E se ci facessimo aiutare dai ragazzi?

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E se ci facessimo aiutare dai ragazzi?
E se ci facessimo aiutare dai ragazzi?
Qualche ipotesi sulla relazione tra sperimentazioni e comunicazione
dopo l’incontro tra il CSN e gli staff regionali del 14 novembre
di Franco Lorenzoni
Il 14 novembre si è svolto l’incontro tra il Comitato Scientifico Nazionale e i rappresentanti di tutti
gli staff regionali, province autonome incluse.
Nonostante le scarse risorse messe a disposizione quest’anno per l’accompagnamento delle
Indicazioni, divenute legge nel novembre 2012, si è attivato un processo positivo che sta muovendo
qualcosa.
In tutte le regioni sono stati presentati progetti da parte delle scuole e il fatto che
complessivamente siano arrivati agli staff regionali circa il doppio dei progetti finanziabili, dimostra
che il bisogno di formazione c’è, è significativo, ed in grado di mobilitare energie.
Il laboratorio adulto
In una fase in cui non ci sono ancora elementi sufficienti per una complessiva analisi qualitativa dei
progetti presentati, si possono tuttavia individuare alcuni elementi che ci possono aiutare a riflettere.
C’è una certa difficoltà, in alcuni casi, a immaginare un processo snello che intrecci tre momenti
ritenuti fondamentali:
- L’attivazione di laboratori tra docenti in piccoli gruppi delle scuole in rete (15-20 insegnanti
massimo) su temi che uniscano discipline e sfondi trasversali;
- la sperimentazione concreta nelle classi delle ipotesi messe in campo;
- una provvisoria ma significativa messa a punto e comunicazione dei risultati di queste
esperienze pilota, che qualcuno ha chiamato microsperimentazioni.
Organizzare questo tipo di processo vuol dire sperimentare fattivamente come si lavora in un
laboratorio adulto, cioè come si costruisce un luogo in cui, in piccolo gruppo, degli insegnanti si
confrontino tra loro, condividano memorie, competenze ed esperienze didattiche, si mettano in gioco
con gli altri e progettino, sostenuti da un tutor interno od esterno, un’attività o azione educativa che sia
innovativa, eppure praticabile nelle condizioni date, che spesso sono assai difficili.
Cantieri diffusi per piccole opere
In sede di Comitato Scientifico Nazionale abbiamo discusso a lungo su quali modalità di formazione
promuovere e ci è parso importante fare di necessità virtù, ed utilizzare gli scarsi mezzi a disposizione
per un lavoro di qualità, che coinvolga il primo anno poco meno di un decimo degli insegnanti, ma si
proponga di allargare il cerchio della sperimentazione nel tempo. I percorsi di formazione praticati in
precedenza, nelle diverse regioni, sono stati assai differenti ed è dunque naturale che gli staff regionali,
nella loro autonomia, in alcuni casi abbiano scelto modalità diverse, ampliando ad esempio il numero
di scuole coinvolte in ciascuna rete.
Mi sembra tuttavia che sia stata accolta, complessivamente, l’idea di promuovere attività
sperimentali puntuali, da realizzare in piccoli gruppi. Abbiamo parlato di cantieri dell’innovazione, e
quella che andiamo ad intraprendere non si configura come un’unica grande opera quanto, piuttosto,
un insieme di piccole opere diverse, diffuse in tutto il territorio. Si tratta, infatti, di un processo di
accompagnamento e manutenzione, e la manutenzione non può che essere locale, puntuale, concreta e
in continuo divenire, come ha sottolineato in diverse occasioni il coordinatore del CSN Italo Fiorin.
Una sorta di sviluppo prossimale della qualità dell’insegnamento, che parta dalle condizioni reali e
abbia al centro la didattica quotidiana, come ha sostenuto nel suo intervento il sottosegretario Marco
Rossi Doria.
La madre dello yogourt
Il breve processo che sta per partire quest’anno, della durata di circa 5 mesi, dovrà dunque
necessariamente proseguire nei prossimi anni, approfondendo la ricerca nelle scuole che l’hanno
iniziata, ampliandosi ad altre scuole e coinvolgendo un numero sempre maggiore di insegnanti. Già al
termine di questo primo ciclo di sperimentazioni, dovremo comunque cercare modalità efficaci per
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comunicare agli altri insegnanti ciò che si è fatto, in modo che questa piccola azione, laddove apparirà
significativa, possa agire come madre dello yogourt.
Per conquistare l’attenzione di colleghi più restii a mettersi in gioco, nelle scuole coinvolte sarebbe
bello cominciasse a circolare la notizia (non sbandierata, ma sussurrata con convinzione) che
“cambiare la didattica è possibile!” Ancora meglio sarebbe poter dire: “E’ possibile, venite a vedere”.
A questo proposito mi è tornata in mente un’esperienza che ritengo esemplare e che mi sembra
potrebbe esserci utile tener presente, per ragionare sulla relazione tra lo sperimentare e il comunicare.
Le esposizioni matematiche di Emma Castelnuovo in Niger
Emma Castelnuovo, che è stata la più radicale innovatrice di didattica della matematica nel nostro
paese e che il prossimo 12 dicembre compirà 100 anni e verrà giustamente festeggiata, ricevendo il
Premio della Fondazione Nesi al Ministero, ha impiegato tutta la sua lunga e operosissima vita per
trasformare l’insegnamento della matematica.
Una volta in pensione, accolse l’invito di andare a tenere dei corsi di formazione in Niger. Arrivata
in quel paese, si rese subito conto che i programmi, mutuati dalla tradizione francese, presentavano la
matematica in modi diametralmente opposti a tutto ciò che aveva scoperto e sperimentato nella sua
lunga ricerca didattica. Con un colpo di genio Emma, ribaltando le consuetudini della cooperazione,
invece di lavorare con docenti, dirigenti ed ispettori, chiese di poter operare direttamente in classe.
In poche settimane di intensissimo lavoro organizzò un’esposizione matematica in cui i ragazzi
africani erano protagonisti. La sua battaglia contro una matematica “presentata in modo così astratto
da schiacciare le intelligenze” portò quel gruppo di studenti ad insegnare ai loro docenti un modo di
imparare che partiva dall’osservazione attenta della realtà, dalle esperienze vissute e, soprattutto,
esaltava le loro capacità di capire, spiegare e comunicare, perché partiva dalla fiducia che i ragazzi
avevano conquistato nella propria intelligenza. Partiva dal loro diritto di apprendere a partire da sé e
per se stessi.
Per formarci, perché non chiedere aiuto ai ragazzi?
Mi è tornata in mente questa storia perché il ribaltamento di ottica attuato in Niger da Emma
Castelnuovo rivela una straordinaria sapienza pedagogica. Se le strade appaiono chiuse, per troppa
lontananza tra le nostre aspettative di innovazione e la realtà delle scuole, perché non allearsi anche in
questa occasione con i ragazzi? Perché non cercare l’aiuto dei bambini?
Insegnanti e dirigenti scolastici si trovano spesso in situazioni di grandissima difficoltà. Ci sono
timidi segnali di cambiamento di rotta rispetto agli anni dei tagli sconsiderati, che hanno fatto
arretrare le condizioni e i contesti di insegnamento, soprattutto nella scuola che si chiamava
elementare, ma i Fondi di Istituto continuano ad essere ridotti, senza sapere per tempo di quanto. E
questo, lo scorso anno, ha minato alla base la possibilità di programmare la gestione dei pochi fondi a
disposizione delle scuole dell’autonomia.
Il tutto in un clima culturale del paese in cui la cultura, la ricerca e la qualità della scuola sono
all’ultimo posto nell’attenzione pubblica. Il che naturalmente aumenta la solitudine di molti insegnanti,
che si sentono continuamente sotto attacco.
Le Indicazioni puntano molto in alto quando affermano che “La scuola realizza appieno la propria
funzione pubblica impegnandosi per il successo scolastico di tutti gli studenti, con particolare attenzione
al sostegno delle varie forme di diversità, disabilità, svantaggio”. Basterebbe questa frase per
comprendere l’enorme lavoro che c’è da fare perché queste non restino parole, ma siano la base del
lavoro concreto e quotidiano di tutti noi insegnanti. “Evitare che la differenza si trasformi in
diseguaglianza”, infatti, non è un compito facile per nessuno di noi che opera nella scuola.
Di fronte alla situazione di grande difficoltà in cui tutti ci troviamo, mi piacerebbe pensare che
l’occasione che ci offrono queste misure di accompagnamento aiutino gli insegnanti più motivati ad
attuare esperienze che ridiano energia e dignità al loro lavoro. In questo percorso, in cui molti hanno
notato che finalmente la didattica è tornata al centro dell’attenzione, un aiuto lo potremmo chiedere
proprio ai bambini e ragazzi con cui lavoriamo, alla maniera di Emma Castelnuovo.
Da qui viene un’ipotesi che desidero condividere. Se il percorso di formazione attivato proseguirà
nei prossimi anni, come auspichiamo e dobbiamo mobilitarci perché accada, perché non immaginare
di organizzare momenti pubblici di socializzazione? Momenti aperti agli altri insegnanti e ragazzi della
scuola e poi, in seguito, aperti alla comunità?
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Alcuni gruppi di bambini o ragazzi delle classi che hanno sperimentato e toccato con mano elementi
di innovazione, dopo un tempo di sperimentazione che può essere di uno, due o tre anni, potrebbero
organizzare in prima persona, insieme ai loro insegnanti, alcune giornate pedagogiche in cui
coinvolgere compagni, altri insegnati e magari anche i genitori, per mostrare e condividere alcuni
elementi del percorso innovativo che hanno sperimentato.
Curricoli verticali e condivisione di esperienze
Su suggerimento di Emma Castelnuovo partecipai anni fa alla settimana pedagogica dell’école
Decroly di Bruxelles, dove lei sostiene di avere imparato tanto. In quelle giornate intense, nel mese di
maggio, bambini e ragazzi mettevano in mostra un frammento delle ricerche vissute, chiamando gli
altri allievi e tutti gli insegnanti della scuola a partecipare e condividere esperienze portate da diverse
classi, dalla scuola dell’infanzia alle superiori.
Mi è tornata in mente quell’esperienza perché moltissimi progetti presentati dalle scuole si
propongono di approfondire il tema del curricolo verticale. Ora, perché l’elaborazione dei curricoli
verticali da parte delle scuole non si limiti ad una costruzione formale e riesca ad abbattere i muri che
ancora separano grandemente il fare didattico nei diversi gradi di istruzione, penso sarebbe utile
trovare momenti in cui si realizzi un incontro diretto, in situazione, tra insegnanti delle superiori e
maestre e maestri della primaria e della scuola dell’infanzia.
Il problema della documentazione delle esperienze è vasto, complesso e va approfondito. Il rischio
di essere costretti a mettere in mostra, a dare più spazio all’apparenza che alla sostanza, ha lambito le
scuole dell’autonomia e non credo vada alimentato. Viviamo in un tempo in cui la superficialità e regna
sovrana e, piuttosto che con Maria Montessori e il suo aiutami a fare da solo - ricordato da Paolo
Mazzoli - a noi tocca confrontarci con la pedagogia di Maria De Filippi, regina sovrana
nell’immaginario formativo di moltissimi ragazzi e non solo.
Personalmente sono convinto che in un mestiere sostanzialmente artigiano come il nostro, il corpo
a corpo, la cooperazione e la condivisione di esperienze costituiscano un ingrediente indispensabile
per la crescita di ciascun insegnante.
Dalle giornate di Bruxelles tornai con l’impressione di avere vissuto un momento di formazione
molto intenso, in cui ragazzi e bambini erano stati protagonisti consapevoli dei percorsi illustrati e gli
insegnanti coinvolti avevano avuto la possibilità di pescare, da quel mare di suggestioni, spunti e
suggerimenti nuovi per la loro didattica.
Questo tipo di scambi talvolta si realizzano anche nelle nostre scuole, ma che credo dovremmo
invitare a praticarle di più nei nostri Istituti Comprensivi, intrecciando competenze diverse, come non
si stanca di ricordare Giancarlo Cerini.
Nell’incontro nazionale molti hanno concordato che, per procedere nell’innovazione, è importante
attivare i laboratori e le sperimentazioni previste nelle misure di accompagnamento e, al tempo stesso,
continuare a promuovere attività di informazione rivolte a tutti.
Se i laboratori adulti e la ricerca sul campo con bambini e ragazzi produrranno spunti didattici
interessanti, spuntini che mettano appetito, perché non immaginare di presentare dal vivo a tutti i
docenti delle scuole qualcosa di ciò che si è sperimentato nelle classi?
La diffusione del desiderio di ricerca
Paolo Mazzoli ha proposto di raccogliere immagini, brevi video e registrazioni che testimonino i
percorsi di alcune esperienze, da diffondere sul web. E’ un suggerimento da accogliere, certamente
interessante, ma perché non prevedere anche forme di comunicazione più prossime e dirette?
Come dopo l’invenzione del cinema c’è chi ha continuato a fare teatro e nonostante la diffusione
delle auto c’è chi ama ancora camminare a piedi, penso sia importante mantenere vive, accanto alle
comunicazioni digitali anche altre forme di comunicazione. Quando il percorso e gli argomenti
affrontati lo permettono, perché non azzardare un coinvolgimento diretto di tutti gli insegnanti della
scuola, che per alcune ore si trasformino in spettatori partecipi e attenti delle piccole sperimentazioni
attuate, presentate direttamente dagli allievi?
Vedere bambini e ragazzi motivati illustrare un momento significativo di apprendimento e di
scoperta ha un grande valore educativo per docenti e genitori. Può emozionare e porre questioni.
Ancor più interessante potrebbe essere utilizzare quest’occasione per rimescolare un po’ le carte.
Per gli insegnanti di scuola secondaria può essere particolarmente interessante osservare dinamiche,
comportamenti e modalità di apprendimento sperimentate e mostrate dai bambini della scuola
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dell’infanzia o della primaria, così come per insegnanti della scuola dell’infanzia e della primaria può
essere istruttivo assistere alla presentazione di un percorso didattico sperimentato da ragazzi di 12 o
13 anni.
Dobbiamo costruire uno sfondo e un immaginario, negli Istituti Comprensivi, in cui il nostro lavoro
si possa intendere come una sorta di staffetta, in cui tutti noi docenti ci dobbiamo aiutare, gli uni con
gli altri, per lavorare al meglio con i nostri allievi, dai 3 ai 14 anni, per tentare di raggiungere gli assai
impegnativi traguardi che le Indicazioni prescrivono.
E allora, per comporre non solo a parole il curricolo verticale, farsi reciprocamente visita in
momenti significativi, forse ci potrebbe aiutare a costruire una lingua e un sentire comuni.
Un modo concreto di accrescere e intrecciare competenze disciplinari e trasversali
Nelle esposizioni matematiche di Emma Castelnuovo, a cui facevo riferimento, sono presenti alcuni
elementi che potrebbero darci suggerimenti importanti riguardo alle ricerche che stiamo attivando e,
soprattutto, riguardo ai modi di comunicarle all’esterno.
Nelle esposizioni, infatti:
I ragazzi sono protagonisti consapevoli dei loro processi di apprendimento, tanto da costruire
un percorso in cui altri sono invitati a partecipare e ad imparare.
I ragazzi lavorano insieme, divisi in piccoli gruppi, per realizzare un’esposizione i cui risultati
devono essere efficaci. Tendono dunque naturalmente a far sì che ciascuno di loro dia il meglio di sé,
valorizzando le differenti capacità dei singoli (chi è capace di costruire con abilità un modello in legno,
chi sa disegnare bene, chi sa sintetizzare e dare un ordine ai contenuti, chi è capace di comporre un
cartellone, chi è in grado di coordinare il lavoro…). Alla fine tutti saranno chiamati ad esporre e
dunque è interesse e cura del gruppo che tutti imparino ad esprimersi e a comunicare nel modo più
chiaro possibile.
L’intreccio tra discipline si realizza a diversi livelli. Nei contenuti, perché una legge matematica,
ad esempio, si può rintracciare in diverse opere dell’uomo o in natura (posso riconoscere la parabola
che ho costruito sul piano cartesiano nella curva che tiene su un ponte o utilizzare l’iperbole per
comprendere le relazione inversa che spiega la capillarità). Ma c’è un altro tipo di intreccio che i
ragazzi praticano senza neppure accorgersene, perché se preparo una presentazione sto lavorando sul
linguaggio e se realizzo una costruzione o un cartellone sto intrecciando la disciplina che è al centro
dell’esposizione con tecnologia e arte e immagine.
Ci sono poi numerose competenze sociali che si attivano in pratiche di questo tipo, perché la
forte motivazione e il fatto di dovere preparare insieme qualcosa di importante e di bello, facilita la
partecipazione di tutti e può sostenere una concreta pratica inclusiva.
Si realizza infine una trasparente autovalutazione, individuale e di gruppo, perché se siamo
chiamati a costruire un prodotto e una presentazione pubblica, la motivazione alla riuscita porta tutti a
monitorare, passo passo, l’efficacia del processo.
Momenti significativi di scambio che alimentano la costruzione della comunità docente
Ogni comunità ha bisogno, per essere tale, di momenti significativi di incontro e di scambio.
Giancarlo Cerini, per descrivere il processo di innovazione che stiamo mettendo in atto, ha evocato i
suoni di una ballata popolare. Riprendendo questa immagine, mi piacerebbe pensare che negli anni,
piano piano, si possa diffondere la pratica di giornate pedagogiche, intese come feste dell’innovazione
didattica.
Momenti in cui le scuole sospendono temporaneamente il loro lavoro feriale, mettono in
comunicazione i diversi gradi di istruzione, si aprono al territorio, e bambini e ragazzi mostrano e
condividono alcuni frammenti dei percorsi sperimentati, dando dignità, bellezza e profondità alle
ricerche realizzate.
Gli ambienti di apprendimento si costruiscono anche curando l’immaginario che circonda il nostro
operare. Se i bambini o i ragazzi hanno occasioni pubbliche (non pubblicitarie) in cui sono davvero
protagonisti di una comunicazione preparata nel corso di un lungo processo, questo momento corale
di apertura può aiutare a dare senso ai processi di apprendimento e può divenire uno dei momenti di
riflessione sul nostro operare complessivo come scuola.
Naturalmente non tutto ciò che si vive in classe può essere mostrato e probabilmente le
trasformazioni più profonde e sottili è bene che restino protette, ma preparare qualcosa per altri mi
sembra un’esperienza interessante, che può stimolare noi insegnanti ad aprirci al confronto.
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La scuola salvata dai ragazzini
Personalmente ho un piccolo sogno: che nelle scuole si realizzino di tanto in tanto momenti aperti
di costruzione culturale capaci di rompere steccati. Momenti che nel tempo dovrebbe avere l’ambizione
a divenire così vitali e significativi da competere, sul piano simbolico, al peso che hanno assunto, nelle
scuole, le date in cui bambini e ragazzi sono sottoposti alle prove Invalsi.
Non tutte le classi, non sempre, ma sarebbe bello che ogni anno in molte scuole, nella tarda
primavera, gruppi di insegnanti preparassero un dono da offrire all’intera comunità, quando ritengono
che le esperienze vissute in classe sono interessanti, significative e comunicabili.
L’occasione delle microsperimentazioni, che centinaia di scuole in tutto il paese cominceranno a
sperimentare contemporaneamente dal 2014, potrebbe offrirci una bella occasione per ragionare
intorno ai nodi della comunicazione interna ai nostri Istituti, provando ad immaginare situazioni in cui
bambini e ragazzi siano protagonisti attivi e consapevoli non solo dei processi di apprendimento, ma
anche della loro comunicazione. Riescano a mostrare cioè, a se stessi prima di tutto, la qualità del
lavoro svolto, che è tale solo quando si realizza un profondo intreccio tra i contenuti studiati e le loro
idee, i loro modi di operare e la loro irriducibile vitalità, che una scuola troppo anziana a volte guarda
con esagerata diffidenza.
Allora, parafrasando la grande Elsa Morante, potremmo davvero immaginare una scuola salvata dai
ragazzini.
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