dal conflitto alla mediazione
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dal conflitto alla mediazione
I DIRITTI DEI FIGLI E LE RESPONSABILITA’ DEIGENITORI NELLA CRISI DELLA FAMIGLIA: DAL CONFLITTO ALLA MEDIAZIONE? Avv. Serena Moroni IL RUOLO DELL’AVVOCATO NELLA CRISI DELLA FAMIGLIA Parlare del ruolo dell’avvocato nella crisi della famiglia oggi, mi sollecita a verificare se la legge 54 del 2006 comporta delle novità rispetto alle caratteristiche che, negli anni precedenti, erano state individuate nell’avvocato c.d. “familiarista” (o “matrimonialista”), la cui specificità è stata affermata e riconosciuta da tempo. I conflitti familiari, infatti, portano con sé una quantità ed una qualità di emozioni che, generalmente, non troviamo nelle altre situazioni conflittuali. L’avvocato deve, dunque, adeguare gli strumenti di cui dispone - ed anche le proprie capacità – per affrontare e gestire in modo appropriato e professionale la crisi della famiglia. L’Avv. Gianfranco Dosi, nella relazione tenuta al primo congresso dell’Associazione Italiana Avvocati per la Famiglia ed i Minori, nel 1993, sollecitava gli avvocati a passare da una logica di contrapposizione (cioè dell’uno contro gli altri) ad una logica di interazione (cioè dell’uno di fronte agli altri) e definiva quest’ultima come la capacità di “cogliere per intero la complessità del contesto generale in cui si lavora, mantenendo integre le caratteristiche del proprio ruolo”. Nell’ambito di questa considerazione globale del conflitto familiare, primaria importanza assumono i figli minori. La sensibilità verso i loro bisogni ed interessi era avvertita anche sotto il vigore della precedente normativa ma, nel concreto operare, la logica prevalente finiva per fare riferimento alle istanze portate avanti dai coniugi. Ebbene, a seguito dell’entrata in vigore della legge 54 del 08.02.2006, è necessario che tutti coloro che, a vario titolo, sono chiamati ad intervenire nel conflitto familiare, tengano presente questa priorità, pena l’inattuazione della legge. La riforma, infatti, nonostante le sue lacune, ci mostra con chiarezza almeno un elemento: il diritto dei figli minori a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, anche in caso di separazione o divorzio. La novità è fondamentale: il legislatore si sposta da una logica che vede al centro i coniugi (con tutte le loro personali ed egoistiche pretese) ad un sistema che contempla i diritti dei figli minori come le prime posizioni soggettive da tutelare. E le tutela in un’ottica di continuità rispetto alla famiglia unita. Non a caso viene usata la parola “anche (in caso di separazione personale…” ecc.) e la parola “mantenere (un rapporto equilibrato…” ecc.); non a caso, aggiungo, è previsto che la potestà genitoriale sia esercitata da entrambi i coniugi. La crisi dei coniugi, tendenzialmente, dunque, non dovrebbe apportare alterazioni di rilievo nei rapporti genitoriali, rispetto alla famiglia unita ed anche se questo ci appare estremamente difficile – per non dire improbabile – da realizzare, è nostro dovere attrezzarci adeguatamente per raggiungere questo obiettivo. A tale proposito, ritengo che il portato della riforma, unitamente ad altre fonti che disciplinano le modalità di svolgimento dell'attività forense, possa chiarire i compiti e l’atteggiamento dell’avvocato “familiarista”. Mi riferisco al Preambolo del Codice deontologico, secondo il quale l’attività dell’avvocato deve contribuire “all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia”; e mi riferisco anche al giuramento che prestiamo all’inizio della nostra attività, secondo il quale l’avvocato è tenuto ad “adempiere ai suoi doveri professionali con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia”. Quando un avvocato riceve l’incarico, da parte di un coniuge, di tutelarne gli interessi nell’ambito di una crisi familiare, non potrà evitare di ricondurre il cliente alle responsabilità genitoriali che la legge gli impone di assumere nei confronti dei figli minori e dovrà anche guidare il cliente verso la consapevolezza della priorità dell’assunzione dei suoi impegni nei confronti dei figli. Solo in questo modo contribuirà all’attuazione della legge senza che ciò comporti il venir meno all’obbligo di fedeltà verso il cliente. Nello svolgere quest’attività, l’avvocato deve tenere ben presente che il miglior modo per realizzare l’affidamento condiviso è l’accordo tra i coniugi. Chi, meglio di loro, è in grado di determinare “i tempi e le modalità” (come recita l’art. 155) della presenza dei figli presso ciascun genitore nonché la misura ed il modo (diretto o indiretto) della contribuzione al loro mantenimento? Come potrà il figlio minore mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore se la pratica gestione della vita quotidiana viene regolamentata da una decisione esterna (quella del giudice), risultato di un processo che ha visto i genitori scontrarsi per anni? Anche se la riforma non contiene alcun riferimento ad un progetto educativo condiviso (che caratterizzava l’originaria proposta di legge), attribuisce assoluta rilevanza agli accordi intervenuti tra i genitori, accordi dei quali il giudice prende atto, se non contrari all’interesse dei figli. Pertanto, il primo compito dell’avvocato quando riceve l’incarico professionale da parte di un coniuge, consiste nel tenere ben presente l’importanza della fase pre-processuale, perché è in quella fase che si possono trovare le potenzialità per giungere ad un accordo. L’avvocato ha, a questo proposito, due possibilità: gestire personalmente una trattativa con l’avvocato dell’altro coniuge (che volutamente non chiamo collega avversario o avvocato di controparte); consigliare il cliente di rivolgersi ad un mediatore familiare. Se decide di gestire personalmente la trattativa, lo farà nella consapevolezza che la tutela del cliente deve essere compatibile – ed, anzi, funzionale – alla realizzazione del diritto del figlio minore a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori. In ogni caso, gli sarà necessaria una preparazione psicologica per affrontare adeguatamente il racconto del cliente (preparazione psicologica assente dal suo corso di studi, ma della quale si dovrà dotare nel percorso professionale). Infatti, la realtà che il cliente presenta all’avvocato è spesso deformata al fine di comparire la vittima del rancore del coniuge; è facile, in tal modo, provocare la comoda e piacevole solidarietà del professionista che lo ascolta, professionista che, dunque, non deve cadere in questo tranello, ma porsi l’obiettivo di capire qual è la reale situazione della coppia. Talvolta, la rabbia, la gelosia, la paura sono così potenti da far affermare al soggetto che vi è coinvolto, delle accuse anche molto gravi circa l’atteggiamento del coniuge nei confronti dei figli. Non di rado, queste accuse si rivelano infondate. Se venissero, però, acriticamente recepite come vere, potrebbero avere un potenziale esplosivo tale da minare irreversibilmente i rapporti familiari. In questa complessa situazione emotiva, il cliente non è in grado di valutare quali sono i suoi veri interessi e, tanto meno, quali sono gli interessi della prole e l’avvocato dovrà aiutarlo in questa direzione, cercando di accertare quali sono le vere problematiche del conflitto familiare. E’ per questo motivo che può essere utile chiedere al cliente di raccontare la sua storia personale e quella del suo matrimonio, cercando di capire quali sono le più frequenti cause della litigiosità. In questo racconto, possono emergere dei conflitti anche con persone che non fanno parte della famiglia in crisi, per esempio le famiglie d’origine. Sono tutti elementi che saranno presi in considerazione quando arriverà il momento di predisporre una proposta di accordo che abbia l’ambizione di aderire il più possibile ai bisogni della famiglia. A volte, sarà necessario chiedere che il cliente esponga per iscritto determinati fatti. Questo avviene quando il cliente è impreciso o poco chiaro. Al termine di questo lavoro, che comporta tempo e pazienza, l’avvocato potrà avere una visione un po’ più oggettiva - comunque abbastanza depurata dalla visione egocentrica del cliente - che lo aiuterà ad attribuire la giusta importanza ad ogni elemento rilevante per la trattativa. L’accordo che ne scaturirà (che, naturalmente, presuppone che anche l’avvocato dell’altro coniuge abbia operato attingendo alle propria preparazione psicologica) può essere un buon accordo perché trae origine dalla realtà della coppia, secondo la ricostruzione fatta dagli avvocati. Il suo limite risiede, però, nello scarso coinvolgimento dei coniugi. Ciascuno di loro si recherà dal proprio avvocato per raccontare le proprie vicende. Ciascuno di loro firmerà l’accordo, generalmente presso il legale di fiducia. Entrambi i coniugi si vedranno insieme solo davanti al giudice. I rancori, le delusioni, la rabbia, tutti gli aspetti emotivi rimarrano dentro i coniugi perché non ci sono stati momenti nei quali essi abbiano potuto, entrambi presenti, raccontarli, sentirli raccontare dall’altro, elaborarli e, soprattutto, riconoscerli. Manca, insomma, quella fase che conduce al riconoscimento, di un coniuge verso l’altro, di un’identica dignità ontologica che renda entrambi consapevoli che il problema da risolvere è comune ed oggettivo; non si tratta di contrapporre il proprio punto di vista a quello dell’altro, ma di lavorare insieme per costruire la futura regolamentazione dei loro rapporti genitoriali. Il rischio che presenta un simile accordo risiede nel fatto che gli aspetti emotivi riaffioreranno nella gestione quotidiana della vita da separati (o divorziati), rendendo inefficace e poco stabile anche un buon accordo fatto da avvocati professionalmente competenti. Ecco perché, a mio parere, è auspicabile l’intervento di un mediatore familiare, professionista specificamente preparato a riaprire un circuito comunicativo interrotto ed a far emergere la consapevolezza, nei coniugi, di possedere adeguate capacità per poter autonomamente progettare il loro futuro, oltrechè da coniugi separati, anche da genitori, considerando l’interesse dei figli minori. L’accordo che scaturisce dalla mediazione, sotto un profilo contenutistico, è il frutto della loro attività e del loro protagonismo, in un percorso in cui il mediatore, lavorando simultaneamente alla presenza di entrambi i coniugi, ha il solo (ma determinante) ruolo di facilitatore. Notevolmente maggiori saranno le aspettative di efficacia e stabilità di questo tipo di accordo, con evidenti benefiche conseguenze per i figli. Non è un caso, che la Convenzione dei diritti del fanciullo, firmata a New York nel 1989 e resa esecutiva in Italia con la legge 176 del 27.05.1991, prevede, all’art. 13, che “per prevenire e risolvere i conflitti ed evitare procedure che coinvolgano un fanciullo dinanzi ad un’autorità giudiziaria, gli Stati firmatari incoraggino la mediazione …..”. In primo luogo, dunque, l’avvocato spiegherà al cliente che cos’è la mediazione (e, quindi, la deve conoscere lui stesso) e cercare di persuaderlo ad avvalersene. E deve fare ciò, indipendentemente dal livello di conflittualità perchè si va in mediazione proprio per attenuare il conflitto emotivo. Il mediatore familiare è preparato appositamente al riguardo. Sarà, eventualmente, lo stesso mediatore a comunicare agli avvocati che il conflitto non è mediabile. In questo caso, l’avvocato prenderà in considerazione la possibilità di una trattativa. La logica dell’interazione di cui ho parlato all’inizio, logica che ritengo sempre attuale, assume, dunque, alla luce delle recenti novità legislative, un significato più preciso poichè l’avvocato, proprio perché, come diceva l’Avv. Dosi, coglie per intero la complessità del contesto generale in cui è chiamato ad operare, dovrà privilegiare l’adozione di strumenti di risoluzione del conflitto coniugale, più adeguati di quelli, giudiziali ed extragiudiziali, cui abitualmente si rivolge e che lo vedono protagonista. CONCLUSIONI La nuova normativa sull’affidamento condiviso ci conduce a considerare la mediazione familiare come lo strumento prioritario per la risoluzione dei conflitti di coppia; le disposizioni che regolano la professione forense ricordano all’avvocato di adempiere al mandato ricevuto per l’attuazione dell’ordinamento e per i fini della giustizia. Non possiamo più considerare, pertanto, l’atteggiamento dell’avvocato come subordinato alla particolare sensibilità etica del singolo professionista, ma come insito nella sua stessa funzione. Dobbiamo passare da un’ottica personale e volontaristica ad una visione di generale responsabilizzazione di tutti i professionisti che si occupano della crisi della coppia. In questo percorso, l’avvocato non può essere lasciato solo. Avranno un ruolo determinante gli ordini professionali, le libere associazioni degli avvocati e tutti gli organismi preposti alla loro formazione professionale, che potranno colmare le carenze di un percorso di studi e di pratiche professionali tradizionalmente orientati ad affrontare i conflitti secondo la logica della contrapposizione.