L`assemblea eucaristica, cuore della domenica

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L`assemblea eucaristica, cuore della domenica
L’assemblea eucaristica, cuore della domenica
Goffredo Boselli, monaco di Bose
Un caloroso saluto a tutti e a tutte voi fedeli di questa chiesa di Otranto. E un affettuoso
ringraziamento all’arcivescovo Donato per l’invito che mi ha rivolto e per la fiducia che ha verso di
me.
Il riunirci di noi credenti nel giorno del Signore per ascoltare la parola di Dio e spezzare
l’unico pane, e dunque nutrirci del Vangelo e cibarci dell’eucaristia, è davvero il cuore della
domenica. L’assemblea eucaristica è il cuore della domenica, perché ciò che in essa celebriamo è il
cuore della nostra fede: la resurrezione del Signore Gesù Cristo. Vi siete riuniti in questo convegno
diocesano, dunque, non semplicemente per trattare un tema tra i tanti possibili, quanto invece per
riflettere su una realtà – l’assemblea eucaristica domenicale – che nella vita della Chiesa non è solo
qualcosa di importante ma è una realtà essenziale e decisiva, perché senza l’assemblea eucaristia
domenicale la Chiesa non può essere Chiesa e noi credenti non possiamo essere cristiani. “Sine
dominico non possumus”, Non possiamo vivere senza celebrare il giorno del Signore,
confessavano nel IV secolo i cristiani di Abitinia, l’attuale Tunisia, arrestati mentre perché
celebravano i dominicus, l’eucaristia domenicale. Il dominicus è l'unica loro ragion d'essere; e per averlo
celebrato vengono torturati e messi a morte. Come vorrei che ciascuno di noi questa sera uscisse da
questa sala sapendo a memoria questa vera e propria confessione di fede: Sine dominico non possumus.
L’assemblea liturgica domenicale una realtà essenziale e decisiva, e per riflettere su questa
realtà ho scelto il racconto evangelico di Emmaus come immagine e, al tempo stesso paradigma di
ogni assemblea eucaristica domenicale. Ogni eucaristia nel giorno del Signore è il vangelo di
Emmaus. Ciò che il Signore compie in ogni eucaristia domenicale è ciò che egli ha fatto sul
cammino di Emmaus. Ciò che noi siamo chiamati a vivere nell’eucaristia domenicale è ciò che
hanno vissuto i due discepoli di Emmaus. In sintesi, la nostra liturgia domenicale è la liturgia di
Emmaus.
La liturgia di Emmaus emergerà in tutta la sua capacità di essere modello ispiratore delle
nostre assemblee eucaristiche domenicali che ci attente nei prossimi anni, ossia una liturgia più
attenta alla concreta situazione degli uomini e delle donne del nostro tempo che, come i due di
Emmaus, hanno la speranza spezzata e, per questo, se ne vanno delusi e faticano a riporre fiducia
in qualcuno, ad avere ragioni in cui sperare ancora.
In questa prospettiva, ho scelto di sostare sull’assemblea eucaristica domenicale alla luce del
racconto di Emmaus, percorrendo due itinerari che si incroceranno costantemente perché tra loro
convergenti. Il primo itinerario è quel del ruolo della liturgia nell’annuncio del vangelo oggi. In
1
breve, liturgia ed evangelizzazione. Si ha talvolta l’impressione di non essere pienamente
consapevoli che la liturgia è una realtà evangelizzante in se stessa e da sé stessa. Il secondo
itinerario, strettamente congiunto al primo, cercherà di discernere quale esperienza di assemblea
eucaristica domenicale, ossia quale liturgia per l’uomo e la donna del nostro tempo. Sono loro i
soggetti delle nostre eucaristie domenicali, cioè i destinatari delle nostre liturgie e per questo, fin da
ora, siamo chiamati a un esercizio di vigilanza e di discernimento.
La liturgia di Emmaus
Perché ho scelto il racconto di Emmaus come paradigma di riflessione? La ragione sta nel
fatto che Emmaus è liturgia fatta Vangelo, cioè è l’esperienza liturgica della comunità apostolica che
è diventata narrazione evangelica.
Come ogni testo del Nuovo Testamento, Emmaus è un testo dove la Chiesa si racconta e
quindi al tempo stesso si espone e si giudica, dove la Chiesa dice ciò che è e si misura su ciò che
dovrebbe essere. Nessun esegeta dubita ormai che questo episodio sia impastato dell’esperienza che
i primi cristiani facevano in quelle forme embrionali di liturgia che tuttavia già racchiudevano
l’essenziale del culto cristiano: la lettura delle Scritture alla luce della morte e risurrezione di Cristo e
la frazione del pane, cioè l’eucaristia. Al contempo, in questa pagina di Luca la Chiesa si è data da sé
stessa la norma della sua pratica, così che potrà sempre tornare a Emmaus come al canone della sua
liturgia e lì valutarla. È quello che cercheremo di fare anche noi, torneremo a Emmaus come alla
fonte della nostra liturgia nella consapevolezza che ciò che il Signore ha compiuto a Emmaus è ciò
che ancora oggi egli compie nelle nostre liturgie.
Nell’episodio dei discepoli di Emmaus la prima generazione di cristiani ha raccontato il
cammino che ha compiuto per giungere alla fede pasquale. Emmaus mostra come si diventa
cristiani e come si rimane cristiani. Per questo Emmaus è, in modo del tutto indisgiungibile, un
microcosmo della fede cristiana e un microcosmo dell’autenticamente umano. È microcosmo della
fede perché gli elementi essenziali vi sono contenuti: la presenza del Risorto sempre da riconoscere,
l’intelligenza delle Scritture, lo scandalo della croce, l’eucaristia, l’annuncio “il Signore è risorto”, la
comunione nella Chiesa. Ma Emmaus è anche un microcosmo dell’autenticamente umano, perché è
un’affascinante esperienza umana, un vero e proprio itinerario di maturazione umana. Vi troviamo
la ricerca di senso, il cammino, il dialogo, la sofferenza e la morte, lo scendere della sera con le sue
tenebre e paure, l’ospitalità, la condivisione del pane, l’apertura degli occhi che è riconoscimento,
comprensione di senso, ritorno alla relazione abbandonata. Emmaus è dunque al tempo stesso
microcosmo dell’essenza del cristianesimo e dell’autenticamente umano, è cammino di fede ed è
cammino di umanizzazione come lo è la liturgia.
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Il nostro intento non è di fare un commento esaustivo e tanto meno una lectio di questa
pagina del Vangelo, ci limiteremo invece a cogliere come da questo racconto emerga il modo in cui
nella liturgia Gesù Cristo continua ad annunciare il Vangelo ai suoi discepoli, facendo compiere
loro un cammino di misericordia e di speranza che ha al suo culmine l’eucaristia. Articolerò il mio
intervento in quattro punti: 1) il cammino, 2) la presenza 3) la parola, 4) l’ospitalità.
Cammino
Il racconto di Emmaus si svolge per intero lungo la strada che va da Gerusalemme a
Emmaus, ed è esattamente un’andata e un ritorno. In particolare, dall’inizio del racconto alla sosta
per la cena, tutto avviene in movimento. Si inizia dicendo che “due di loro erano in cammino” e
“mentre conversavano e discutevano insieme Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”.
Il movimento compiuto da Gesù è di avvicinarsi a “due di loro” che stanno camminando, per
mettersi al loro passo e aver parte ai loro discorsi. Quasi a voler porre l’accento sul nesso tra parlare
e camminare Gesù domanda: “Che sono questi discorsi che state facendo tra voi camminando
(peripatoùntes)?”. Domandando di cosa parlano in realtà fa dichiarare ai due la ragione del loro
cammino e, più a fondo ancora, l’oggetto della loro ricerca.
La fede pasquale nasce in cammino perché essa è un cammino. Il cristianesimo stesso negli
Atti degli Apostoli è più volte chiamato “Via (ódos)” (At 9,2), mentre per Pietro la condizione dei
cristiani è di essere “stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11) cioè gente che cammina, e per Giovanni dirsi
credenti in Cristo significa “camminare come lui ha camminato” (1Gv 2,6). La liturgia di Emmaus è
in cammino a dire che la liturgia cristiana è sempre in itinere, e che ogni eucaristia celebrata sulla
terra è soltanto sacramento del “banchetto di nozze dell’Agnello” (Ap 19,9), è un pasto nell’attesa
del compimento, una cena lungo il cammino. Non dobbiamo dimenticare che uno dei nomi più
antichi del radunarsi dei cristiani per la liturgia è il verbo latino procedere (avanzare), da cui proviene il
nome processio dato all’assemblea liturgica1, un nome che con tutta probabilità è la traduzione latina
di sýnodos.
Pensare l’assemblea eucaristica domenicale come sinodo, un fare strada insieme,
corrisponde all’immagine neotestamentaria di chiesa come popolo che cammina. In una certa
misura, è questa consapevolezza che ha anche configurato lo spazio liturgico cristiano, che nella sua
forma più tipica dispone l’assemblea dei fedeli orientata verso l’altare e l’abside, dunque rivolta al
Signore veniente. L’uso recente di porre l’altare al centro con l’assemblea radunata attorno fa torto
allo specifico dello spazio liturgico cristiano, perché descrive un cerchio e, di fatto, chiude la chiesa
su stessa. Quanta ideologia si è fatta sul circumstantes! Al contrario, il Signore sta sempre davanti alla
Attestato in un’antica traduzione latina del canone 17 del concilio di Laodicea (430) per rendere il sostantivo
sýnaxis , Mansi 2, 586 e 568.
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sua chiesa, la precede, chiamandola a camminare dietro di lui e, al contempo, ad andare incontro a
lui il “Veniente” (Mt 21,7).
La liturgia di Emmaus avviene in cammino non solo perché si diventa cristiani attraverso un
itinerario ma anche perché il credere è un camminare, anzi la fede ne è la causa, secondo la bella
espressione di Paolo “noi camminiamo per la fede (día písteos)” (2Cor 5,7). Per questo, uno dei
primi compiti dell’assemblea eucaristica domenicale è mantenere in movimento la fede, ossia far
vivere la fede come dinamica e crescita perché la liturgia cristiana non è il culto di una religione
materna e dunque avvolgente, protettiva e rassicurante, ma ha al cuore la parola di Dio Padre che
risuona, giudica e chiede conversione. Si ha l’impressione che una delle tentazioni che talvolta oggi
attraversa il nostro modo di celebrare, specie con i giovani, sia quella di apprestare una liturgia che
mira soprattutto alla dimensione affettiva delle persone, tutto sembra orientato all’emotività al fine
di suscitare l’emozione, la suggestione. Così al centro è posto il sentire della persona, ciò che prova
e non invece l’appello a uscire da sé per ascoltare la parola di Dio, in un cammino di conversione e
di comunione con il Signore e con i fratelli e le sorelle nella fede.
La liturgia cristiana deve muovere e in certi casi perfino scuotere la fede di chi vi partecipa.
Questo significa che non raggiungono una piena qualità cristiana quelle liturgie nelle quali ci si
accontenta di acquietare le coscienze, liturgie predisposte per essere una riserva di buoni sentimenti
e di sani valori. A volte, finanche liturgie messe prontamente a disposizione per modellare una
religione pubblica senza fede, come serbatoio d’identità culturali e di tradizioni. In realtà, è sempre
necessario ricordare che il cristianesimo è da se stesso, su questioni fondamentali, una controcultura
di cui la liturgia deve essere il segno più immediatamente eloquente agli occhi del mondo.
Comprendere l’assemblea eucaristia domenicale come una realtà in itinere di una fede in
cammino significa, nel preciso contesto antropologico, culturale e sociale nel quale viviamo,
comprendere che le nostre liturgie, e più in generale le celebrazioni dei sacramenti, sono oggi
chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, anche tra i credenti più assidui, che non è più, come
un tempo, la somma di certezze incrollabili ma è l’espressione di un desiderio di qualcosa e di
qualcuno in cui poter sperare, così che credere significa aggrapparsi a una speranza. Oggi la fede è,
infatti, perlopiù esperimentata come l’apertura a una speranza, così che lo sperare di credere è già
un credere alla maniera nascente. La liturgia è realtà evangelizzante quando è in grado di
interpretare la situazione di quelle persone che credono solo perché sperano di credere. La liturgia è
realtà evangelizzante quando è capace di raggiungere il credente nella sua fatica di camminare nella
fede. Occorre, appunto per questo, essere consapevoli che, il più delle volte, la presenza
all’eucaristia domenicale rappresenta quel sottile filo che tiene il credente e la comunità cristiana
ancora uniti e comunicanti, talvolta in modo precario. Per questo, oggi è necessaria una liturgia che
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non si limiti a celebrare verità e proclamare certezze ma sappia anche prendere in contro chi vive
l’inquietudine del credere fino a conoscere anche il dubbio e l’oscurità. Una liturgia che va loro
incontro fino a portare la fatica di chi fatica a credere.
Per questo, occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite del superficiale,
eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre e a ogni costo far festa.
Domandiamoci: si è altrettanto capaci di offrire ai credenti liturgie capaci di suscitare la speranza, di
nutrirla. Liturgie capaci di dare ragioni per sperare a cuori stanchi e affaticati, capaci di risollevare
quanti, come i discepoli di Emmaus, si fermano “con il volto triste”. Lo sappiamo, la fatica a
credere ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che caratterizzano l’uomo e
la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può non segnare anche la fede del credente
contemporaneo. È oltremodo necessario domandarsi se le nostre assemblee eucaristiche domenicali
non suppongano come destinatari unicamente uomini e donne dalla fede salda, per le quali tutto è
evidente, certo, definito. Oggi la liturgia deve saper essere realtà evangelizzante per una generazione
di credenti con poca capacità di fede, che non è l’apistía (mancanza di fede) e neppure la oligopistía (la
poca fede) ma la asthéneia tes písteos, la debolezza nella fede (cf. Rm 4,19; 14,1). Solo una liturgia che
sa accogliere la fragilità della fede sarà una liturgia evangelizzante perché saprà, come Gesù
ascoltare, e interpretare l’appello che il padre del ragazzo epilettico gli rivolse: “Credo; aiutami nella
mia incredulità” (Mc 9,24).
Presenza
Il secondo elemento che emerge all’inizio del racconto lucano è la dove viene detto che
“Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”. Michel de Certeau, nel suo prezioso
commento a Emmaus, così lo interpreta:
“È sempre lui che viene a noi. Dio si fa nostro prossimo. A queste pecore senza pastore, a questi malati
senza medico, a questi uomini spogliati delle loro speranze ma ancora abitati dal suo ricordo e che lo
cercano anche là dove sanno bene di non trovarlo; proprio in questo povero tesoro dei sogni perduti, Gesù
si avvicina. Essi lo rimpiangono ed egli è là che cammina con loro. “Lui” e “loro”: Luca inquadra la sua
frase in queste due parole che riassumono la storia, ogni storia. Lui con noi”2.
Come in quella di Emmaus anche in ogni assemblea eucaristica domenicale il Signore si fa
vicino e presente, e la chiesa è chiamata a riconoscere il mistero della sua presenza personale. Certo,
l’assemblea liturgica è una convocazione, un venire del popolo alla presenza del Signore, ma è
sempre al tempo stesso un venire, un farsi prossimo del Risorto alla sua comunità. Nei racconti
delle manifestazione del Risorto, in Luca come in Giovanni, si dice: “Venne Gesù, stette in mezzo
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M. de Certeau, I pellegrini di Emmaus, Cittadella editrice, Assisi 2009, p.11.
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e disse loro: «Pace a voi!»” (Gv 20,19; cf. Lc 24,36). Per questo, la prima parola di benedizione che
il presbitero rivolge ai fedeli è “Il Signore sia con voi”, che può essere tradotto anche come
l’affermazione “Il Signore è con voi”, come ha fatto il messale portoghese che ha colto il senso
biblico di questa espressione: “O Senhor esteja convosco!” alla quale l’assemblea risponde “Ele está
no meio de nós”3 (Egli è in mezzo a noi). Riconoscere la presenza del Signore è dunque il primo
atto di fede che l’assemblea compie.
In ogni assemblea eucaristica domenicale il Signore evangelizza la sua comunità attraverso il
mistero della sua presenza personale a dire che il Vangelo si annuncia solo da persona a persona. La
relazione che si stabilisce tra Cristo e la chiesa nella liturgia è personale, giacché nella preghiera
liturgica un “noi” si rivolge a un “tu”: “Tu solo il Santo, tu solo il Signore Gesù Cristo” si confessa
nel Gloria; “Annunciamo la tua morte, Signore” canta l’anamnesi, ma soprattutto al termine del
Vangelo si acclama “Lode a te, o Cristo!”, riconoscendo che è lui che parla quando nella chiesa si
leggono le Scritture.
Alla scuola della liturgia la chiesa impara che evangelizzare è anzitutto creare una relazione
personale. Presenza, sia chiaro, non come categoria militante, ma come un farsi prossimo all’altro
che è già annuncio del Vangelo anche senza parole. A Emmaus il Risorto si fa prossimo prima di
farsi parola, fa strada insieme ai due discepoli prima di farsi riconoscere da loro. É ben nota la
raccomandazione che Francesco di Assisi faceva ai frati che andavano tra i saraceni di predicare il
Vangelo e, se necessario, di usare anche le parole4. Questa forma di evangelizzazione la visse fino
alla morte anche Charles de Foucauld nel Sahara algerino, con la sola presenza in mezzo ai Berberi
credenti dell’Islam.
Come ai discepoli di Emmaus così nell’eucaristia domenicale il Risorto fa anzitutto dono
della sua presenza per insegnare alla chiesa che l’evangelizzazione, prima di essere parola, è farsi
prossimo, è presenza accanto, vicinanza, prossimità. Non si può certo negare che spesso le nostre
liturgie sono a immagine del modello di evangelizzazione che la chiesa propone: la chiesa celebra
come evangelizza ed evangelizza come celebra. Probabilmente questa è una delle cause che può
spiegare il verbalismo che caratterizza le nostre liturgie. Il noto verso di Girolamo “sermo silens et
silentium loquens”5, parola silenziosa e silenzio eloquente, sarebbe un buon programma di ars
celebrandi.
Parola
Ordinario della Messa in otto lingue, Bologna 1990, p. 16.
Cf. Regola non bullata 16,5-7, in Fonti francescane, a cura di E. Caroli, Editrici francescane, Padova 2004, pp. 75-76.
5 Girolamo, Lettera 24 a Marcella, in San Girolamo, Lettere, Rizzoli, Milano 1989, p. 206.
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Accediamo ora alla parte più estesa e, a ben guardare, nodale del racconto di Emmaus, la
parte della parola, dell’ascolto reciproco tra Gesù e i discepoli. La pagina di Emmaus è in
prevalenza una discussione, uno scambio di vedute e di interpretazione di fatti. Il testo annota da
subito una certa abbondanza di parola quando da prima sottolinea che i due “conversavano tra loro
di tutto quello che era accaduto”. All’inizio del racconto vi è dunque un’enfasi posta sulla parola, e
Luca fa proprio della parola tra i due discepoli il luogo da dove Gesù proviene: “Mentre
conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”. Il
Risorto pare sorge dalla conversazione stessa, ed è già questa una forma di risurrezione. Non per
nulla il lavoro di Gesù, a ben guardare, sarà un lavoro di parola, più esattamente del dare la parola
alle Scritture.
Vi è un primo tempo della parola ed è quello dello scambio. Gesù stesso ne da inizio, come
al suo solito, ponendo delle domande. Non si impone, li osserva, li ascolta, entra nella loro
condizione come il Figlio di Dio è entrato nel mondo e come il Vangelo ancora oggi entra nella
storia di ciascuno. Sì, Gesù prima di parlare ascolta, fino ad acconsentire di essere preso per uno
che non sa: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”.
Si lascia prendere per estraneo ai fatti lui che ne è stato il protagonista. È una forma di kénosi del
sapere pur di guadagnare qualcuno che a volte anche il nostro stile ecclesiale dovrebbe conoscere.
Sembra di sentire Paolo quando scrive: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli;
mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). Solo chi è consapevole
che ogni sapere, dunque anche il suo, non può essere assoluto, è disposto al dialogo, allo scambio
che è sempre una dinamica di dare e ricevere. Il Cristo di Emmaus sembra dirci che evangelizzare è
anzitutto saper ascoltare e non solo asserire, è saper suscitare domande e non solo dare risposte.
Evangelizzare è cercare e perfino mendicare il dialogo, così caro a Paolo VI, in un rapporto di
reciprocità. La chiesa, certo, ha da dare all’umanità una parola di vita e di salvezza ma anche
l’umanità laica e non credente ha da insegnare alla chiesa dei valori umanamente altissimi e la storia
dimostra quanto e come ciò sia avvenuto.
Allora l’assemblea eucaristica nel giorno del Signore, e in modo del tutto particolare la
pastorale dei sacramenti, sarà una realtà che evangelizza quando saprà suscitare la domanda di fede
e non solo rispondere alla domanda di sacramenti. La pastorale sacramentale è annuncio del
Vangelo quando non si accontenta di soddisfare i bisogni religiosi, diversamente avremo fatto delle
parrocchie dei sacramentifici, erogatrici di servizi religiosi che offrono, al pari di altri produttori, dei
beni di consumo. Invece, la liturgia evangelizza quando è capace di quell’attenzione che il Risorto
ha avuto nei confronti dei discepoli di Emmaus e che Michel de Certeau così considera: “La sua
attenzione li crea e li rispetta: essa li genera alla «loro» esistenza, a questa via che viene a lui e che è
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un dialogo con lui”6. È necessario domandarsi se i credenti di oggi non cerchino nell’assembela
liturgica una maggiore capacità di ascolto, di attenzione a loro, di cura e una minore quantità di
parole, insegnamenti, ammonimenti e perfino avvisi.
Da Gesù interrogati, i due discepoli raccontano per ordine “ciò che riguarda Gesù il
Nazareno”, raccontano i fatti avvenuti, in modo obiettivo. Terminato il racconto, i due discepoli
hanno da prima l’umiltà di lasciarsi rimproverare e giudicare da Gesù – “stolti e lenti di cuore a
credere” – e poi lo ascoltano, diremmo si lasciano evangelizzare. In questo modo i due discepoli si
decentrano da loro stessi e dalla loro visione dei fatti per porre al centro il forestiero e la sua
interpretazione. Ma anche Gesù si decentra per porre al centro le Scritture, “e cominciando da
Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. Alla loro
conversazione su “tutto quello che era accaduto” Gesù mette di fronte “tutti i profeti … tutte le
Scritture”.
Questo è ciò che avviene nella liturgia della parola di ogni eucaristia domenicale: per lasciarsi
evangelizzare dal Signore la comunità cristiana riunita si decentra per ascoltare le Scritture.
All’interno dell’assemblea liturgica ciascun credente, ponendosi in ascolto della Parola, si decentra
da sé, dalla sua interpretazione degli eventi, dalla sua visione della storia, dal suo giudizio sugli altri e
pone non la sua ma un’altra parola al centro, la parola di Dio. Questo è il principio
dell’evangelizzazione: la chiesa che pone al centro la parola di Dio contenuta nelle Scritture e vi si
sottomette.
Nella liturgia la chiesa si lascia evangelizzare, perché sottomettendosi al Vangelo lascia che la
parola di verità la giudichi e la critichi così come i discepoli di Emmaus hanno accettato la critica
del forestiero alla loro interpretazione dei fatti avvenuti a Gerusalemme. Papa Francesco
nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ha ricordato che “la Chiesa non evangelizza se non si
lascia continuamente evangelizzare”. Scrive al n. 174:
Tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa (la parola di Dio), ascoltata, meditata, vissuta, celebrata
e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi
continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente
evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio « diventi sempre più il cuore di ogni attività
ecclesiale ». La Parola di Dio ascoltata e celebrata, soprattutto nell’Eucaristia, alimenta e rafforza
interiormente i cristiani e li rende capaci di un’autentica testimonianza evangelica nella vita
quotidiana. Abbiamo ormai superato quella vecchia contrapposizione tra Parola e Sacramento. La
Parola proclamata, viva ed efficace, prepara la recezione del Sacramento, e nel Sacramento tale
Parola raggiunge la sua massima efficacia.
“Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”; il
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M. de Certeau, I pellegrini di Emmaus, p. 12.
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Risorto rimanda i discepoli non a una generica memoria del loro maestro ma a “queste sofferenze”
e al loro significato. Commenta Agostino:
Cominciò a spiegar loro le Scritture in modo che imparassero a riconoscere Cristo proprio dal punto dove si
erano allontanati da Cristo. Avevano perso la speranza in Cristo perché lo avevano visto morto. Egli al
contrario spiega loro le Scritture argomentando in modo che si persuadessero che, se non fosse morto, non
sarebbe potuto essere Cristo7.
Le sofferenze del Messia, la croce e anche la risurrezione non sono predette dalle Scritture
ma sono conforme alle Scritture, appunto “secondo le Scritture”. Più volte nei racconti pasquali
l’evangelista Luca afferma come le Scritture hanno consegnato il loro segreto solo dopo la
risurrezione. Ecco il cuore della liturgia di Emmaus offrire un senso a ciò che umanamente non ha
senso: le sofferenze e la morte di colui che è “il Santo e il Giusto” (At 3,14). Le Scritture generano
senso perché il Risorto le apre; il testo di Luca infatti non dice “mentre ci spiegava le Scritture”,
bensì “mentre ci apriva le Scritture”. Emmaus è tutto un aprirsi: si aprono le Scritture, si aprono gli
occhi, si apre il pane, si aprono le menti.
L’assemblea eucaristia domenicale è realtà evangelizzante perché è quello spazio nel quale si
è continuamente costituiti e ricostituiti credenti. Si impara a conoscere Cristo nella parole di Cristo,
dall’ascolto delle sante Scritture.
Ospitalità
“Resta con noi, perché si fa sera”, la parola che trasforma lo straniero in ospite. Come ha
scritto Enzo Bianchi, con una punta di ironia, “i due discepoli, nel tempo passato insieme con
Gesù almeno una cosa l’avevano imparata: l’ospitalità, la carità, e chiedono a Gesù di fermarsi da
loro, di essere loro ospite”8. Invitandolo a entrare per sedersi a tavola e mangiare con loro rivela
che i due si prendono cura del viandante sconosciuto. Gregorio Magno commenta: “Il Signore non
è stato riconosciuto quando parlava, ma si è fatto riconoscere quando è stato invitato alla tavola.
Fratelli miei cari, amate dunque l’ospitalità, amate le opere ispirate dall’amore”9.
L’invito è sempre il luogo della soglia, mentre accogliere l’invito significa oltrepassare la
soglia per entrare. “Egli entrò per rimanere con loro”: si è ospiti quando si entra e si resta. Gesù
entra e, come gli hanno chiesto, resta con loro e due volte in due versetti si sottolinea la compagnia
di Gesù, quasi a dire che quello stare di Gesù con i due discepoli è particolarmente intenso, carico
di significati: “Rimani con noi …. Entrò per rimanere con loro … Quando fu a tavola con loro, prese il
pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono i loro occhi e lo
riconobbero” (Lc 24,30-31). Lo spezzare il pane è quel gesto che parla solo a chi ha il cuore che già
Agostino, Discorso 236, in Sant’Agostino, Discorsi IV/2, Città nuova editrice, Roma 1984, p. 597.
E. Bianchi, Emmaus. Parola e eucaristia, (Meditazioni 8), Qiqajon, Magnano 1986, p. 20.
9 Gregorio Magno, Omelia 23, in Opere di Gregorio Magno, Omelie sui vangeli, Città nuova editrice, Roma 1994, p294.
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arde per l’intelligenza cristiana delle Scritture. Ed ecco, l’invitato è lui che compie il gesto di chi
presiede la tavola: spezza il pane e lo dona. L’ospite è lui che accoglie chi lo ospita a dire che
l’ospitalità è riuscita quando si diventa ospite del proprio ospite.
A ben guardare, con i discepoli di Emmaus il Risorto istaura la stessa relazione che nella sua
vita creava con le persone di ogni tipo che andavano a lui. L’ospitalità è un’attitudine dell’essere di
Gesù di Nazaret, una sua postura, il suo modo di stare al mondo e di entrare in relazione. La sua è
una “santità ospitale”, come l’ha definita il teologo Christoph Theobald 10, che si sottrae per creare
attorno a sé uno spazio di libertà, di riconoscimento, comunicando, con la sua semplice presenza,
una prossimità benevola nei confronti di coloro che lo incontrano. Ma in cosa consiste questa
“santità ospitale” di Gesù che anche i discepoli di Emmaus esperimentano? È nient’altro che il tipo
di relazione che si istaura e l’effetto che essa produce: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore
mentre egli conversava con noi” riconoscono i due. La frazione del pane, il gesto massimo
dell’ospitalità, gesto di condivisione che consente il riconoscimento, corrisponde all’estremo ritrarsi
di chi lo compie e il suo scomparire: “Egli sparì alla loro vista”. Qui raggiungiamo il punto estremo
dell’ospitalità, creare spazio per l’ospite, il ritirarsi di fronte a lui, fino a scomparire affinché l’ospite
possa ritrovare la sua identità di credente e una nuova relazione si crei tra chi ospita e l’ospitato.
La liturgia di Emmaus ci indica che è sempre più urgente che le nostre assemblee
eucaristiche domenicali siano capaci di ricreare quel tipo di relazione che Gesù di Nazaret sapeva
creare con le persone che incontrava. L’intera esistenza di Gesù è stata una liturgia ospitale, e anche
le nostre liturgie sono chiamate a esserlo oggi più che mai. Per questo, negli anni che ci stanno
davanti la santità della liturgia sarà chiamata a declinarsi come santità ospitale; non una santità di
distanza ma di prossimità. Una liturgia ospitale non è una moda o una strategia pastorale ma è, lo
abbiamo visto, la postura stessa di Cristo che anche Risorto si fa cammino, presenza, prossimità
benevola, ascolto, parola, pane spezzato.
Per questo, le nostre assemblee liturgiche domenicali saranno realtà evangelizzanti se non
ignoreranno le profonde trasformazioni sociali, culturali e antropologiche in corso, i cui esiti sono
difficilmente prevedibili. La liturgia, così come la pastorale sacramentale, non può non lasciarsi
interrogare dall’attuale fenomeno di decomposizione dell’antropologia, che sempre più osservatori
definiscono “disturbo nella definizione dell’umano”11. L’umano non è il destinatario passivo delle
nostre liturgie ma è la materia stessa di cui sono fatte. Ignorare queste trasformazioni
significherebbe non sapere più di quale umanità sono formate le assemblee liturgiche.
Ch. Theobald, Il Cristianesimo come stile, Un modo di fare teologia nella postmodernità, II Voll., Edizioni Dehoniane,
Bologna 2009.
11 Si veda il supplemento della rivista Transversalitè, dal titolo : Truble dans la définition de l’humain. Prendre la
mesure d’une crise anthropologique, Transversalité, Revue de l’Institut Catholique de Paris, Desclée de Browers,
Supplément 1, Paris 2014.
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Le nostre liturgie non potranno poi non confrontarsi con la progressiva mutazione e
frammentazione dei modi di credere che l’avanzare della secolarizzazione produce, specie tra i
giovani e in particolare le giovani donne. Si deve costatare che le nostre liturgie sono impostate su
un modo di credere che, con il tempo, sarà sempre più diverso rispetto a quello che abbiamo
conosciuto fino ad oggi.
Di fronte a tutto questo, la liturgia di domani per poter essere cammini di prossimità, di
misericordia e di speranza saranno chiamate a diventare spazi di santità ospitale che significa
accoglienza, ristoro, riposo, sosta, riconoscimento. Liturgie dove le persone possano trovare
conforto, consolazione e sollievo. La liturgia che ci attende sarà la figura del Cristo che proclama:
“Venite a me voi tutti affaticati e oppressi e io vi darò riposo” (Mt 11,28). Misericordia non solo
per i peccati intesi come singoli atti di violazione, ma misericordia nei confronti delle condizioni di
vita, delle situazione esistenziali segnate spesso da fragilità, debolezza, fatica. Misericordia di fronte
a risposte sbagliate date a giuste domande di senso, di fronte a evidenti fallimenti esiti di un
autentico desiderio di felicità. Nell’Evangelii gaudium papa Francesco lo ha scritto con grande una
chiarezza, quando al n. 47 leggiamo:
L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un
generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che
siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della
grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno
con la sua vita faticosa.
Negli anni che ci stanno davanti, le nostre assemblee eucaristiche domenicali saranno
chiamati ad essere sempre di più luoghi e cammini di misericordia, disposte ad accogliere e
ascoltare la debolezza della fede e la fatica di sperare dell’uomo e della donna di oggi, consapevoli
che, come disse il card. Montini intervenendo in Concilio il 22 ottobre 1962 nella discussione sulla
liturgia: “Liturgia nempe pro hominibus… non homines pro liturgia”12, la liturgia è per gli uomini
non gli uomini per la liturgia.
L’assemblea eucaristica sarà davvero il cuore della domenica se saprà ascoltare il cuore degli
uomini e delle donne del nostro tempo.
“Liturgia nempe pro hominibus est instituta, non homines pro liturgia», Acta Synodalia, I/1, Città del Vaticano
1970, p. 315.
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