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PREFAZIONE di Collettivo Soda Rael: dobbiamo scrivere la prefazione, come facciamo a far capire alla gggente che è un omaggio e non uno scherno? Diderot: bisogna scrivere una cosa alla Collettivo Soda Rael: potremmo dire del nostro amore per le copertine della minimum fax Diderot: eh son belle Rael: oppure del nostro amore viscerale per la letteratura, il leggere Diderot: sì bello Rael: dicevamo Diderot: allora la webletteratura, parlavamo di confini, delle prospettive Rael: sì, c'è un mondo enorme là fuori! parole, pensieri, creazioni!basta fare click! Diderot: basta fare click! Rael: oh!che filmati nuovi ci sono? Diderot: la lobby del Torbe avanza… Rael: ufff, che palle, e scusate il francesismo. Tutte le immagini e i testi sono di proprietà dei rispettivi autori. La loro riproduzione è consentita soltanto previa autorizzazione degli stessi. Volume non in vendita. 5:15 di Gianluca Morozzi Sedici anni fa, è lampante, nel mio corpo abitava un’altra persona. Sedici anni fa avevo un solo desiderio, uno soltanto: essere guardato in un certo modo da una ragazza, una qualunque, anche stupida, anche brutta. Anche stupida e brutta. Anche soltanto una volta. Sedici anni dopo sono dentro un’auto che corre sulla via Emilia. L’orologio segna le 3:30 di notte. Nell’auto siamo in quattro. Io sono seduto dietro, accanto ad una bionda di un metro e ottanta di nome Lara. Alla guida c’è Walter. La rossa alla sua destra è Clara. Io, Walter e Clara siamo stati insieme in Messico, in Irlanda e a Cuba. La bionda di un metro e ottanta non c’entra niente con il Messico, con l’Irlanda o con Cuba, non c’entra niente con noi tre, non c’entra niente con me. L’ho conosciuta sabato scorso ad una festa, abbiamo parlato dei Rem, lei mi ha detto “Io i Rem li ascolto fin dal primo album, Losing my religion”, io ho evitato astutamente di correggerla, e, ubriachi, ci siamo dati due bacidue davanti alla porta del bagno. Stop. Avevo dimenticato che esistesse, Lara. Stasera avevamo appuntamento al parcheggio del centro commerciale, io, Walter e Clara; dovevamo andare alla solita discoteca rock, noi tre, solo noi tre, come sempre. Sono arrivato al centro commerciale, sono sceso dalla macchina sorridente. E ho scoperto che Walter non solo era venuto con Clara, ma aveva riesumato Lara da chissà dove. Bella idea. Sono le 3:35, Lara mi scruta nella penombra della macchina. Clara canta 5:15 più forte degli Who nello stereo. Out of my brain on the train, urla Clara con perfetta intonazione. Walter si accende una sigaretta tenendo il volante con i gomiti, io guardo le case che sfrecciano veloci lungo la via Emilia. Ho tre messaggi nelle mie tasche. Il primo è racchiuso nel cellulare, è un Sms della mia ex: Sei riuscito a farmi un sacco di male, devi esserne veramente fiero. Così c’è scritto, sul display. La mia ex si chiama Katia. Ha un meraviglioso senso dell’umorismo, due cani, suona la chitarra meglio di me. Il suo film preferito è Io e Annie. Da quando l’ho lasciata, cinque settimane fa, mi bombarda con questi Sms pieni di rancore. Il secondo messaggio è un biglietto che ho scritto io per Clara. Non glielo farò mai leggere, perché dice: “Non posso obbligarti a provare qualcosa che non provi, e quando il sentimento è unilaterale non è colpa di nessuno, no? E vorrei che tu sapessi- e non provare a ridere- che in tutti questi anni sei stata protagonista di un migliaio delle mie fantasie, ma nessuna –nessuna, giuro- sessuale –stai ridendo?- ,e guarda, sto dicendo una cosa importante, nelle mie fantasie ci baciamo sul divano di casa tua, io ti guardo dormire all’alba accarezzandoti i capelli, piano, per non svegliarti, la luce filtra attraverso le persiane, e forse mi basterebbe procurarti una reazione, vederti piangere per me almeno una volta, anche solo per un attimo, vederti con una certa gonna o un certo vestito e sapere che l’hai indossato per me, e alla fine la cosa terribile non è essere respinti, quello lo si può accettare. E’ questa cortese indifferenza, quello che ferisce”. Il biglietto resterà nel mio portafogli per qualche giorno, poi finirà nel cestino. Il terzo messaggio l’ho trovato nella tasca del giubbotto uscendo dalla discoteca. Diceva Non ti sei comportato molto bene dopo la festa, speravo mi chiamassi, mi ero illusa come una scema. Comunque, puoi ancora rimediare. Lara. Perfetto. Ci siamo dati due baci-due e siamo già fidanzati, mi sembra giusto, no? No, davvero, mi sembra molto logico, proprio molto logico. “Lo hai letto il mio biglietto?” sussurra Lara, “Mi accompagni a casa?” Clara e Walter bisbigliano coperti dagli Who, e non sono stupido, ragazzi, non sono stupido, certe occhiate le interpreto, amici, certe mezze frasi le decifro… Guardo Lara con un sorriso forzato. Nei miei piani io avrei accompagnato Clara, di Lara si sarebbe fatto carico Walter, visto che è stato lui ad avere la bella idea di portarla fuori, stasera. Poi speravo di fermarmi sotto casa di Clara, parlare un po’. Speravo. Lara coglie la mia esitazione, così distoglie lo sguardo e dice: “No, no, lascia perdere. Non so perché te l’ho chiesto.” Si gira, ha gli occhi lucidi. Beh, adesso la cosa ha dell’incredibile. Sta piangendo per colpa mia, santo cielo, per me, che un tempo guardavo con invidia gli amici accoppiati. Accoppiati a ragazze orribili, spesso, a ragazze stupidissime. Che erano sempre più di quel niente che avevo io. Lara è bella, è luminosa, ha fatto girare teste in tutta la discoteca. Può avere gli uomini che vuole, e sta piangendo per me dopo due baci-due. Io, giuda porco, non posso veder piangere una donna. Le accarezzo i capelli e sussurro: “Dai, certo che ti accompagno a casa”. Non sono un animale fino in fondo, qualche regola di comportamento con gli esseri umani ogni tanto la seguo. Un bip nella tasca segnala un nuovo Sms. Vado a leggerlo, è ancora di Katia. E dire che solo tre settimane fa pensavo a quanto sarebbe stato carino andare ad abitare insieme, che stupida sono. A questo punto, giustamente, spengo il cellulare. Arriviamo al parcheggio del centro commerciale, la mia macchina è rimasta sola nel deserto. Scendiamo tutti e quattro. “Allora, Walter, tu accompagna Clara.” dico funereo. “Lara la porto a casa io.” Walter soffia fuori il fumo e dice solo: “Okay.” E’ uno di poche parole, Walter. Clara mi saluta con i soliti tre bacetti sulle guance, mi sussurra all’orecchio: “Comportati bene, mi raccomando. Non illuderla.” Poi, Walter e Clara scompaiono nella notte. Non ho ancora aperto lo sportello che Lara dice: “Certo che sono proprio stupida. Lo so benissimo che tanto non ti interesso.” Non rispondo, ma la mia espressione truce significa non aggiungere un’altra parola. Mezz’ora dopo ci stiamo accoppiando –in questo caso non mi esce un termine migliore –nel sottoscala di casa sua, in piedi contro il muro, sotto le cassette della posta, cercando di non urtare la bicicletta appoggiata alla porta della cantina. L’appartamento di Lara in zona Pilastro è occupato da una mezza dozzina di compagne di stanza, e perciò abbiamo optato per la soluzione più squallida. Procedo col pilota automatico, senza il minimo trasporto, zero, e intanto penso Adesso è proprio finita, Katia, noi avvolti nelle coperte a guardare i Simpson con la stufetta ai piedi del letto siamo un dolce ricordo, addio, amore. Lara mi ficca le unghie nel collo, e Clara starà facendo lo stesso con Walter in qualche altro angolo buio, sicuramente. Domani al telefono fingeranno di niente, saranno falsi e amichevoli, chiaro. Lara mi prega di sussurrarle qualcosa all’orecchio, io attingo meccanico al classico repertorio da film porno, e senza motivo mi vengono in mente i Pogues e quella canzone, Rainy night in Soho. Sei mesi fa a Dublino, in un pub chiamato Brazen Head, un gruppo folk la suonava per una folla strabocchevole e rumorosa. Le pinte di Guinness tintinnavano, io ero appoggiato al bancone col mio bicchiere in mano, Walter scattava foto, e due anziani irlandesi dai lineamenti scolpiti nella roccia facevano ballare Clara che rideva divertita, allegra per le birre bevute quella sera. Tutti cantavano in coro l’ultima strofa, quella che dice E adesso la canzone è quasi finita, / potremmo non capire mai cosa significhi / ma c’è una luce davanti a me / e tu sei la misura dei miei sogni / la misura dei miei sogni. In quel momento bellissimo e toccante ammiravo Clara da lontano, felice di condividere quell’istante con lei. Lei, che era la misura dei miei sogni. Alla fine ci rivestiamo. Lara ripulisce il vestito da polvere e intonaco, ci baciamo un altro po’, lei mi allunga un bigliettino col suo numero di telefono, io le prometto di chiamarla presto. Esco dal portone, getto il biglietto nel primo cestino dei rifiuti. Guido calmo sullo stradone che mi riporta a casa. Si stagliano nel buio le grandi torri della fiera, e l’orologio sul cruscotto segna le 5:15. Sedici anni fa avevo un solo desiderio, essere guardato in un certo modo da una ragazza. Anche brutta, anche stupida. Anche solo una volta. Ma con ogni desiderio, si sa, viene una maledizione. DORMI di Mucio - Dormi? - No. - E che fai? - Guardo il cielo sopra Varsavia. ISOLAMENTO di Masatomo Ueda Isolamento il cerchio è solo una magra indifferenza Se si volteggia? Cos’è cambiato? Ma si diventa diversi? Mi sento uno solo, ma mai il mio doppio Capito che intorno procede zitto Questi continui che stanno ignorando il tempo ch’è tuo da sempre perché non si è un altro ingranaggio di una forzata convivenza Forse noi non siamo sullo stesso piano, ma fa tanto bene a me saperlo vero Io volevo capire almeno volare Se gli amici morti, ormai, forse mai stati Nella mia mano quell'ombra che fissa perenne ciò che sto cercando e se forse sfiora ripete se stessa di nuova, per sempre così E' un cammino in cerchio, non n'esco quando voglio addormentarmi senza sognare Io volevo capire almeno volare Se gli amici morti, ormai, forse mai stati Io voler dimostrare ciò che non sono mi ferisco da solo pur di non fare AMORI IN BRIANZA di Gianluca Zaffino Per ragioni lavorative ho comperato un manuale di filosofia antica, il noto Abbagnano - Fornero. L' ho comperato usato alla modica cifra di 13 €. Visto che in quanto storici non possiamo esimerci dal considerare qualunque cosa come un documento da analizzare, passiamo ad illustrare, d'accordo con Benedetto Croce, quanto ci è dato da sapere sulla storia del mondo a partire da quella di questo particolare volume. Innanzitutto sappiamo che questo libro appartenne ad Andreina S. studentessa della classe 3a B dell’ITCS "A. Greppi" di Monticello (LC), nell'anno scolastico 1997/98. Questa Andreina era una studentessa metodica come tante: molte sottolineature e glosse a margine dei testi, pochissime scritte non attinenti al tema del libro, presenti solamente nelle pagine bianche iniziali e finali. Discreta calligrafia, poca attitudine al disegno, quasi certamente un buon livello d’attenzione in classe, sebbene sabato 30 maggio 1998 fosse preoccupata per un'interrogazione o un compito in classe ("Aiuto, non so niente, ho troppa paura! Come faccio? Aiutoo!"). Dalle poche scritte di carattere privato sappiamo con certezza che al 26 marzo di un anno non meglio specificato, Andreina aveva una relazione con un certo Spad, il quale scrive testualmente: "In un mondo disastrato dopo la 3° guerra iniziata nel luglio del '99, sperando d’essere ancora vivo x poter condividere il resto della mia vita con te, T.A.T.". Da queste poche parole possiamo supporre si trattasse di un soggetto politicamente definibile come di sinistra, incline al pessimismo e forse alla paranoia. Probabile uso di cannabis o altre sostanze psicotrope. Andreina scrive più volte il nome Spad, anche utilizzando una grafica creativa, e si riferisce a lui nelle seguenti forme: " Spad ti amo" e "Spad TVTTB". Il giorno 26 marzo 1998 passò "due ore" piacevoli in compagnia di alcune amiche chiamate "Lumi, Michy, Mara, Manu, Sà" alle quali dichiarava di "voler bene". Andreina era presumibilmente una fan della musica degli Articolo 31, in quanto nel volume compare più volte il nome di Alessandro Aleotti, meglio noto come J Ax, spesso nella stessa forma con la quale si trova scritto il nome Spad. La presenza di due scritte "Alessandro Aleotti forever" e " Andreina forever" potrebbero indicare un'identificazione patologica col proprio idolo, sintomo della sindrome di Von Neumann - Steiner. Per concludere, Andreina il 25 marzo 1998 asserisce di aver "voglia di ricominciare" con un certo "Rino", probabilmente il suo migliore amico sfigato. PROCESSI MENTALI di Mucio Io vorrei tanto sapere qual è il ragionamento che fanno le donne nel volere che la tavoletta del bagno stia sempre giù, è più comoda su, se occorre la si abbassa, quante volte servirà al giorno? Una, due al massimo. No, io vorrei proprio sapere qual è il processo mentale. COME SI DIVENTA UN UOMO DI POTERE SENZA FATICA di Bruno Malfredo Quella sera non ero in forma; lo capii quando soprappensiero eiaculai nella dolce boccuccia di Giancarlo Pitti detto Irma, trans di Verona operante ad Ostia. Generalmente la avvisavo dell’imminente sborrata ma quella sera ero davvero soprappensiero, così, mentre Irma annaspava, mi abbottonai le braghe e poi cercai di praticare alla veronese quella manovra che si fa a chi sta soffocando, ma presi una gomitata nei denti perché Irma pensava che me la volessi inculare proprio mentre lei si strozzava col mio seme che le era andato di traverso. Idea mica male, peccato che… Mi chiamo Armando, ho trentatre anni ed ero un benzinaio. Prima di quella sera ero così: La mattina mi sveglio, mi tocco il cazzo per vedere se nella notte mi sono sborrato, accendo il videoregistratore e mi guardo un po’ di porno che a casa mia non manca mai. Vado a cacare, caco e fumo, mi piace cacare, quando non so che fare prendo un po’ di lassativo; mi piace soprattutto la diarrea, ti senti un leggero prurito al buco culo e per istinto sai che devi stringere le chiappe, ti siedi sul cesso e spari in un secondo 2-3 litri di materiale fognario. La diarrea, come la sborrata, è bella ma dura poco. A lavoro non ci vado sempre e quando ci vado non lavoro, ho assunto un negro, lui si fa le sue ore ed io gli do il necessario per un panino una birra più qualche spicciolo; però il panino non lo compra ed è sempre affamato, dice che i soldi li manda al suo cazzo di paese, a sua moglie e i suoi quattro mocciosi negri, poi si dice che uno i negri li sfrutta, tu i soldi glieli dai ma tanto non li spendono, possono pure guadagnare miliardi ma comunque vanno a dormire alla stazione, spediscono tutto alla moglie che intanto si fa inculare da un altro tanto sa che il cornuto non tornerà mai, perché i negri non tornano mai al loro cazzo di paese. Vado alla pompa e guardo le fregne che passano, le guardo e penso a come sono quando ti danno il culo: uno vede una che se la tira con la Mercedes e che ci ha quel modo di fare che non ti può sembrare proprio della stessa razza delle femmine con cui vai tu, però quando ti danno il culo son tutte uguali, puzzano di merda e ti sporcano il cazzo, e allora tu pensi che a metterlo in culo ci guadagni solo con i froci che battono, che quelli sono di mestiere e ci tengono alla qualità. La domenica vado allo stadio, sto in curva. Allo stadio mi sono guadagnato sei cicatrici, due denti spezzati ed una volta per dare un calcio ad uno sbirro sono caduto dalle gradinate e mi sono rotto una gamba, allora mi hanno rotto i coglioni perché con la gamba rotta mica potevo scappare, mi hanno portato all’ospedale e senza tanti complimenti mi hanno schedato, quindi mi hanno vietato di andare allo stadio per tutto il resto della stagione, ero incazzato nero, con la merda di gesso e senza stadio, però quando sono andato al club mi hanno trattato come un eroe ed è stato il giorno più bello della vita mia. La sera vado a puttane, sono amico d’infanzia di un pappone che tratta slave, però a me piace cambiare, ogni tanto lo vado a trovare e mi passa una di queste creature chiare chiare e con una tristezza addosso che ad uno non solo dispiace fotterle, ma pensa pure che portano sfiga. A me piacciono i froci, trans o senza tette, ti mettono allegria, tu godi e quelli sono contenti per te, però io non sono ricchione, a me non piace prenderlo nel culo o in bocca, a me piace sborrare, che se non ci fossero maschi e femmine io lo metterei in culo ai cani. Se non vado a puttane guardo un porno a casa mia, dopo prego, perché io sono religioso e credo in Dio, non come tutti questi negri arabo ebrei che non mangiano il maiale, che cazzo c’entra Dio col maiale? Che Cristo c’entra? La sera dell’infausta sborrata tornai a casa, mi accasciai spompato e malamente spompinato; di guardare un porno non mi andava, peraltro avevo una VHS di femmine che si fanno montare da animali e a me ‘sti film con gli animali mi fanno cagare, in senso lato però, che una bella cagata me la sarei fatta con piacere, ma avevo già dato tutto in giornata. Cercai di dormire ma la testa mi frullava, mi dava l’impressione che volesse pensare, mi versai un po’ di whisky, stavo per metterci del purgante ma mi resi conto che non avevo mangiato niente e rischiavo di cagare lo stomaco, mentre cercavo di bere tutto d’un fiato il whisky, sia perché avevo fretta di ubriacarmi sia perché il sapore di vomito che ha il whisky a me mi fa, nuovamente in senso lato, cagare, mi ricordai di aver rubato al mio schiavetto negro un po’ di fumo, un po’ della droga povera dei negri poveri. Non ero capace a girarmi una canna, così misi il micro-stronzo rettangolare sul fondo del bicchiere girato e lo bruciai, appena cominciò a fumare respirai. Non fosse successo quello che successe, il fatto di fumarmi la resina del negro l’avrei considerata la cosa più deficiente che potessi fare, perché quella sensazione che mi confondeva le budella e che non mi faceva dormire si amplificò, non riuscivo a pensare ad una cosa che già ne pensavo un’altra, ed io che non sono abituato a farmi i ragionamenti che appena mi vengono delle cose in mente cerco di visualizzare la fica per non pensarci più, mi trovai in questo stato confusionale a me nuovo, a me estraneo. Cercai il telecomando del televisore per accenderlo e poi inserire il porno, cosa che pensavo mi avrebbe rimesso sulla retta via dei sensi, ma appena lo schermo si illuminò mi apparve il suo viso,solare e profondo, le mille bollicine nella testa svanirono, mi si rizzò il cazzo e lo presi in mano, intervistarono il mio sole, ed io sborrai. Lui era Michele Masi Merloni, le tre M dell’Italia che conta, dell’Italia dello sport, dell’imprenditoria ed ora anche della politica. M.M.M. era presidente della mia squadra, proprietario di una scuderia di formula uno, magnate della finanza. Lui era Michele Masi Merloni ed io ero frocio, ma solo per lui. Dopo un po’ di tempo, dopo una serie di dubbi di essere ricchione, dopo varie decine di grammi di fumo procurati dall’extracomunitario che ben conoscete, progettai il mio piano. Divenuto portavoce degli ultras della mia squadra aspettai un momento di crisi della medesima, organizzai uno sciopero dei tifosi ed ottenni un colloquio privato con un tipo, poi con un altro e poi con uno stronzo considerato più su nella scala gerarchica ma invece uguale agli altri: mi inventai due stronzate, dissi in giro che “io sapevo”, nessuno mi chiese cosa e mi ritrovai davanti a M.M.M.. Ora sono così: La mattina mi sveglio e metto una mano sul cazzo di Micky per controllare se nella notte si è sborrato: siccome lui è un maschio vero e la mattina ce l’ha duro, siccome io per lui sono una puttana, gli faccio un bocchino. Lui telefona alla moglie per dire che ha lavorato tutta notte e che a fine settimana cercherà di tornare a casa, ed intanto io continuo a sbocchinarlo. Mi piace sbocchinarlo e mi piace bere il suo seme. Finita la colazione arrivano i portaborse, perché il mio Micky è diventato primo ministro, sono stato io a convincerlo ad entrare in politica, gli ho detto che male che andava aveva i voti dei tifosi, che doveva dire sempre che con le sue società aveva dato tanti posti di lavoro e tanti ne avrebbe dati all’Italia, gli consigliai di far candidare qualche vip che la gente non capisce un cazzo di politica etc. etc. etc. e abbiamo vinto. La domenica Micky va a trovare i bambini agli ospedali o i negri nei centri d’accoglienza e al pomeriggio andiamo allo stadio. Micky mi ha piazzato come sottosegretario e sono io a suggerirgli tutte le cose da fare, sono il suo piccolo Machiavelli e quando mi chiama così lo sbocchino. La sera facciamo i festini con il ministro della difesa che lecca i tacchi a spillo della ministro dell’ambiente che col manico di un frustino sonda il retto al presidente della Camera, l’amministratore delegato di un’azienda statale si masturba guardando dal buco della serratura il sottosegretario all’industria che caga, il capo del gruppo parlamentare di maggioranza si masturba guardando quell’altro masturbarsi, ed io e Micky intanto ci tocchiamo, ci baciamo, ci vogliamo bene, siamo innamorati e siamo froci, però che non vengano i gay a recriminare i loro diritti, chi siamo noi per preoccuparci di loro? Che c’entra la politica con la difesa dei diritti? MUTUO di Mucio - Una firma anche qua. - Le sto vendendo l'anima? - Anche quella dei suoi figli. TOLLERANZA di Mucio - Io a quel nero non riesco proprio a vederlo. Se potessi lo ucciderei, lo coricherei a sprangate e poi ci passerei sopra con la macchina, prima di soffocarlo in una vasca piena d'acqua. - Non me lo sarei mai aspettato da te. - Sì, ma quello si è scopato mia moglie. - Vieni ti offro un caffè, anche io me la sono scopata, ma con me mica te la prendi così. POSTCARD di Luca Paci Una donna ispanica spazza il pavimento capelli penna di corvo e sguardo indiano una bionda abita lo sfondo bip della cassa e cing delle monetine sfasano con l’allarme antifumo delle patate fritte US 66 e NYC affissi al rosso muro Capitan America sorride al suono della musica da super-classifica ARTURO di Mucio Quando mio cugino Arturo era piccolo io e i miei cugini più grandi gli avevamo insegnato a sbattere la testa contro il muro ripetendo "Arturo capa e muro". Tre mesi fa Arturo se n'è andato, portato via da un brutto male. Arturo ti volevamo tutti bene. PIAZZAGRANDE 1 di Gianni Grande Lo spasmo ulceroso palleggia sulle scaglie porfido del serpente centro historico: adocchia la contrabbandera scosciata, adorna d'aromi veraci come pomi sanmarzano, cascando sui bottoncini aurei di due carabinieri. Accarezzano protettivi, i cuoricini, ghiandole mammarie di tre curatelle tre su uno spetazzante centauro pezzottato e ghignano e sbavano la dozzinale inquadratura: il fotogramma d'intestino incancrenito a sminuzzare e scomporre in umori elementari un giobbe per caso. Ma Viola già mi sprizza dalla maglietta aderente una domanda (e salva la boccia dall'agognio di marciapiede): sigaretta paglietta, prego. E ti sprofonda vocetta violetta nei panni incerti di un'humbert humbert vigliacco alquanto: straziato e intirizzito dal dipartire perentorio. La memorabile messa in scena è sperciata da un velo marroncino sciroccoso sciropposo: una seppiatura che virerebbe in gradevolezza melò (con tanto di sviolinata) se non fosse per l'accorrere a paranza delle truppe fresche: le fanterie variovestiste che marciano a quest'ora verso le postazioni di piazza: in locali e loculi (e ovuli e moduli) assegnati. Son delimitazioni scientifiche di lodi e lingue, scarpe e ciabattine, occhiali e capellini che si schiudono ad aiuole: gruppi selezionati in antri di rotwang, particelle a tensione tenue del laboratorio colesterolico: un diritto parcellizzato al consumo. Nell'ammucchiata millecolori e millesapori a macchiare l'occhio dello slargo il fiore loliteggia guardandomi di sbieco: mi metamorfizza in diasporico russo sul ciglio baratrico: a oscillare e tramutare l'accenno d'erezione in senso (e sesso) d'esistenza. Uno sbarbaglio indecente: e assonanze e dissonanze e il congelamento della madre di lei: vestitini casalinghi e spese portate sulle rampe di cosce vogliose; e il padre, pure: sagomare ammiccante a mandrilleggiare il panorama di culetti acerbi: un vero sir. Però indugiare accroccato nel lampo che lacera è peccare, goffamente: picca e ripicca rinfiocina lo stomaco e ti ricorda la meta: che se stai in giro in questa serata marzolina è per la carina: la piccina. E mi parallela, più avanti, a passo a passo, al narrare di una fregatura: son due giullari incatramati in boccia in cerca di fumisterie più accoglienti. La streppa caccola, la cromatina croma (la capa del morto): il lamento siffatto risuona argenteo tra gli straccetti stesi e s'adombra nell'anfratto di un piedare più urgente: mi libera i padiglioni oculicano il bulbo e la nenè trionfa tutta tronfia e abbagliante (e meshata) a spompinare l'aria. E due crucchi financo: pedalino d'ordinanza a ritrarre in digitale il ventreggiare di nilo marmoreo illuminato a bella posta (e svolta e schiva di continuo). Poi arrivo alla vocina: che mi sfianca, bianca, e chiede bicchierini su bicchierini. PIAZZA GRANDE 2 di Barbara Delfino in piazza ci sono bambini che scendono nel pomeriggio dopo pranzo a giocare a mondo, a saltare la corda, a figu, a tappo, a strega chiama color. in piazza ci sono le ragazzine che mandano le amiche dai ragazzini a dir a uno di loro che lei si vuole mettere con lui e tu allora dici di sì e lei arriva e ti dà un bacio sulla guancia vicino alla bocca con gli occhi chiusi come fanno i grandi ma non senti nulla, anzi, ti sei pure dovuta alzare sulle punte dei piedi, e allora torno dalle mie amiche e dico loro di andare a riferire che ti lascio. in piazza sono appoggiato al mio booster truccato e spetazzante col casco spagnolo allacciato ma che mi scivola sulla nuca perché fa fico e ci ho il pantalone sbracato che mi vedi il boxer di calvin klein che fa capolino ma solo l'inizio perché guarda son due giorni che non lo cambio e se lo scopre mia mamma mi fa un culo così perché metti che mi capita un incidente e finisco all'ospedale maronna santa che figura che ci hai la biancheria sporca e quante volte devo dirti metti a posto la tua camera. in piazza attraverso stanca due sporte di spesa nella mano destra e la confezione da sei di acqua nella sinistra e come pesa e mi fermo e appoggio tutto in terra, mi risollevo e come sono stanca, ho comprato del riso per stasera, farò degli arancini, piaceranno a mio marito, chissà se gli piaceranno o se anche stasera mi urlerà che sono schifa a cucinare ma se mi dicesse che son buoni allora vuol dire che è vero che la sera va a trovare quella là e inverto i pesi, l’acqua nella destra le due borse nella sinistra. in piazza ci son io anziano che quando succede qualcosa e arriva la rai io son sempre qui seduto davanti al bar con la tenda di perline e mi riprendono e a casa è festa grande che mi han visto sul tiggì ma mio nipote che sta su a Milano mi dice che ha fatto una figura e' mmerda a raccontare che suo nonno lo hanno messo in tivù gli han detto che qui non facciamo niente e aspettiamo il tempo che passa seduti e sappiamo solo lamentarci ma fare niente, quello no. GIUGNO di Mucio - Giugno col bene che ti voglio. - Era Luglio. - Sei sicuro? - Sì. - Ma adesso è Giugno. Giugno col bene che ti voglio. LO SCARAFAGGIO di Cinzia Pierangelini È difficile raccontare la mia storia. I precedenti illustri, letterariamente parlando, rischiano di tarpare le ali a qualsiasi velleità artistica. Non mi resta che narrare con parole povere, terra-terra; come s’addice, d’altronde, a uno scarafaggio. Tale nacqui, mi pare ieri, e subito mi toccò zampettare veloce, per districarmi dal caotico brulicare di fratelli e sorelle, cuccioli spauriti, disgustati dal comune contatto di antennucce vibranti e zampine pelose. Inespressivi occhietti lucidi che si fissano, privi di sentimento, in gara per la fonte di cibo più vicina. Non potrebbe essere altrimenti, tuttavia, poiché nasciamo soli, sfuggiti e abbandonati dal principio. Ci vuole una gran forza d’animo, lasciatemelo dire; e l’autostima, col tempo, non aumenta di certo a sentire certe esclamazioni: “Ah, che brutta bestia!Che schifo, uno scarafaggio… schiaccialo, schiaccialo!” Ma non ho intenzione di piangermi addosso; ognuno ha la croce che riesce a portare. In fondo, numericamente parlando, gli insetti, e gli scarafaggi in particolare, sono dei vincitori. Colonizzatori del mondo terreno-aereo-acquatico. Un esercito senza pari che oppone a ogni perdita nidiate sempre più numerose, forti, furbe, resistenti ai veleni e prive d’amor proprio. Uno solo di noi può gettare nel panico un nemico ben più grosso e forte e, se per caso attacchiamo in gruppo, veniamo annoverati tra gli eventi storici di rilievo, come piaghe certo… ma non si può avere tutto, no? Tornando a me: non ho notizie dei miei parenti; non ho mai sentito l’esigenza d’informarmi, forse perché la blatta è un animale solitario, sebbene viva in grandi comunità. Protetta dalle tenebre esce da sola al calar della sera, mimetizzandosi in foglia secca, cacca, ombra. Sarebbe una vita perfetta se non perdesse la testa davanti al pericolo, mettendosi a correre di qua e di là come un’invasata. Tale è per lei la vergogna d’esser vista. Soffre di un orrendo complesso d’inferiorità, del tutto spiegabile in effetti, come ho già detto, che ha come radice prima l’abbandono materno. Se restasse ferma, lì, nel cono d’ombra, nessuno la noterebbe; tanto meno le darebbe la caccia: ché nessuno ambisce alla raccolta di blatte come passatempo. Invece no! Le sue antennucce cominciano a vibrare impazzite e le zampine si danno a una corsa frenetica e immotivata. Il cuoricino pompa al massimo, tanto da offuscarle la vista, e così la stupida finisce proprio tra i piedi di chi cercava di evitare. Spesso, ahimè, succede l’inevitabile, in mezzo a urla isteriche e maschie parolacce. Già perché lo schiacciatore casuale di blatte non si diverte affatto in questa attività, al contrario di altri cacciatori. Come dargli torto? Persino il disinfestatore di mestiere, pagato in sonanti banconote, è notoriamente ricoperto d’infamia. Si è mai sentito qualcuno vantarsi di eliminare blatte? “Che lavoro fa il tuo papà?” “L’ingegnere, e il tuo?” “Oh, il mio ammazza scarafaggi!” Non sarebbe granché come biglietto da visita, bisogna riconoscerlo. Insomma siamo soli, uniti tra noi da semplici regole di sopravvivenza. E siamo esseri semplici, forse perciò esistiamo dall’inizio della storia del mondo. Ma adesso vorrei davvero raccontare dall’inizio: ci fu una grossa esplosione, si narra, e la terra... Ma scusate, sento qualcosa... dei passi? Ho paura... paura, devo correre... no, non devo... ma sento che sto per farlo, ah... sì corro corro... Splaf! (MONOLOGO, ORA) di Pier Maria Galli le labbra non hanno, no, amore mio, le labbra non hanno alcunché, come si possa perdere e perdonare se (e quello che) le labbra non hanno, membrane come tu pensi il cielo ed il mare lì dove il cielo finisce nel mare e lo chiami orizzonte no, amore mio, le labbra non hanno né quella bocca né quell'orizzonte lì dove membrane il cielo piomba nell'acqua e lì nulla s'apre né bocca né orizzonte io labbra tu labbra egli labbra noi labbra, ecc., vedi amore?, come l'amore può solo questo, declinarsi, declinarne, farne cosa da verbo, di sé, ma invariabile, perché siamo solo labbra, questo dirti, che nulla possediamo di questa cosa che cade sull'altra e nulla ha e come questo nulla avere ci rende simili a loro noi alle labbra, le labbra a quella cosa che ci declina lenta e piana - insostituibile ed inverosimile, che noi quando apriamo la bocca per respirare, come alza il cielo dal mare l'orizzonte che ci fantastica, chiamiamo amore SOMME di Mucio - Quattro più quattro? - Otto! - Otto più quattro? - Undi... no dodici. DROMEDARI Di Mucio I dromedari masticano, masticano continuamente, possono tenere in bocca lo stesso pezzo di legno anche per giorni. E' per questo che una marca di sigarette ha per simbolo un dromedario (in inglese arabian camel), perchè in origine era una marca di tabacco da masticare. STRADARIO di Paolo Ferrero Casa mia ha un grosso difetto, sta lontanissima da S.Lorenzo. Non che io stia tutte le sere li, ma ovviamente capita di andarci. Un altro pregio-difetto di casa mia è che per la sua locazione consente almeno 4 percorsi alternativi per raggiungere ogni posto, ed è estremamente difficile calcolare i costi-benefici di ognuno di questi. Non a caso regolarmente faccio all'andata una strada ed al ritorno un'altra, compiendo una sorta di giro che si chiude a fine serata con il mio rientro. Aggiungete al tutto il fatto che sia lo scooter sia la macchina hanno il contachilometri rotto: emerge facilmente come sia arduo ogni volta che esco (in ritardo) scegliere la strada. Oggi però ho fatto una cosa che mi ero ripromesso da tempo, ho cercato il percorso su viamichelin e tuttocittà, per vedere qual è il più corto. Undici chilometri passando per piramide, aventino, colosseo, via Manzoni, Porta Maggiore. FAMAGOSTA di Mucio Quando ero piccolo e i miei mi portavano in metropolitana, la verde finiva a Famagosta, che io pensavo essere un posto incredibile dove doveva esserci un'enorme aragosta gigante o qualcosa del genere. Ci sono stato ieri, ci sono solo dei parcheggi. Stasera vado al ristorante a mangiare un'aragosta viva. Così impara ad andare via senza avvisare nessuno. LUCA E NULL’ALTRO di Roberto Tossani Luca non avrebbe più pianto, se l'era ripromesso: l'aveva anche scritto sul suo diario. Morivano i suoi amici? Ok. Aveva perso il lavoro? Benissimo. Lui non avrebbe mai fatto quello che da sempre sognava di fare? Fantastico. Perché piangere, Luca, non l'avrebbe più fatto. Perché se ancora una lacrima fosse scivolata sul suo viso Luca non sapeva proprio che cosa sarebbe accaduto, probabilmente avrebbe perso il controllo. E dopo? No. Luca non voleva rischiare di compiere per la prima volta in vita sua qualcosa di cui non fosse consapevole, magari un qualcosa di terribile. E per cosa, poi? Per colpa di questo mondo dove si erano presi tutti in giro, quando ormai non vi era più niente da dire perché tutto, tutto era andato a farsi fottere? Per colpa del passato quando gli era consentito illudersi che le sue illusioni fossero soltanto illusioni, d'accordo, ma illusioni di cui almeno era consapevole, illusioni di cui poteva ridere o piangerci su o fingere di crederci, colpito da un attacco virulento di utopia? Per colpa del presente in cui tutto era sempre più viscido, gretto, meschino, subdolo, e porcodio, e basta basta basta: "Inculatemi la vita, che così la finiamo una volta per tutte". No, Luca non poteva rischiare. Luca non avrebbe più pianto. Soltanto sparato a raffica, con calma, contro quei due stronzi. Sparato, finché il caricatore non fosse finito. Poi se ne sarebbe restato lì, seduto sul marciapiede, ad aspettare che qualcuno lo venisse a prendere. Per dignità non avrebbe accennato agli amici morti, al lavoro perso, ai suoi sogni non avverati, alle colpe sue e di tutti gli altri. Soprattutto non avrebbe pianto. Quando il magistrato gli avesse chiesto perché aveva massacrato quei due stronzi, Luca avrebbe risposto: "Perché non potevo più piangere, neanche più una lacrima, niente, perché se avessi pianto ancora una volta chissà che cosa avrei fatto". "Perché quello che ha fatto, invece, è roba da niente...". "No. Volevo soltanto dire che quello che ho fatto almeno sapevo di farlo, lo volevo fare: ne ero del tutto consapevole". ABBANDONO di Mucio Cara Clara, Credo non ci sia più niente da fare, il tuo continuo risciacquarti i piedi nel bidet mi rende impensabile continuare la nostra convivenza. Vado via. Domani tre miei operai verranno a prendere le mie cose. Addio. Marcello P.S.: Almeno non dirai che ho usato la solita scusa. SUCCEDE di Michele Giannoni Succede. Le ruote dell’aereo stridono sull’asfalto, tu scendi dall’apparecchio col tuo jet-lag e la tua valigia piena di ricordi di un viaggio di lavoro da dimenticare. Vaghi nell’aeroporto, tra vetrate che rimandano la tua immagine, quella di un uomo sulla quarantacinquina, alto, magro, capelli biondi, giacca e pantaloni avana. Succede, succede che estrai il cellulare dalla tasca e componi la cabala cifrata che significa odio e amore, passione e disperazione. Il numero di lei, e il pomo di Adamo ti danza in gola pensandola in minigonna e tacchi a spillo, il corpo inarcato come un cavalletto davanti alla posa, i polpacci sporti a delineare slanci che mozzano il fiato. All’altro capo del filo una donna assonnata, nuda fra lenzuola di seta, apre gli occhi cigliuti. Nella stanza, tra le stecche del rotolante semichiuso, filtra il brillio di una piscina. La donna si protende sbadigliando verso lo squillo. Una mano, una mano d’uomo col Rolex al polso, le scivola dalla spalla nuda e ricade inerte dietro la sua schiena, sul cuscino ancora tiepido delle effusioni notturne. “Pronto?” mormora lei, la voce impastata di sonno e di tracce di orgasmi. “Pronto Monique?” “Pierguido... ” “Monique...” “Dimmi.” “Scusa, potresti parlare più forte? Non riesco a sentirti.” E ti soffermi davanti al McDonald’s dell’aeroporto, proprio sotto la figura luminosa di un hamburger, tappandoti l’altro orecchio per schermare il frastuono del viavai. “Sei già tornato? Credevo che tornassi fra una settimana...” farfuglia Monique, e si volta a osservare il suo amante: adora guardarlo dormire. Lui russa, va in apnea per qualche istante, riprende a russare. “Come, scusa? Non si capisce niente...” “Ascolta, Pierguido, puoi chiamarmi più tardi? Devo andare in bagno.” “Come? Un ragno? Ma che cazzo...?” E continui a girare freneticamente su te stesso come se ciò ti aiutasse ad aguzzar l’udito, ma intanto percepisci una semplice vibrazione nella sua voce, e quella piccola, insinuante nota roca ti dice che lei ti nasconde qualcosa. Succede. Tutti sappiamo come ci si sente, quando si è cornuti, anche chi non lo è stato mai, perché la vita ci tradisce, tutti, nessuno escluso. Magari soltanto una scappatella. Ma sentiamo che qualcosa non va, che qualcosa è cambiato in lei, nella vita, e anche se in certi momenti ci abbraccia e ci si struscia come un gatto, c’è qualcosa... qualcosa che ci fa sospettare che non ci ami più. E tu, Pierguido, è così che ti senti adesso, mentre finalmente spegni quel maledetto cellulare. Intuisci che Monique ti tradisce, e la vita con lei. Tieni duro, succede. Succede che fuori dall’aeroporto c’è una città che è la tua città, anche se, stornato dal jet-leg stenti a riconoscerla. Ti fermi alla fermata del bus, ti soffermi a scrutare la tabella degli orari, mentre 800 km più a sud lei si rigira su un fianco dedicandosi definitivamente al ricco uomo d’affari con cui ha fatto l’amore tutta la notte. E si leva a sedere, poggiando la schiena nuda alla testiera ammira nello specchio del cassettone rococò la propria abbronzatura coltivata in giorni trascorsi su un panfilo, il bruciore dei raggi UVA mitigato dai baci umidi di lui. Si raccoglie i capelli con le mani e se li tira su, scoprendo le tempie diafane, da principessa di Mille e una Notte. “Sei bellissima,” sussurra a se stessa quella stessa donna che un giorno aveva fatto l’amore con te in un campo di segale. Sembrava così genuina, così semplice, allora... Era la fine dei mitici anni ’80, ricordi? Dopo, dal vostro radioregistratore portatile, uscirono a cullarvi le note di Save a Prayer dei Duran Duran. ...... Save a prayer ‘till the morning after..... E tu rimirasti il cielo terso di luglio, bevendolo in un sorso insieme alla tua gioventù. Quanto tempo è passato, Pierguido? Anni? Decenni? Il computo fatale è scritto nelle rughe profonde che ti scendono dagli angoli della bocca. Adesso la tua figura – il volto di un fantasma dilatato dalla bombatura del vetro – si riflette nel finestrino di un’auto nuova, lucida, fiammante: una Ford Fiesta nera. E dentro, seduta al posto di guida, una ragazza, anch’essa bruna. Non puoi vedere i suoi occhi, essendo la vettura troppo bassa, ma puoi intravedere la punta del suo naso e, più sotto, le sue labbra tumide che si dischiudono per accogliere una sigaretta. Dolcemente, voluttuosamente. E le sue dita indugiano con lascivia attorno alla sensualità di quel cavo orale strizzando qualche brufolo, espellendo minuscoli vermi di pus che scompaiono fra la nebbia in miniatura delle nuvole di fumo. Fumo di sigaretta e pus, unghie laccate di fucsia e labbra sberluccicanti di rossetto: lubrica alchimia che ti fa pulsare le vene dell’inguine. “Dio mio, come vorrei che mi succhiasse” pensi. E ti ritrovi, come per un inesorabile disegno del fato, a desiderarla. La sua bocca, certo, soltanto la sua bocca, forse anche il suo mento. Non è il resto del suo corpo che desideri, quel corpo ossuto fasciato in una maglietta a strisce, niente di paragonabile alle curve pericolose di Monique. Né tantomeno brami la sua mente, mente di lolita troppo cresciuta. Eppure quel suo modo di dischiudere le labbra, mostrando la lingua molle ornata da un piercing, dà ogni volta un tuffo carpiato al tuo cuore di maschio. Cuore ferito, certo. Di maschio cornuto, succede. Ma paradossalmente ti senti in colpa nei confronti di Monique. Non sai che proprio in quest’istante sta attorcigliando attorno al suo dito un ricciolo di un pube diverso dal tuo, un pube brizzolato, gustando sul volto l’alito caldo del suo amante, in un letto ancora tiepido delle effusioni notturne, nella luce di piscina che filtra dal rotolante. La ragazza nell’auto finalmente s’ingobbisce e ti guarda da sotto in su. Aspetti qualcosa, un cenno di intesa, oppure... ma sì, un’espressione di ostilità, che almeno ti farebbe sentire macho. Ma lei fa soltanto “boh” e si volta dall’altra parte, noncurante. Quel suo sprezzante “boh” ti manda in briciole, ti fa sentire un nano. Succede. Succede che all’improvviso capisci tutto, capisci che sei fottuto, Pierguido. Che sei vecchio. No! Non puoi accettarlo, cazzo! Hai ancora tutta la vita davanti, sei un ottimo professionista, sai giocare bene a tennis, ami gli animali e la tua vicina di casa ti sbircia quando fai ginnastica seminudo davanti alla finestra. Nessun uomo sarà mai veramente fottuto finché c’è una vicina di casa che lo sbircia. Tu hai ancora tanta energia, Pierguido, e per provarlo decidi di andare a casa a piedi. Tu sei ancora disposto a rischiare, Pierguido, e per provarlo attraversi col rosso. Un passo, due passi guardando alla tua destra, con la valigia che ondeggia allegramente nell’aria mattutina odorosa di tiglio e pesce fresco. E succede che non vedi il furgoncino bianco che ti piomba addosso dall’altra parte. L’urto violento ti attorce il bacino, ti scaraventa in aria come un pupazzo, mentre la tua valigia piena di ricordi fluttua in aria come una foglia morta. Anche tu volteggi, Pierguido, acrobata del circo della vita e della morte, e ricadi sull’asfalto con la nuca – un crack invece dell’oplà – e rimani lì, supino, crocifisso alla striscia d’asfalto, ignaro della gente curiosa e spaventata che fa cerchio attorno a te. Un ultimo brandello di memoria: Monique nuda accanto a te, in quel campo di segale, nei mitici anni ’80. .... Save a prayer ‘till the morning after... E con gli occhi sgranati bevi il cielo, che è proprio uguale al cielo di allora. E muori, Pierguido. Un ultimo ricordo, un ultimo respiro, nessun dolore, tutto svanisce. Succede. TOH! GUARDA CHI SI VEDE. di Mucio L'ultimo giorno di marzo fu avvistata la nave del capitano Blacky, tutta l'isola della Tortuga era in fermento, la storia di come Blacky aveva colato a picco il Monarc, la nave più veloce della marina spagnola, era stata più rapida di lui. Quando Blacky scese a terra la folla sul molo si aprì per cederli il passo, sola si fece avanti una donna, chiaramente incinta. - Toh! Guarda chi si vede - disse Blacky. La donna allora gli diede un ceffone sul viso che lasciò tutti ammutoliti immobili. ALFREDO di Luigi Castaldi 1. “Ecco, vedi, non può che essere così!”, e Alfredo mi guardò dritto negli occhi. Che si aspettava, stupore? La sua lunga tirata non mi aveva convinto, ovviamente. Ma decisi che fosse il caso di concedergli qualcosa, l'illusione di avermi convinto tranne che per un’ultima debole resistenza. “Tu dici che dovrei provarci?” chiesi. “Non ci sono cristi! Fidati: 36, 51 e 83!”, e per dare forza al concetto sferrò un pugno sul tavolino del Deezee Bar al quale eravamo seduti da un’oretta. 2. Conoscevo Alfredo dai tempi dell’università. Erano gli anni che poi furono detti “di piombo” e che a me erano subito sembrati di ottone, per quel loro subito spezzarsi e per quella muggente cupezza del corno da caccia. All’università, invece, c’erano i miei coetanei. Dormivano tutto il giorno, sognando ad occhi aperti ipotetici proletariati dalle geometriche onnipotenze, russando frasi a me incomprensibili perché infarcite di tecnicismi, troppo veloci perché trottavano su tigri. Alfredo, uno di loro. Non so per quali ragioni, io frequentavo le loro assemblee. Dicevano che ero un provocatore e forse era vero, perché non si va a dire agli Indiani Metropolitani che “gli esami dovrebbero essere più severi”. Oggi è facile, ma dire “l’uguaglianza è un incubo” in quegli anni non era il top del savoir faire. Da quelle assemblee uscii due o tre volte con gli occhiali rotti, salvato a fatica da un gruppetto di cristiani di sinistra (una sorta di marxisti che credevano in Gesù come sindacalista) che pure mi odiavano, ma che evidentemente odiavano di più la vista del sangue. Non mi si fraintenda, non andavo a quelle riunioni per il gusto d’essere aggredito. Ero lì per seguire la lezione che loro avevano interrotto, per il colloquio col professore che avevano gambizzato, per il seminario sul glomerulo renale che diventava il dibattito sulla strage di stato. “Che fare?”, me lo chiedevo anch’io, meno leninisticamente, e decidevo sempre di rimanere, sempre di ascoltare in silenzio. Sempre chiedevo la parola e mi sorprendevo a declamare apologie della meritocrazia e del liberalismo, filippiche contro ogni modello di statalismo e assistenzialismo… Ero un rudere intellettuale occidentale. Fu in una di queste occasioni che Alfredo mi parlò la prima ed unica volta. Lo conoscevo come tra i più agitati. Mi ero appena alzato, chiedendo la parola. Già alcuni, tra i più intemperanti, si stavano preparando a darmi la solita lezioncina, mentre i soliti cristiani di sinistra già preparavano le garze. Mi ero appena avvicinato al microfono, quando Alfredo vi si frappose e disse: “Ecco che adesso prende la parola un dinosauro, uno di quelli che parla di selezione naturale, ma non ha capito che sono quelli come lui ad essere sulla via dell’estinzione. Borghesucci. Pensano che la proprietà privata sia uno dei nomi di Dio! Una volta tanto, facciamolo parlare fino alla fine. Studiamoci quest’esemplare prima che ne scompaia la specie per sempre! Ehi, tu, coso! Hai tre minuti esatti, compreso il tempo per scappare subito dopo! Dài, parla!” Non so per quale motivo, ma suppongo fosse lo stesso delle altre volte, parlai: “Dio non voglia – dissi, più o meno – che vi sfiori mai il sospetto del fallimento che siete. Vi do appuntamento ad uno ad uno, tra venti o trent’anni”. 3. La sera in cui incontrai Alfredo ero passato al Deezee Bar per curiosare. Me ne avevano parlato, non c’ero mai stato prima. Alternavo un mezzo sorriso annoiato tra il Martini e le buffe scarpe rosse d’una brunetta seduta di fronte, quand’ecco Alfredo. Non lo riconobbi. “Ciao, Evola”. “Scusi?”, accennai. “Ma sì, sei tu, Evola” “Lei sbaglia persona, io...”, tentai. “E dài, dottore! A proposito, sarai certamente dottore adesso, no?” Io zitto, un gomitolo. “Ma come? Non ti ricordi? Sono Alfredo, Alfredo Stinca! Ti ricordi? L’università… Autonomia Operaia, le assemblee... Non ti ricordi tutte quelle botte che prendevi quando facevi il fascio e ti salvava sempre il gruppetto di Raffaele Acampora... Non ti ricordi?” Ricordai. “Siediti – dissi – Che bevi?” “Una birra, grazie” Incrociammo finalmente gli sguardi. “Non sapevi che ti avevamo affibbiato il nomignolo Evola?” “Evola mi è sempre stato sul cazzo. Ero un liberale, come adesso. Tu piuttosto, che fai adesso?” Sorrise. E cominciò. Utopia piegata in otto, abbandono dell’università al primo anno fuori corso, constatazione della frivolezza e della cattiveria del mondo, rientro nella folla dei lamentosi. “Lo so, mi mancavano solo otto esami, ma non avrei lo stesso trovato un posto, perché a leccare il culo di un barone, io, mai! Poi avevo messo incinta Irma, te la ricordi? Ce ne accorgemmo solo al sesto mese… E poi ho trovato un lavoro…” Una porziuncola stronzissima di me fece per fare capolino, ma le tirai un pugno in faccia, ricacciandola nel suo buco rancoroso. “E che lavoro fai?”, preferii chiedere. “Ho una ricevitoria del lotto – rispose – Cioè, non è mia, ci lavoro”. “Lotto continuo?”, azzardai. Non la prese male, sorrise. “Sempre lo stesso, tu, eh? – disse – Ma mica è come credi, è un lavoro interessantissimo. Anzi, ora ti spiego una cosa…” La “cosa” prese mezz’ora buona e ci lasciò il tavolo ingombro di foglietti pieni di terni e quaterne. Lo capivo meno di vent’anni prima. Finì dicendo: “… e, se mi dai duecentomila lire, te lo dimostro” Tentai un “tu dici che dovrei provarci?”, senza speranze. Ne riebbi solo un “non ci sono cristi! Fidati: 36, 51 e 83!”, e quel pugno sul tavolino. 4. Dei tre numeri di Alfredo uscì solo il 51, ma su un’altra ruota. Gli avevo dato le duecentomila lire, ma avevo la certezza che non le avesse giocate, né che veramente lavorasse in quella ricevitoria. Mai visto nessun impiegato di ricevitoria del lotto puzzare tanto e avere una barba così lercia. Però, per scaramanzia, avevo giocato lo stesso diecimila lire su quei tre numeri. La signora della ricevitoria sotto casa mi aveva detto: “Ah, dottore, adesso gioca anche lei? Mi faccia vedere che numeri ha. Eh, no, dottore, mica va bene così. Questi andavano bene nel maggio del 1977, fu un terno che fece vincere due miliardi… E quando mai s’è visto un terno così ripetersi due volte? Comunque, li giochi, non si può mai sapere, la fortuna del principiante!” Non rividi più Alfredo, dopo quella volta. O forse no, era lui, una volta, quello chino sugli yogurt in un reparto alimentari, ma non saprei esserne sicuro. Appena lo colsi con la coda degli occhi, sgaiattolai tra scope e carta igienica verso l’uscita. BARONI E BARBONI di Mucio - Fate la carità. - Ma voi scherzate! Io sono un barone! - Anche io lo fui un tempo, in virtù del mio passato, datemi qualcosa. - In virtù del mio futuro non vi do un bel niente. I MILLE di Mucio 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 216, 217, 218, 219, 220, 221, 222, 223, 224, 225, 226, 227, 228, 229, 230, 231, 232, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 274, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 305, 316, 327, 338, 349, 360, 371, 382, 393, 404, 415, 426, 437, 448, 459, 470, 481, 492, 503, 514, 525, 536, 547, 558, 569, 580, 591, 602, 613, 295, 306, 317, 328, 339, 350, 361, 372, 383, 394, 405, 416, 427, 438, 449, 460, 471, 482, 493, 504, 515, 526, 537, 548, 559, 570, 581, 592, 603, 614, 296, 307, 318, 329, 340, 351, 362, 373, 384, 395, 406, 417, 428, 439, 450, 461, 472, 483, 494, 505, 516, 527, 538, 549, 560, 571, 582, 593, 604, 615, 297, 308, 319, 330, 341, 352, 363, 374, 385, 396, 407, 418, 429, 440, 451, 462, 473, 484, 495, 506, 517, 528, 539, 550, 561, 572, 583, 594, 605, 616, 298, 309, 320, 331, 342, 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Ministero della Pubblica Istruzione durante la precedente legislatura, ama ripetere questa cosa più volte nel corso della stessa conversazione. È tanto noioso, ma pubblichiamo grazie a lui. Masatomo Ueda è cresciuto rincorrendo farfalle nei dintorni di una miniera di carbone, la sua opera prima "Fiori neri per Margaret" lo ha posto sotto i riflettori della critica inglese. Da alcuni anni vive in Italia, non per questo ne ha imparato la lingua e si vede. Gianluca Zaffino eletto per tre anni di seguito capoclasse alle scuole elementari, ha proseguito gli studi presso scuole cattoliche della controriforma. Scrivere per lui è come respirare. Vive grazie agli alimenti che gli passa mensilmente la ex-moglie. Bruno Malfredo è uno degli esponenti di spicco della Nouvelle Vague di Arzachena, corrente artistica che organizzò in "Sput'88", nell'agosto dell'88 nella piazza di Arzachena, qualche decina di artisti che si produsse nella performance di sputare addosso ai passanti. Dopo due mesi di ospedale, si diede alle lettere, con risultati simili. Luca Paci, pseudonimo dietro al quale si nasconde Paci Luca, nasce e cresce in un laboratorio svizzero fino ai sedici anni, poi gli scienziati lo mandano a studiare in un istituto professionale di Giugliano e mentre lui parte già iniziano a ridere. Gli piace anagrammare il suo nome e cognome. Gianni Grande ogni volta che viene in redazione ci racconta di perchè gli amici lo chiamino Gigi, che non sta per Luigi, ma per le iniziali del suo nome G e G. Questa cosa lo diverte molto. Barbara Delfino vive e lavora in una comunità di recupero per tossicodipendenti, dopo il liceo classico si è avvicinata alla parola di Dio e subito dopo alla droga. Adesso sta cercando di uscirne. Dai, Barbara, siamo tutti con te. Cinzia Pierangelini colleziona scarpe. Un giorno che ne aveva appena comprato un paio ci raccontò delle sue scarpe: - Hai presente il negozio in galleria? quello enorme? - Ne hai così tante? - No, le compro lì. Pier Maria Galli è il sapiente interprete di ballate folkloristiche e di nenie gitane. Vive per l'amore, i sigari cubani e il suo gatto Marrone, di nome e di fatto. Scrive poesie quando è ubriaco. Per vivere sfida a biliardo i ragazzini che saltano la scuola. Paolo Ferrero è stato scelto all'ultimo Castrocaro per rappresentare l'Italia al Festival della Musica Europea. Dopo un periodo di depressione dovuto alla notizia, ne sta uscendo adesso anche grazie alla scrittura. Roberto Tossani è docente di Estetica e Filologia all'Università del Sacro Cuore di Brescia e ha numerose pubblicazioni su questioni di filosofia e di morale. A breve uscirà il suo primo libro di ricette. Michele Giannoni è stato per molti anni sottovalutato dalla critica letteraria, anche perchè non aveva pubblicato nulla. Con i soldi di un tamponamento subìto in tangenziale, è uscito il suo primo libro. Adesso è in cerca di occupazione. Luigi Castaldi sfida quotidianamente le leggi della fisica e del buon senso arrampicandosi sui grattacieli in giro per il mondo, uno sport duro che lo porta a confrontarsi ogni giorno con i propri limiti. O almeno questo è quello che gli piacerebbe fare. Un grazie a Mucio e ai suoi intervalli. Senza lui, le pagine sarebbero state almeno la metà. Un grazie a Roberto, che ci ha consigliato il font dei caratteri. Un grazie a Edoardo Vianello e a Franco Califano, colonne sonore d’interminabili pomeriggi. Un grazie a Massimo: parea mota, unn’era. Questo volume è dedicato ai creatori di PornoTube: ragazzi, siamo con voi, finché non vi chiudono il sito. Ugly Off - Soda Speciale n° 0 – Anno 0 – Euro 0 Agosto 2006 www.rael-is-real.org/soda