Daniele Valisena
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Daniele Valisena
1 “Shoah”, di Claude Lanzmann. Un’introduzione di Daniele Valisena Come dare un nome all’innominabile? Al male assoluto che distrugge il senso ultimo di tutto? Come dirlo, come mostrarlo, come vederlo, come rievocarlo? Shoah, come spiega lo stesso regista nella sua autobiografia, per lui non significava nulla. L’autore non parlava l’ebraico e questo termine, che compare nell’Antico Testamento e che significa catastrofe, distruzione, ma può riferirsi anche a fenomeni naturali, era incomprensibile. Un suono, “un grido, un’esclamazione breve e opaca, una parola impenetrabile, infrangibile […] che non parlando ebraico, mi impediva ancora una volta di nominare”. Se avesse potuto infatti non avrebbe dato alcun titolo al suo film, perché, come si sforza di fare per oltre le 350 ore di girato, a parlare sono coloro che l’innominabile lo hanno visto, lo hanno vissuto, vi hanno fatto parte, lo hanno reso possibile. Ebrei scampati miracolosamente dai campi di sterminio, Sonderkommander – ossia ebrei che lavoravano per i nazisti nei forni, nelle camere a gas e nei campi polacchi -, nazisti membri delle SS, polacchi dei villaggi vicini ai campi. Lanzmann si pone un obiettivo grandioso, tremendo: “Abitare lo sguardo di coloro che andavano a morire”. La morte infatti, non la vita, è la protagonista di “Shoah”; praticata in tutti i suoi minuziosi, puntuali e precisi dettagli, organizzata, eseguita, “ripulita”, perpetrata sistematicamente, per portare a compimento la Soluzione Finale. (Non è pedagogia, non è didattica, non è vendetta, non è perdono. È il racconto dei racconti dell’Innominabile). Come rivela lui stesso, nel provocare la memoria dei testimoni - gli eroi e gli ignobili protagonisti di “Shoah” - è la vista dei luoghi dello sterminio a rivelargli il nesso ineludibile tra il passato innominabile e il presente muto che lo accoglie e che circonda questi spazi ancora anonimi e muti. Ed è proprio questo forse che Lanzmann compie: unifica, mette in comunicazione i “nomi” dei luoghi, delle persone che vi hanno vissuto e che vi sono morte, di chi li ha abitati – Treblinka, Chelmno, Auschwitz, gli ufficiali delle SS, un barbiere ebreo che tagliava i capelli delle donne e dei bambini nudi nelle camere a gas, pochi minuti prima che la morte li prendesse, un’autista polacco che guidava i treni della morte, un eroe della Resistenza nel ghetto di Varsavia – con il loro presente. Quello della Shoah infatti è un passato-presente che non finisce di essere attuale, perché oltre a una dimensione storica – che gli storici, i passeur de memoire e lo stesso Lanzmann hanno ripristinato, ci obbliga a spalancare le porte sull’orrore, la parte più atroce dell’animo umano, che con un perfetto ordine scientifico, puntualità e rigore, ha visto coinvolti tedeschi, polacchi, ebrei, ma che ha coinvolto e coinvolge ancora tutti noi, perché, come scrive ancora Lanzmann avvistando il cartello della stazione - ancora funzionante - di Treblinka, tutto questo “Esiste! Esiste davvero! Ha l’impudenza di esistere!”. L’innominabile viene scaraventato con tutta la violenza di cui solo la realtà è capace, non di 2 fronte, ma negli occhi degli spettatori-viaggiatori, in un viaggio nella memoria che non è solo degli ebrei, ma dell’umanità intera. C’è un’urgenza, un bisogno di dire, e quindi rendere reali, “vere”, le parole e i racconti che Lanzmann a volte ascolta, a volte provoca - che spesso conosce già, perché si è imbevuto di ricostruzioni storiche, di liste di nomi - che è un bisogno che ben conoscono tutti coloro che si occupano di storia, i passeur de memoire, gli insegnanti, i giornalisti, e tutti coloro che sono testimoni, voci, portatori di una memoria che non è solo loro, ma di una famiglia, un quartiere, un partito, un’epoca, che sentono minacciate la loro stessa esistenza, che è la stessa cosa della loro verità, dai colpi muti del silenzio (e Lanzmann vuole farlo dire a loro, ai testimoni, che vivificano così le immagini delle camera a gas, i luoghi della morte, di cui non esistono fotografie nel “momento” della loro tremenda attività). Lanzmann offre poi un grande insegnamento di metodo a tutti coloro che avvertano la sua stessa urgenza di raccogliere una narrazione, di fare storia della memoria. Scrive che nel realizzare le interviste “entra nelle ragioni e le sragioni, nelle menzogne e nei silenzi di coloro che” vuole “dipingere e che sta interrogando”, fino a divenire una sorta di “veggente”, in grado di evocare la memoria e portare a galla la “verità”, la storia. Un’evocazione “muta”, che non vuole giudicare; uno sguardo come quello dell’Angelo della Storia di Benjamin, che non può fare a meno di volgersi ad osservare la tragedia dell’esistenza umana, partecipando di quell’orrore, ma senza spiegare perché lo fa, senza intervenire con la sua mano salvifica o di condanna. È ancora lo stesso Lanzmann a spiegare questo sguardo: “Alla domanda oscena: “come hanno potuto? bisogna lasciare che siano loro a rispondere e rispettare in modo assoluto le loro risposte”.