Rassegna stampa 22 settembre 2016

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Rassegna stampa 22 settembre 2016
RASSEGNA STAMPA di giovedì 22 settembre 2016
SOMMARIO
“Una politica senza ali” è il titolo del commento di Danilo Paolini su Avvenire al rifiuto
della sindaca di Roma Virginia Raggi (e del Movimento 5 Stelle) di dare il via libera alla
candidatura della città per organizzare le Olimpiadi 2024: “Mai un 'no' fu più
centellinato e, al tempo stesso, più scontato. Ma alla fine è arrivato: Roma, dunque,
non è più in corsa per ospitare i Giochi Olimpici e Paralimpici del 2024. Per uno degli
imperscrutabili motivi che sembrano aleggiare di questi tempi sul Campidoglio,
l’annuncio non è avvenuto, come previsto, al termine di un incontro tra la
delegazione del Coni e Virginia Raggi: quest’ultima è arrivata in Comune quando i
presidenti dei Comitati olimpico e paralimpico, Giovanni Malagò e Luca Pancalli, se
n’erano già andati dopo averla attesa per un bel po’. Quello che a Malagò (e non solo a
lui) è parso un chiaro sgarbo istituzionale, è stato derubricato dalla sindaca a semplice
contrattempo. Fatto sta che, se di strappo doveva trattarsi, così lo è stato alla
massima intensità possibile: conferenze stampa separate. Sfugge davvero, tra l’altro,
il senso dell’annuncio della prima cittadina secondo cui oggi incontrerà Malagò per
discutere degli Europei di calcio del 2020, per i quali è previsto che Roma ospiti 4
(quattro) partite in tutto. Nei giorni scorsi s’era detto che Raggi stesse meditando di
deviare dalla strada già tracciata da Grillo e dal Movimento 5 Stelle e che, alla fine,
avrebbe perfino potuto 'osare'. Nessuna sorpresa, invece. Ma la rinuncia, per quanto
attesa, è destinata ad avere inevitabili ripercussioni su una città che non se la passa
per niente bene. Già, perché l’argomento che ha indotto il M5S a dire 'no' è lo stesso
che si poteva usare per dire 'sì'. E cioè: «Roma ha bisogno di ben altro». È vero, però
le Olimpiadi non si terranno domattina, bensì tra otto anni. E la scelta (a questo punto
tra Parigi, Los Angeles e Budapest) della città ospitante da parte del Comitato
internazionale olimpico avverrà tra un anno, a settembre del 2017. Nel frattempo,
magari, Roma avrebbe potuto trarre qualche vantaggio dal tentativo di presentarsi al
meglio a quell’appuntamento. Intendiamoci, le ragioni di chi è contrario sono
rispettabili e per molti versi anche fondate, soprattutto dal punto di vista del rientro
economico complessivo. Il mondo (e Roma stessa) è pieno di strutture realizzate per
importanti appuntamenti sportivi e poi lasciate al degrado e all’abbandono. Ma nel
caso specifico, viste le condizioni in cui si trova, forse la Capitale avrebbe avuto più
da guadagnare che da perdere, con l’afflusso di risorse esterne alle esangui casse
comunali e con un saggio di buona e trasparente gestione di quei fondi. Siamo sicuri,
per esempio che adesso, libera dalle 'incombenze olimpiche', l’amministrazione
riuscirà a prolungare, fino a Tor Vergata da una parte e al Foro Italico dall’altro, la
tormentata e infinita (in quanto a lavori e intoppi) linea C della metropolitana? O a
restituire ai romani lo stadio Flaminio, un tempo gioiello incastonato nell’omonimo
quartiere alle pendici della collina dei Parioli e oggi pericolante e vandalizzato
fantasma di cemento? Sarà realizzato ugualmente l’ampliamento della rete
tramviaria? E, se sì, perché dovrebbe ritenersi scongiurato il pericolo di ruberie e
infiltrazioni criminali nei lavori, dato praticamente per certo dai pentastellati in caso
di appalti pre-olimpici? Viene infine da chiedersi come mai un movimento che
propugna l’«uno vale uno» e la democrazia diretta non abbia voluto fare della
questione materia di un (pur promesso) referendum cittadino. Non basta affermare,
come fa la sindaca, che «il 70% dei romani ha detto 'no' alle Olimpiadi» scegliendo lei
al ballottaggio di giugno con Roberto Giachetti. Anzi, in questo modo rischia di
svalutare la sua proposta politica, quasi fosse unicamente incentrata su quel 'no'. La
giustizia del mondo punisce chi ha le ali e non vola, canta Lorenzo Cherubini in arte
Jovanotti. Il quale nella Capitale è nato, ma risiede (fortunato) a Cortona. Roma, che
è dotata di ali d’aquila fin dai tempi dell’Impero, stavolta non ha neanche provato a
spiccare il volo. L’anno scorso di questi tempi, quando la candidatura fu ufficializzata
dall’allora sindaco Ignazio Marino e la città era ancora sottosopra per lo tsunami di
'mafia capitale', avemmo modo di scrivere: «Dopo aver toccato il fondo, sprofondando
in melmosi mondi 'di mezzo' e 'di sotto', è ora che Roma si dia lo slancio per tornare in
superficie. Almeno per partecipare con onore, nello spirito del barone de Coubertin».
Invece ieri è stato deciso che l’importante è non partecipare” (a.p.)
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Il paganesimo dell’indifferenza di g.m.v.
Pag 6 Il grido degli innocenti
Durante la preghiera ecumenica Papa Francesco si fa voce di tutti coloro che hanno sete
di pace
Pag 8 Due pilastri
All’udienza generale il Papa ricorda la necessità di perdonare e donare
AVVENIRE
Pag 1 La risposta efficace di Marco Impagliazzo
Assisi 2016: sulla via della pace
Pag 21 “Una riforma pastorale e funzionale” di Marcello Semeraro
Ecco come il Consiglio dei cardinali sta lavorando accanto a Francesco
CORRIERE DELLA SERA
Pag 25 “L’aldilà c’è e io mi preparo. Pregai tanto per Welby” di Aldo Cazzullo
Intervista al cardinale Camillo Ruini
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Pochi preti celibi? E allora largo ai preti sposati di Sandro Magister
È il rimedio a cui pensano il cardinale Hummes e papa Francesco per le regioni con
scarsità di clero, a cominciare dall'Amazzonia. Ma anche nella Cina del XVII secolo i
missionari erano pochi, eppure la Chiesa fioriva. Lo scrive "La Civiltà Cattolica"
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 10 “Rifiutato perché gay”. Ma l’iscrizione è avvenuta di Paolo Ferrario
Se la “discriminazione” è un realtà un privilegio
Pag 10 Agesc: paritarie ormai allo stremo di Enrico Lenzi
Fondi ancora fermi
LA NUOVA
Pag 1 Quei bambini umiliati per il panino di Ferdinando Camon
CORRIERE DEL VENETO
Pag 21 Un “fertility day” contro il suicidio demografico di Vittorio Filippi
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 7 Da Anna a Cecilia, le resistenti della casa: “Noi che affittiamo solo ai
veneziani” di Martina Zambon e Gloria Bertasi
Dopo il caso del prof sfrattato: “Salvare la città”. Il boom dei B&B e il buco delle
strutture abusive
Pag 14 2050, il mare salirà di 25 centimetri. “Il Mose? Bene, ma non basta” di
Martina Zambon
Clini al convegno sull’acqua: Venezia a rischio come New York, scenari da incubo
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XX Centro islamico verso l’apertura di Giuseppe Babbo
Jesolo: i fedeli hanno presentato in comune l’autocertificazione per l’agibilità
dell’immobile. Zoggia: “Ora verificheremo se i lavori di adeguamento sono stati compiuti
correttamente”
10 – GENTE VENETA
Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 36 di Gente Veneta in uscita
venerdì 16 settembre 2016:
Pag 1 La guerra e i muri non c’entrano con Dio di Giorgio Malavasi
Pag 1 Eutanasia: quanto incidono i costi sulla “libera” scelta? di Serena Spinazzi
Lucchesi
Pagg 1, 4 – 5 Se ti curo meglio, mi costi meno. Il malato? Non più paziente ma
ospite di Giorgio Malavasi
L’esperto Ivan Cavicchi: è più conveniente mettere il malato al centro, l’Ospedale
dell’Angelo diventi laboratorio di un modo diverso di organizzare le cure
Pag 6 Da Genova il mandato: saziare la fame dell’anima
Si è svolto da giovedì a domenica il XXVI Congresso eucaristico nazionale. Quindicimila
persone hanno partecipato alla messa di chiusura. I delegati veneziani: «E’ stato un
momento di unità della Chiesa. Questa è un’esperienza che ci ha dato nuova
consapevolezza»
Pag 7 Un filo teso da San Silvestro a Genova: l’Eucaristia di Francesca Catalano
«La liturgia - ha affermato mons. Moraglia nell’omelia - deve riscoprire l’adorazione, il
silenzio, la fede. Riscopriamo il centro, andiamo all’Eucaristia». E ai sacerdoti: «Il prete
è un servo, non confonda il suo ruolo di servizio con il protagonismo». Mons. Orlando
Barbaro: “A Genova la Chiesa, una volta di più, ha saputo calarsi nelle situazioni
concrete, a partire dall’Eucaristia”
Pag 9 In San Marco il Giubileo dei migranti cattolici di Serena Spinazzi Lucchesi
Domenica 2 ottobre le comunità straniere di religione cattolica celebreranno il Giubileo
con il Patriarca Francesco. Saranno presenti in particolare la comunità dei filippini, quelle
degli ucraini e dei romeni di religione greco-cattolica, le più presenti in diocesi. Ma
l’invito a partecipare è esteso a tutte le comunità cristiane
Pag 11 Una Festa e poi otto tappe di cura concreta del Creato di Giorgio Malavasi
Domenica 9 ottobre la festa ad Altino. Dal conoscere i giovani che fanno agricoltura
biologica e acquistare i loro prodotti alla consapevolezza sull’energia rinnovabile ai
“pomodori free”: tante le occasioni proposte dal Gruppo Stili di vita per raccogliere, nel
concreto della quotidianità, le indicazioni di Papa Francesco nella Laudato si’
Pag 12 In 250, al Centro Urbani, per raccontarsi dopo la Gmg di Lorenzo Manzoni
La testimonianza di Francesco: “E’ stato come se qualcuno avesse sbloccato il lucchetto
del mio cuore. E io ho trovato la gioia di essere me stesso”
Pag 13 S. Carlo dei Cappuccini, apre la nuova Porta Santa
Domenica 2 ottobre, alle ore 18, l’apertura a Mestre. Il Guardiano del convento, padre
Remigio Battel: «E’ un invito aperto a tutti a fermarsi e misurarsi con i grandi temi della
vita e con il senso dell’esistenza. Ed è un itinerario di misericordia». La Porta Santa, che
dà sulla penitenzieria, rimarrà poi aperta fino al 1° novembre
Pag 21 “Fare Comune”: da Marango proposte per una buona politica di Riccardo
Coppo
Presentata la nuova iniziativa, che mette insieme diverse realtà cattoliche e laiche. Don
Scatto: «Serve una urgente insurrezione delle coscienze. Daremo spazio a chi ha a
cuore il bene comune»
Pag 23 Bebe: vinco grazie alla fede e agli scout di Lorenzo Mayer
La giovane moglianese ha vinto la medaglia d’oro a Rio nella scherma individuale e
quella di bronzo a squadre: «Nei momenti di difficoltà mi sorreggono la famiglia, lo
sport, lo scautismo». Da disabili ad atleti: la rivoluzione copernicana delle Paralimipiadi
di Rio
Pag 25 Serena Noceti: Amoris Laetitia, una ventata di freschezza per l’amore di
coppia di Giulia Busetto
La teologa fiorentina: «Il testo di Papa Francesco colma il gap tra il linguaggio ecclesiale
e la nostra vita». «Non avrei mai pensato ad una vita da teologa. Il problema delle
donne teologhe ora non è tanto l’empowerment, il rafforzamento della nostra identità,
ma l’entitlement, l’aver titolo per pensare e agire nella Chiesa»
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Il paradosso della scelta sui Giochi di Sergio Rizzo
I due errori dei 5 Stelle
Pag 6 Due elettori di Fi su tre: l’ex premier resti leader del centrodestra di Nando
Pagnoncelli
Ma senza di lui il 24% vede bene il manager al vertice
Pag 11 “Comprensibili le critiche di Renzi all’Unione. Ma non si può fare da soli”
di Marzio Breda
Intervista a Giorgio Napolitano
Pag 22 I furti, le botte, le molestie. Nel metrò della paura di Fabrizio Roncone
Una giornata a Roma tra i passeggeri minacciati
LA STAMPA
Un rifiuto per compattare il Movimento di Marcello Sorgi
AVVENIRE
Pag 3 Una politica senza ali di Danilo Paolini
La maldestra rinuncia a Olimpiadi e Paralimpiadi
Pag 24 Moro, l’uomo delle grandi battaglie di Agostino Giovagnoli e Giovanni
Tassani
Un moderato rigoroso, capace di interpretare il cambiamento
IL GAZZETTINO
Pag 1 Lo sgarbo di Virginia, salta l’incontro e va in trattoria di Mario Ajello
Pag 1 Obama, l’affondo contro Putin per colpire Trump di Massimo Teodori
LA NUOVA
Pag 5 Un dibattito da sempre rinviato di Vittorio Emiliani
Torna al sommario
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Il paganesimo dell’indifferenza di g.m.v.
Trent’anni dopo l’intuizione di Giovanni Paolo II, storicamente e spiritualmente profetica,
esponenti religiosi di ogni parte del mondo sono tornati ad Assisi. Per incontrarsi, per
implorare da Dio la pace, per lanciare un nuovo appello alla responsabilità di chi ha il
potere di operare per diffonderla. E vengono spontanee alla mente le parole di Gesù
tramandate dall’evangelista Matteo: «Beati i facitori di pace (eirenopoiòi) perché questi
saranno chiamati figli di Dio». L’incontro c’è stato, di nuovo, come altre volte e in altri
luoghi in questi anni, guardando alla città umbra resa universale dal santo medievale.
Una figura, quella di Francesco, che ha oltrepassato i confini visibili della Chiesa e il cui
nome, per la prima volta, è stato ora assunto dal successore dell’apostolo Pietro. Le
preghiere di tutti poi si sono levate, senza sincretismi, per guardare con fiducia al futuro.
Ancora una volta è risuonata la richiesta ai potenti di lasciar cadere le armi, ma induce
purtroppo a riflessioni amare l’interesse limitato che i media internazionali hanno
dedicato all’appuntamento di Assisi. Ma questa disattenzione riguarda ancor più la sorte
di chi soffre, come ha ripetuto ancora una volta il Papa, ricordando i «piccoli innocenti
cui è preclusa la luce di questo mondo», i poveri, le vittime di guerre che sono
alimentate dal traffico delle armi, i migranti costretti ad avviarsi «verso l’ignoto, spogliati
di ogni cosa». Come a Gesù assetato sulla croce, anche a loro viene dato «l’aceto amaro
del rifiuto» ha detto meditando sul Vangelo il Pontefice. Che nel discorso conclusivo ha
denunciato per questo un «nuovo tristissimo paganesimo, il paganesimo
dell’indifferenza». Il dono della pace che le liturgie orientali invocano «dall’alto» viene
oggi rifiutato da troppi e in troppe parti del mondo sembra allontanarsi. Così, per tutte
queste situazioni - scandite una per una - i rappresentanti delle diverse confessioni
cristiane giunti ad Assisi hanno pregato nella basilica inferiore con l’antichissima litania
del Kyrie eleison, che implora pietà dall’unico Signore di tutti e che è stata conclusa dalla
benedizione impartita insieme dal primate anglicano, dal patriarca siro-ortodosso di
Antiochia, da quello di Costantinopoli e dal vescovo di Roma. E lui, Papa Francesco, che
mantiene ferma la predicazione di pace dei suoi predecessori, ha ribadito con forza che
«mai il nome di Dio può giustificare la violenza» perché «solo la pace è santa e non la
guerra». Parole di singolare efficacia, rilanciate nell’appello finale letto da una donna
buddista giapponese, per ripetere di nuovo «l’inscindibile legame tra il grande bene della
pace e un autentico atteggiamento religioso». Al di là di ideologie e strumentalizzazioni,
soprattutto di «chi invoca il nome di Dio per giustificare il terrorismo, la violenza e la
guerra», perché «la guerra in nome della religione diventa una guerra alla religione»
scandisce l’appello. E le parole di questo ennesimo richiamo sono state affidate dagli
esponenti delle religioni ad alcuni bambini, che a loro volta le hanno portate a diversi
ambasciatori. Perché l’incontro, le sue parole, le sue preghiere risuonino con forza nel
mondo.
Pag 6 Il grido degli innocenti
Durante la preghiera ecumenica Papa Francesco si fa voce di tutti coloro che hanno sete
di pace
Prima dell’incontro con i leader religiosi mondiali, Francesco ha pregato insieme ai
rappresentanti delle Chiese e confessioni cristiane nella basilica inferiore di San
Francesco. Durante la celebrazione il Pontefice ha pronunciato la seguente meditazione.
Di fronte a Gesù crocifisso risuonano anche per noi le sue parole: «Ho sete» (Gv 19,
28). La sete, ancor più della fame, è il bisogno estremo dell’essere umano, ma ne
rappresenta anche l’estrema miseria. Contempliamo così il mistero del Dio Altissimo,
divenuto, per misericordia, misero fra gli uomini. Di che cosa ha sete il Signore? Certo di
acqua, elemento essenziale per la vita. Ma soprattutto ha sete di amore, elemento non
meno essenziale per vivere. Ha sete di donarci l’acqua viva del suo amore, ma anche di
ricevere il nostro amore. Il profeta Geremia ha espresso il compiacimento di Dio per il
nostro amore: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del
tuo fidanzamento» (Ger 2, 2). Ma ha dato anche voce alla sofferenza divina, quando
l’uomo, ingrato, ha abbandonato l’amore, quando - sembra dire anche oggi il Signore «ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di
crepe, che non trattengono l’acqua» (Ger 2, 13). È il dramma del “cuore inaridito”,
dell’amore non ricambiato, un dramma che si rinnova nel Vangelo, quando alla sete di
Gesù l’uomo risponde con l’aceto, che è vino andato a male. Come, profeticamente,
lamentava il salmista: «Quando avevo sete mi hanno dato aceto» (Sal 69, 22). “L’Amore
non è amato”: secondo alcuni racconti era questa la realtà che turbava San Francesco di
Assisi. Egli, per amore del Signore sofferente, non si vergognava di piangere e
lamentarsi a voce alta (cfr. Fonti Francescane, n. 1413). Questa stessa realtà ci deve
stare a cuore contemplando il Dio crocifisso, assetato di amore. Madre Teresa di Calcutta
volle che nelle cappelle di ogni sua comunità, vicino al Crocifisso, fosse scritto “Ho sete”.
Estinguere la sete d’amore di Gesù sulla croce mediante il servizio ai più poveri tra i
poveri è stata la sua risposta. Il Signore è infatti dissetato dal nostro amore
compassionevole, è consolato quando, in nome suo, ci chiniamo sulle miserie altrui. Nel
giudizio chiamerà “benedetti” quanti hanno dato da bere a chi aveva sete, quanti hanno
offerto amore concreto a chi era nel bisogno: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di
questi fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Le parole di Gesù ci
interpellano, domandano accoglienza nel cuore e risposta con la vita. Nel suo “Ho sete”
possiamo sentire la voce dei sofferenti, il grido nascosto dei piccoli innocenti cui è
preclusa la luce di questo mondo, l’accorata supplica dei poveri e dei più bisognosi di
pace. Implorano pace le vittime delle guerre, che inquinano i popoli di odio e la Terra di
armi; implorano pace i nostri fratelli e sorelle che vivono sotto la minaccia dei
bombardamenti o sono costretti a lasciare casa e a migrare verso l’ignoto, spogliati di
ogni cosa. Tutti costoro sono fratelli e sorelle del Crocifisso, piccoli del suo Regno,
membra ferite e riarse della sua carne. Hanno sete. Ma a loro viene spesso dato, come a
Gesù, l’aceto amaro del rifiuto. Chi li ascolta? Chi si preoccupa di rispondere loro? Essi
incontrano troppe volte il silenzio assordante dell’indifferenza, l’egoismo di chi è
infastidito, la freddezza di chi spegne il loro grido di aiuto con la facilità con cui cambia
un canale in televisione. Di fronte a Cristo crocifisso, «potenza e sapienza di Dio» (1 Cor
1, 24), noi cristiani siamo chiamati a contemplare il mistero dell’Amore non amato e a
riversare misericordia sul mondo. Sulla croce, albero di vita, il male è stato trasformato
in bene; anche noi, discepoli del Crocifisso, siamo chiamati a essere “alberi di vita”, che
assorbono l’inquinamento dell’indifferenza e restituiscono al mondo l’ossigeno
dell’amore. Dal fianco di Cristo in croce uscì acqua, simbolo dello Spirito che dà la vita
(cfr. Gv 19, 34); così da noi suoi fedeli esca compassione per tutti gli assetati di oggi.
Come Maria presso la croce, ci conceda il Signore di essere uniti a Lui e vicini a chi
soffre. Accostandoci a quanti oggi vivono da crocifissi e attingendo la forza di amare dal
Crocifisso Risorto, cresceranno ancora di più l’armonia e la comunione tra noi. «Egli
infatti è la nostra pace» (Ef 2, 14), Egli che è venuto ad annunciare la pace ai vicini e ai
lontani (cfr. Ef 2, 17). Ci custodisca tutti nell’amore e ci raccolga nell’unità, nella quale
siamo in cammino, perché diventiamo quello che Lui desidera: «una sola cosa» (Gv 17,
21).
Pag 8 Due pilastri
All’udienza generale il Papa ricorda la necessità di perdonare e donare
«Perdonare» e «donare»: su questi due «pilastri» si regge l’edificio della vita cristiana e,
in particolare, la testimonianza di misericordia alla quale ogni credente è chiamato. Lo
ha ricordato Papa Francesco nella catechesi svolta durante l’udienza generale di
mercoledì 21 settembre, in piazza San Pietro.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Abbiamo ascoltato il brano del Vangelo di Luca (6, 3638) da cui è tratto il motto di questo Anno Santo straordinario: Misericordiosi come il
Padre. L’espressione completa è: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è
misericordioso» (v. 36). Non si tratta di uno slogan ad effetto, ma di un impegno di vita.
Per comprendere bene questa espressione, possiamo confrontarla con quella parallela
del Vangelo di Matteo, dove Gesù dice: «Voi dunque siate perfetti come è perfetto il
Padre vostro celeste» (5, 48). Nel cosiddetto discorso della montagna, che si apre con le
Beatitudini, il Signore insegna che la perfezione consiste nell’amore, compimento di tutti
i precetti della Legge. In questa stessa prospettiva, san Luca esplicita che la perfezione è
l’amore misericordioso: essere perfetti significa essere misericordiosi. Una persona che
non è misericordiosa è perfetta? No! Una persona che non è misericordiosa è buona? No!
La bontà e la perfezione si radicano nella misericordia. Certo, Dio è perfetto. Tuttavia, se
lo consideriamo così, diventa impossibile per gli uomini tendere a quella assoluta
perfezione. Invece, averlo dinanzi agli occhi come misericordioso, ci permette di
comprendere meglio in che cosa consiste la sua perfezione e ci sprona ad essere come
Lui pieni di amore, di compassione, di misericordia. Ma mi domando: le parole di Gesù
sono realistiche? È davvero possibile amare come ama Dio ed essere misericordiosi
come Lui? Se guardiamo la storia della salvezza, vediamo che tutta la rivelazione di Dio
è un incessante e instancabile amore per gli uomini: Dio è come un padre o come una
madre che ama di insondabile amore e lo riversa con abbondanza su ogni creatura. La
morte di Gesù in croce è il culmine della storia d’amore di Dio con l’uomo. Un amore
talmente grande che solo Dio lo può realizzare. È evidente che, rapportato a questo
amore che non ha misura, il nostro amore sempre sarà in difetto. Ma quando Gesù ci
chiede di essere misericordiosi come il Padre, non pensa alla quantità! Egli chiede ai suoi
discepoli di diventare segno, canali, testimoni della sua misericordia. E la Chiesa non può
che essere sacramento della misericordia di Dio nel mondo, in ogni tempo e verso tutta
l’umanità. Ogni cristiano, pertanto, è chiamato ad essere testimone della misericordia, e
questo avviene in cammino di santità. Pensiamo a quanti santi sono diventati
misericordiosi perché si sono lasciati riempire il cuore dalla divina misericordia. Hanno
dato corpo all’amore del Signore riversandolo nelle molteplici necessità dell’umanità
sofferente. In questo fiorire di tante forme di carità è possibile scorgere i riflessi del
volto misericordioso di Cristo. Ci domandiamo: Che cosa significa per i discepoli essere
misericordiosi? Viene spiegato da Gesù con due verbi: «perdonare» (v. 37) e «donare»
(v. 38). La misericordia si esprime, anzitutto, nel perdono: «Non giudicate e non sarete
giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati» (v.
37). Gesù non intende sovvertire il corso della giustizia umana, tuttavia ricorda ai
discepoli che per avere rapporti fraterni bisogna sospendere i giudizi e le condanne. È il
perdono infatti il pilastro che regge la vita della comunità cristiana, perché in esso si
mostra la gratuità dell’amore con cui Dio ci ha amati per primo. Il cristiano deve
perdonare! Ma perché? Perché è stato perdonato. Tutti noi che stiamo qui, oggi, in
piazza, siamo stati perdonati. Nessuno di noi, nella propria vita, non ha avuto bisogno
del perdono di Dio. E perché noi siamo stati perdonati, dobbiamo perdonare. Lo
recitiamo tutti i giorni nel Padre Nostro: “Perdona i nostri peccati; perdona i nostri debiti
come noi li perdoniamo ai nostri debitori”. Cioè perdonare le offese, perdonare tante
cose, perché noi siamo stati perdonati da tante offese, da tanti peccati. E così è facile
perdonare: se Dio ha perdonato me, perché non devo perdonare gli altri? Sono più
grande di Dio? Questo pilastro del perdono ci mostra la gratuità dell’amore di Dio, che ci
ha amato per primi. Giudicare e condannare il fratello che pecca è sbagliato. Non perché
non si voglia riconoscere il peccato, ma perché condannare il peccatore spezza il legame
di fraternità con lui e disprezza la misericordia di Dio, che invece non vuole rinunciare a
nessuno dei suoi figli. Non abbiamo il potere di condannare il nostro fratello che sbaglia,
non siamo al di sopra di lui: abbiamo piuttosto il dovere di recuperarlo alla dignità di
figlio del Padre e di accompagnarlo nel suo cammino di conversione. Alla sua Chiesa, a
noi, Gesù indica anche un secondo pilastro: “donare”. Perdonare è il primo pilastro;
donare è il secondo pilastro. «Date e vi sarà dato [...] con la misura con la quale
misurate, sarà misurato a voi in cambio» (v. 38). Dio dona ben al di là dei nostri meriti,
ma sarà ancora più generoso con quanti qui in terra saranno stati generosi. Gesù non
dice cosa avverrà a coloro che non donano, ma l’immagine della “misura” costituisce un
ammonimento: con la misura dell’amore che diamo, siamo noi stessi a decidere come
saremo giudicati, come saremo amati. Se guardiamo bene, c’è una logica coerente: nella
misura in cui si riceve da Dio, si dona al fratello, e nella misura in cui si dona al fratello,
si riceve da Dio! L’amore misericordioso è perciò l’unica via da percorrere. Quanto
bisogno abbiamo tutti di essere un po’ più misericordiosi, di non sparlare degli altri, di
non giudicare, di non “spiumare” gli altri con le critiche, con le invidie, con le gelosie.
Dobbiamo perdonare, essere misericordiosi, vivere la nostra vita nell’amore. Questo
amore permette ai discepoli di Gesù di non perdere l’identità ricevuta da Lui, e di
riconoscersi come figli dello stesso Padre. Nell’amore che essi praticano nella vita si
riverbera così quella Misericordia che non avrà mai fine (cfr. 1 Cor 13, 1-12). Ma non
dimenticatevi di questo: misericordia e dono; perdono e dono. Così il cuore si allarga, si
allarga nell’amore. Invece l’egoismo, la rabbia, fanno il cuore piccolo, che si indurisce
come una pietra. Cosa preferite voi? Un cuore di pietra o un cuore pieno di amore? Se
preferite un cuore pieno di amore, siate misericordiosi!
AVVENIRE
Pag 1 La risposta efficace di Marco Impagliazzo
Assisi 2016: sulla via della pace
A cosa serve il dialogo tra le religioni? Questa domanda è risuonata da varie parti
mentre si preparava il trentesimo anniversario dello Spirito di Assisi nella città di San
Francesco. Nel 1986, nello stesso luogo, molti non capirono il valore storico e profetico
del gesto voluto dal papa santo, Giovanni Paolo II. Allora, tra le critiche anche aspre a
un gesto visto come sincretico, si sentì risuonare la domanda: a che serve? Si diceva:
questa è la realtà, la guerra fredda e l’Europa divisa dalla cortina di ferro. Ma Il Papa
guardava lontano. Convocò una riunione inedita di responsabili delle religioni mondiali.
Era convinto che le religioni dovessero fare di più per la pace, non accettando la realtà
della guerra e della divisione tra i popoli. Quell’incontro diede vita a tante novità: non
più la sfida o la contrapposizione tra le religioni, ma il dialogo e l’incontro per favorire la
pace nel mondo. I risultati di questa nuova visione sono sotto gli occhi di tutti. Tanto è
cambiato da allora. Basta guardare ai popoli europei che allora mancavano di libertà e di
democrazia: il 1989 ha cambiato la storia. Basta interrogare alcuni popoli africani, come
quelli del Sudafrica, del Mozambico, della Guinea, della Costa d’Avorio, del Centrafrica.
Tutti hanno beneficiato, in un modo o nell’altro, di un nuovo modo di incontrarsi dei
credenti e del loro lavoro per la pace. Ne abbiamo beneficiato in Europa, negli snodi
vitali delle nostre città, dalle scuole alle periferie. La convivenza con persone di culture e
religioni diverse, portata dalla globalizzazione, è una realtà diffusa nonostante le
criticità. Non va poi dimenticato – come ha sottolineato il rabbino Rosen – il cammino di
amicizia percorso tra cristiani ed ebrei, dopo secoli in cui l’antisemitismo aveva prodotto
frutti amari e avvelenati. Aveva ragione papa Wojtyla: l’orizzonte della pace è molto più
vasto di quello degli stretti conti dei realisti. E poi “lo spirito di Assisi” non è soltanto
dialogo tra le religioni, ma preghiera per la pace. Come si fa a calcolare a che cosa serve
la preghiera? Si può però certamente dire, come ha fatto Andrea Riccardi ad Assisi, che
un mondo senza preghiera, senza dialogo sarebbe invivibile e disumano. Certo oggi ci
sono ancora forze distruttrici. Per primo, il terrorismo jihadista, che distorce gli
insegnamenti di una delle religioni più diffuse e semina il male: martirio dei cristiani,
massacri di yazidi, stragi di musulmani in Medio Oriente, terrore e morte in Africa e nelle
città occidentali. Un progetto del male che mette in causa l’esistenza stessa del dialogo
tra le religioni. Eppure ad Assisi, il patriarca ecumenico Bartolomeo ha ricordato l’antica
lezione di un santo patriarca che fece la pace con la Chiesa cattolica, Athenagoras.
Questi amava dire che il vero incontro si fa guardandosi negli occhi con l’altro e
approfondendo la propria tradizione. Il dialogo è qualcosa di profondo. È comprensione
dell’altro, riscoperta della propria fede, volontà di andare avanti insieme, nonostante le
differenze, superando l’appiattimento di una fraternità a basso prezzo. Non si
spiegherebbero altrimenti le parole toccanti del vescovo di Rouen a Assisi, che
ricordando il “suo” prete, Jacques Hamel, ucciso alla fine della Messa lo scorso agosto,
ha affermato: «Mentre chiedo la grazia di un dialogo vero con i nostri amici musulmani,
allo stesso tempo non vorrei che la memoria del martirio di padre Jacques sia usata
come una bandiera alzata per combattere e condannare». Non sono queste parole un
frutto dello “spirito di Assisi”? L’incontro con l’altro sta divenendo una cultura
maggioritaria, sfidato dalla violenza terrorista e da quel «paganesimo dell’indifferenza»,
di cui ha parlato papa Francesco. La globalizzazione ci ha spinto a incontraci e
conoscerci, ma è un percorso che va preparato con intelligenza e amore. È una delle
sfide più grandi davanti a noi: vivere in pace nella città globalizzata. Per questo lo
“spirito di Assisi” è più necessario di quello che si crede. La sete di pace dell’umanità ha
trovato un’importante risposta nelle parole di Francesco che ha chiamato tutti «i credenti
a essere artigiani di pace nell’invocazione a Dio e nell’azione per l’uomo». È un
movimento di uomini e donne di religioni diverse, insieme agli umanisti, che mosso da
uno spirito buono si incammina nelle strade del mondo per dissetare chi ha sete di pace.
Pag 21 “Una riforma pastorale e funzionale” di Marcello Semeraro
Ecco come il Consiglio dei cardinali sta lavorando accanto a Francesco
Si intitola semplicemente «La riforma di papa Francesco» il testo che il vescovo Marcello
Semeraro, segretario del Consiglio dei cardinali, ha scritto per il numero 14 de il Regno
la rivista culturale e di informazione religiosa, diretta da Gianfranco Brunelli, che uscirà
oggi. Si tratta, in realtà, di un corposo dossier sull’azione riformatrice che è in corso
nella Chiesa sulla spinta di papa Francesco, che quel Consiglio dei cardinali ha voluto
accanto a sé in questo cammino. Un gruppo di 9 persone che sta lavorando da tre anni,
ha dato vita a sedici sessioni di lavoro in Vaticano (la prossima è fissata dal 12 al 14
dicembre 2016) e ha offerto al Papa riflessioni e materiali per qualche cambiamento già
messo in atto. Dell’ampio dossier - che parte dallo spiegare il senso di una Chiesa
«semper reformanda» e dallo mostrare un cammino che si pone in continuità con il
passato - pubblichiamo il passaggio che riguarda proprio la costituzione dei nuovi due
dicasteri «Laici, famiglia e vita» e «Sviluppo umano integrale», in cui Semeraro, vescovo
di Albano, illustra i criteri, la filosofia di fondo e le intenzioni che stanno animando la
riforma avviata da papa Francesco.
La costituzione da parte di papa Francesco del «Consiglio di cardinali», fu annunciata il
13 aprile 2013 con un comunicato della Segreteria di Stato, dove spiegava pure che ciò
era stato fatto «riprendendo un suggerimento emerso nel corso delle congregazioni
generali precedenti il Conclave» (Regno-doc. 8,2013,207). Lo stesso Consiglio fu
costituito ufficialmente col chirografo di Francesco datato 28 settembre 2013. Anche qui
il Papa ricordava: «Tra i suggerimenti emersi nel corso delle Congregazioni generali di
cardinali precedenti al Conclave, figurava la convenienza di istituire un ristretto gruppo
di membri dell’episcopato, provenienti dalle diverse parti del mondo, che il Santo Padre
potesse consultare, singolarmente o in forma collettiva, su questioni particolari». Il Papa
aggiungeva d’avere avuto modo di riflettere su questo argomento. Indicava, pertanto,
gli scopi del Consiglio come segue: «aiutarmi nel governo della Chiesa universale» e
«studiare un progetto di revisione della costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia
Romana». (...) L’organizzazione e la struttura dei due più recenti dicasteri i cui statuti
sono stati approvati dal Papa e fatti pubblicare mostrano come si è cercato di
corrispondere a tali istanze. Faccio due esempi al riguardo. Quanto al dicastero per i
Laici, la famiglia e la vita, il punto di partenza è stata la considerazione della comune
dignità che è alla base dei diversi stati di vita, delle vocazioni e dei ministeri all’interno
dell’unico popolo di Dio. Questo ha indotto a considerare e valorizzare con sempre più
matura consapevolezza lo status e il ruolo dei fedeli laici nella Chiesa. A questa
promozione e sviluppo hanno dato un contributo decisivo il Concilio Vaticano II e il
Sinodo dei vescovi del 1987, dedicato appunto alla vocazione e missione dei laici nella
Chiesa e nel mondo. A tale consapevolezza della dignità e peculiarità dell’essere e
dell’operare dei laici nella Chiesa, e della varietà delle vocazioni al loro interno, si è
pensato giusto dovesse corrispondere un risvolto anche istituzionale nell’assetto del
governo della Chiesa corrispondente all’attenzione e alla considerazione che, anche sul
piano istituzionale, è riservata ai vescovi, ai presbiteri e alle persone di vita consacrata.
Si è pensato pure che all’ambito del laicato sia particolarmente appropriato il bene della
famiglia, basata sul matrimonio e sia, di conseguenza, congiunto il bene della vita. Da
qui la proposta di conservare unite queste istanze anche nell’assetto organizzativo e
funzionale della Chiesa e della sua pastorale. In breve, alla base c’è la presa d’atto di
una relazione d’implicazione della vita nella famiglia e della famiglia nel laicato, che
rende molto plausibile la loro connessione istituzionale.
Con gradualità, senza incertezze - Qualcosa di analogo è avvenuto per l’attuale dicastero
per lo Sviluppo umano integrale. Le sue ragioni sono le stesse della dottrina sociale della
Chiesa e delle sue istanze evangelizzatrici, da riconoscere, attualizzare, incentivare,
coordinare. Essa assume a statuto valoriale e linea direttrice tale dottrina, adoperandosi
affinché «i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non
interpellano nessuno». Ma ne «ricava le conseguenze pratiche, perché possano
efficacemente incidere anche nelle complesse situazioni odierne». Scegliendo per titolo
'Sviluppo umano integrale' il Papa ha voluto indicare l’orizzonte entro cui il dicastero è
chiamato a operare, costituito dai tre grandi documenti che oggi esprimono la dottrina
sociale della Chiesa e sono richiamati dalle tre parole: la Populorum progressio di Paolo
VI per l’insegnamento sullo sviluppo; la Caritas in veritate di Benedetto per il tema della
dimensione umana integrale; l’enciclica Laudato si’per il profilo solidale e di ecologia
integrale. Inoltre, in questo dicastero c’è al momento pure l’assunzione in prima persona
da parte del Papa della guida della sezione relativa ai migranti e ai profughi. È una scelta
che sottolinea un’attenzione specifica a un’emergenza mondiale di stringente attualità e
costituisce un richiamo per tutti, credenti e non! Penso pure che quell’ad tempus possa
leggersi come speranza e auspicio che tale emergenza non tardi a essere presto risolta.
In ogni caso, la scelta di guidare personalmente un settore della Curia Romana non è
un’invenzione di Francesco. È accaduto già (e pure in un passato non lontano) per le
attuali Congregazioni per la dottrina della fede (allora Sant’Ufficio), per le Chiese
orientali, delle Cause dei santi, per i Vescovi (allora Concistoriale). (...) C’è d’altra parte,
prima di giungere a un assetto globale e compiuto, la volontà di procedere mediante
sperimentazioni e assestamenti. (...) In questa linea, i testi approvati sono come potrà
vedersi - tutti ad experimentum, ma senza l’indicazione di una scadenza (per esempio:
ad triennium, quinquennium ecc.) e questo onde procedere serenamente e con celerità a
correzioni e miglioramenti, appena ciò si rendesse evidente, necessario, o anche
opportuno.
Profilo teologico generale: le idee di fondo - Penso di potere essere, sull’argomento,
molto breve. Lo farò con tre richiami. Il primo al discorso di Francesco del 17 ottobre
2015, celebrativo per il 50° d’istituzione del Synodus episcoporum; il secondo
all’esortazione apostolica Evangelii gaudium; il terzo al motu proprio Humanam
progressionem del 31 agosto scorso. Nel discorso del 17 ottobre 2015 Francesco ha
parlato della «sinodalità, come dimensione costitutiva della Chiesa» ( Regno- doc.
37,2015,14). Si dirà che la Curia non è menzionata direttamente; alcuni principi
enunciati, però, chiedono sicuramente di essere tenuti in conto. Certamente dove il Papa
tratta del secondo livello della sinodalità (quello delle province e delle regioni
ecclesiastiche, dei Concili particolari e in modo speciale delle conferenze episcopali)! Qui
Francesco enuncia un’importante indicazione: «Dobbiamo riflettere per realizzare ancor
più, attraverso questi organismi, le istanze intermedie della collegialità, magari
integrando e aggiornando alcuni aspetti dell’antico ordinamento ecclesiastico. L’auspicio
del Concilio che tali organismi possano contribuire ad accrescere lo spirito della
collegialità episcopale non si è ancora pienamente realizzato. Siamo a metà cammino, a
parte del cammino. In una Chiesa sinodale, come ho già affermato, 'non è opportuno
che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche
che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in
una
salutare
decentralizzazione'»
(Regno-doc.
37,2015,15).
Alla
parola
decentralizzazione si potrebbe associare la sussidiarietà, che indica un altro principio
ispiratore della riforma della Curia Romana. Un’allusione a questo principio si trova nel
motu proprio Humanam progressionem, prima citato: «Il successore dell’apostolo Pietro,
nella sua opera in favore dell’affermazione di tali valori, adatta continuamente gli
organismi che collaborano con Lui, affinché possano meglio venire incontro alle esigenze
degli uomini e delle donne che essi sono chiamati a servire». Anche l’articolo 3 comma 3
dello statuto del nuovo dicastero per lo Sviluppo umano integrale vi fa riferimento
quando dispone: «Il dicastero si adopera perché nelle Chiese locali sia offerta un’efficace
e appropriata assistenza materiale e spirituale - se necessario anche mediante
opportune strutture pastorali - agli ammalati, ai profughi, agli esuli, ai migranti, agli
apolidi, ai circensi, ai nomadi e agli itineranti». Considerando, poi, l’esortazione Evangelii
gaudium si vedrà che al n. 27 Francesco enuncia un principio generale, che non può non
essere valido (aggiungerei esemplare) anche per la Curia romana. Si legge: «Sogno una
scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli
orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per
l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle
strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare
in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le
sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante
atteggiamento di 'uscita' e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù
offre la sua amicizia» (EV 29/2133). Ai valori già sottolineati per la Curia Romana dalle
precedenti riforme: in particolare il criterio della pastoralità come principio guida dei
procedimenti di attuazione e strutturazione degli organismi curiali sottolineato da Paolo
VI, e il criterio della communio come principio- base dove confluiscono non solo il
mistero della Chiesa, ma anche la sua struttura gerarchica richiamato da Giovanni Paolo
II, Francesco unisce come forza unificante il criterio della sinodalità e come forza
dinamica quello della conversione missionaria. Il tutto con il giusto discernimento e una
forte speranza, poiché «ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare
un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una
vita che le anima, le sostiene e le giudica. Senza vita nuova e autentico spirito
evangelico, senza 'fedeltà della Chiesa alla propria vocazione', qualsiasi nuova struttura
si corrompe in poco tempo» (Evangelii gaudium, n. 26; EV 29/2132).
CORRIERE DELLA SERA
Pag 25 “L’aldilà c’è e io mi preparo. Pregai tanto per Welby” di Aldo Cazzullo
Intervista al cardinale Camillo Ruini
Cardinale Ruini, il suo nuovo libro si intitola «C’è un dopo?», con il punto interrogativo.
Questo significa che neppure lei è assolutamente certo che «un dopo» ci sia?
«Personalmente sono certo. Ma mi rendo conto che questa certezza è un dono di Dio, e
che nel contesto culturale di oggi può essere difficile raggiungerla».
Lei cita gli studi di Moody e van Lommel sulle esperienze tra la vita e la morte. Le
considera la conferma empirica che dopo c’è davvero qualcosa?
«Si tratta di esperienze ben documentate. Dimostrano che in qualche caso, molto raro,
si può tornare in vita dopo la “morte clinica”, cioè dopo che, per pochi istanti,
l’encefalogramma era diventato piatto. La morte è però un processo, che raggiunge il
suo stadio definitivo solo quando il cervello ha perduto irrimediabilmente le proprie
funzioni: a quel punto nessuno ritorna indietro. Non ci sono quindi conferme empiriche
di un “dopo”. Quelle esperienze ci dicono comunque che è sbagliato ridurre
l’autocoscienza ai neuroni e alla loro attività».
Poi il libro ricostruisce la discussione sull’anima, da Tommaso alle neuroscienze. È
possibile secondo lei accertarne razionalmente l’immortalità?
«Non penso che sia possibile accertare con la sola ragione l’immortalità dell’anima. A
mio parere si può accertare però che l’uomo ha un’anima non materiale: altrimenti non
si spiegherebbero la nostra capacità di conoscere ciò che è universale e necessario, e la
nostra libertà».
Il cristianesimo però parla non solo di immortalità dell’anima, ma di risurrezione della
carne. Lei come la concepisce?
«Direi di più: il cristianesimo parla anzitutto della risurrezione. Solo nella risurrezione il
soggetto umano trova il suo pieno compimento. L’immortalità dell’anima è però
indispensabile perché la risurrezione abbia un senso: se qualcosa di me non rimanesse
dopo la morte, la risurrezione sarebbe una nuova creazione, che non avrebbe con me
alcun rapporto. Riguardo al modo di esistere dei risorti, possiamo dire due cose: la
risurrezione è qualcosa di reale, non solo una nostra idea; ma non è qualcosa di fisico,
non è un ritorno alla vita di questo mondo».
In attesa dell’ultimo giorno, dove andiamo? Lei evoca san Paolo, secondo cui saremo
«con Cristo» subito dopo la morte. Ma come?
«Saremo con Cristo, e con Dio Padre, in quanto parteciperemo alla loro vita, saremo
conosciuti e amati da loro e a nostra volta li conosceremo e ameremo: non come adesso
nel chiaroscuro della fede, ma direttamente nella loro sublime realtà».
Che cosa sappiamo davvero dell’aldilà?
«Nella sostanza l’aldilà è Dio stesso: il mistero che ci supera infinitamente. Sarebbe una
grossa ingenuità pretendere di poter fare una descrizione anticipata del futuro che ci
attende, come se ne avessimo già avuto esperienza. Dell’aldilà possiamo parlare, in
qualche modo, solo a partire dal presente, da ciò che portiamo dentro di noi e viviamo in
questo mondo: soprattutto a partire da Gesù Cristo, vissuto, morto e risorto per noi. È
lui la via di accesso al mistero di Dio e della nostra sorte eterna».
Lei ha assistito molte persone giunte al passo d’addio. Come si muore?
«Si muore in tanti modi, che dipendono da quello che siamo nel profondo e dal genere di
persone che ci sono vicine; oltre che, naturalmente, dalla nostra maggiore o minore
solidità psichica e dal tipo di infermità che ci conduce alla morte. Mescolata a tutti questi
fattori gioca però un grande ruolo anche la fede in Dio e nella vita eterna. Rimane vera
cioè la parola di san Paolo: i cristiani sono coloro che hanno speranza. L’ho verificato
tante volte negli altri, e incomincio a verificarlo dentro di me».
Lei definisce l’inferno «una possibilità concreta e tragica». Non è vero quindi che l’inferno
è vuoto, come si augurava von Balthasar?
«Von Balthasar se lo augurava, non pretendeva di saperlo. Che l’inferno sia una
possibilità concreta ce lo ha detto anzitutto Gesù Cristo: non possiamo pensare che Gesù
scherzasse quando ammoniva che la via verso la perdizione è spaziosa, mentre è
angusta quella verso la vita. Non è detto però che degli esseri umani siano
effettivamente dannati: possiamo e dobbiamo sperare di salvarci tutti; ma deve essere
una speranza umile, che non presume di noi stessi e si affida alla misericordia di Dio».
Il paradiso lei come se lo immagina?
«In estrema sintesi, il paradiso è l’essere per sempre con Dio in Gesù Cristo, e
secondariamente con i nostri fratelli in umanità».
L’inferno?
«L’inferno, al contrario, è solitudine assoluta, chiusura definitiva a Dio e al prossimo».
E il purgatorio?
«Il purgatorio è gioia grandissima di essere amati da Dio, e al tempo stesso è sofferenza
che, nell’incontro con Cristo, ci purifica dalle nostre colpe».
Qual è la sorte dei bambini morti senza battesimo?
«La Sacra Scrittura non si pone questa domanda. Nel medioevo si affermò la dottrina del
limbo, secondo la quale i bambini morti senza battesimo restano privi dell’unione
immediata con Dio ma godono di quell’unione con lui che ci appartiene per natura. Oggi
però, quando speriamo la piena salvezza anche per i peggiori peccatori, diventa
insostenibile escluderne i bambini che sono morti senza colpe personali, non avendo
ancora l’uso della ragione. Oggi è questo l’insegnamento della Chiesa».
Come si immagina, tra molto tempo s’intende, la sua vita dopo la morte?
«Alla morte e al dopo penso spesso, se non altro perché il mio declino fisico si incarica di
ricordarmeli. Cerco di prepararmi pregando di più ed essendo un po’ più buono e più
generoso. Soprattutto mi affido alla misericordia di Dio. Per il “dopo” spero di essere
accolto nel mistero di amore di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e di ritrovare tutte le
persone che mi hanno amato in questo mondo - a cominciare dai miei genitori - ma
anche tutti coloro che ho conosciuto, vivi per sempre nella grande famiglia di Dio. Dato
che la curiosità intellettuale non mi ha ancora abbandonato, confido inoltre di scoprire in
Dio il senso di tutta la realtà».
E come vorrebbe essere ricordato?
«Come una persona semplice, con un forte e forse eccessivo senso del dovere, che ha
cercato di servire il Signore e che non ha odiato nessuno».
C’è qualche errore, almeno uno, che ritiene di aver commesso?
«Di errori ne ho fatti molti, a cominciare dai miei tanti peccati, e chiedo di cuore perdono
a Dio e al mio prossimo. Nelle responsabilità che ho avuto un errore è stato il fidarmi
troppo di me stesso».
Spesso le viene rimproverato il caso Welby, il rifiuto del funerale.
«Negare a Piergiorgio Welby il funerale religioso è stata una decisione sofferta, che ho
preso perché ritenevo contraddittoria una scelta diversa. Su questo non ho cambiato
parere. Ho comunque pregato parecchio perché il Signore lo accolga nella pienezza della
vita».
Quale immagine porterà con sé dei Papi che ha conosciuto da vicino? Wojtyła, Ratzinger,
Bergoglio?
«Karol Wojtyła è il grande santo che ha cambiato in profondità la mia vita: l’immagine
che ne ho è quella di un’umanità straordinariamente cresciuta nella luce di Dio. Anche a
Joseph Ratzinger devo tanto: vedo in lui un grande maestro, non solo del pensiero ma
del rapporto con Dio, e una persona estremamente gentile che mi onora della sua
amicizia. Con Jorge Mario Bergoglio ho, logicamente, un rapporto minore perché è
diventato Papa quando ero già emerito: è un uomo di profonda fede, che spende tutto
se stesso».
Ma questo Papa sta facendo il bene della Chiesa?
«Il bene che fa alla Chiesa, e all’umanità, è sotto gli occhi di tutti: non vederlo significa
essere prigionieri delle proprie idee e anche dei propri pregiudizi. Personalmente prego il
Signore perché l’indispensabile ricerca delle pecore smarrite non metta in difficoltà le
coscienze delle pecore fedeli».
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Pochi preti celibi? E allora largo ai preti sposati di Sandro Magister
È il rimedio a cui pensano il cardinale Hummes e papa Francesco per le regioni con
scarsità di clero, a cominciare dall'Amazzonia. Ma anche nella Cina del XVII secolo i
missionari erano pochi, eppure la Chiesa fioriva. Lo scrive "La Civiltà Cattolica"
Papa Francesco ha ricevuto in udienza, pochi giorni fa, il cardinale brasiliano Cláudio
Hummes, accompagnato dall'arcivescovo di Natal, Jaime Vieira Rocha. Hummes, 82
anni, già arcivescovo di San Paolo e prefetto della congregazione vaticana per il clero, è
oggi presidente sia della commissione per l’Amazzonia della conferenza episcopale del
Brasile, sia della Rete Pan-Amazzonica che riunisce 25 cardinali e vescovi dei paesi
circostanti, oltre a rappresentanti indigeni di diverse etnie locali. E in questa veste
sostiene tra l'altro la proposta di sopperire alla scarsità di sacerdoti celibi in aree
immense come l'Amazzonia conferendo la sacra ordinazione anche a "viri probati", cioè a
uomini di provata virtù, sposati. La notizia dell'udienza ha fatto quindi pensare che papa
Francesco abbia discusso con Hummes proprio di tale questione, e in particolare di un
sinodo "ad hoc" delle 38 diocesi dell'Amazzonia, che effettivamente è in avanzata fase di
preparazione. Non solo. Ha riacquistato forza la voce che Jorge Mario Bergoglio voglia
assegnare al prossimo sinodo mondiale dei vescovi, in agenda nel 2018, proprio la
questione dei ministeri ordinati, vescovi, preti, diaconi, compresa l'ordinazione di uomini
sposati. L'ipotesi si era affacciata già all'indomani del doppio sinodo sulla famiglia. Aveva
fatto rapidi passi avanti. E ora, appunto, sembra guadagnare ulteriore terreno.
Curiosamente, poco prima che il papa ricevesse Hummes, Andrea Grillo – un teologo
ultrabergogliano, docente al pontificio ateneo Sant'Anselmo di Roma, i cui interventi
sono sistematicamente rilanciati ed enfatizzati dal sito paravaticano "Il Sismografo" – ha
addirittura preconizzato in dettaglio il tema del prossimo sinodo sul "ministero ordinato
nella Chiesa", articolandolo in questi tre sottotemi:
- l’esercizio collegiale dell’episcopato e la restituzione al vescovo della piena autorità
sulla liturgia diocesana;
- la formazione dei presbiteri, con il ripensamento della forma tridentina del seminario, e
la possibilità di ordinazione di uomini sposati;
- la teologia del diaconato e la possibilità di un diaconato femminile.
L'autorità alla quale Grillo e tutti i riformisti chierici e laici puntualmente si richiamano,
nel formulare questa e altre proposte, è il defunto cardinale Carlo Maria Martini, con il
suo intervento bomba nel sinodo del 1999. L'allora arcivescovo di Milano, gesuita e
leader indiscusso dell'ala "liberal" della gerarchia, disse di aver "fatto un sogno": quello
di "un’esperienza di confronto universale tra i vescovi che valga a sciogliere qualcuno di
quei nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono periodicamente come punti caldi sul
cammino delle Chiese europee e non solo europee". Ed ecco i "nodi" da lui elencati:
"Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del
Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla
crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con
sufficiente numero di ministri del Vangelo e dell’eucaristia. Penso ad alcuni temi
riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei
laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la
prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il
bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra democrazie e valori e
tra leggi civili e legge morale". Dell'agenda martiniana, i due sinodi finora indetti da
papa Francesco hanno appunto discusso "la disciplina del matrimonio" e "la visione
cattolica della sessualità". E il nuovo sinodo potrebbe appunto risolvere la "carenza di
ministri ordinati" aprendo la strada all'ordinazione di uomini sposati e di diaconi donne,
quest'ultimo punto anch'esso già messo in cantiere da papa Francesco, con l'avvenuta
nomina, lo scorso 2 agosto, di una commissione di studio. L'argomento principe portato
a sostegno dell'ordinazione di uomini sposati è sempre lo stesso enunciato dal cardinale
Martini: "la crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo
territorio con sufficiente numero di ministri del Vangelo e dell’eucaristia". L'Amazzonia
sarebbe appunto uno di questi "territori" immensi nei quali i pochi preti celibi lì presenti
sono in grado di raggiungere nuclei remoti di fedeli non più di due o tre volte all'anno.
Quindi con grave danno – si sostiene – per la "cura d'anime". Va detto però che una
situazione del genere non è affatto esclusiva dei tempi attuali. Ha caratterizzato la vita
della Chiesa in vari secoli e nelle aree più diverse. Non solo. La scarsità di sacerdoti non
sempre si è risolta in un danno per la "cura d'anime". Anzi, in alcuni casi è addirittura
coincisa con una fioritura della vita cristiana. Senza che a nessuno venisse in mente di
ordinare uomini sposati. È stato così, ad esempio, nella Cina del XVII secolo. Ne ha dato
conto "La Civiltà Cattolica" nel quaderno dello scorso 10 settembre, con un dotto articolo
del sinologo gesuita Nicolas Standaert, docente all'Università Cattolica di Lovanio, una
fonte quindi insospettabile, visto il legame strettissimo, statutario, che la rivista
intrattiene con i papi e in particolare con l'attuale, che ne segue personalmente la
composizione d'intesa col direttore della rivista, il gesuita Antonio Spadaro. Nel XVII
secolo in Cina i cristiani erano pochi e dispersi. Scrive Standaert: "Quando Matteo Ricci
morì a Pechino nel 1610, dopo trent’anni di missione, c’erano circa 2.500 cristiani cinesi.
Nel 1665 i cristiani cinesi erano diventati probabilmente circa 80.000, e intorno al 1700
erano circa 200.000, il che era ancora poco, se confrontato con l’intera popolazione, tra i
150 e i 200 milioni di abitanti". E pochissimi erano anche i sacerdoti: "Alla morte di
Matteo Ricci, c’erano soltanto 16 gesuiti in tutta la Cina: otto fratelli cinesi e otto padri
europei. Con l’arrivo dei francescani e dei domenicani, intorno al 1630, e con un lieve
incremento dei gesuiti nello stesso periodo, il numero dei missionari stranieri arrivò a più
di 30, e rimase costante tra i 30 e i 40 nell’arco dei successivi trent’anni. In seguito vi fu
un incremento, raggiungendo un picco di circa 140 tra il 1701 e il 1705. Ma poi a causa
della controversia sui riti il numero dei missionari si ridusse di circa la metà". Di
conseguenza il cristiano ordinario incontrava il sacerdote non più di "una o due volte
l’anno". E nei pochi giorni in cui durava la visita il sacerdote "conversava con i capi e con
i fedeli, riceveva informazioni dalla comunità, si interessava delle persone malate e dei
catecumeni. Ascoltava confessioni, celebrava l’eucaristia, predicava, battezzava". Poi il
sacerdote per molti mesi spariva. Eppure le comunità reggevano. Anzi, conclude
Standaert: "si trasformarono in piccoli ma solidi centri di trasmissione di fede e di
pratica cristiana". Ecco qui di seguito i particolari di quella affascinante avventura di
Chiesa, come riferiti da "La Civiltà Cattolica". Senza elucubrazione alcuna sulla necessità
di ordinare uomini sposati.
"Il missionario arrivava una o due volte l’anno" di Nicolas Standaert S.I. - Da "La Civiltà
Cattolica" n. 3989 del 10 settembre 2016
Nel XVII secolo i cristiani cinesi non erano organizzati in parrocchie, ovvero in unità
geografiche attorno all’edificio di una chiesa, bensì in "associazioni", con a capo dei laici.
Alcune di esse erano un misto del tipo di associazioni cinese e di quello delle
congregazioni mariane di ispirazione europea. Pare che tali associazioni cristiane fossero
molto diffuse. Ad esempio, intorno al 1665 c’erano circa 140 congregazioni a Shanghai,
mentre c’erano più di 400 congregazioni di cristiani nell’intera Cina, sia nelle grandi città
sia nei villaggi. L’insediamento del cristianesimo a questo livello locale ebbe luogo sotto
forma di quelle che si possono definire "comunità di rituali efficaci", gruppi di cristiani la
cui vita era organizzata attorno a determinati rituali (messa, festività, confessioni ecc.).
Esse erano "efficaci" sia nel senso che costruivano un gruppo, sia nel senso che
venivano considerate dai membri del gruppo come capaci di recare senso e salvezza. I
rituali efficaci erano strutturati in base al calendario liturgico cristiano, che comprendeva
non soltanto le principali feste liturgiche (Natale, Pasqua, Pentecoste ecc.), ma anche
celebrazioni dei santi. L’introduzione della domenica e delle feste cristiane fece sì che la
gente vivesse secondo un ritmo diverso dal calendario liturgico utilizzato nelle comunità
buddiste o taoiste. I rituali più evidenti erano i sacramenti, specialmente la celebrazione
dell’eucaristia e la confessione. Ma la preghiera comunitaria – soprattutto la recita del
rosario e le litanie – e il digiuno in determinati giorni costituivano i momenti rituali più
importanti. Queste comunità cristiane rivelano anche alcune caratteristiche essenziali
della religiosità cinese: comunità che sono molto orientate alla laicità e che hanno capi
laici; l’importante ruolo delle donne quali trasmettitrici di rituali e di tradizioni all’interno
della famiglia; una concezione del sacerdozio orientato al servizio (preti itineranti,
presenti soltanto in occasione di feste e di celebrazioni importanti); una dottrina
espressa in modo semplice (preghiere recitate, princìpi morali chiari e semplici); una
fede nel potere trasformante dei rituali. A poco a poco, le comunità giunsero a
funzionare in maniera autonoma. Un prete itinerante (inizialmente uno straniero, ma nel
XVIII secolo prevalentemente preti cinesi) era solito far loro visita una o due volte
l’anno. Di norma i capi delle comunità riunivano i vari membri una volta la settimana e
presiedevano alle preghiere, che la maggior parte dei membri della comunità conosceva
a memoria. Essi leggevano anche i testi sacri e organizzavano l’istruzione religiosa.
Spesso si tenevano incontri a parte per le donne. Inoltre, vi erano catechisti itineranti
che istruivano i bambini, i catecumeni e i neofiti. In assenza di un sacerdote, capi locali
amministravano il battesimo. Durante la sua visita annuale di alcuni giorni, il missionario
conversava con i capi e con i fedeli, riceveva informazioni dalla comunità, si interessava
delle persone malate e dei catecumeni ecc. Ascoltava confessioni, celebrava l’eucaristia,
predicava, battezzava e pregava con la comunità. Dopo la sua partenza, la comunità
continuava la sua consueta pratica di recitare il rosario e le litanie. Il cristiano ordinario
quindi incontrava il missionario una o due volte l’anno. Il vero centro della vita cristiana
non era il missionario, ma la comunità stessa, con i suoi capi e catechisti come principale
anello di congiunzione. Soprattutto nel XVIII e all’inizio del XIX secolo queste comunità
si trasformarono in piccoli ma solidi centri di trasmissione di fede e di pratica cristiana. A
causa dell’assenza di missionari e di sacerdoti, i membri della comunità – ad esempio, i
catechisti, le vergini e altre guide laiche – assumevano il controllo di tutto,
dall’amministrazione finanziaria alle pratiche rituali, compresa la guida delle preghiere
cantate e l’amministrazione dei battesimi.
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 10 “Rifiutato perché gay”. Ma l’iscrizione è avvenuta di Paolo Ferrario
Se la “discriminazione” è un realtà un privilegio
Milano. Non solo non è stato mai discriminato, ma ha anche avuto accesso a una corsia
preferenziale per regolarizzare l’iscrizione fuori tempo massimo e la scuola si è pure
fatta carico del costo della dote, che aveva perso a causa del ritardo colpevolmente
accumulato. Così si è conclusa la vicenda della presunta (e mai verificatasi)
“discriminazione” di uno studente dell’Ente Cattolico per la Formazione professionale di
Monza, che, a detta dei genitori, sarebbe stato escluso dalle lezioni in quanto
omosessuale. Accusa che già lo scorso anno fu avanzata nei confronti dell’istituto che,
con il presidente don Marco Oneta, conferma essere «inesistente». «Non esistono altre
motivazioni per la mancata iscrizione – scrive don Oneta in una lettera al direttore
dell’Ecfop, Adriano Corioni – se non quella del grave ritardo con il quale il ragazzo e la
sua famiglia hanno manifestato l’intenzione di continuare il percorso formativo presso il
nostro ente». La cronologia dei fatti è ben documentata da un comunicato della stessa
scuola, che ricorda come «la famiglia non si è presentata all’incontro programmato per il
24 giugno per i colloqui finali e per il rinnovo dell’iscrizione » al III corso Sala Bar,
indirizzo frequentato dal giovane. Inoltre, lo studente, si legge sempre nella nota
dell’Ecfop, «non si è presentato per saldare il debito in Economia e Diritto». Cosa che
dovrà fare ora. E ancora. Come ricostruito dalla docente di riferimento dello studente, ne
lui ne i suoi genitori si sono fatti vivi presso la scuola per i mesi di giugno e luglio,
eccezion fatta per una telefonata del ragazzo che chiedeva delucidazioni sulle modalità
di iscrizione. Invitato a richiamare, il giovane non ha più telefonato. Soltanto l’8
settembre, la madre del ragazzo ha chiamato «chiedendo con quale procedura avrebbe
potuto iscrivere il figlio». La docente, a questo punto, ha chiesto conto del lungo silenzio
estivo e del ritardo, domande a cui la donna ha risposto dicendo di essere stata «molto
impegnata per lavoro». La madre ha quindi aggiunto «che non avrebbe più voluto
iscrivere il figlio ma che il ragazzo insisteva per iscriversi». Comportamento davvero
inspiegabile, alla luce delle accuse di discriminazione rivolte alla scuola. Evidentemente,
la realtà è ben diversa da quella che, anche in questi giorni, viene raccontata da giornali
e siti internet. «Questa – scrive ancora don Marco Oneta – mi è parsa come la migliore
dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, del fatto che, a dispetto del clamore da
loro sollevato e dalla strumentalizzazione che ne era seguita, questo nostro alunno
riconosce la bontà del nostro percorso formativo ed educativo e non si sente per nulla
discriminato nella nostra scuola». «Il bene di questo giovane è l’unica cosa che ci sta
veramente a cuore», conclude il sacerdote. E così, alla fine, la scuola ha riammesso lo
studente, facendosi carico anche della dote. Se questa è discriminazione…
Sembra quasi un riflesso pavloviano: basta mettere insieme le parole gay e cattolici e
subito ne salta fuori una terza: discriminazione. E, sempre come un riflesso pavloviano,
il caso finisce in prima pagina, si alzano i lai e alcune associazioni partono lancia in resta
a chiedere provvedimenti punitivi. Ancor prima di conoscere ciò che è accaduto
realmente. Ancor prima di verificare – com’è dovere di chi fa cronaca – che si è di fronte
non a una discriminazione, ma piuttosto a un trattamento 'privilegiato', a un’attenzione
in più verso il protagonista di questa vicenda, iscritto nonostante la scadenza dei termini
e una certa 'distrazione' nei rapporti con la scuola, nonché sostenuto nell’impegno
economico. Un ragazzo di cui non si fa certo il bene 'sbattendolo' ogni anno sulle pagine
dei giornali come «gay, vittima di discriminazioni». Che non ci sono.
Pag 10 Agesc: paritarie ormai allo stremo di Enrico Lenzi
Fondi ancora fermi
Milano. «Siamo sull’orlo del baratro». È un grido di dolore e denuncia quello che Roberto
Gontero, presidente nazionale dell’Associazione nazionale genitori scuole cattoliche
(Agesc) lancia per l’ennesima volta sulla sorte delle scuole paritarie. La sua è la voce di
chi sceglie di iscrivere i figli alla scuola paritaria, esercitando il diritto costituzionale della
libertà di scelta in campo educativo. Ma ancora una volta il ritardo nell’erogazione dei
fondi dello Stato alle paritarie mette a rischio questo diritto. «Il tutto mentre lo Stato
trova comunque 240 milioni di euro per tenere aperte le scuole al pomeriggio» aggiunge
Gontero, precisando di 'non essere contrario al progetto, ma noto che quando si tratta di
trovare una soluzione per questo segmento della scuola italiana non si riesce mai
nell’intento». A creare per l’ennesima volta una situazione drammatica per gli istituti non
statali è, a dire il vero, una 'questione interna' a questo segmento del sistema scolastico
italiano. Nei mesi scorsi l’Aninsei, associazione di scuole aderente a Confindustria, aveva
presentato un ricorso al Consiglio di Stato contro i criteri di assegnazione dei fondi statali
del ministero dell’Istruzione, che prevedevano l’assegnazione dell’80% dei fondi alle
paritarie non profit. Ricorso accolto a fine gennaio 2016, e che ha costretto il ministero
dell’Istruzione a riscrivere i criteri di assegnazione dei 500 milioni di euro stanziati in
Finanziaria per la scuola paritaria. Decreto che ha dovuto ripassare al vaglio della Corte
dei Conti, che ha utilizzato tutto il tempo a sua disposizione. E così si è arrivati a metà di
agosto 2016, quando il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha firmato il nuovo
decreto di attribuzione dei fondi. Ma anche per questo secondo decreto è stato
presentato dall’Aninsei un ricorso al Consiglio di Stato, la cui sentenza è attesa per il 23
settembre. Nel frattempo i fondi restano nelle casse del ministero, mentre quelle delle
scuole paritarie risultano sempre più vuote. «E così la nostre scuole sono costrette a
indebitarsi con le banche» denuncia con forza Gontero, che ha inviato una lettera aperta
al presidente della Repubblica Sergio Mattarella illustrando la situazione «non più
sosteniibile» e il rischio di «non vedere rispettati i dettami costituzionali, di cui lui è
garante». Anche per questo il presidente nazionale dell’Agesc ha chiesto di essere
ricevuto al Quirinale per esporre al presidente Mattarella (che tra l’altro è stato ministro
dell’Istruzione) la situazione. «Quando una scuola paritaria chiude viene meno un pezzo
di libertà culturale del nostro Paese – incalza Gontero – e la scuola unica non può che
preludere ad una 'educazione di Stato'. Siamo il fanalino di coda dell’Europa in materia
di libertà di scelta educativa, che in Italia rimane un sogno per migliaia di genitori».
«Siamo davvero davanti a una guerra tra poveri» commenta, infine, sconsolato il
presidente dell’Agesc, con il risultato «di far morire una realtà, come quella della scuola
paritaria, che fa risparmiare alcuni miliardi di euro allo Stato».
LA NUOVA
Pag 1 Quei bambini umiliati per il panino di Ferdinando Camon
Arriverà presto anche da noi, la battaglia per il panino a scuola. Già è in corso a Milano.
Prepariamoci. Si tratta di questo: ci sono delle madri che mandano a scuola i figli
mettendogli nello zaino anche il pranzo, un sontuoso panino fatto di pane integrale
farcito per esempio di tonno di Sicilia e pomodorini freschi. Arriva il momento del
pranzo, i ragazzi vanno nella mensa, tutti i ragazzi, naturalmente anche quelli che hanno
il panino nello zaino. Si mettono a mangiare insieme con tutti i compagni, che sono i loro
amici, che ricorderanno per tutta la vita. Ricorderanno le lezioni, i giochi, i voti, le
rivalità, i litigi. I momenti in classe e i momenti a mensa. Perciò alla domanda: sono
formativi, i momenti trascorsi a mensa?, bisogna rispondere: molto, sono fondamentali,
come tutti i momenti vissuti a scuola. La scuola è un luogo dove il bambino forma la sua
vita condividendola con i coetanei. La scolaresca di una classe è un unico corpo
collettivo. Ma ecco cosa succede, col bambino che sta mangiando il panino preparatogli
dalla mamma: arriva un’inserviente, lo prende per un braccio e lo porta via, a mangiare
da solo, separato da tutti, in un’auletta o in uno sgabuzzino. Oppure nella classe, che è
vuota perché i compagni sono a mensa. È un gesto orrendo. Capace, da solo, di
distruggere tutto quello che di buono il bambino ha imparato dalla scuola in tutto l’anno.
La scuola, da luogo dove il piccolo impara tante cose che vengono approvate, anzi
ammirate, dal papà e dalla mamma, diventa adesso un luogo dove il bambino patisce un
atto che fa arrabbiare il papà e la mamma, li fa discutere a casa, li fa andare a
protestare dal preside, che però non molla ma insiste: il bambino che mangia un cibo
suo non può mangiarlo insieme con i compagni. A questo punto la vicenda si complica, e
se non sarò preciso chiedo scusa: c’è stato il ricorso alle autorità giudiziarie, che hanno
dato ragione ai genitori, ma i presidi ribattono che quel verdetto vale solo per quelli che
l’han chiesto, non vale per gli altri genitori, che dunque son tenuti a mandare i loro figli
alla mensa, e (ecco il punto delicatissimo, che forse contiene la spiegazione di tutta la
vicenda) a pagare la relativa retta. Che s’aggira sui 700 euro l’anno. Dunque le madri
che mandano i figli a scuola col panino nello zaino hanno prima disdetto la retta? Così
pare. La difesa dei presidi: «Noi possiamo garantire la sanità dei cibi della nostra mensa,
non possiamo garantire per i cibi che vengono da casa», non sta in piedi. Sembra mossa
dalla preoccupazione per la salute dei bambini. Ma è una preoccupazione superiore a
quella dei genitori? Forse che una madre non si preoccupa che il cibo che dà a suo figlio
sia sano? Questa fase, del bambino tirato fuori dal gruppo e guidato per mano in un
altro posto, a mangiare da solo, è la fase 2 di un atteggiamento lungo, che ha avuto
nella fase 1 un precedente più orribile: quando c’era qualche bambino i cui genitori non
erano a posto con la retta e allora, nella distribuzione del pranzo, il piatto di quel
bambino veniva saltato. Tutti mangiavano, ma lui no, restava col piatto vuoto, sotto gli
sguardi dei compagni. A me piace molto il cinema, ci vado ogni volta che posso. Non
escludo che mi capiti di vedere, un domani, un film in cui la storia di un bandito asociale
comincia così: lui piccolino, in una mensa scolastica, chino sul piatto vuoto, mentre tutti
i suoi compagni intorno mangiano e lo guardano.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 21 Un “fertility day” contro il suicidio demografico di Vittorio Filippi
«I figli degli uomini» è un inquietante romanzo di una certa James, scrittrice inglese
nonché membro conservatore della Camera dei Lord. L’opera (divenuta anche un bel
film con musica dei Rolling Stones) racconta in chiave fantascientifica di una Gran
Bretagna al 2027, in lotta violenta contro una caotica immigrazione clandestina e
soprattutto da 18 anni priva di nascite, dato che l’infertilità aveva colpito la specie
umana. Scritto nel 1992, il romanzo appare oggi sinistramente profetico. Con la
differenza che l’infertilità non deriva da una misteriosa pandemia che colpisce l’umanità,
ma è semplicemente una scelta. Personale, sociale e culturale al tempo stesso.
Condensabile in pochi numeri: oggi in Veneto abbiamo 1,4 figli per donna (con il
contributo delle immigrate: sotto l’1,3 le italiane) quando la soglia di equilibrio di una
popolazione è, com’è noto, pari a 2,1. Un terzo in meno di quanto servirebbe. E
portandoci non solo al baratro dell’invecchiamento crescente, ma allo spopolamento vero
e proprio. In cui nei primi cinque mesi di quest’anno il Veneto ha già perso più di 5 mila
abitanti, uno stillicidio di mille persone cancellate al mese. Bene fa il Ministero della
Salute a ricordarci oggi che c’è un problema – grave, gravissimo, ma forse ormai
irreversibile – di fertilità. In cui ci sono certamente aspetti medico-sanitari (in cui conta
anche l’aumento dell’età in cui si diventa madri, che in Veneto per le italiane si toccano i
33 anni), ma anche – e soprattutto – fattori socioeconomici forti come la latitanza di un
welfare su misura per coppie con figli ed un mercato del lavoro che oggi appare
ingeneroso se non ostile alla donna che vuole anche gestire la sua maternità. Non a caso
il tasso di occupazione delle donne senza figli è sistematicamente più ampio di quelle
con figli. Segno di una conciliazione lavoro-famiglia che continua ad essere (per troppe
madri) ostica e funambolica. Il tutto appesantito dalla crisi di questi anni. Ma c’è anche
un fatto culturale che ci porta ad uno sguardo schizofrenico alla demografia. Per cui gli
immigrati sono sempre troppi, a prescindere. E’ sufficiente un semplice esercizio di
psicologia sociale per constatarlo: se si chiede in giro quanti sono gli immigrati presenti,
i numeri forniti saranno sempre ben più ampi di quelli reali. Viceversa sul numero delle
nascite non vi è nessuna allarmata percezione della loro insufficienza e delle
conseguenze di ciò. Come se la cosa avesse scarsa importanza, quasi un dettaglio
sociologico di un futuro lontano che non interessa. Invece bisognerebbe anche chiedersi
se la ripresa economica che arranca con troppa fatica non dipenda da una demografia
ormai al collasso. Che il Fertility Day possa oggi almeno darci la consapevolezza del
suicidio demografico che rischiamo.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 7 Da Anna a Cecilia, le resistenti della casa: “Noi che affittiamo solo ai
veneziani” di Martina Zambon e Gloria Bertasi
Dopo il caso del prof sfrattato: “Salvare la città”. Il boom dei B&B e il buco delle
strutture abusive
Venezia. «Non voglio contribuire a spolpare viva la mia città». La «resistenza veneziana»
contro la trasformazione apparentemente inesorabile della città in un immenso B&B più
o meno abusivo parla la lingua dell’orgoglio, la lingua di chi pur potendo guadagnare
cifre esorbitanti affittando a turisti decide di firmare solo contratti 4 più 4 ad uso
residenziale. In città non è passata inosservata la storia del professor Gino Zennaro, che
dopo 73 anni in una stessa casa a Dorsoduro è stato sfrattato per far spazio ai turisti.
Una storia a lieto fine con l’accoglienza, da parte di una ex studentessa prima e
dell’erede poi, per il prof, che ieri è stato portato dalle figlie in visita alla porta santa
della Basilica di San Marco per festeggiare il suo centesimo compleanno. Eppure non
tutti l’avrebbero sfrattato, c’è chi sceglie di affittare solo a residenti. La scelta per
nessuna delle «mosche bianche» che abbiamo sentito è stata semplice o indolore.
Spesso si è tenuto un vero e proprio consiglio di famiglia per decidere come gestire
un’eredità immobiliare nella città più bella (e visitata) del mondo. Cecilia Tonon ha
legato il suo nome a battaglie molto veneziane, come quella del movimento «Masegni e
Nizioleti», e all’impegno civico. A casa però ha scelto la strada della coerenza, proprio
perché «per quanto mi è possibile, non voglio contribuire ulteriormente a spolpare
questa città». La sua è la storia-tipo: ha ereditato più immobili di famiglia, tutti in centro
storico, e ha dovuto decidere come gestirli. «Onestamente? Ho un monolocale che
affittiamo a turisti ma si tratta del 10% del totale della proprietà. Tutto il resto va in
locazioni 4+4. Ci perdo dal 50% al 70% di quanto potrei guadagnare affittando a turisti.
Tanto per capirci, se affitti un appartamento da 4 posti letto a visitatori ci mantieni
agevolmente una famiglia. Io con le locazioni turistiche del monolocale riesco a
contenere gli affitti degli altri appartamenti. E lo faccio perché non mi va di partecipare
al banchetto che sta svuotando Venezia». E se gestire le prenotazioni di un
appartamento a Venezia su Airbnb ha come unica difficoltà l’organizzazione di un
perenne sold out, trovare famiglie che vogliano vivere a Venezia affittando a prezzi di
mercato non è così semplice. «Mi è capitato di essere insultata da chi non poteva
permettersi l’affitto, come se il problema fossero i proprietari che ancora si prendono la
briga di affittare a residenti», conclude Tonon. I dilemmi di chi eredita una casa di 150
metri quadrati sono comuni: affittare a 1200 euro al mese o ricavarne due appartamenti
da 75 metri quadri e guadagnare anche 1600 euro? Le storie di vita che si legano al
mercato immobiliare veneziano sono le più varie. Giovanna Massaria è una penalista
40enne che ha appeso la toga al chiodo per lavorare all’Agenzia immobiliare «Heim»,
che si occupa di compravendite e locazioni non turistiche. «Un po’ per principio - spiega
- un po’ perché affittare a turisti in regola è molto complicato e quasi antieconomico.
Purtroppo però è vero, stanno calando i proprietari che vogliono affittare a residenti.
Però c’è anche il controesodo per così dire: chi ha provato l’esperienza con i turisti e
decide di tornare ad affittare a residenti. Un nuovo cliente ha specificato che vuole
vendere il proprio immobile solo se non sarà riconvertito a uso turistico». Tutta al
femminile anche la storia di Anna Brondino, che insieme alle due sorelle e alla madre ha
ereditato alcuni appartamenti e il negozio di famiglia. Argenteria fatta a mano, più di un
secolo di storia alle spalle. «Ci siamo guardate in faccia - racconta - e abbiamo deciso: è
eticamente giusto non svendere tutto ai turisti». Anna ha rifiutato 14 offerte non
adeguate per il negozio, tenendolo chiuso da maggio a settembre e poi sono subentrati
ragazzi veneziani che si occupano di abbigliamento. «Il patrimonio di famiglia risale al
mio bisnonno - spiega la Brondino - abbiamo subito stanato un B&B abusivo in uno degli
immobili. Ora ci vivono residenti. È una scelta di famiglia, ci concediamo questo lusso
ma i costi sono altissimi, soprattutto per la manutenzione. Un intonaco ci è appena
costato 50mila euro. Ce la facciamo, avendo più di un appartamento, grazie alle
economie di scala. Però il Comune dovrebbe concedere agevolazioni almeno sulle
imposte locali, a partire dal dimezzamento dell’Imu. Quanto al negozio - chiude - ci sono
cresciuta, lì ho conosciuto mio marito ed è nata mia figlia. Non potevo rassegnarmi a
vederlo pieno di paccottiglia da turisti».
Pag 14 2050, il mare salirà di 25 centimetri. “Il Mose? Bene, ma non basta” di
Martina Zambon
Clini al convegno sull’acqua: Venezia a rischio come New York, scenari da incubo
Venezia. Più venticinque centimetri sul medio mare da qui al 2050. Molto peggio dal
2050 al 2100. Corrado Clini torna a Venezia e tutti chiamano l’ex ministro – che proprio
qui mosse i primi passi della sua carriera, come direttore del servizio di Medicina del
Lavoro – «professore». Clini è oggi docente di Scienze Ambientali alla Tshingua
University di Pechino e ha aperto la tre giorni di Watec, mostra convegno sulle
tecnologie per il trattamento dell’acqua e la salvaguardia dell’ambiente, in programma al
Pala Expo fino a domani. Stamattina Clini terrà una sessione dedicata agli effetti che i
cambiamenti climatici avranno sul delicato equilibrio lagunare e le previsioni sono
tutt’altro che rosee. «Spero davvero di sbagliarmi, ma ormai anche gli studiosi
statunitensi, storicamente meno catastrofisti, concordano – spiega Clini – la
combinazione di precipitazioni maggiori, aumento termico degli oceani, scioglimento dei
ghiacciai e conseguente innalzamento dei mari si tradurrà in un rischio molto serio per
città come Venezia, ma anche Amsterdam, Miami e New York». E se c’è chi getta acqua
sul fuoco segnalando che l’alta salinità dell’Adriatico potrebbe proteggere il capoluogo
lagunare, l’ex ministro scuote il capo: «Purtroppo, se il mare si alzerà con i ritmi previsti
la salinità delle acque potrà ridurre l’aumento ma non eliminarlo - afferma - Le immagini
più recenti della Nasa sono spaventose. A livello europeo, una delle obiezioni contro il
Mose era che il cambiamento climatico non avrebbe provocato cambiamenti rilevanti per
Venezia: ridicolo». Le previsioni più preoccupanti sono quelle dal 2050 al 2100 quando
l’effetto «accumulo» di diversi fattori crescerà esponenzialmente. «Alcuni ipotizzano
addirittura che possa saltare il meccanismo dell’equilibrio idrico - continua - Uno
scenario da incubo e purtroppo l’Adriatico è una delle aree più a rischio». Più 25
centimetri rispetto all’attuale livello del mare entro il 2050 significa che maree che oggi
arrivano a 80 diventano arriveranno a 105 centimetri. «Per carità, il Mose va bene –
spiega l’ex ministro - ma sono necessari anche altri interventi a partire dalla protezione
delle coste». E in questo quadro Venezia potrebbe giocare un ruolo da hub a livello
mondiale. «Questo convegno avrebbe potuto essere un assist - conclude - ma temo la
città non abbia colto». «I nuovi modelli di gestione delle acque sono i temi della
geopolitica e dell’economia del futuro - sottolinea anche l’assessore veneziano allo
Sviluppo Economico Simone Venturini -. Venezia ha addomesticato e rispettato l’acqua
per mille anni, speriamo che diventi punto di riferimento». Clini ha commentato, infine, i
marginamenti di Porto Marghera, mai conclusi: «Ci sono ancora fondi statali non erogati,
non si è andati fino in fondo a sfruttare le procedure semplificate varate nel 2012. Manca
una regia, il soggetto giusto per coordinare un nuovo inizio su bonifiche e marginamenti
sarebbe la Città metropolitana».
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XX Centro islamico verso l’apertura di Giuseppe Babbo
Jesolo: i fedeli hanno presentato in comune l’autocertificazione per l’agibilità
dell’immobile. Zoggia: “Ora verificheremo se i lavori di adeguamento sono stati compiuti
correttamente”
Jesolo - Centro culturale islamico di via Aquileia: i fedeli autocertificano l'agibilità
dell'immobile. È l'adempimento compiuto nelle scorse settimane dall'associazione
«Incontro», la realtà che rappresenta i cittadini bengalesi del litorale e che ancora la
scorsa primavera aveva affittato il magazzino che si trova a due passi da piazza Mazzini.
Un passo fondamentale per aprire ufficialmente la sede dedicata all'attività culturale
della stessa associazione che però gli stessi fedeli non hanno potuto utilizzare perché
«non agibile» secondo il Comune. Nemmeno per la preghiera del venerdì, rito che
contrasta tra l'altro con la norma introdotta dalla Regione che per tutta l'estate è stato
svolto in un terreno privato di Cortellazzo. Anche per questo la situazione ha alimentato,
tra aprile e maggio, alcuni momenti di tensione tra sit-in di protesta degli stessi
immigrati e tentati «blitz» per usare ugualmente l'immobile con la concreta possibilità
che il Comune procedesse con il sequestro dell'immobile di fronte a ripetute violazioni.
Da ciò l'avvio dei lavori richiesti per sanare gli abusi riscontrati, fino ad arrivare alla
consegna dell'autocertificazione che potrebbe finalmente spalancare le porte del centro,
prima ancora di San Donà dove la comunità islamica vorrebbe aprire un centro simile.
«Ora nei termini previsti dalla legge - commenta il sindaco Valerio Zoggia - Procederemo
alle verifiche del caso, per accertare il corretto compimento dei lavori e di conseguenza
la risoluzione delle criticità evidenziate dai nostri uffici». Ma una volta aperto,
inevitabilmente, verrà verificata anche l'attività svolta all'interno del centro, con
particolare riferimento all'organizzazione di eventuali incontri di preghiera.
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Il paradosso della scelta sui Giochi di Sergio Rizzo
I due errori dei 5 Stelle
Virginia Raggi rivendica di non aver cambiato idea. E per certi aspetti è vero. «Ritengo
che sia criminale iniziare a parlare di Olimpiade quando Roma muore affogata di traffico
e di buche», dice il 30 maggio a Piazza Pulita . Salvo poi precisare il giorno dopo:
«Criminale è snobbare i problemi reali dei romani pensando solo alle grandi opere. Non
mi riferivo ovviamente all’Olimpiade, di fronte alla quale non c’è alcun pregiudizio da
parte del Movimento 5 Stelle». Finché la formula, una volta eletta sindaca, pian piano
diventa: «L’Olimpiade non è una priorità». La certifica il vicepresidente della Camera
Luigi Di Maio, in attesa che dal blog di Beppe Grillo arrivi la sospirata scomunica ufficiale.
Tutti ricordiamo che quattro anni fa il premier Mario Monti si assunse la responsabilità di
dire «No» alla candidatura della capitale d’Italia per i giochi del 2020. Allora era un
presidente del Consiglio, oggi a decidere è un privato cittadino garante di un movimento
politico. Ma la morale è sempre la stessa: la città di Roma non decide mai, né in un
senso, né in quello opposto. Non decide la sua classe dirigente, perché non c’è o è
troppo debole. Quello che è accaduto ieri è la conferma che il problema va ben oltre il
tenue steccato dei partiti. E non risparmia il Movimento 5 Stelle. Rispetto ai Giochi
olimpici Roma è ridotta così male da avere altre priorità: concordiamo. Ma continuiamo a
credere che abbia ragione l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini al quale è toccato, in
questo frangente, vestire i panni del grillo parlante. Per una forza politica che si candida
a governare il Paese per cambiare tutto, questa è un’occasione persa. L’Olimpiade
avrebbe potuto essere una prova di estrema maturità. La dimostrazione che gli appalti
pubblici si possono fare anche senza corrompere e rubare, che le infrastrutture si
possono realizzare senza sprechi inutili, che organizzare un grande evento non
necessariamente equivale a inondare di cemento inutile la città e arricchire gli
speculatori, che il disperato bisogno di normalità di questo Paese può finalmente tradursi
in realtà, che Mafia Capitale è morta e sepolta. Avrebbero potuto alzare l’asticella fino
all’inverosimile: pretendere altri responsabili dell’organizzazione, imporre procedure di
trasparenza estrema, rivendicare controlli esasperati. Hanno scelto di non mettersi in
gioco. La scelta più facile, in questo momento. Ma anche la più politicamente redditizia.
L’unica accettabile, per il loro Dna. Basta fare un giro sulla Rete per constatare che la
maggioranza degli internauti, serbatoio del consenso grillino, manifesta entusiasmo per
il «No». Nonostante i malumori di qualcuno, la mossa è di sicuro servita a rinserrare i
ranghi del Movimento, rendendo più solido il nocciolo duro intorno a Beppe Grillo in una
fase nella quale il caso romano aveva seminato disorientamento perfino nei vari
direttori. Quel «No» potrà sempre servire come scudo difensivo contro ogni attacco dei
soliti poteri forti ai Cinque stelle, sul fronte romano e su quello nazionale: «Se la
prendono con noi perché abbiamo detto No all’Olimpiade…». Senza poter escludere che
tale ricaduta sia ancora più importante della decisione sul merito. A chi interessa
l’Olimpiade? E poi, fra otto anni Dio vede e provvede… Ecco perché non avrebbero mai
detto «Sì». Quel «Sì» avrebbe significato accettare discussioni, mediazioni, intese.
Impossibile solo da immaginare. Ed è anche la ragione per cui questa storia, oltre a non
aver dissipato la sensazione di estrema fragilità della classe dirigente al governo di
Roma, ha messo pure in discussione alcune regole basilari cui si è sempre ispirato il
Movimento. Come la democrazia diretta. La proposta del segretario dei radicali italiani
Riccardo Magi di far decidere ai cittadini con un referendum è stata liquidata
sbrigativamente. Né abbiamo assistito a consultazioni «Olimpiarie» online degli aderenti,
o alle famose dirette streaming. Qualcuno ha capito com’è stata presa la decisione?
Certo non dal Consiglio, e nemmeno dalla Giunta comunale. Chi era a favore, o
contrario? Se utile alla propaganda, lo streaming è un dogma usato anche come
manganello; diventa un optional quando può essere fonte di imbarazzo. Funziona
sempre. Ma dov’è la differenza con gli altri, a questo punto ce lo dovrebbero spiegare.
Pag 6 Due elettori di Fi su tre: l’ex premier resti leader del centrodestra di Nando
Pagnoncelli
Ma senza di lui il 24% vede bene il manager al vertice
La convention di Stefano Parisi a Milano, intitolata «Energie per l’Italia», aveva
l’obiettivo di far ripartire il centrodestra, con nuove idee e un nuovo ceto politico,
lanciando soprattutto un passaggio di testimone da Berlusconi alle nuove leve, fuori dal
giro degli esponenti politici che finora hanno diretto Forza Italia. Dopo la chiusura
dell’evento abbiamo testato le opinioni degli italiani rispetto ai possibili scenari del
centrodestra. Il 40% dei nostri intervistati ha almeno sentito parlare di questo meeting,
con le punte più elevate tra gli elettori centristi, i livelli più bassi (nell’ambito delle forze
di centrodestra) tra gli elettori leghisti. La crisi del centrodestra è sotto gli occhi di tutti e
proprio per questo abbiamo voluto testarne le ragioni. Che sono piuttosto articolate,
poiché il 36% la attribuisce ad una crisi di leadership, il 29% alla mancanza di un
progetto politico, il 27% alla mancanza di ideali e valori unificanti. Le risposte per
elettorati sono molto illuminanti. Gli elettori di centro attribuiscono massicciamente la
crisi ad un’assenza di valori, gli elettori di Forza Italia, ancora più massicciamente,
all’assenza di un leader adeguato, gli elettori leghisti alla mancanza di un progetto
politico. E chi ha smesso di votare centrodestra lo ha fatto soprattutto perché non ne
distingue più gli obiettivi. Dal sondaggio emerge la forte difficoltà del centrodestra ad
indicare un capo riconosciuto. Come leader di Forza Italia gli elettori di questa
formazione preferiscono di misura Toti (29%), seguito da Parisi (21%) quindi da
Brunetta (15%). E più di un quarto ritiene che nessuno di questi personaggi possa
essere il successore di Berlusconi. Ma è interessante sottolineare come gli elettori da
conquistare, il centrodestra incerto, non riconosca nessuno di questi nomi. Non molto
cambia quando parliamo dell’intero centrodestra, per il quale abbiamo testato come
possibili leader Parisi, Salvini e Meloni. Di nuovo gli elettori di Forza Italia si dividono fra
i tre con una lieve prevalenza di Parisi e un terzo che non gradisce nessuno dei tre.
Anche in questo caso gli elettori incerti di centrodestra ricusano le proposte con i due
terzi che non sanno esprimersi. Gli elettori centristi bocciano tutti esplicitamente. Solo
gli elettori leghisti, per oltre il 70%, convergono su Salvini. Sul passo indietro di
Berlusconi per lasciar spazio a nuovi dirigenti c’è un generale scetticismo. Sul totale
degli elettori meno di un terzo pensa che lascerà, tra gli elettori di Forza Italia i due terzi
pensano che nessuno possa sostituirlo, viceversa quelli della Lega e centristi sono
convinti che il suo istinto di prevalenza lo porterà, come altre volte è accaduto, a
mantenere un ruolo centrale. Di nuovo, sono gli elettori incerti del centrodestra che
pensano in netta maggioranza che cederà la leadership. E questi elettori sono convinti
della necessità che si faccia da parte per il bene del centrodestra, come d’altra parte
leghisti e centristi, mentre gli elettori di FI pensano per oltre il 70% che non è bene che
si faccia da parte. Anche il percorso di alleanze si rivela complesso e frastagliato. Gli
elettori leghisti sono unanimi o quasi nel pensare che la soluzione migliore sia una
coalizione che raccolga tutte le forze, al contrario gli elettori centristi sono per
un’alleanza moderata che escluda Lega e Fratelli d’Italia. Perplessi gli elettori di Forza
Italia che solo per meno della metà auspicano una coalizione allargata, mentre per il
33% confidano addirittura in un percorso solitario della propria formazione e per circa un
quinto preferirebbe un’alleanza delle forze moderate senza Lega e FdI. In un contesto
caratterizzato da opinioni così diversificate emergono non pochi dubbi sulle possibilità di
affermazione dell’esperimento avviato da Parisi. Gli elettori di Forza Italia coltivano
qualche speranza, mentre i leghisti sono tranchant e i centristi molto perplessi.
Insomma, all’indomani dell’evento milanese la situazione nel centrodestra sembra
rimanere indecifrabile: non emerge un leader riconosciuto dalle diverse componenti di
questa importante area politica. È un’area che, sulla base dei sondaggi, nell’insieme si
avvicina al 30% dei voti validi, grosso modo allo stesso livello di Pd e M5S. Senza
contare l’area dell’astensione, nelle cui fila gli ex elettori di centrodestra delusi sono
decisamente numerosi. In assenza di un leader condiviso permane difficile un processo
di federazione e la definizione di un progetto politico originale e distintivo che possa
rappresentare un’alternativa credibile, in grado di influenzare l’agenda politica (come
fece Berlusconi in gran parte del periodo della cosiddetta «Seconda Repubblica») e di
parlare ad un blocco sociale che in parte è rimasto orfano, in parte ha cercato altre
strade.
Pag 11 “Comprensibili le critiche di Renzi all’Unione. Ma non si può fare da soli”
di Marzio Breda
Intervista a Giorgio Napolitano
Presidente Napolitano, sull’orizzonte dell’Ue pesa l’insuccesso del vertice di Bratislava.
Era un’ingenuità pensare che fosse l’occasione per rilanciare lo «spirito europeo»?
«Mesi fa, presentando al Senato il mio libro sull’Europa, dicevo che “l’immagine dei 28
capi di governo che viaggiano da una riunione all’altra, spesso riprendendo le decisioni
da quella precedente o rinviando tutto ancora a quella successiva” rispecchiava uno
stato delle istituzioni europee ormai non a lungo sostenibile. La recente riunione di
Bratislava ne è stata solo una conferma. D’altronde, hanno notato gli europarlamentari
socialisti francesi, non ci si poteva aspettare granché da un vertice informale a 27, il
primo a riunirsi dopo la Brexit, che ben poco di concreto ha registrato, salvo qualche
passo avanti in materia di difesa e sicurezza, e si è concluso con una dichiarazione di
scarso valore, con le sue carenze e unilateralità. Quel “consulto” è stato piuttosto ancora
lo specchio - hanno osservato gli amici francesi - di “due opposte visioni dell’Europa che
si affrontano”».
Matteo Renzi è stato molto critico.
«Che si sia colta quest’ultima occasione di elusività e inconcludenza per dissociarsene come ha fatto il presidente del Consiglio italiano - magari anche per comportamenti
ritenuti scorretti nei nostri confronti, è pure comprensibile, ma l’occasione di Bratislava
non merita particolare considerazione, né può far trascurare il quadro per altri aspetti
ben più importanti e positivi».
Il bilancio del vertice conferma che il 2017 sarà durissimo per l’Ue. Esistono concreti
antidoti alla sfiducia?
«Il testo che dovrebbe essere assunto a punto di riferimento per valutazioni meno
pessimistiche e per apporti più costruttivi è altro. È il documento 2016 “sullo stato
dell’Unione” presentato da Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, al
Parlamento europeo esattamente 3 giorni prima del vertice di Bratislava. Il documento è
a mio avviso assai notevole. Innanzitutto, non c’è traccia di sottovalutazione della crisi
che sta scuotendo l’Unione Europea: una crisi, si dice subito, “almeno in parte,
esistenziale”. E segue un’analisi di carenze, regressioni, inadempienze che fanno del
documento il più autocritico “stato dell’Unione” mai elaborato. Segue soprattutto sia
l’annuncio di un “libro bianco”, come visione a lungo termine per l’Europa, da presentare
nel marzo 2017 per l’anniversario dei Trattati di Roma, sia di una dettagliata “agenda”
delle azioni da realizzare nei prossimi dodici mesi».
C’è la tendenza a snobbare simili documenti. Ma le richieste italiane vi sono state
raccolte?
«È davvero difficile sottovalutare le novità e le ambizioni di quest’agenda, che
comprende tra l’altro istanze particolarmente sollecitate dall’Italia: dal raddoppio dei
finanziamenti per il Fondo del piano Juncker per investimenti paneuropei, all’istituzione
di un piano di investimenti per l’Africa e il vicinato mediterraneo come parte integrante
di una risposta alla pressione migratoria crescente verso l’Europa. E sul punto
controverso dell’applicazione del Patto di stabilità, ci si pronuncia per una sua
applicazione “non dogmatica’’ che eviti di penalizzare sforzi di riforma in atto. La
complessiva importanza di questa agenda va pienamente riconosciuta dai governi che,
sostenendola attivamente, non sottoscrivono alcuna sdrammatizzazione o dissimulazione
della profondità della crisi dell’Unione, e possono riconoscersi nella rappresentazione
delle emergenze, urgenze, sfide e minacce che stringono l’Europa a 27, ma senza
contribuire involontariamente al dilagare della sfiducia».
L’Unione soffre però anche una crisi della propria governance.
«Se l’Europa è scossa, come sappiamo, nelle sue istituzioni in uno con i suoi fondamenti
ideali e con le sue politiche, l’istituzione visibilmente malata o fragilizzata è il Consiglio
europeo. E per la condizione in cui è caduto il Consiglio, più che in ossequio a una
storica predilezione per le istituzioni sovranazionali, è su queste - Commissione e
Parlamento - che forze politiche e governi schierati per il rinnovamento e rilancio
dell’Unione dovrebbero concentrare il loro sostegno. L’impasse in cui si trova il Consiglio
è dovuto, ovviamente, alla persistente prevalenza delle ottiche politiche nazionali su
indirizzi di europeizzazione della politica, della visione e della dialettica competitiva quale
la vivono partiti, governi, opinioni pubbliche ed elettorati nazionali».
Tra le «ottiche politiche nazionali», quella tedesca è, come altre, condizionata dal voto.
Come dovrebbe muoversi l’Italia?
«Sì, determinante è divenuto il mutamento virulento degli scenari e degli equilibri politici
negli Stati membri. Così, oggi la leadership della Germania federale è premuta da una
crisi della sua posizione all’interno del Paese, ma mostra anche una tendenziale perdita
della sua “capacità di orientamento” (come sostenuto da Gian Enrico Rusconi) in seno
alle istituzioni europee e nei rapporti con l’insieme degli Stati membri. Contribuire al
superamento del presente “smarrimento” o diaspora, ben visibile nelle difficoltà del
Consiglio, è compito dei governi più consapevoli della gravità della crisi e dell’esigenza di
una ricerca di soluzioni in positivo. Come il governo italiano, le cui responsabilità si sono
accresciute, pur fuori di intenti liquidatori della storica tradizione dell’intesa francotedesca. Per l’Italia è necessario impegnarsi concretamente su scelte volte a “ripensare
istituzioni dell’Unione - scrissi nel marzo scorso - divenute pletoriche o comunque poco
governabili ed efficaci. Si imponga a tal fine o no una revisione dei Trattati”».
Bisognerebbe quindi ispirarsi all’idealismo, ma anche a un certo pragmatismo dei padri
fondatori?
«Nella lezione tenuta il 13 settembre a Trento nel ricevere il Premio De Gasperi, Mario
Draghi si è richiamato a elementi di fondo della visione europea del nostro grande
statista, fondatore tra i più lungimiranti del processo di integrazione. Di quei “padri del
progetto europeo” egli ha esaltato la capacità di “coniugare efficacia e legittimazione”,
mettendo in comune “soltanto lo stretto indispensabile” (parole di De Gasperi) “per la
realizzazione dei nostri obbiettivi più immediati”. E Draghi nota ancora che l’azione
comunitaria venne concentrata in ambiti in cui era chiaro che l’azione individuale dei
governi non fosse sufficiente. I risultati conseguiti in fatto di crescita, dal 1960, del Pil
pro-capite in termini reali e quindi del tenore di vita dei cittadini, così come in materia di
libertà e diritti, furono tali da motivare il più ampio consenso per la scelta comunitaria.
Siamo ora alle prese con l’insoddisfazione crescente nei confronti del progetto europeo
negli ultimi anni per effetto del dilagare della “più grave crisi economica del dopoguerra”
e del crescere della disoccupazione a livelli senza precedenti, mentre si sono ristretti i
margini di azione dello stato sociale”».
L’integrazione deve insomma procedere nonostante tutto?
«Rispetto all’attuale travaglio dell’Unione, il presidente della Bce risponde con “un sì
senza condizioni” circa il “lavorare insieme come modo migliore per superare le nuove
sfide che ci troviamo a fronteggiare”. Netta e conseguente è dunque la conferma della
determinazione a perseguire coerentemente il processo di integrazione. Tuttavia, la
lezione di Draghi va attentamente considerata anche per il realismo e la misura che la
caratterizzano. Ancora nel solco di De Gasperi egli ritiene che ci si debba “concentrare
sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili” per
recuperare fiducia tra i cittadini dell’Unione, che gli interventi necessari dell’Unione
debbono “essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini”: tra i quali
rientrano in particolare i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa».
Come sempre, un’intesa non sarà facile.
«Possono esserci a questo riguardo, e ci sono, in seno al Consiglio europeo sensibilità
diverse; ma qui occorre rinnovata capacità di convinzione e di guida. Si tratta di
un’opera di tessitura, urgente e delicata, di cui l’Italia deve farsi protagonista piuttosto
che lasciarsi tentare dal “fare da sola”. Fanno da soli oggi, e non lavorano in effetti
nemmeno nell’interesse del proprio Paese, coloro che come i leader ungheresi sfidano le
decisioni del Consiglio e ne minano ulteriormente la già scossa autorità».
Pag 22 I furti, le botte, le molestie. Nel metrò della paura di Fabrizio Roncone
Una giornata a Roma tra i passeggeri minacciati
I punkabbestia sono scesi dentro la stazione Barberini, metropolitana linea A, e
bivaccano chiedendo l’elemosina, aggressivi e barcollanti, il bottiglione del vino già
vuoto, due molossoidi bastardi che ronfano tra i loro stracci. Mezzogiorno. Tanfo di
chiuso, di urina, di qualcosa andato a male. Il giro nella pancia ferrata di Roma comincia
da qui. Tanto una fermata vale l’altra: ovunque avverti pericolo imminente, ti senti solo
e indifeso, in viaggio dentro un territorio buio e senza legge, dove la regola è non
guardare e non parlare e infatti ragionando sulla sorte toccata a quel poveretto finito in
prognosi riservata con il cranio fratturato per aver osato dire a due mezzi criminali
casertani che non si fuma sui treni, molti passeggeri rassegnati pensano che un po’ se
l’è cercata, perché devi farti gli affari tuoi, qui sotto, devi startene buono e zitto e poi
quando arrivi a destinazione, se ci credi, fatti pure il segno della Croce. L’addetto
dell’Atac annuisce - «Sì, lo ammetto: anch’io ho paura, una paura fisica» - ma poi si
volta di scatto, abbassa la voce. «Eccole…». Cinque ragazzine nomadi rapide come
locuste, silenziose, scendono gli ultimi gradini. Le manine spuntano da sotto buste e
maglioni arrotolati sulle braccia. Occhiate d’intesa. È lì, la preda: una signora americana
con il trolley (via Veneto a cento metri in superficie, l’Ambasciata degli Stati Uniti poco
più avanti). Due dietro, le altre ai fianchi e una davanti che le sbottona la camicia. La
turista prova istintivamente a proteggersi il petto e però molla il bagaglio. Le ragazzine
s’avventano, velocissime aprono la cerniera, la turista allora urla, molla un ceffone, ma
le cade la borsa e il gioco è fatto (la signora americana racconterà che c’è comunque
tutto, manca solo un’agenda di pelle, le ladruncole l’hanno evidentemente confusa con il
portafogli). Venti secondi. Tutto è durato non più di venti secondi. Tutto sotto lo sguardo
distratto di decine di passeggeri e di due militari dell’esercito, in tenuta da
combattimento. Perché non siete intervenuti? «Perché non è nostro compito
intervenire». Può essere più chiaro? «Siamo qui in servizio anti-terrorismo». Quindi…
«Non facciamo servizio anti-borseggio». Nelle fermate più importanti è di solito presente
anche un vigilantes. Su 110 colonnine Sos installate, ne funzionano solo 22: le altre,
ancora nel cellophane. Le aggressioni sono continue. I derubati - a decine, ogni giorno neppure sporgono più denuncia. Contro chi? Per ritrovare cosa? I borseggiatori
diventano temute figure leggendarie. Tempo fa hanno arrestato un giapponese noto
come «Ninja», appariva e spariva e tu eri ancora lì a capire come avesse fatto a sfilarti il
telefonino dalla tasca interna della giacca. Molti sudamericani - i più temuti - lavorano in
coppia: un uomo e una donna. Lei elegante, appariscente, avanti, che distrae: e lui
dietro, con dita di velluto. Le molestie ai passeggeri cominciano davanti ai distributori
automatici di biglietti. Sbandati, tossici, i punkabbestia di prima. Li evitano i passeggeri
che hanno l’abbonamento e quelli che viaggiano gratis. Migliaia. Alla fermata di Ponte
Lungo, due ragazzi e una ragazza s’infilano tra lo spazio delle due alette di plastica
chiuse. Esercitano una lieve pressione, le allargano, in un balzo sono già sulla scala
mobile. Ragazzi, ma è un bel rischio. «No, è normale». Siete studenti, vero? «Sì. Siamo
del liceo classico Augusto e…». Ma se vi beccano? «Chi dovrebbe beccarci? Non ci sono
controlli, niente, zero… E poi no, scusi: dovremmo pure pagare per viaggiare su cessi
simili?». I vagoni sono luridi. I sedili hanno macchie inquietanti. I vetri, una patina di
grasso. Spesso l’aria condizionata non funziona. I guasti - su tutte le linee: A-B-B1-C sono continui. Il 25 maggio, la fermata di Termini, snodo centrale, rimase
completamente al buio per un’intera mattina. Un anno fa, un convoglio in transito tra
Anagnina e Cinecittà si bloccò nella galleria e centinaia di passeggeri furono costretti a
camminare sui binari, come in uno di quei catastrofici film americani. A Pietralata
l’impianto antincendio scatta periodicamente. Alla stazione Graniti - linea C - rimasero
chiusi in un ascensore cinque persone e un bambino. Furono messi in salvo dopo ore. A
Furio Camillo, nel luglio scorso, le operazioni di salvataggio andarono male e il piccolo
Marco di 4 anni morì precipitando nel vuoto. Si muore, qui sotto. Il 26 aprile del 2007,
Doina Matei, una ragazza romena, nella bolgia si sentì spingere: si girò e infilò l’ombrello
nell’occhio di Vanessa Russo, 23 anni. Un giorno di agonia, poi il decesso. L’agonia di
Marcisca Hahaianu, 32 anni, infermiera romena e madre di tre figli durò invece una
settimana: mortale il pugno con cui l’aveva stesa Alessio Burtone, dopo una lite davanti
alla biglietteria. Chi non muore, finisce all’ospedale. Alla fermata Cipro tre persone giubbetto bomber e anfibi - aggrediscono un ragazzo sospettato d’essere gay. Insulti
razzisti e poi calci e pugni per il professor Nazir Rafiq Ahmad, 50 anni, indiano, da dieci
in Italia. Per questo i viaggiatori dicono: testa bassa e non guardare, non sentire, non
vedere. Le donne viaggiano nel terrore. Soprattutto quando arriva la sera. Molte
tengono il telefonino impostato sul numero del papà, del fidanzato, del marito. Due
settimane fa hanno scoperto un tipo che saliva sui convogli e posava la sua sacca
accanto a qualsiasi donna avesse la gonna: incastrato nella sacca, dentro un foro, un
cellulare con il quale spiava e filmava (in gergo, «upskirt»). Succede di tutto. Come
adesso. In fondo al vagone c’è un tipo grande e grosso in jeans e giacca blu, tutto
sudato e fuori di testa, che urla al telefono. «Me lasci? Che voi, da me? Voi che me
vendo pure casa de mamma?». Un ragazzo filippino lo osserva perplesso. E allora il
gigante ha uno scatto e s’avventa, e lo insulta, e agita i pugni mentre tutti restano a
capo chino, certi guardano nel vuoto, certi aprono un libro, perché tutti vogliono solo
tornare a casa, anche stasera, con le ossa sane.
LA STAMPA
Un rifiuto per compattare il Movimento di Marcello Sorgi
Atteso, ma fino all'ultimo non scontato, il «no» di Virginia Raggi alla candidatura di
Roma alle Olimpiadi segna una svolta dura nell'amministrazione della Capitale, fin qui
impantanata nella propria incapacità, e rischia di trasformarsi in una dichiarazione di
sfiducia, della sindaca e dell' intero M5S, verso se stessi. Nelle settimane e nei mesi
ormai che hanno preceduto l'annuncio di ieri, Raggi e il vertice stellato infatti avrebbero
potuto motivare più seriamente la propria convinzione, basandosi su un' approfondita
analisi delle opportunità e dei rischi e trovando un sostegno più forte alle loro posizioni.
Invece, non c'è uno solo degli argomenti portati dalla sindaca in conferenza stampa che
non possa essere contraddetto. Dire che queste sarebbero state le «Olimpiadi del
mattone, un pretesto per nuove colate di cemento», è come negare a priori che la nuova
amministrazione - insediata con un voto plebiscitario degli elettori romani che
invocavano il cambiamento, dopo le fallimentari esperienze di Alemanno e Marino e dopo
l'ondata di corruzione sfociata nell'inchiesta «Mafia Capitale» - non sarebbe stata in
grado di impedirlo, cogliendo l'occasione per impegnare i consistenti fondi pubblici che il
governo aveva messo a disposizione per ricostruire l'immagine e la sostanza di una
grande città derelitta, che non aspettava altro. Ancora, dire che il settanta per cento dei
romani si erano espressi contro le Olimpiadi con il voto del ballottaggio del 19 giugno
che ha segnato il trionfo dei 5 stelle, equivale a dimenticarsi che in campagna elettorale
era stato promesso di dare ai cittadini l'ultima parola, perfino con un referendum. Tra
l'altro, i sondaggi svolti in questi ultimi giorni, rivelano che a certe condizioni l'opinione
pubblica capitolina è in maggioranza favorevole ai Giochi. Citare il residuo di debito a
bilancio del Comune per quelli del 1960 come esempio di un nuovo dissesto finanziario
da evitare, per non caricare i romani di nuovi debiti, significa ignorare quale grande
trasformazione le Olimpiadi portarono cinquantasei anni fa, in una Capitale che era
rimasta una sorta di grande paesone e per una popolazione di oltre tre milioni di persone
che da quell'esperienza uscirono proiettate verso la dimensione di una moderna
metropoli. Inoltre, lasciare dietro la porta il presidente del Coni, dopo averlo convocato
per discutere, non è stato solo un gesto di maleducazione da parte di una sindaca che in
fatto di buone maniere s'è già fatta conoscere Oltretevere, ma una mancanza di riguardo
verso un' istituzione che rappresenta l'Italia nel mondo. Infine, non c'è bisogno di essere
sportivi per sapere che le Olimpiadi non sono solo quell'appaltificio a cui Raggi le
vorrebbe ridurre: sono innanzitutto un insieme di passione, orgoglio ed entusiasmo
giovanile, come ci hanno ricordato proprio in questi giorni i ragazzi italiani delle
Paralimpiadi, pronti ad approfittarne per gettare il cuore oltre l'ostacolo del loro ingrato
destino. Ma di tutte queste obiezioni, come degli innumerevoli post dei loro elettori che
ieri su Internet hanno protestato contro il «no» alle Olimpiadi, Raggi, Grillo, Di Maio, Di
Battista e tutto il gruppo dirigente 5 stelle - c'è da giurarci - se ne fregheranno. Giunti in
pessime condizioni alla vigilia dell'assemblea di Palermo, che dovrebbe delineare il futuro
del Movimento e superare le rissose divisioni che la vicenda del Campidoglio ha fatto
emergere, i grillini erano a caccia di un annuncio a effetto, che servisse a sollevare un
terremoto di reazioni avversarie, e sull'onda di queste una ragione per ricompattarsi, per
reagire all'assedio e ribadire la propria diversità. Tal che, pur essendo inaccettabile la
scelta del Movimento 5 stelle e della sindaca Raggi, nonché il modo e il momento in cui è
maturata ed è stata annunciata, a malincuore bisognerà rassegnarsi a questa ennesima
prova di nullità. In fondo, non vale neppure la pena di approfondirne le motivazioni.
Ragionarci servirebbe solo a fare il loro gioco, per sentirsi ripetere che le obiezioni «delle
lobbies e dei giornaloni» sono la prova che la decisione era giusta.
AVVENIRE
Pag 3 Una politica senza ali di Danilo Paolini
La maldestra rinuncia a Olimpiadi e Paralimpiadi
Mai un 'no' fu più centellinato e, al tempo stesso, più scontato. Ma alla fine è arrivato:
Roma, dunque, non è più in corsa per ospitare i Giochi Olimpici e Paralimpici del 2024.
Per uno degli imperscrutabili motivi che sembrano aleggiare di questi tempi sul
Campidoglio, l’annuncio non è avvenuto, come previsto, al termine di un incontro tra la
delegazione del Coni e Virginia Raggi: quest’ultima è arrivata in Comune quando i
presidenti dei Comitati olimpico e paralimpico, Giovanni Malagò e Luca Pancalli, se
n’erano già andati dopo averla attesa per un bel po’. Quello che a Malagò (e non solo a
lui) è parso un chiaro sgarbo istituzionale, è stato derubricato dalla sindaca a semplice
contrattempo. Fatto sta che, se di strappo doveva trattarsi, così lo è stato alla massima
intensità possibile: conferenze stampa separate. Sfugge davvero, tra l’altro, il senso
dell’annuncio della prima cittadina secondo cui oggi incontrerà Malagò per discutere degli
Europei di calcio del 2020, per i quali è previsto che Roma ospiti 4 (quattro) partite in
tutto. Nei giorni scorsi s’era detto che Raggi stesse meditando di deviare dalla strada già
tracciata da Grillo e dal Movimento 5 Stelle e che, alla fine, avrebbe perfino potuto
'osare'. Nessuna sorpresa, invece. Ma la rinuncia, per quanto attesa, è destinata ad
avere inevitabili ripercussioni su una città che non se la passa per niente bene. Già,
perché l’argomento che ha indotto il M5S a dire 'no' è lo stesso che si poteva usare per
dire 'sì'. E cioè: «Roma ha bisogno di ben altro». È vero, però le Olimpiadi non si
terranno domattina, bensì tra otto anni. E la scelta (a questo punto tra Parigi, Los
Angeles e Budapest) della città ospitante da parte del Comitato internazionale olimpico
avverrà tra un anno, a settembre del 2017. Nel frattempo, magari, Roma avrebbe
potuto trarre qualche vantaggio dal tentativo di presentarsi al meglio a
quell’appuntamento. Intendiamoci, le ragioni di chi è contrario sono rispettabili e per
molti versi anche fondate, soprattutto dal punto di vista del rientro economico
complessivo. Il mondo (e Roma stessa) è pieno di strutture realizzate per importanti
appuntamenti sportivi e poi lasciate al degrado e all’abbandono. Ma nel caso specifico,
viste le condizioni in cui si trova, forse la Capitale avrebbe avuto più da guadagnare che
da perdere, con l’afflusso di risorse esterne alle esangui casse comunali e con un saggio
di buona e trasparente gestione di quei fondi. Siamo sicuri, per esempio che adesso,
libera dalle 'incombenze olimpiche', l’amministrazione riuscirà a prolungare, fino a Tor
Vergata da una parte e al Foro Italico dall’altro, la tormentata e infinita (in quanto a
lavori e intoppi) linea C della metropolitana? O a restituire ai romani lo stadio Flaminio,
un tempo gioiello incastonato nell’omonimo quartiere alle pendici della collina dei Parioli
e oggi pericolante e vandalizzato fantasma di cemento? Sarà realizzato ugualmente
l’ampliamento della rete tramviaria? E, se sì, perché dovrebbe ritenersi scongiurato il
pericolo di ruberie e infiltrazioni criminali nei lavori, dato praticamente per certo dai
pentastellati in caso di appalti pre-olimpici? Viene infine da chiedersi come mai un
movimento che propugna l’«uno vale uno» e la democrazia diretta non abbia voluto fare
della questione materia di un (pur promesso) referendum cittadino. Non basta
affermare, come fa la sindaca, che «il 70% dei romani ha detto 'no' alle Olimpiadi»
scegliendo lei al ballottaggio di giugno con Roberto Giachetti. Anzi, in questo modo
rischia di svalutare la sua proposta politica, quasi fosse unicamente incentrata su quel
'no'. La giustizia del mondo punisce chi ha le ali e non vola, canta Lorenzo Cherubini in
arte Jovanotti. Il quale nella Capitale è nato, ma risiede (fortunato) a Cortona. Roma,
che è dotata di ali d’aquila fin dai tempi dell’Impero, stavolta non ha neanche provato a
spiccare il volo. L’anno scorso di questi tempi, quando la candidatura fu ufficializzata
dall’allora sindaco Ignazio Marino e la città era ancora sottosopra per lo tsunami di
'mafia capitale', avemmo modo di scrivere: «Dopo aver toccato il fondo, sprofondando in
melmosi mondi 'di mezzo' e 'di sotto', è ora che Roma si dia lo slancio per tornare in
superficie. Almeno per partecipare con onore, nello spirito del barone de Coubertin».
Invece ieri è stato deciso che l’importante è non partecipare.
Pag 24 Moro, l’uomo delle grandi battaglie di Agostino Giovagnoli e Giovanni Tassani
Un moderato rigoroso, capace di interpretare il cambiamento
Cento anni fa, il 23 settembre 1916, nasceva a Maglie Aldo Moro. Di lui sono noti i lunghi
discorsi e le argomentazioni complesse. Non bucava lo schermo con battute a effetto,
anche se capiva l’importanza della comunicazione televisiva (fu lui a volere, con Fanfani,
l’introduzione delle 'tribune politiche' nella TV di Ettore Bernabei). Dietro le sue parole si
nascondevano però grandi battaglie, quelle che Moro combatteva anzitutto con se stesso
e poi con le sfide storiche del suo tempo, cercando la verità. Lo mostrano le molteplici
stesure dei tanti interventi pubblici, segnate da correzioni, ripensamenti, integrazioni.
Una ricerca ispirata anzitutto dalla fede, che ha influito profondamente non solo sulla
sua vita privata ma anche sull’attività pubblica. La fede infatti ha rappresentato per lui
una luce essenziale che gli ha permesso di sviluppare l’«intelligenza degli avvenimenti»,
attraverso uno scavo lungo e faticoso, in grado di andare al di là delle apparenze, e un
ascolto paziente, capace di oltrepassare le contrapposizioni ideologiche. Una fede mai
esibita con ostentazione, che ha orientato tutte le sue scelte, persino nei momenti più
tumultuosi della lotta politica. Moro ha parlato spesso di «ispirazione cristiana».
Qualcosa di molto diverso da una politica confessionale. Esponente di quella 'seconda
generazione' democristiana che si è formata nei rami intellettuali di Azione cattolica
durante gli anni del fascismo, ha proseguito sulla strada aperta - a prezzo di grandi
sacrifici - da Sturzo e De Gasperi. Il suo percorso politico infatti si è sviluppato dopo che,
col radiomessaggio natalizio di Pio XII nel 1944, la Chiesa aveva riconosciuto la
superiorità della democrazia sugli altri sistemi politici. Come segretario della Dc ha
amministrato il grande consenso garantito al suo partito dall’appoggio ecclesiastico, per
promuovere un disegno laico di inserimento delle masse nello Stato e di forte sviluppo
economico-sociale, soprattutto nel Mezzogiorno. Dopo iniziali perplessità, grazie a
Giovanni XXIII la Chiesa ha scelto di sostenere la sua convinta iniziativa per la
collaborazione con i socialisti e Paolo VI, che da arcivescovo di Milano era stato critico
verso questa politica, ha sostenuto in modo decisivo l’azione di Moro in momenti difficili,
come la crisi del luglio 1964. L’accorata preghiera di questo papa in San Giovanni in
Laterano, dopo l’assassinio dello statista, è stata l’espressione più alta del profondo
rapporto che li ha uniti. Moro non ha mai abbandonato le proprie radici. Lo dimostrano
gli interventi in Assemblea costituente e la proposta di un antifascismo morale prima
ancora che politico. Dopo il discorso di Paolo VI all’Onu nel 1965, ha sviluppato sul piano
internazionale un’azione politico-diplomatica sempre più orientata verso la pace. Dopo il
Concilio, non si è fatto convincere da quanti volevano la fine dell’unità politica dei
cattolici. Nel 1968 ha abbandonato coraggiosamente la maggioranza della Dc per
mettersi in ascolto dei «tempi nuovi» e in particolare delle voci dei giovani e delle
donne. Ha iniziato allora a sviluppare la «strategia dell’attenzione» nei confronti del
mondo comunista, consapevole delle ragioni morali più che politiche del consenso
raccolto in Italia dal Pci. Perplesso verso il referendum sul divorzio, aiutò il mondo
cattolico a ritrovare le ragioni della presenza pubblica dopo la sconfitta dell’iniziativa
abrogazionista promossa da un gruppo di intellettuali cattolici poco consapevoli della
crescente complessità della società italiana. Quando i socialisti chiusero l’esperienza del
centro-sinistra sostenne la solidarietà nazionale, senza però cercare un accordo politico
con i comunisti. Gli è stato attribuito il progetto di realizzare un’alternanza di governo
tra Dc e Pci, ma fino a oggi questa tesi non ha trovato documenti che la comprovino
definitivamente. In tutto il suo itinerario, piuttosto, è stato artefice e regista di un ampio
disegno di democrazia consensuale che trovava proprio nell’ispirazione cristiana le sue
motivazioni più profonde. La sua tragica fine e i molti interrogativi che l’hanno
accompagnata hanno distolto l’attenzione dalla sua azione politica. Eppure la sua lezione
conserva una grande attualità. È stato capace di una visione politica flessibile, ma anche
molto solida, attenta sia alla dimensione internazionale sia al rapporto tra Stato e
società. Dopo la fine degli accordi di Bretton Woods, ha intuito la necessità di una più
stretta cooperazione europea sul piano monetario, è stato tra i protagonisti della
Conferenza di Helsinki tra Est ed Ovest e ha operato per il dialogo in Medio Oriente e nel
Mediterraneo. Ha promosso l’introduzione di un moderno sistema pensionistico e di un
servizio sanitario esteso a tutti, la riforma del Concordato e del diritto di famiglia. Aldo
Moro è stato un grande interprete della Costituzione e un convinto riformista: ha
concepito le riforme come via per realizzare pienamente il patto costituzionale. Una
lezione attuale, quando sembra che chi difende la Costituzione non voglia le riforme e
chi vuole le riforme non creda nella Costituzione.
Statista vero, non capopopolo, giurista col senso della storia e non politico di potere,
regista teso a disegni di ampliamento democratico sempre con realismo, misura e
passione interiore: la figura di Aldo Moro emerge ben stagliata in questo ampio disegno
biografico di Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma( Il Mulino, pagine
488, euro 28,00), che nasce da ricerche pluriennali con non poche novità, e che al
contempo rinvia a un’abbondante letteratura cresciuta negli anni. Aldo Moro è frutto di
una cultura italiana, filosofica e giuridica, ed è espressione in parallelo di una cristianità,
giovane e laicale, chiamata a formare sé stessa (Moro sarà in momenti successivi
presidente e responsabile nazionale di Fuci e Laureati di Ac) e poi a ricostruire le basi
dello Stato democratico dopo la guerra. Aderente alla Dc non dalla fondazione, Moro è
eletto alla Costituente, ove svolgerà un ruolo importante, accanto ai 'professorini'
dell’Università Cattolica, Dossetti e Fanfani, e a La Pira. Vicino a essi, anche nel sodalizio
Civitas Humana e poi in Cronache Sociali, non vi si impegnerà, spiega Formigoni, per la
sua permanenza come dirigente, fino al 1948, in movimenti ecclesiali come i Laureati.
Nei membri della 'seconda generazione', formatasi dopo la fine del Partito Popolare,
v’era in comune uno spirito di 'finalizzazione', che li poneva oltre il liberalismo classico.
Moro ebbe sempre chiara la necessità di mantenere questa mappa prospettica che
doveva consentire l’allargamento dello Stato a sempre più vasti ceti popolari. Sul tema
dell’ispirazione cristiana, in momenti di pressioni ecclesiastiche, proprio sull’Avvenire
d’Italia, in due articoli del febbraio ’47 Moro difenderà la «impronta cristiana» data al
progetto costituente, «l’autonomia e la dignità della persona umana, la sfera propria dei
diritti delle libere formazioni sociali, l’uguaglianza degli uomini, l’interdipendenza delle
persone strette fra loro da una inderogabile fraternità». Principi su cui si era ottenuta
una «convergenza delle diverse ideologie» che avevano «un comune fondo umano». Nel
suo percorso di politico cristiano Moro si manterrà fedele al principio di responsabilità e
di autonomia laicale. Si possono ricordare due passaggi, riportati da Formigoni:
Congresso di Napoli ’62, prima dell’apertura ai socialisti («L’autonomia è il nostro correre
da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare una
testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale del Paese») e, anni dopo, Congresso di
Milano ’69, da posizioni di minoranza, a fronte di un disegno moderato in atto nella
maggioranza, per una Dc che resti «ancorata a ideali cristiani, da noi interpretati in vista
dell’applicazione socialmente utile che se ne può fare». Sempre fedele alla democrazia
parlamentare, Moro sarà con De Gasperi per la correzione maggioritaria nelle elezioni
del ’53: la difenderà in aula per la sua logica di coalizione, non premiante un solo
partito, e perché non creava una maggioranza assoluta da una relativa, ma consolidava
solo una maggioranza assoluta già conseguita. La Dc rappresentava posizioni diverse e
non sempre complementari: ciò fu chiaro a Moro che si poneva, con la sua concezione
evolutiva, sul lato partecipativo del processo democratico, sapendo che gran parte
dell’elettorato e gruppi di potere costituivano forti tendenze all’immobilismo. La virtù
specifica di Moro sarà dunque quella della mediazione, del convincimento meditato verso
tutte le componenti a non rompere la complessità della Dc. Quando Fanfani, segretario
dopo De Gasperi, sarà posto in minoranza dai moderati del partito, critici del suo
dirigismo, Moro verrà scelto da questa parte, i 'dorotei', a succedergli. Fin da subito
Moro inizierà un’opera di ricucitura con Fanfani, che puntava alla rivincita pur finendo
sconfitto al congresso di Firenze ’59. Formigoni attesta l’emersione di Moro come leader
in quel congresso, sottolineandone la particolare retorica: logica serrata, nessuna
concessione all’emotività, né sfoggio di citazioni. Un ragionare tutt’altro che oscuro o
vuoto, come diranno i critici. La conduzione dei governi di centro-sinistra dal ’63, in una
situazione di modernizzazione travolgente, ma anche di fine del boom e di forti contrasti
inter e intra-partitici, consegneranno all’opinione pubblica un altro cliché: Moro
scarsamente operativo, lento nelle decisioni e, per i democristiani, più attento alle
ragioni degli alleati che a quelle della Dc (De Gasperi aveva subito la stessa critica). Col
’68 apparirà un nuovo Moro. Ma è la Dc che si sta trasformando in una sorta di blocco
d’ordine, che lo ha emarginato. Moro sa che è in atto, dopo Piazza Fontana, un’ondata
restauratrice e sceglie l’apertura, la flessibilità, sapendo che le spinte sociali debbono
essere non contrastate ma incanalate. Come ha consentito anni prima la legittimazione
dei socialisti, ora comprende che occorre fare i conti con i movimenti e con la forza
crescente del Pci, che ha iniziato una revisione sul piano ideologico e internazionale. Ha
contro di sé i principali esponenti della Dc: interessanti le loro conversazioni registrate in
ambasciata Usa e i paralleli negativi giudizi di parte americana, che Formigoni ha
ricercato a Washington. A capo di una piccola corrente, Moro ha comunque
l’autorevolezza di chiedere e ottenere il ruolo di ministro degli Esteri in anni cruciali,
all’inizio dei Settanta. Per poi, «leader inevitabile, non leader prescelto», riuscire a
schiodare dallo stallo la Dc, 1973, una volta convinto l’altro 'cavallo di razza', Amintore
Fanfani, a tornare al centro-sinistra. Un’ultima volta, da presidente del consiglio
nazionale Dc, riuscirà a calibrare le diverse forze del partito, usando la parte moderata
come garanzia per l’insieme, in un momento d’evoluzione e confronto con le sinistre:
sarà il suo ultimo discorso interno ai gruppi parlamentari, il 28 febbraio 1978. Il 16
marzo avviene l’attacco in via Fani. Sui 55 giorni di prigionia molto è stato scritto e
Formigoni vi ritorna con equilibrio e tanti interrogativi. Che restano aperti.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Lo sgarbo di Virginia, salta l’incontro e va in trattoria di Mario Ajello
«Il maggior problema della comunicazione - secondo George Bernard Shaw - è l’illusione
che sia avvenuta». Ecco, questo problema, almeno questo, ieri non si è verificato.
Perché il sindaco Raggi, nel suo sgarbo che non è solo istituzionale ma è anche rivolto in
generale contro la città di Roma e contro la Capitale d’Italia, ha rifiutato di parlare con
Giovanni Malagò. Proprio lei che viceversa, mentre ha inflitto 40 minuti di anticamera al
presidente del Coni per poi non presentarsi all’appuntamento, appena qualche giorno fa
ha accolto in maniera principesca nel suo studio sul Campidoglio il patron della Roma,
James Pallotta. Concedendogli anche il privilegio dell’affacciata dal balcone su vista Fori.
Una diversità di trattamento plateale e probabilmente riconducibile al fatto che la Raggi,
intenta ad affossare la chance olimpica, sembra ascoltare le sirene della lobby del nuovo
stadio della Roma a Tor di Valle. Sponsorizzato anzitutto da quell’assessore Berdini che è
noto ormai come «lo stadista» e che il sindaco non può permettersi il lusso di perdere
vista la precoce, ed epidemica, moria in giunta. E che dire intanto della mancanza di
rispetto, da parte del sindaco, nei confronti di Luca Pancalli, del Comitato italiano
paralimpico, che è disabile in sedia a rotelle? Anche a lui, insieme a Malagò, sono state
inflitte l’inutile attesa e l’umiliazione, dopo la fatica di essere portato lassù
nell’anticamera della Raggi, di non essere ricevuto. E comunque per volere o per
capriccio dell’inquilino del Campidoglio - la Raggi si è offesa per la preventiva richiesta di
streaming da parte di Malagò, sdegnosamente rifiutata in nome di una trasparenza che
non è più la suprema virtù della neo-politica grillina? - ieri è andato in scena il teatro
dell’incomunicabilità. Tra due personaggi, il presidente del Coni e il sindaco di Roma, che
appartengono a due mondi diversi, ma tra diversi ci si parla se si vuole, e che incarnano
due stili antitetici: uno è uomo di mondo, l’altra al mondo si è appena affacciata. Lui è
pragmatico e tessitore, lei è ideologica e pauperista, irriducibile allo scambio di vedute
per mostrare fedeltà alla linea dettata dal suo partito. E così, come se Roma fosse un
palcoscenico per pantomime, uno entra - perché invitato: «Ho anche dovuto cambiare
l’agenda pur di esserci» - nel palazzo senatorio e l’altra, l’ospitante, non si fa trovare.
Lui esce dall’anticamera del sindaco dopo avere aspettato tanto, e se ne va deluso per la
«scortesia» ricevuta ovvero per il ritardo della Raggi, e lei entra nella stanza appena
lasciata da Malagò. Lei fa la sua conferenza stampa in Campidoglio e lui a sua volta
convoca i giornalisti nella sede del Coni. Duello a distanza. E anche qui due stili. Ogni
affermazione del sindaco, il presidente del Coni la va a verificare e la smonta. Come
questa. Lei: «Abbiamo un progetto, in accordo con l’università, per la città della
conoscenza alla Vela di Calatrava a Tor Vergata». Lui: «Ho parlato con il rettore di Tor
Vergata e mi ha detto che per quel progetto è stato chiesto un finanziamento alla Banca
europea per gli investimenti e non è stato accordato». Mentre Malagò la aspettava
invano al Campidoglio, lei stava in una trattoria da pochi soldi nella zona della stazione
Termini, a via dei Mille, in un tavolo per tre: preferendo un pranzetto con i suoi
collaboratori, lontano dal presidente del Coni, piuttosto che parlare con lui di questioni
assai rilevanti per Roma. Uno sgarbo, livello cheap, nello sgarbo. Mai uno come Malagò,
che conosce le buone maniere, avrebbe potuto immaginare un comportamento così
platealmente respingente e di disprezzo. Eppure il presidente del Coni era arrivato con 7
minuti di anticipo all’incontro fissato al Campidoglio per le 14,30 nel palazzo senatorio.
Dopo poco arriva nella stanza dell’attesa una collaboratrice della Raggi che assicura: il
sindaco sarà qui a momenti. Alle 14,50, Malagò chiede: «Come mai non è ancora
arrivato il sindaco?». Alle 15, rinnova la domanda. Gli dicono che la stanno cercando, ma
lei non risponde. Poi gli viene comunicato che il ritardo è dovuto al fatto che la Raggi
stava incontrando il ministro Delrio, per parlare del grande raccordo anulare per le bici.
Peccato però che quell’incontro con Delrio fosse già concluso da un pezzo, alle 13,15. E
poi pranzetto in trattoria come ciliegina sulla torta della poca educazione. Oggi però,
Malagò e la Raggi si dovrebbero vedere al Foro Italico per la presentazione degli Europei
di calcio 2020 che la sindaca in conferenza stampa ha chiamato «i mondiali europei». Lei
ci sarà, magari arrivando in ritardo? Pare proprio di sì. Ma resta la morale della vicenda
di ieri, che racconta dell’assenza di affidabilità e del rifiuto, da parte del sindaco, del
rapporto fiduciario con altri che non siano il Direttorio e lo staff di Grillo & Casaleggio.
Pag 1 Obama, l’affondo contro Putin per colpire Trump di Massimo Teodori
Con il discorso all’Onu, il presidente Obama ha affrontato alcune partite aperte. Due
questioni aperte sia nei rapporti internazionali che nella politica domestica. Il presidente
degli Stati Uniti ha poi riaffermato alcuni tratti essenziali dell’eredità politica e morale
che trasmetterà al successore quando il 20 gennaio 2017 lascerà la Casa Bianca. Le
parole del Palazzo di vetro riequilibrano l’impressione che, a torto o a ragione, il
Presidente aveva dato circa il rapporto troppo morbido con Vladimir Putin. Era stato
criticato per non avere reagito sulla Crimea, non avere sostenuto la lotta degli ucraini,
avere condiviso il negoziato sul nucleare con l’Iran e, soprattutto, essere stato
ondeggiante di fronte al dittatore siriano Assad, satellite di Mosca. Critiche, queste, in
parte giustificate soprattutto per la condotta di politica estera durante il primo mandato
quando segretario di Stato era Hillary Clinton. Ora, di fronte ai capi di Stato riuniti
all’Onu, il Presidente è stato più che mai deciso nell’ammonire l’autocrate russo di non
tentare di «recuperare la vecchia gloria della Russia con la forza», cosa che non è
permessa a nessuno Stato. Il messaggio così trasmesso ha corretto, almeno
verbalmente, l’impressione che talora Obama aveva suscitato. In realtà l’avvertimento
non è stato solo un deterrente nei confronti di Putin, ma ha anche espresso la volontà di
colpire Donald Trump che del capo russo è un ammiratore. Obama sa bene che se
vincesse il repubblicano, la politica di appeasement internazionale e di riequilibrio sociale
interno sarebbe compromessa, a cominciare dalla rinunzia all’uso della forza militare nel
mondo, e alla fine della riforma sanitaria che ha dato l’assistenza a milioni di americani
poveri. Attaccando Putin, Obama ha mirato a quel Trump che non perde occasione di
glorificare lo stile del capo euroasiatico su cui grava il sospetto di interferire nella
campagna elettorale americana con lo spionaggio elettronico. «Non è tempo degli uomini
forti», ha detto a New York il Presidente che ha condannato il nazionalismo aggressivo e
il populismo becero, entrambi fondamenta del trumpismo: «Una nazione che si circonda
interamente di muri», come quello che si vuole costruire al confine del Messico, «non
farebbe che imprigionare se stessa». Obama, riferendosi alle parole d’ordine di Trump
pur senza nominarlo esplicitamente, ha rilevato l’inconsistenza di quella superiorità
etnica che il candidato repubblicano evoca a ogni piè sospinto per solleticare l’orgoglio
dell’americano bianco che equivoca sulla reale identità degli Stati Uniti. La nazione
continentale non è quella immaginata dai suprematisti bianchi ma è stata e continua ad
essere un Paese di immigrati grazie ai quali è divenuta la superpotenza nel Novecento.
Con il discorso di rilievo internazionale a poche settimane dal voto dell’8 novembre, il
Presidente ha voluto mettere il suo prestigio (58% di sostegno da parte degli americani)
a servizio della democratica Hillary Clinton che, ad oggi, raccoglie scarse simpatie anche
nella metà dell’elettorato che la vota soltanto per contrastare il repubblicano ritenuto un
presidente potenzialmente pericoloso. Con i concetti della tradizione liberale americana,
Obama ha voluto ribadire qual è il senso della sua eredità, come aveva fatto con
l’intervista The Obama Doctrine rilasciata in aprile alla rivista “The Atlantic” .
All’autoritarismo va contrapposto il liberalismo che si nutre di diritti umani, democrazia
politica, e libero scambio internazionale. I Paesi più forti devono aiutare coloro che più
ne hanno bisogno per contribuire a un equilibrio più sicuro per tutti. Parole sacrosante
che ci auguriamo non siano smentite dal voto degli americani, oggi fortemente
influenzato dalla paura.
LA NUOVA
Pag 5 Un dibattito da sempre rinviato di Vittorio Emiliani
Dunque Virginia Raggi ha detto, come ci si aspettava, “no” alla candidatura di Roma per
le Olimpiadi del 2024. Una decisione quasi scontata e che però è stata comunicata in
modo criticabile, cioè non presentandosi all’incontro con la delegazione del Comitato per
le Olimpiadi a Roma presieduto da Giovanni Malagò. Certo, quest’ultimo aveva chiesto la
diretta dell’incontro in streaming pensando così di ampliarne l’eco mediatica. In tal modo
potrà sempre dire di essere stato lasciato sull’uscio senza spiegazioni. Un po’ di storia.
Come molti hanno dimenticato, nel 2012 la medesima proposta venne avallata e fatto
propria - all’epoca per le Olimpiadi 2020 - dalla Giunta Alemanno e seppellita dal
governo Monti che sentenziò: «Non ci sentiamo di prendere un impegno finanziario che
potrebbe gravare in misura imprevedibile sull’Italia nei prossimi anni». Favorevoli a quel
“no” motivato Bersani per il Pd, la sinistra in generale, i Verdi, la Lega, contrari Pdl,
Fratelli d’Italia, Alfano. È cambiato così profondamente in meglio il quadro economicofinanziario da ribaltare quel diniego? Secondo i dati ufficiali no, a parte lo spread allora
molto più alto. Anzi il debito pubblico continua a crescere e la ripresa non decolla. È
cambiato il vento governativo, voltosi in un ottimismo senza cedimenti con Matteo Renzi
in aperto favore alla proposta ritenuta carica di chissà quanti e quanti frutti.
Personalmente credo che si dovesse andare comunque ad un incontro in cui esaminare
le carte e i progetti. Il Comune poteva ribaltare - come aveva suggerito l’assessore
all’Urbanistica, Paolo Berdini - la logica del Comitato per le Olimpiadi, la stessa di Expo
2015: cioè, vediamo prima quali sono le esigenze urbanistiche, sociali e sportive di
Roma e verifichiamo se e quali progetti per le Olimpiadi possono soddisfarle. Sono
convinto che il “no” sarebbe rimasto, ma, almeno, sarebbe stato supportato dai dati
reali. A sostegno del “sì” si sono spesso citate le Olimpiadi romane del 1960, senza dire
quanto costarono effettivamente, a Roma e soprattutto allo Stato, quanti erano allora i
romani (sui 2 milioni, un terzo meno di adesso) e con quali problemi di traffico (meno
degli attuali essendo oggi le auto quasi 2 milioni e i motocicli circa 400mila), qual era
allora la dispersione urbanistica dovendo ancora arrivare l’onda di piena
dell’immigrazione dal Lazio e dal Sud con una espansione a macchia d’olio di lotti per lo
più abusivi, fino alla metà degli anni ’70, quanti furono i partecipanti nel 1960 e quanti
sono ora. Non fecero danni le Olimpiadi 1960? Per la verità la Via Olimpica, disegnata in
modo da attraversare soprattutto aree di proprietà degli Ordini religiosi (rileggere in
proposito Antonio Cederna e Piero Della Seta), tranciò in due la magnifica storica Villa
Doria Pamphili. Sul metodo un’ultima osservazione: forse fin dall’inizio poteva essere
scelta da Virginia Raggi e dal M5S la carta, suggerita da Masi (Radicali) e da Fassina
(Sinistra Italiana) del referendum che in altre città estere, ben più ricche di Roma, come
Boston o Amburgo ha visto prevalere i “no”. È vero che il referendum, chiamando a
votare i soli romani, non corrispondeva alla logica adottata dal governo Monti («Non
vogliamo gravare sugli italiani per gli anni futuri») e però avrebbe consentito di uscire da
quella sorta di Giudizio di Dio in cui sono in campo un Cavaliere Bianco ed uno Nero e
bisogna schierarsi per l’uno o per l’altro, a priori. La campagna referendaria avrebbe
consentito un dibattito sulle priorità di Roma che così viene nuovamente rinviato.
Peccato perché ve n’è gran bisogno: nell’ultimo decennio si è di nuovo prodotta una
netta spaccatura fra le periferie, dove si addensa la popolazione, e le zone centrali e
semi-centrali, con un nettissimo deficit di servizi sociali e culturali, di trasporti pubblici,
di “civiltà dell’abitare” a danno delle prime. Questo è e rimane il punto, Olimpiadi o no.
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