il parere di
alcuni componenti del Comitato Nazionale per la Bioetica secondo i quali “la rinuncia consapevole
al trattamento sanitario in condizione di autonomia, pur se ammissibile sul piano giuridico, non è
condivisibile sotto il profilo etico”; in particolare, andrebbe distinta “l‟ipotesi di rinuncia a cure
proporzionate rispetto all‟ipotesi di rinuncia a cure sproporzionate”: mentre sarebbe lecita la
rinuncia a cure sproporzionate, “la rinuncia a cure proporzionate” comporterebbe il “venire meno
non solo alle responsabilità verso gli altri (la famiglia, la società), ma anche al dovere verso se stessi
34
Ferrando Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, CEDAM, 1974,
p. 38.
35
Ferrando Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, CEDAM, 1974,
p. 35
36
Cassazione civile, sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748.
37
Cfr. Federico Gustavo Pizzetti, Alle frontiere della vita: il testamento biologico tra valori costituzionali e promozione
della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 106-110.
38
Cassazione civile, sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676. Ricordo però che, in seno all‟Assemblea costituente, l‟on.
Mario Merighi, medico, propose di aggiungere a quello che sarebbe diventato, con poche variazioni, il primo comma
dell‟art. 32 un secondo periodo in cui si affermava il dovere per l‟individuo “di tutelare la propria sanità fisica, anche
pel rispetto della stessa collettività” (24 aprile 1947; pp. 3301-3302). L‟on. Merighi rinunciò all‟emendamento dopo che
l‟on. Umberto Tupini (Presidente della Prima Sottocommissione) affermò che il suo contenuto era già implicito nel
testo iniziale.
39
Cassazione civile, sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748.
12
di difendere e preservare la propria vita, condizione necessaria per l‟esercizio della libertà e della
moralità”.40
2. Il fondamento costituzionale dell’attività medica.
Nella bilateralità della relazione medico-paziente, entrambe le direzioni hanno un fondamento
costituzionale: non solo il diritto al consenso informato del paziente verso il medico, ma anche il
diritto del medico ad intervenire per la salute del paziente.
2.1. La tesi dell’auto-legittimazione.
La vexata quaestio della legittimazione della attività medica può essere risolta (anche se vi sono
autorevoli opinioni in parte contrarie) indicandone la fonte nella stessa Costituzione. In alternativa
si era fatto (e si fa ancora) ricorso alle cause di giustificazione (dette anche „cause di esclusione
dell‟antigiuridicità‟ o „scriminanti‟) tipiche del diritto penale e pertanto la liceità dei comportamenti
astrattamente lesivi del medico era ricondotta all‟esercizio di un diritto o all‟adempimento di un
dovere41; allo stato di necessità42; e, soprattutto, al consenso dell‟avente diritto43. Tali soluzioni non
appaiono pienamente soddisfacenti, o perché, almeno prima facie, incoerenti con altre norme
dell‟ordinamento (ad es, l‟art. 5 c.c. pone significativi limiti all‟estensione dei comportamenti del
medico che possono essere oggetto del valido consenso del paziente)44, o perché non
sufficientemente generali in quanto ciascuna adeguata solo per alcuni tipi di situazioni.
Così, in sede di giurisprudenza civile, è almeno dal 1994 che è stata affermata le tesi della “autolegittimazione dell‟attività medica”: l‟attività medica troverebbe la sua liceità non in una causa di
giustificazione (quale, ad. es., il consenso dell‟avente diritto), ma nella sua peculiare funzione di
tutela di un bene costituzionalmente garantito (quale è il bene della salute).45 Come ha
efficacemente affermato la Cassazione penale, se di scriminante si vuol parlare, “dovrebbe, semmai,
immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di “scriminante costituzionale”, tale essendo ...
la fonte che “giustifica” l‟attività sanitaria”.46
Pertanto, seguendo quanto scrive Luciano Eusebi, una attività terapeutica proporzionata e conforme
alle leges artis, “rientra, pur necessitando di norma del consenso, tra quelle in radice lecite”;
qualificare “l‟attività terapeutica come attività in sé antigiuridica, ma giustificata dal consenso,
rappresenta una forzatura teorica, anche quando il consenso ... è necessario per il suo corretto
esercizio”.47
2.2. Oltre il monologismo dell’autonomia.
40
Comitato Nazionale per la Bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione pazientemedico, 2008, § 2.2.
41
Art. 51 c.p. (“Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”), 1° comma: “L‟esercizio di un diritto o
l‟adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la
punibilità”.
42
Art. 54 c.p. (“Stato di necessità”), 1° comma: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto
dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non
volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.”.
43
Art. 50 c.p. (“Consenso dell‟avente diritto”): “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della
persona che può validamente disporne”.
44
Art. 5 c.c. (“Atti di disposizione del proprio corpo”): “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando
cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all‟ordine
pubblico o al buon costume”. Per superare l‟incoerenza tra il principio costituzionale del consenso informato e il divieto
di atti di disposizione del proprio corpo, diversi studiosi propongono una lettura costituzionalmente orientata dell‟art. 5
c.c. che può spingersi fino a ipotizzarne la sua “modifica tacita”.
45
Cassazione civile, sez. III. 25 novembre 1994, n. 10014; Cassazione civile, sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364;
Cassazione civile, sez. III, 23 maggio 2001, n. 7027.
46
Cassazione penale, sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437.
47
Luciano Eusebi, Criteriologie dell’intervento medico e consenso, in: “Rivista Italiana di Medicina Legale”, (30)
2008, p. 1232.
13
Pertanto nella relazione medico-paziente, risulta avere una specifica tutela costituzionale non solo la
posizione del paziente (attraverso il diritto al consenso informato), ma anche la posizione del
medico (in quanto abilitato dallo Stato alla tutela di un bene di valore costituzionale).
Credo che questa comune (anche se forse non paritaria) dignità costituzionale, se adeguatamente
analizzata e sviluppata, possa svolgere un‟utile funzione ermeneutica nella lettura della relazione
medico-paziente e, quindi, nella tutela dei valori da essa implicati. In particolare, potrebbe
contribuire a superare l‟attuale monologismo dell‟autonomia (e della connessa riduzione del
processo comunicazionale al solo formale ed esplicito consenso informato) a favore del rispetto di
altri valori quali quello di beneficenza (a cui il medico è eideticamente tenuto).
Mi sembra che si siano mosse in questa direzione alcune sentenze come quella c.d. “Volterrani”
(Cassazione penale, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446) che, seppure utilizzando un argomento
piuttosto formalistico (il mancato perfezionamento della ratifica della Convenzione di Oviedo), ha
dichiarato che il medico è legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario
per la salvaguardia della salute del paziente, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi
invece ritenere insuperabile l‟esplicito rifiuto.48
Ma il segnale più importante è provenuto recentemente dalle Sezioni unite della Cassazione penale
che hanno superato quegli orientamenti giurisprudenziali secondo cui nemmeno il buon esito
dell‟operato del medico sanava l‟assenza di un consenso specifico, per cui il medico rispondeva
sempre penalmente, tranne che se avesse agito in presenza di uno stato di necessità.49 In particolare,
le Sezioni unite penali hanno escluso la rilevanza penale del comportamento del medico che, in
assenza di dichiarazioni contrarie del paziente, ma altresì in assenza di un consenso specifico,
realizzi, nel rispetto delle leges artis, un intervento chirurgico diverso da quello concordato se
dall‟intervento sia derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente.50
C‟è da chiedersi se non si possa andare oltre ed escludere, oltre a quello penale, anche l‟illecito
civile, mancando l‟ingiustizia del danno, nell‟ipotesi che concorrano i seguenti tre requisiti (dei
quali i primi due erano presenti nel caso esaminato dalle Sezioni unite penali): (i.) l‟intervento
diverso sia senza soluzione di continuità rispetto a quello concordato; (ii.) l‟interruzione (tra
l‟intervento concordato e quello non concordato) sia tecnicamente non opportuna; (iii.) l‟intervento
diverso non sia prevedibile ex ante.
3. L’insufficiente tutela dei soggetti terzi.
Come s‟è detto, è stato importante offrire un fondamento costituzionale non solo al diritto al
consenso informato del paziente, ma anche alla legittimità dell‟intervento del medico. La
valutazione integrale della relazione medico-paziente richiede però un‟ulteriore estensione della
tutela costituzionale. Mi riferisco ai diritti e interessi di altri soggetti che possano essere impattati
dalle scelte compiute da medico e paziente. La concezione del consenso informato attualmente
dominante isola la relazione medico-paziente dal mondo vitale a cui il paziente stesso appartiene. È
emblematico che, nella versione 2006 del Codice di deontologia medica, i familiari o le persone
vicine al malato non abbiano alcun ruolo differenziale rispetto a qualsiasi altro terzo. In questo
senso è un “residuo storico” l‟art. 23 della L. 91/1999 (Disposizioni in materia di prelievi e di
trapianti di organi e di tessuti) che conferisce al coniuge non separato o al convivente more uxorio
o, in mancanza, ai figli maggiori di età o, in mancanza di questi ultimi, ai genitori ovvero al
rappresentante legale la possibilità di presentare opposizione scritta al prelievo di organi e tessuti.
La tendenza principale è quella di una tutela assoluta dell‟autodeterminazione senza considerare
48
Un‟articolata critica alla “Sentenza Volterrani” (e a sentenze analoghe) è svolta da Mariassunta Piccinni, Il consenso
al trattamento medico del minore, Padova, CEDAM, 2007, pp. 57-81.
49
Ricordo che per la c.d. “Sentenza Massimo” (Cassazione penale, Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639), “se il trattamento
non consentito ha uno scopo terapeutico” e “se l‟esito sia favorevole”, cionondimeno “il reato di lesioni sussiste, non
potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale”.
50
Cassazione penale, Sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437. La motivazione alla base di tale orientamento, che a me pare
ragionevole, non è condivisa, tra altri, da Mauro Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico, Padova,
CEDAM, 62006, pp. 282-288.
14
eventuali “esternalità negative” derivanti da un suo esercizio arbitrario; si pensi agli effetti che può
avere una decisione di rifiuto delle cure sulle persone (familiari, datore di lavoro, ...) con cui il
paziente ha relazioni esistenziali significative e spesso anche accompagnate da precisi doveri
giuridici. Come la giurisprudenza, in sede di responsabilità civile, ha giustamente esteso il dovere di
risarcimento al danno esistenziale, accogliendo una più adeguata concezione antropologica, così
nella relazione diagnostico-terapeutica andrebbe in qualche modo riconosciuta la posizione di questi
soggetti terzi rispetto a medico e paziente, ma titolari di diritti anche di rilievo costituzionale.
3.1. La pluralità dei valori costituzionali.
Da sempre il diritto (law) è un sistema normativo per la tutela di una pluralità di diritti soggettivi
(rights) e, correlativamente, in esso non è mai presente un valore “pigliatutto” in grado di annullare
gli altri valori. Così è punito il c.d. “abuso del diritto” e lo stesso diritto di proprietà incontra dei
limiti, come nel caso del divieto di immissioni e, soprattutto, nella disponibilità dei beni post
mortem in modo da garantire soggetti quali il coniuge, i figli o gli ascendenti (i c.d. “successori
legittimari”).
Sul piano dei diritti fondamentali, la Corte costituzionale ha stabilito che la protezione degli stessi
“diritti della coscienza” “non può ritenersi illimitata e incondizionata” e, pertanto, il legislatore è
chiamato a “stabilire il punto di equilibrio tra la coscienza individuale e le facoltà ch‟essa reclama,
da un lato, e i complessivi, inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale che la
Costituzione (art. 2) impone, dall‟altro, affinché l‟ordinato vivere comune sia salvaguardato e i pesi
conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti, senza privilegi”.51 In base a questi presupposti è da
criticarsi, come ha scritto Roberto Romboli, “l‟assolutezza” con cui la Corte costituzionale (nella
sentenza 18/1986) “ha escluso che il corpo umano possa formare oggetto di ispezione giudiziale”
“sembrando invece necessario l‟esercizio di quell‟opera di bilanciamento di valori da svolgersi,
volta per volta, con riguardo agli specifici casi”.52
3.2. La ricerca di un migliore bilanciamento dei diritti.
Su questa linea, credo che il diritto al consenso informato (anche se inteso come parte del diritto
all‟autodeterminazione) non possa annullare l‟insieme dei doveri a cui un soggetto è tenuto e, in
particolare, i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” di cui l‟art. 2
“richiede l‟adempimento”; oltre ad altri doveri fondamentali ascritti dalla Costituzione (art. 4:
lavoro; art. 30: mantenimento, istruzione ed educazione dei figli). In modo simile ad altre ipotesi di
conflitto tra diritti di rango costituzionale è necessario un bilanciamento che, comunque, anche
qualora privilegi uno dei diritti in conflitto, salvaguardi al massimo possibile l‟altro (o gli altri).
Come afferma la giurisprudenza, la lesione del diritto “soccombente” è giustificata solo nei limiti in
cui è strettamente funzionale al corretto esercizio del diritto “vittorioso”; ciò richiede una
valutazione di proporzionalità che va effettuata in relazione al concreto atteggiarsi dei diritti in
contrapposizione.53
Specificamente, “in relazione al bene della vita”, si può affermare che “il problema della
disponibilità od indisponibilità deve porsi in un‟ottica di bilanciamento in relazione alla propria vita
e gli altri diritti, di rango pari o superiore, che possono eventualmente essere coinvolti”; tale
bilanciamento deve essere “in concreto” e, come tale, portare “ad una differenziazione delle
situazioni e, dunque, a rifiutare soluzioni uguali per realtà diverse”.54
51
Corte costituzionale 1997/43.
Roberto Romboli, I limiti alla libertà di disporre del proprio corpo nel suo aspetto «attivo» ed in quello «passivo», in
“Il Foro italiano”, 1991, parte I, col. 19.
53
Cassazione civile, Sez. III, 9 giugno 1998, n. 5658. Cfr. Mariassunta Piccinni, Il consenso al trattamento medico del
minore, Padova, CEDAM, 2007, pp. 37-39.
54
Silvia Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna, Bonomia University
Press, 2008, p. 240. Di orientamento diverso è la Sentenza 15381/2007 del Tribunale di Roma (nel c.d. “caso Welby”)
secondo cui è “un falso problema quello attinente al bilanciamento del principio della libera autodeterminazione in
52
15
Così la Cassazione civile (esaminando il caso di un Testimone di Geova, ricoverato incosciente con
un cartellino addosso che recava l‟indicazione “niente sangue”) ha affermato che “il conflitto tra
due beni - entrambi costituzionalmente tutelati - della salute e della libertà di coscienza non può
essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria
diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di
coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali”.55
materia di trattamento terapeutico con gli altri principi di rango costituzionale, come, ad esempio, quello alla vita od
all'integrità fisica”.
55
Cassazione civile, Sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676.
16
Bibliografia
Bilancetti, Mauro, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, CEDAM, 62006.
Eusebi, Luciano, Criteriologie dell’intervento medico e consenso, in: “Rivista Italiana di Medicina Legale”, (30) 2008,
pp. 1227-1251.
Mantovani, Ferrando, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, CEDAM, 1974.
Piccinni, Mariassunta, Il consenso al trattamento medico del minore, Padova, CEDAM, 2007.
Pizzetti, Federico Gustavo, Alle frontiere della vita: il testamento biologico tra valori costituzionali e promozione della
persona, Milano, Giuffrè, 2008.
Romboli, Roberto, I limiti alla libertà di disporre del proprio corpo nel suo aspetto «attivo» ed in quello «passivo», in:
“Il Foro italiano”, 1991, parte I, coll. 15 – 20.
Seminara, Sergio, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in: “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 38
(1995), pp. 670-727.
Tordini Cagli, Silvia, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna, Bononia University
Press, 2008.
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Sanzioni per la violazione delle norme sul consenso informato.
Giampaolo Azzoni
Il mancato rispetto, da parte del medico, del dovere di informare adeguatamente il paziente prima di
ogni intervento diagnostico-terapeutico può comportare sanzioni sia penali, sia civili, sia
disciplinari.
1. Le sanzioni penali.
Per quanto riguarda le sanzioni penali, un primo orientamento giurisprudenziale è stato determinato
dalla nota “Sentenza Massimo”56, secondo cui, indipendentemente dall‟adeguatezza tecnica e
dall‟esito dell‟intervento, il medico che abbia agito senza il consenso esplicito e specifico del
paziente (e ove non sussistano le condizioni dello stato di necessità) può rispondere del delitto di
violenza privata (art. 610 c.p.) e, se l‟intervento comporti una malattia, del delitto di lesione
personale (art. 582 c.p.) e, ove segua la morte del paziente, di quello di omicidio preterintenzionale
(art. 584 c.p.). Dunque, la “Sentenza Massimo” ritenne che, in assenza del consenso del paziente,
fosse irrilevante il fine terapeutico e assimilò l‟operato del medico ad una lesione dell‟integrità
personale qualificando come malattia anche la normale conseguenza di un atto chirurgico eseguito
in modo tecnicamente corretto.
La specificità dell‟operato del medico è stata, invece, rivalutata dalla giurisprudenza successiva e, in
particolare, da una recente e autorevole pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione penale che
ha escluso la configurabilità sia del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), sia di quello di lesione
personale (art. 582 c.p.) nel caso di un medico che, in modo corretto e con esito fausto, abbia
realizzato un intervento non espressamente vietato dal paziente, ma diverso da quello concordato
(cioè attuato in assenza di un consenso esplicito e specifico).57
Pertanto, ad oggi, un intervento diagnostico-terapeutico quando realizzato contro la volontà
(espressa, inequivoca, attuale e informata) del paziente ricade senz‟altro, a seconda delle
circostanze, nelle fattispecie di violenza privata, lesione personale o omicidio preterintenzionale.
Ma se l‟intervento è stato realizzato in assenza di un’univoca volontà del paziente (né dichiarazione
contraria, né consenso) e senza che vi sia l‟urgenza di impedire un danno grave alla persona,
occorre distinguere l‟ipotesi dell‟intervento eseguito in modo corretto e con esito fausto, da quello
eseguito non rispettando le leges artis e che non abbia prodotto un miglioramento apprezzabile delle
condizioni di salute del paziente. Nella prima ipotesi, il comportamento del medico non ha
rilevanza penale (è il caso esaminato nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione penale58);
nella seconda ipotesi, il medico risponderà penalmente ma solo a titolo colposo e non doloso (in
quanto la finalità curativa comunque perseguita dal medico è stata ritenuta incompatibile con la
consapevole intenzione di provocare un'alterazione lesiva della integrità fisica della persona; cioè la
finalità curativa è stata ritenuta “concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni” 59).
Nonostante le numerose critiche, credo che quest‟ultimo orientamento giurisprudenziale, oltre che
più fedele alle fattispecie individuate dal Codice penale e quindi maggiormente rispettoso del
principio di legalità, porti a una più equilibrata tutela dei valori coinvolti: il valore dell‟autonomia
del paziente (pienamente salvaguardata quando la volontà sia univoca) e il valore della salute
correlato alla beneficenza propria dell‟atto medico quando eseguito in modo corretto e con esito
fausto.
2. Le sanzioni civili.
56
Cassazione penale, Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639.
Cassazione penale, Sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437.
58
Cassazione penale, Sez. un., 18 dicembre 2008, n. 2437.
59
Cassazione penale, Sez. IV, 16 gennaio 2008, n. 11335.
57
18
Anche qualora non sia penalmente rilevante, il mancato rispetto, da parte del medico, del dovere di
informare adeguatamente il paziente può comportare la sanzione civile del risarcimento del danno
(contrattuale ed extra-contrattuale). Infatti, il professionista ha “il dovere di informare il paziente
sulla natura dell'intervento, sulla portata e sull'estensione dei suoi risultati, nonché sulle possibilità e
probabilità dei risultati conseguibili”.60 L‟informazione se rilevante, come nel caso di un intervento
chirurgico, deve vertere anche “sulla qualità e sicurezza del servizio sanitario” e “sui rischi
operatori e postoperatori, anche in relazione alla efficienza della struttura sanitaria ospitante”.61
Ma, come ha precisato la Corte di Cassazione, “non è l'inadempimento da mancato consenso
informato che è di per sé oggetto di risarcimento, ma il danno conseguenziale”, in quanto “è
risarcibile solo il danno eziologicamente collegabile all'inadempimento”.62 Pertanto, si ha un
risarcimento del danno tutte le volte in cui si ha un consenso mancante o non adeguatamente
informato e, insieme, si ha un peggioramento delle condizioni di salute derivante dall‟intervento del
medico. Va detto però che sia in dottrina, sia nella giurisprudenza di merito, è presente
l‟orientamento secondo cui la violazione del consenso informato costituisca un danno risarcibile, in
sé, a prescindere da ulteriori conseguenze.
Nel caso della responsabilità civile (a differenza di quella penale) non rileva poi se il medico abbia
rispettato le leges artis: la “correttezza o meno del trattamento ... non assume alcun rilievo ai fini
della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto
indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell'ingiustizia del fatto,
la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è
stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue
implicazioni”.63
Un quadro in profonda evoluzione mostra che le sanzioni civili possono svolgere una funzione
importante soprattutto a fronte delle vigenti norme penali significativamente non adeguate per la
specifica materia del consenso informato. Ma sarà importante delimitare l‟area del danno risarcibile
con riguardo soprattutto all‟effettiva ingiustizia del danno e, quindi, all‟applicazione del principio di
autonomia nel massimo rispetto possibile di quello di beneficenza.
3. Le sanzioni disciplinari.
Infine, va detto che il mancato rispetto, da parte del medico, del dovere di informare adeguatamente
il paziente può comportare sanzioni disciplinari in quanto violazione di fondamentali norme
deontologiche. Infatti, l‟intero Capo IV del Codice di deontologia medica è dedicato
all‟informazione e al consenso del paziente. Pertanto le Commissioni disciplinari dell‟Ordine
potranno intervenire con proprie sanzioni.
Ovviamente, interventi disciplinari potranno essere effettuati anche dalle strutture presso cui opera
il medico coinvolto nei limiti di quanto prescritto dalle norme e dai contratti di lavoro.
Bibliografia
Bilancetti, Mauro, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, CEDAM, 62006.
Cendon, Paolo (ed.), Persona e danno, sito Internet: www.personaedanno.it
Toscano, Giovanni, Informazione, consenso e responsabilità sanitaria, Milano, Giuffrè, 2006.
60
Cassazione civile, Sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24791.
Cassazione civile, Sez. III, 19 ottobre 2006, n. 22390.
62
Cassazione civile, Sez. III, 30 luglio 2004, n. 14638.
63
Cassazione civile, Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5444.
61
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