Galleria Artepassante, stazione MM di Porta Venezia

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Galleria Artepassante, stazione MM di Porta Venezia
Francesca Bruni - Rita Carelli Feri - Renata Ferrari
Pea Trolli - Emanuela Volpe
Galleria Artepassante, stazione MM di Porta Venezia
Vernissage mercoledi 2 aprile - ore 18,30
energia all’Opera
a cura di Cristina Muccioli
Enérgheia
di Artemisia
Artemisia è un singularia tantum, un nome proprio che si usa solo al singolare anche quando, come in questo caso, racchiude e denota cinque pittrici: Francesca Bruni,
Rita Carelli Feri, Renata Ferrari, Pea Trolli, Emanuela Volpe. Sono artiste legate dalla stessa postura morale, innanzitutto, che è quella della condivisione, degli spazi e
delle idee, degli oneri e degli onori, e dalla stessa passione inossidabile per la figura: il corpo non svanisce mai dalla loro pittura materica e ricca di pigmento, o rarefatta
e leggera quanto meticolosa, essenziale e precisa, sperimentale e innovativa.
Ai progetti -è ormai una preziosità da segnalare- dedicano pensiero, ben lungi dall’essere il contrario dell’azione: scartano e aggiungono del nuovo prima di contemplare
la possibilità del riutilizzo di opere già realizzate. Sono energiche.
“Energia” è una parola chiave che ispira e motiva la manifestazione dell’EXPO 2015 (Nutrire il pianeta. Energia per la vita) e merita di essere riconsiderata con riguardo
in relazione con l’arte. Aristotele inventò, letteralmente, questo termine, En-ergheia, mutuandolo da ergon, lavoro, opera. Per il filosofo greco l’energia non era una cosa
determinata, qualcosa di semplicemente presente e percepibile, bensì di effettivo, in grado di provocare effetti. L’energia è al lavoro, è nel lavoro, così come l’opera d’arte
è sempre all’opera perché genera e produce effetti, emozioni, sensazioni e riflessioni.
Ogni pittrice di Artemisia ha declinato in modo personale e riconoscibile la proposta tematica di EXPO, più insidiosa di quanto non sembri. Invita infatti a interrogarsi sulla
necessità di produrre nutrimento, accudimento, per il pianeta che ha sempre nutrito e sostentato noi, che lo abbiamo però sfruttato senza scrupoli con spirito predatorio.
Le risorse sono oggi risicate, insufficienti a sfamarci, benché la considerazione possa sembrare indulgere al catastrofismo facile nel nostro Occidente in crisi, certo, ma non
ridotto in miseria. Siamo chiamati a una presa di coscienza responsabile, capace cioè di dare risposte nuove a problemi cronicizzati e quanto mai acuti.
La Madre Terra ci diventa figlia, chiede tutela, conforto, riparazione. La femminilità del mondo naturale, del mondo tutto potremmo anche dire, è un archetipo della più
profonda delle psicologie collettive, nato dalla meraviglia per la generazione spontanea di frutti e cacciagione con cui i nostri lontani antenati, raccoglitori e cacciatori
erratici, vi si rivolgevano con l’immaginazione, con la rappresentazione, con i riti e con le prassi quotidiane che assicuravano la sopravvivenza. La donna, come l’uomo,
è mortale.
La donna però genera, dà la vita, ne è gravida, la mette al mondo appunto, la offre al mondo superando la caducità dell’esistenza. Con la stanzialità, avvenuta non
più di dieci, undicimila anni fa al massimo, l’essere umano ha appreso a coltivare la terra, procurandosi con il lavoro le proprie provviste, invece che raccogliendole
semplicemente da un luogo finché aveva da offrirne, per poi lasciarlo alla propria rigenerazione.
Cristina Muccioli
Francesca Bruni
Francesca Bruni è l’enèrgheia aristotelica per antonomasia.
Qualsiasi materiale per lei è “potenza” pronto per essere trasformato in
supporto “in atto”.
La tela, un foglio di alluminio rubato alla consuetudine domestica, una lastra
di plexiglass vinta nella sua indifferente impermeabilità dal colore a olio, oggi
quasi dimenticato a favore dell’acrilico.
Forte della tradizione, degli insegnamenti accademici più severi che non
rinnega, come le amiche di Artemisia, Francesca si fa carico del nuovo con
grande inventiva. “Inventa” i materiali, letteralmente cioé li trova, tra ciò che la
circonda pensato per altri scopi e funzioni.
Decontestualizza e ricontestualizza visionariamente pennelli alla mano, coglie
i paesaggi che sono rimasti senza cantori, spiaggiati nel disinteresse collettivo.
Pannelli solari in fila su un tetto si inseguono ordinati, corsari, come le rotaie
di un treno.
Sono brillanti, golosi della luce che, catturata, restituiscono in bagliori cangianti.
Le canalizzazioni dei soffioni boraciferi in Toscana non sono mero ingombro di
rigonfie tubazioni che serpeggiano sul suolo mosso, collinare.
Trasformano l’ambiente in un uno spazio sospeso, lunare e abitato, immerso in
fumigazioni intense e non nocive.
Cirri di memoria tizianesca bianco latte e bianco vitreo imponenti e soffici al
contempo, si addensano a ombreggiare rintocchi di luce argentea, a popolare
fantasmaticamente zolle brune che sonnolente covano calore, gorgoglii di una
profondità tellurica laboriosa, sbuffante, visibile in superficie con una cascata
gassosa antigravitazionale.
Rita Carelli Feri
Rita Carelli Feri recupera e rivisita questo momento
di svolta, fondativo per la comunità che di lì a poco
diventerà cittadina, statale, vita organizzata e legata a
uno spazio.
Sulle sue tavole lignee, omaggio alla più antica
tradizione pittorica europea prima del tardivo avvento
rinascimentale della tela, Rita disegna con un tratto
botticelliano, delicatissimo ma nitido, volti bambini,
giovani donne con i piccoli al seno, contadini festosi
dopo la vendemmia, agricoltori nei campi a coltivare
con pochi, semplici mezzi pomodori e patate, ragazzi
con i cappelli a pagoda intenti alla raccolta del riso.
Pochi tocchi, dettagli non insistiti a ricordarci che il riso,
per esempio, diventato piatto tipico di tanta cucina
italiana, viene dall’Oriente, cui siamo debitori. Quella
di Rita è una pittura celebrativa, senza enfasi ma
convintamente commemorativa di una vita sintonica,
armonica con i ritmi di una terra che è madre fecondata
dal lavoro dell’uomo.
Non dalla predazione scriteriata, ma dal lavoro.
Sono felici i suoi personaggi, anzi le persone che
pazientemente, certosinamente la pittrice affresca a
secco. “Felicità” è enèrgheia per l’autrice, è quella forza
che trasforma un campo in cibo, rispettosa di entrambi.
La radice della parola felicità, il sanscrito Fe, è all’origine
di fecunditas (della terra fertile), di felo (allatto), di ferax
(della terra buona e ricca da coltivare), di femina (in
quanto genera), di filius per variazione fonetica (il figlio,
il frutto), e di felix: dell’annata buona.
Renata Ferrari
Feconda, felice, generosa, vitale, la pittura di Renata Ferrari ritrae donne nude, non svestite. Fa
differenza assoluta.
Non c’è alcun ammiccamento al potere seduttivo né tantomeno banalmente osceno e
provocatorio del corpo femminile stremato dalla fatica di apparire perfetto secondo le mode e i
modelli del momento, ossessionato dall’imperativo tutto nuovo del godimento a ogni costo, per
cui il piacere è un dovere cui ottemperare coatti, caricaturali, servili, straniati.
Le donne di Renata hanno seni floridi, non gonfiati, fianchi morbidi a coronare il bacino -muro
di cinta della prima culla dell’uomo-. “Stanno” al mondo, non “sono” semplicemente al mondo,
nella loro, direbbe M. Heidegger, casuale gettatezza, capitate per caso.
Occupano il loro spazio con consapevole quiete, e una sorta di dolce assertività: non si può
ignorarle, aggirarle, marginalizzarle, perché si pongono al centro di uno spazio che sembra
emanare proprio da loro, come acceso riverbero cromatico.
Anche sole, come le dipinge sempre Renata nella sua energetica messa a fuoco, queste donne
sono fortemente relazionali. Lo dice la loro postura, mai ieratica né totemica.
Sdraiate, sedute con le gambe a fare da naturale, elegantissimo sipario, appoggiate pensose al
palmo della mano, rinunciano a quella verticalità fiera proprio dell’uomo guerriero, e si fanno
emblema dell’accoglienza, della disposizione all’affetto, incline (piegata) alla cura dell’altro.
Pea Trolli
Pea Trolli svela, di ogni corpo all’opera, la sua architettura originaria, la sua
struttura portante e importante.
Un semicerchio a disegnare la calotta cranica, un angolo acuto a fermare il
gomito del violinista mentre suona, una piccola “c” a schiudere una bocca, un
tratto di semiretta morbida a dividere, con il naso, il volto in due campiture, i
lati obliqui di un trapezio a scontornare un busto, due puntini a identificare gli
occhi, ma ecco il miracolo del tratto: sono punti, e sono espressivi.
E ancora, frammenti esaustivi di cerchi, segmenti, vettori e cupole, scheletri
perimetrali di figure che insieme compongono il suo personalissimo
alfabeto espressivo, la sintassi compositiva di chi, padroneggiando senza
alcuna velleità esibizionistica l’arte del costruire, restituisce con grazia
la leggerezza di una decostruzione alla ricerca dell’essenza strutturale
di un corpo in azione mentre interpreta ed esegue un brano musicale,
oppure quando, concentrato, medita, immagina, fantastica, prova a distrarsi
mentre posa, malcelando un misto di attesa febbrile e di sorpresa, per lo
stesso fatto di essere sul punto di diventare opera, opera d’arte.
Le linee di Pea, nella loro esilità e rastremazione perentoria, senza sbavo né
sfumatura, ispessimento o calco, separano l’essere dal nulla.
Rimandano alla nostra fragilità e insieme alla nostra indelebile unicità.
Emanuela Volpe
Emanuela Volpe coglie, citando Ernest Kallir, il disegno del
segno. Ogni segno calligrafico ha una forma che le conferisce
corpo, e come noto anche alla grafica, carattere, esattamente
come un individuo. Del corpo linguistico Emanuela scopre
la potenza comunicativa per addizione, sovrapposizione,
fusione. Non confusione, ma fusione.
Locus amenus dell’espressività poetica e dei suoi versi precisi,
insostituibili come l’oggetto d’amore per l’amante, il supporto
pittorico dell’artista diventa pagina, ma la pagina originaria
diventa tela, e la scrittura si fa pura immagine.
La citazione poetica viene riscritta, ripetuta infinite volte
fino a diventare illeggibile, per consentire la lettura di una
figura: un cuore rosso fuoco e sfrangiato di palpiti per il
sonetto Non t’amo di Pablo Neruda; un volo color papavero
su un cielo fiordaliso per Gabbiani, di Vincenzo Cardarelli;
una deflagrazione lattiginosa brillante, diafana e avvolgente,
che si espande a penetrare il buio assoluto per M’illumino
di immenso di Giuseppe Ungaretti; un arcobaleno odoroso,
fragrante di riverberi pastello per i versi Sufi La Rosa di Hafez,
ritratta in pochi petali di un candore vittorioso, sbocciato dal
nero più denso; un groviglio inestricabile della follia che l’ha
resa vulnerabile, vittima e guerriera, vela il volto di Alda
Merini: l’intrico che porta sulla sua pelle è corpo linguistico
delle parole aforismatiche con cui la poeta stessa si era
definita: sono una piccola ape, mi piace cambiare colore. Uno
specchio montato all’interno dell’opera deforma quel che vi si
riflette, poiché alla poesia non si può chiedere la registrazione,
il rispecchiamento dei fatti. Altre volte Emanuela utilizza lo
specchio in modo anticonvenzionale, o volutamente illusorio.
Ne La bellezza per esempio, opera calligrafica che contiene il
testo sulla bellezza di Khalil Gibran, tra i volti come apparsi in
sogno in un fondo placentare scurissimo di Maryln e Michael
Jackson, affiora una superficie geometrica argentea in tutto
simile a uno specchio: non è però riflettente, alludendo così
all’invisibilità della bellezza autentica, alla sua dimensione
interiore, “immagine da vedere a occhi chiusi” come scrive lo
stesso Gibran.
Né arcaica né moderna, né paleolitica né contemporanea,
ma eterna è la Venere di Willendorf, statutetta di circa 26
mila anni fa rinvenuta in Austria, restituitaci pittoricamente
dall’artista. I suoi seni gonfi di nutrimento, le sue natiche, i fianchi possenti, il ventre debordante,
concorrono con tutta la predominanza di quei pieni sul vuoto intorno a lei, a formare la sagoma di un
uovo, promessa di schiusa, di vita, di rinnovamento, di volo.
Gli uccelli erano ponte tra la dimensione celeste e quella terrestre, messaggeri alati, archetipi degli
angeli covati da una donna, da una dea, da una Venere che, si credeva, generasse vita da sé, dentro di
sé. E così da sé si scrive in questa immagine irradiante luce ambrata, calda, a ricordarci che se patria
deriva da pater, la lingua come la terra ci è madre.
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