Il cattolico Lutero rivoluzionario per caso

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Il cattolico Lutero rivoluzionario per caso
Il cattolico Lutero rivoluzionario per caso
di Paolo Mieli
in “Corriere della Sera” del 2 novembre 2010
Fino al 1500 l’Europa, pur travagliata per secoli da sanguinosi conflitti, è stata caratterizzata da una
grande unità culturale. Poi venne Lutero, i conflitti divennero guerre di natura religiosa e quell’unità
andò in pezzi. L’Europa stessa andò in frantumi. È questa la ragione per cui, Riforma, il nuovo libro
di Diarmaid MacCulloch (docente di Storia della Chiesa a Oxford, allievo del grande Geoffrey
Elton) che sta per essere pubblicato da Carocci, ha come sottotitolo «La divisione della casa
comune europea (1490-1700)».
Scrive Adriano Prosperi nella prefazione che «oggi l’Europa è per noi casa nostra; dovunque si
trovino ruderi romani accanto a chiese cristiane riconosciamo la casa comune; ma è anche una casa
dove su alcune cose fondamentali si ragiona in maniera completamente diversa; e questo perché la
famiglia che vi abitava a un certo punto si divise. Fu una divisione lacerante, con l’esplosione di
sentimenti di odio feroce come solo tra fratelli possono scatenarsi. L’eredità comune fu oggetto di
contesa, di infinite contestazioni, di guerre sanguinose. I pezzi di quella eredità si sono disseminati
qua e là, trasformati fino a rendersi irriconoscibili». E «poiché l’oggetto del racconto è la divisione
di un’eredità comune, un tema primario è l’attenzione ai termini e ai concetti: è necessario
restaurare il significato originario delle parole, quello che esse avevano prima che la divisione del
patrimonio culturale comune ne spezzasse e alterasse il significato. Quando un patrimonio comune
è diviso da eredi in litigio, gli arredi della casa di famiglia se ne vanno a comporre gli interni di case
diverse. E in un patrimonio culturale la divisione più radicale è quella dei linguaggi: in conseguenza
della frattura le stesse parole significano cose diverse da una parte e dall’altra delle mura divisorie
che oggi separano le parti attuali di casa Europa». Cominciamo, dunque, da qui.
MacCulloch sottolinea come dal punto di vista linguistico il termine «cattolico» sia oggi
«l’equivalente di una matrioska russa»: può indicare il complesso della Chiesa cristiana fondata in
Palestina duemila anni fa, oppure la metà occidentale della Chiesa che si scisse dalla corrente
principale della cristianità orientale circa mille anni fa, oppure quella parte della Chiesa occidentale
che restò fedele al vescovo di Roma (il Papa) dopo il XVI secolo, «ma potrebbe indicare perfino un
europeo cristiano protestante convinto che il vescovo di Roma sia un Anticristo, oppure ancora una
fazione anglocattolica moderna originatasi all’interno della Comunione anglicana». Lo stesso vale
per il termine «protestante». In un primo tempo la parola «calvinista» (o «picard» dalla Piccardia,
per la precisione Noyon, dove era nato Giovanni Calvino) fu un insulto per additare al disprezzo chi
condivideva le convinzioni di Calvino. Perfino un termine sfuggente come «anglicano» nacque
come un’espressione di disapprovazione pronunciata dal re scozzese Giacomo VI, quando nel 1598
cercava di convincere la Chiesa di Scozia del suo scarso entusiasmo nei confronti della Chiesa
d’Inghilterra. E «protestante» deriva dalla protestatio, la mozione che Martin Lutero e Huldrych
Zwingli presentarono nel 1529 alla Dieta (l’assemblea imperiale) di Spira nella quale i prìncipi e le
città che si ispiravano alla Riforma si erano trovati in minoranza. Nel 1547, quando a Londra si
stava preparando l’incoronazione a re del piccolo Edoardo VI, i responsabili incaricati di
organizzare la processione dei dignitari che avrebbero dovuto attraversare la città destinarono uno
spazio nel corteo per i «protestanti», intendendo con ciò il corpo diplomatico dei tedeschi
riformatori che si trovavano nella capitale inglese.
Passando poi a un tema più generale, l’autore sostiene che le numerose tesi avanzate per spiegare il
cataclisma del XVI secolo con le quali si è tentato di volta in volta di trovare un fattore
determinante — la corruzione della vecchia Chiesa, l’avidità dei monarchi per le ricchezze
ecclesiastiche, lo spirito individualista di ricerca proprio dell’umanesimo («forze più o meno
indeterminate della modernità») — possono contenere, sì, un fondo di verità, ma nessuna di esse
«riesce a sciogliere il nodo centrale degli eventi». Bisogna avere il coraggio di dire che «la Chiesa
medievale occidentale non si trovava in una fase finale di decadenza», anche se ai protestanti fece
comodo dipingerla in quel modo e lo stesso fu per i cattolici, ai quali risultò utile promuovere la
Controriforma ad un tempo per combattere il protestantesimo e per porre rimedio alle presunte
pecche della cristianità dei secoli precedenti. Ma non era vero. Secondo MacCulloch ai tempi di
Lutero «la vecchia Chiesa era immensamente forte e quella forza avrebbe potuto essere vinta solo
grazie alla potenza di un’idea esplosiva, idea che viene a coincidere con una nuova esposizione
delle idee agostiniane sulla salvezza». Ecco perché, prosegue, «la mia ricostruzione storica della
Riforma comporta il ricorso alla descrizione di un pensiero apparentemente astratto e perché la
discussione su questi concetti astratti deve farsi talora estremamente intricata. Monarchi, preti,
suore, mercanti, contadini, operai furono tutti colpiti da idee che sconvolsero le loro esperienze e i
loro ricordi spingendoli a comportarsi in modi nuovi, talvolta ammirevoli e talora mostruosi. La
storia sociale e politica non può fare a meno della teologia per comprendere il XVI secolo».
Non sono, dunque, ammesse scorciatoie. MacCulloch stronca, definendolo «uno studio psicologico
tanto abile quanto fuorviante», un fortunato libro del freudiano Erik H. Erikson, Il giovane Lutero
(Armando) secondo cui l’atto di sfida di Martin ragazzo contro il padre sarebbe all’origine della sua
successiva ribellione nei confronti della Chiesa. Tesi che dagli anni Cinquanta, quando fu
pubblicato il libro di Erikson, ha fatto molti proseliti anche in Italia. Cesare Cases, ad esempio, nella
prefazione alla Vita di Martin Lutero di Claudio Pozzoli (Rusconi) — un testo che pure prende le
distanze da ogni interpretazione psicoanalitica volta a stabilire un nesso tra il rapporto di Lutero con
il suo genitore e «taluni aspetti estremi della sua religiosità» — si soffermò su quel rapporto padrefiglio con queste parole: «Diventando monaco, Lutero disobbedisce recisamente al padre, minatore
divenuto piccolo imprenditore, che nutriva per il figlio le ambizioni dell’arrampicatore sociale e
invece lo vede rientrare nell’idea medievale dell’umile fraticello. Alla cerimonia della prima messa,
il padre si presentò in gran pompa per affermare la propria posizione e ricordò a Martin il primo
comandamento. Fu questa disobbedienza, inconsciamente sottratta all’ambito paterno e proiettata su
altre autorità a fare di Lutero, quasi controvoglia, l’eversore di queste autorità e l’apostolo della
libertà di coscienza» (il saggio di Cases è nel libro Il testimone secondario, Einaudi).
Sostiene invece MacCulloch che «Freud non è di grande aiuto per la comprensione di Lutero».
Certo, prosegue l’autore, Lutero fu «un uomo irascibile e impulsivo, il quale sentiva emotivamente
la propria teologia piuttosto che farla dipendere da un’analisi preliminare delle soluzioni logiche al
problema di Dio, finendo così per dar luogo a una teologia piena di paradossi e vere e proprie
contraddizioni». In qualunque secolo fosse nato «Lutero sarebbe stato uno di quegli uomini capaci
di garantire notti memorabili in compagnia, trascorse tanto in allegri divertimenti quanto in liti
furiose». Ma Freud non c’entra. Piuttosto chi vuole capire Lutero — come dicevamo — deve fare i
conti con una personalità vissuta oltre mille anni prima di lui, Agostino d’Ippona. Vescovo di una
comunità cattolica del Nord Africa ai tempi della caduta dell’Impero romano d’Occidente,
impegnato in una lotta per la sopravvivenza contro una Chiesa cristiana rivale, Agostino, nella
disputa con Pelagio, sostenne che non le opere terrene ma solo la grazia di Dio avrebbe salvato
l’umanità dalla dannazione alla quale era destinata. Le idee di Agostino su salvezza e
predestinazione avevano lasciato traccia nel pensiero della Chiesa, soprattutto in Anselmo di
Canterbury nel XII e in Tommaso d’Aquino nel XIII secolo. Idee che mal si accordavano con
l’elaborazione della teologia del purgatorio: secondo Agostino gli uomini non erano che esseri
indegni votati alla perdizione e non potevano fare nulla di pratico per guadagnarsi la salvezza, meno
che mai conquistarsela comprando un pezzo di carta pergamena per abbreviare la loro sosta in una
presunta anticamera del paradiso.
E siamo al punto centrale della ricerca di MacCulloch. I più importanti libri sull’iniziatore della
Riforma — ad esempio il Lutero di Roland H. Bainton (Einaudi) — danno grande importanza al suo
viaggio a Roma nel 1510 e all’impressione che ne ebbe di estrema decadenza della Chiesa. In effetti
ci sono prove del fatto che Lutero rimase colpito dall’incompetenza dei preti e dalla corruzione che
infestava Roma. Ma per quel che riguardava il culto delle reliquie, il mercato delle indulgenze e la
teologia del purgatorio, Lutero fu assai cauto prima di esprimere condanne definitive. Condanne che
furono da lui pronunciate molti anni dopo l’esposizione, nel 1517, delle 95 tesi sulla porta della
chiesa del castello di Wittenberg. Anche perché il suo grande protettore, Federico il Savio, elettore
di Sassonia (che proteggeva anche Lucas Cranach il vecchio amico di Lutero nonché autore del suo
celebre ritratto), aveva ottenuto anche per la chiesa di Wittenberg il privilegio di dispensare
indulgenze e addirittura una concessione che accordava la remissione plenaria di tutti i peccati. Per
esercitare questo privilegio Federico il Savio aveva costruito un ingente patrimonio di reliquie a cui
erano connesse indulgenze di proporzioni enormi. Nella collezione erano compresi un dente di san
Girolamo, quattro frammenti di san Giovanni Crisostomo, sei di san Bernardo e quattro di
sant’Agostino; quattro capelli della vergine, tre pezzi del suo manto, quattro della sua cintura e sette
del velo su cui era schizzato il sangue di Gesù. Le reliquie di Cristo comprendevano un pezzo delle
sue fasce di neonato, tredici della mangiatoia, una manciata di paglia, una particella dell’oro portato
da uno dei re magi, e tre di mirra, un ciuffo della barba di Gesù, uno dei chiodi piantatigli nelle
mani, un residuo del pane usato durante l’ultima cena, un pezzo della roccia da cui era asceso al
cielo. E addirittura un ramoscello del roveto ardente di Mosè. Nel 1520 la collezione contava inoltre
ben 19.013 ossa di santi. Coloro che visitavano queste reliquie il giorno di Ognissanti (e versavano i
contributi stabiliti) ricevevano indulgenze che venivano da un «patrimonio» di riduzione delle pene
del purgatorio che ammontava ad oltre diciannovemila secoli (per la precisione 1.902.202 anni e
270 giorni).
A contrariare Federico (e con lui Lutero) non fu dunque il mercato delle indulgenze in sé ma il fatto
che papa Leone X per sostenere le spese destinate alla costruzione della Basilica di San Pietro
concesse nel 1515, con la bolla Sacrosanctis, un’indulgenza straordinaria, in concomitanza con la
quale erano sospese tutte le altre. Inclusa ovviamente quella di Wittenberg. Cosa che, oltretutto, il
pontefice fece in base a un patto stipulato con i banchieri Fugger e a vantaggio degli Hohenzollern
rivali dei Wettin, al cui casato apparteneva Federico il Saggio. «In realtà», scrive MacCulloch,
«Lutero non trovò nulla di speciale da ridire sulla campagna della Sacrosanctis che non fosse
altrettanto biasimevole nelle altre pratiche dell’indulgenza; le sue prime proteste apparse in alcuni
sermoni del 1516 (l’anno precedente la pubblicazione delle 95 tesi) erano formulate in termini
generali, del tutto incuranti del fatto che la stessa Università di Wittenberg beneficiava
finanziariamente del sistema che Lutero stava attaccando». La stessa formulazione della tesi 50 («Si
deve insegnare ai cristiani che se il Papa conoscesse le estorsioni dei predicatori di indulgenze,
preferirebbe che la Basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle,
la carne e le ossa delle sue pecorelle») era tale da apparire quasi come un atto di «toccante fede» nei
confronti di Leone X. E in ogni caso ben più dure erano state in anni precedenti le critiche al
sistema delle indulgenze venute da alcuni dirigenti olandesi del movimento della «Devotio
moderna» (Johann von Wesel e Wessel Gansfort) e soprattutto da Thomas Wittelsbach insegnante
all’università di Basilea del futuro riformatore Huldrych Zwingli.
In conseguenza di ciò, MacCulloch definisce quella protestante «una rivoluzione scoppiata per
caso». Del resto nella Storia della Riforma (il Mulino) anche Joseph Lortz e Erwin Iserloh scrissero
anni fa che fino al 1517 Lutero «aveva riscoperto qualcosa di genuinamente cattolico, qualcosa che
non doveva necessariamente provocare una lacerazione nella Chiesa»; e che in lui «non c’era
l’audace intenzione di promuovere una rottura con la Chiesa» ma anzi «divenne riformatore senza
volerlo»; tanto più che il contenuto delle Tesi «non era affatto in contrasto con le dottrine allora
sostenute dalla Chiesa».
Sostiene MacCulloch che Leone X considerò le prime controversie successive alla pubblicazione
delle tesi alla stregua di momenti della «solita baruffa tra domenicani e agostiniani». E ordinò agli
«agostiniani tedeschi di regolare da sé quella fastidiosa faccenda» in una riunione che avrebbero
tenuto nell’aprile del 1518. Riunione nel corso della quale Lutero prese la parola e pronunciò un
discorso così intenso che un osservatore domenicano, Martin Bucero, ne restò estasiato e passò
dalla sua parte. Nel 1519, all’università di Lipsia, Lutero si spinse a riabilitare il riformatore boemo
Jan Hus condannato al rogo per eresia un secolo prima, nel 1415 («Sono sicuro che molte delle
convinzioni religiose di Hus erano assolutamente evangeliche e cristiane», disse in
quell’occasione). L’anno successivo, 1520, Lutero stesso fu condannato per eresia dalla bolla papale
Exsurge Domine. Il caso finì all’attenzione di Carlo V, eletto imperatore non ancora ventenne
nell’estate del 1519, il quale tuttavia lo gestì con grande accortezza. Convocò il ribelle nella prima
riunione della Dieta imperiale fissata a Worms nell’aprile del 1521. Lutero vi giunse dopo un giro
trionfale in tutta la Germania e non rinnegò i tre scritti che gli avevano dato quella popolarità: Alla
nobiltà cristiana della nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa, Della libertà del
cristiano. E all’imperatore che gli chiedeva di ritrattare rispose di no con le parole rimaste famose:
«Hier stehe ich. Ich kann nicht anders» («Sto qui saldo. Non posso fare altrimenti»). Carlo V si
comportò in modo assai diverso da quel che aveva fatto il suo predecessore Sigismondo, al concilio
di Costanza, con Jan Hus e, pur condannando Lutero, rese onore alla sua condotta rispettosa. Fece
anche di più: consentì a Federico di inscenare un finto rapimento di Lutero così da poterlo
nascondere per dieci mesi a Wartburg, in una roccaforte che apparteneva alla sua famiglia.
E fu in quei dieci mesi che si ebbe la vera rivoluzione. È quel che sostengono anche studiosi del
tradizionalismo cattolico. Per comprendere le caratteristiche di quel che accadde nei «dieci mesi»
torna utile un libro pubblicato qualche anno fa da Roberto de Mattei, A sinistra di Lutero (Città
Nuova) che racconta come tra il maggio del 1521 e il marzo del 1522, quando Lutero si trovava
nascosto nel castello di Wartburg, cominciò a delinearsi tra i suoi seguaci un’ala radicale,
influenzata dalle dottrine dei cosiddetti «profeti di Zwickau», dal nome della cittadina della
Sassonia, vicina al confine boemo, da cui provenivano. Guidati da Nikolaus Storch, i «profeti»
sostenevano che l’ispirazione dello Spirito Santo era per ogni credente l’unica regola di fede e di
condotta; predicavano il battesimo amministrato ai soli adulti, in base alla premessa luterana
secondo cui i bambini non possono conoscere la vera fede. Secondo de Mattei le sette radicali che
presero piede in quei dieci mesi non furono un fenomeno marginale ma costituirono «la forza
propulsiva della rivoluzione religiosa del secolo XVI, prefigurando temi e motivi della seconda
grande Rivoluzione, quella francese, trasposizione della rivolta protestante sul piano politico e
sociale» (come aveva sostenuto Plinio Correa De Oliveira in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione
pubblicato in Italia dalle edizioni Cristianità).
Scrive MacCulloch che Lutero uscì temporaneamente di scena nel maggio del 1521, «lasciando alle
sue spalle un mondo in preda a una sbalordita sorpresa». Quando si ripresentò, poi, nel marzo del
1522, «fu nel disperato tentativo di mettere un argine alla rivoluzione che egli aveva provocato».
Ma era tardi. Mentre lui era rimasto in volontaria reclusione nel castello di Wartburg, la storia
dell’umanità e in particolare quella dell’Europa era irrimediabilmente cambiata.