Luciano Gallino: Come affrontare il finanzcapitalismo

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Luciano Gallino: Come affrontare il finanzcapitalismo
Luciano Gallino: Come affrontare il
finanzcapitalismo
Luciano Gallino
L’ intervento che si propone è stato registrato il 4 novembre 2011 alla Fiom di Torino – in occasione della presentazione
dell’ultimo libro di Luciano Gallino, «Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi» (Einaudi, 2011) – e, in seguito,
rivisto dall’autore. E’ passato più di un anno ma è ancora attualissimo perché tutte le previsioni fata da Gallino si sono
avverate e le soluzioni sono ancora di la da venire.
Sono grato agli organizzatori, in particolare a Gianni Rinaldini, per
avermi dato modo di discutere con un pubblico qualificato alcuni
temi della crisi economica in corso. Comincerei suggerendo di
prender nota di una frase, pronunciata da un personaggio
autorevole, che per noi oggi è molto attuale: «D’ora innanzi
regneranno i banchieri». Si può essere d’accordo. Oggi
effettivamente i banchieri dominano la politica nel mondo, non
perché abbiano sopraffatto la politica, ma perché la politica ha
aperto loro le porte. Questa frase è stata pronunciata da un
banchiere francese, Jacques Laffitte, alla fine della Rivoluzione
di Luglio del 1830, mentre stava accompagnando il duca
d’Orléans in trionfo all’Hôtel de Ville. Abbiamo pertanto a che fare
con una questione che non ha fatto che ingrandirsi con il tempo,
sebbene, va ricordato, nel corso del Novecento ad essa sia stato
posto rimedio (sia pure per un breve periodo): il New Deal rooseveltiano fu in primo luogo un riuscito imbrigliamento
della finanza, la cui sregolatezza aveva provocato la crisi del 1929. Un segno del fatto che la politica, oltre ad aprire le
porte alla finanza, quando vuole riesce anche a chiuderle.
Alla luce di queste opposte considerazioni toccherò quattro-cinque punti, traendoli dal mio ultimo libro Finanzcapitalismo.
Per prima cosa, la crisi ha uno dei suoi punti di origine nella creazione smodata di denaro da parte delle banche
private. Lo hanno fatto anche le banche centrali e nazionali, ma sono state soprattutto le banche private che hanno
creato un’immensa quantità di denaro dal nulla. La crisi – secondo punto – è nata dalla cosiddetta «finanza ombra»,
vale a dire dai flussi finanziari di capitale che circolano al di fuori della pur modesta presa dei regolatori, ossia
dell’autorità di vigilanza. Terzo punto fondamentale, nel preparare e nel far esplodere la crisi, non gestendola e
lasciandola inasprire fino a oggi, hanno avuto un ruolo fondamentale la politica, le leggi, le norme che sono state varate
per liberalizzare sia i movimenti di capitale sia la creazione di denaro in nuove forme. In questo quadro che ha
visto la politica spalancare le porte alla finanza hanno svolto un ruolo centrale l’Europa, i suoi politici e le sue banche. Il
punto finale lo riassumerei così: sarebbe indispensabile una riforma radicale del sistema finanziario, di cui parlano in
molti oggi, ma di fatto mancano sia la volontà politica sia la capacità da parte dei politici di comprendere quale enorme
problema abbiamo dinanzi, per cui le riforme di cui si parla anche nella Ue sono del tutto inadeguate. Ora, senza una
riforma radicale del sistema finanziario, che dovrebbe essere il primo obiettivo dell’Unione Europea, visto che di lì
nascono i suoi guai, le cose andranno sempre peggio sul fronte del lavoro, dell’economia, dello sviluppo, dello stato
sociale.
Partiamo dal primo punto: l’incredibile creazione di denaro che ha avuto luogo soprattutto negli anni 2000, sebbene
fosse cominciata assai prima. Le banche private creano denaro dal nulla ogni volta che concedono prestiti. Molti
pensano e sembrano dare per scontato – e fra questi, a volte, anche i commentatori in materie economiche che pur
dovrebbero saperne qualcosa di più –che le banche raccolgano depositi (piccoli, medi, grandi) e sulla base di questi
concedano dei prestiti alle imprese, alle famiglie, ai lavoratori. Non è affatto così: una grandissima parte del denaro
viene creato dalle banche dal nulla attraverso il credito. Una volta si parlava di denaro scritturale perché veniva scritta
in un libro dei conti, in una partita doppia, la somma prestata a Tizio o a Caio; oggi il denaro si crea con alcuni tocchi
sulla tastiera. Una certa quantità di denaro viene ancora creata dalle banche centrali, in forma di prestiti e di denaro
contante – monete o banconote, gli unici oggetti per i quali si applichi ancora la dizione «stampare denaro» – ma
quest’ultimo rappresenta meno del 3 per cento del denaro oggi in circolazione. È stata una modifica di grande portata.
Basti pensare che ancora negli anni Cinquanta e Sessanta monete e banconote rappresentavano il quaranta per cento e
più, a seconda dei paesi, del denaro circolante, mentre oggi in tutti i paesi sviluppati siamo intorno al tre per cento o
meno. Forse un dieci per cento del denaro in circolazione è creato dalle banche centrali, compresa la Banca Centrale
Europea. A questo proposito bisogna tener conto che vi sono diversi tipi di denaro: c’è il denaro cash, il contante, il
denaro dei depositi, che vale più o meno lo stesso, e poi i prestiti o i risparmi vincolati a tre mesi, i risparmi vincolati a
due anni, le obbligazioni, i tanti titoli inventati dalla finanza.
Come hanno fatto le banche a partire degli anni Novanta e poi con una fortissima accelerazione negli anni Duemila a
creare denaro senza limiti? Hanno utilizzato uno strumento micidiale che si chiama cartolarizzazione o titolarizzazione
(dall’inglese titrisation o securitisation). Esso consiste nella trasformazione di attivi che figurano nel bilancio di una banca
in titoli che si possono commerciare, rivendere, comprare. Il denaro viene creato concedendo un prestito: qualcuno, ad
esempio, chiede un mutuo; questo prestito diventa un attivo (registrato sulla parte sinistra del bilancio che riguarda gli
attivi) e si trasforma in un debito verso la banca da parte di quello che ha avuto il prestito. Le banche hanno inventato
secoli fa questo particolare modo di creare denaro, ma dagli anni 90 in poi ne hanno fatto un uso eccessivo. Che cosa è
avvenuto? Quando un prestito viene concesso figura tra gli attivi di una banca (una banca percepisce gli interessi), ma
quel capitale è immobilizzato. Inoltre, la banca stessa è soggetta a vincoli, che derivano dalle normative della banca
centrale e dalle regole stabilite dagli accordi di Basilea 1 e 2, già da tempo operativi, e dal nuovo accordo Basilea 3 non
ancora pienamente in vigore. Sulla base di questi vincoli le banche devono tenere di riserva dei capitali buoni per una
certa quota rispetto a ciò che prestano. Le norme di Basilea 2 stabiliscono che una banca dovrebbe tenere di riserva e
depositare presso la banca centrale, la BCE nel caso dell’Eurozona, l’8 per cento di quello che presta, vale a dire che
per ogni 100 Euro che presta deve depositarne 8 in riserva. Se i prestiti sono tanti, i capitali da depositare in riserva
crescono e una banca a un certo punto non è più in grado di effettuare altri prestiti. Il fatto è che concedere prestiti rende
molto, sotto forma di interessi, commissioni, spese amministrative, consulenze, plusvalenze e altro.
Ecco allora il colpo di genio. Sviluppando un’invenzione di parecchi anni addietro, esso è consistito nel trasformare il
prestito in titoli commerciali, in titoli cioè che possono andare sul mercato. Quindi, quello che è avvenuto con sempre
maggiore ampiezza nei primi anni 2000 è stato che il prestito veniva concesso e poi il titolo di debito, sovente una
ipoteca, era ceduto quasi subito a una società di scopo, in molti casi istituita dalla stessa banca. La sigla più nota per
designare tali società è SIV (Structured Investment Vehicle) che sta per «Veicoli di Investimento Strutturato».
Altrettanto rapidamente il Siv trasformava dei pacchi di titoli in un supertitolo commerciabile che immetteva sul mercato
finanziario. Cedendo il prestito ad un veicolo, magari da essa stessa creato e in molti casi collocato nelle isole Cayman o
in altri paradisi fiscali, la banca otteneva innanzitutto di recuperare il capitale immobilizzato in attesa della scadenza, ma
soprattutto otteneva che quel prestito sparisse dal bilancio, poiché esso veniva legalmente venduto (anche se sulla
effettività della vendita si possono avere dei dubbi) al veicolo da essa stessa creato, cioè alla società di scopo. Quello
spazio creato dal prestito, che diventava un titolo uscito dal bilancio, permetteva alla banca di creare nuovo denaro
concedendo altri prestiti. Ciò si può fare per un primo prestito, per il secondo, il terzo, il decimo e via dicendo.
Esattamente in questo modo sono stati creati migliaia di miliardi di dollari e di euro nei primi anni 2000, ma nell’agosto
del 2007 scoppia la crisi e il processo di cartolarizzazione rallenta.
Questo tipo di processo è anche alla radice della questione dei mutui facili. Infatti nel fervore di creare sempre nuovo
denaro, ossia di concedere sempre nuovi prestiti per poi rimuoverli dal bilancio, le banche e i numerosi enti coinvolti nel
processo – in cui entrano non solo banche ma pure compagnie di assicurazione, enti specializzati nel concedere mutui,
società di ri-assicurazione dei medesimi, fondi speculativi – hanno guardato sempre meno alle qualità del creditore,
preferendo non solo ignorare quanto il creditore guadagnasse o a quanto ammontasse il suo patrimonio, ma addirittura
evitando accuratamente che il creditore stesso si ponesse il problema di potersi o meno permettere il prestito. In pratica,
sono stati venduti quasi a forza milioni di crediti, in prevalenza mutui per la casa, ma anche prestiti per gli studenti, mutui
per comprare automobili o affittare un magazzino, tutti ipotecari, e il mutuo, ovvero l’ipoteca su di esso o a esso
collegato, era trasformato in un titolo che rendeva subito, intanto perché era venduto, poi perché continuava a rendere
permettendo di concederne molti altri.
In questo modo le banche – che negli Stati Uniti, ricordo, dovevano avere in riserva presso la FED dieci dollari ogni
cento che prestavano – operavano con un effetto leva apparente intorno a uno a dieci, e uno effettivo che superava
uno a trenta. Da secoli questo 1:10 è più o meno il tasso a cui le banche operano, nel senso che fin dell’epoca dei
banchi degli orefici – che avevano un caveau di roccia o di ferro in cui depositivano l’oro dei propri clienti – con la
diffusione dei titoli di credito e di altri titoli scritturali l’attività bancaria si è sempre fondata sul presupposto che è quasi
impossibile che tutti i clienti corrano nello stesso momento agli sportelli e ritirino i loro depositi. Quindi le banche hanno
cominciato a prestare e tutt’ora prestano soldi che non hanno. E l’ipotesi è sempre stata che intorno a uno a dieci o poco
più fosse un effetto leva ragionevole. Spostando i mutui, le ipoteche, i titoli da un’altra parte e facendoli sparire dal
bilancio, l’effetto leva è diventato uno a quindici, uno a venti, uno a trentadue, che è considerato il valore medio
prevalente tra le banche quando esplode la crisi nell’estate del 2007. Ma c’erano allora istituti finanziari, come ricordo nel
mio libro, che avevano un effetto leva di uno a ottanta, perfino di uno a cento, il che significa che su un dollaro di soldi
propri gravavano 99 dollari di debiti. Quindi quello a cui stiamo assistendo oggi è per certi aspetti un immenso processo
di deleveraggio, ovvero di smontaggio dell’effetto leva, di banche che erano solite operare con rapporti di uno a trenta e
più tra capitali propri e debiti, e adesso cercano di ridiscendere a uno a venti, uno a dieci.
Questo però è solo una parte del processo di creazione del denaro, perché le banche hanno fatto di più e di peggio.
Ormai i grandi gruppi finanziari sono società che ne controllano centinaia di altre, tra cui banche di diverso tipo (dalle
banche d’investimento alle banche commerciali), istituti specializzati in ipoteche, casse di risparmio, compagnie di
assicurazione, società specializzate nelle re-ipotecazione di ipoteche e altro. I grandi gruppi finanziari, oltre a creare
trilioni di dollari o di euro concedendo prestiti sulla casa, sull’auto o sullo stabilimento, concedendo prestiti a famiglie e
imprese e ingigantendo questa quantità di denaro mediante la cartolarizzazione, hanno anche creato altre montagne di
denaro moltiplicando i cosidetti derivati. I derivati sono nati almeno un secolo e mezzo fa e forse prima, agli inizi
dell’Ottocento. Erano onesti e pratici, chiamiamoli così, titoli assicurativi. L’agricoltore, ad esempio, che a gennaio non
sapeva come sarebbe andato il raccolto di grano a giugno, aveva interesse a prefissare un certo prezzo di vendita del
suo grano. Il mercante, che non sapeva a sua volta come sarebbe andato il prezzo – a causa delle carestie
eventualmente intervenute, delle intemperie, dei parassiti –, aveva interesse a stabilire che a luglio avrebbe comprato a
un determinato prezzo una certa quantità di grano. Allora, a gennaio, i due firmavano un contratto che assicurava al
contadino e al mercante un determinato prezzo. È chiaro che poi a giugno era difficile che fossero in pari: uno dei due,
rispetto al mercato, ci perdeva o ci guadagnava. Ma quel contratto era uno strumento efficace per garantirsi una certa
serenità in merito al prezzo di acquisto per il mercante e di vendita per l’agricoltore.
Nel corso del Novecento, ma soprattutto dopo gli anni Novanta, la produzione di derivati è semplicemente impazzita.
I motivi sono vari. Anzitutto i sottostanti sono diventati migliaia. Possono essere indici di borsa o eventi sportivi, prezzo
degli alimenti di base o fenomeni meteorologici. Il problema principale risiede nel fatto che è caduto l’obbligo di
possedere o di acquistare la merce– il cosiddetto sottostante – su cui si basa il valore del derivato. I derivati sono quindi
diventati delle pure scommesse. Uno può scommettere sull’andamente del prezzo del petrolio, ossia può comprare un
derivato avente il petrolio come sottostante, senza avere alcun interesse a commerciare in tale materia prima. Il derivato
può riferirsi, per dire, a diecimila barili di petrolio, ma le due controparti non si impegnano a comperare o a vendere il
sottostante, quanto ad accollarsi la differenza positiva o negativa del prezzo che maturerà tra sei mesi o un anno, posto
che i derivati possono avere scadenze anche piuttosto lunghe. La parte cosiddetta venditrice non ha nulla da vendere e
la parte acquirente non si sogna di acquistare non diciamo diecimila barili di petrolio, ma nemmeno uno. È unicamente
una scommessa. Moltiplicando il numero di scommesse, se uno si assume dei rischi, si può guadagnare o perdere
molto.
Quel che è successo è che nel 2007/2008 il valore nominale dei derivati che giravano per il mondo – cioè il valore scritto
nei contratti– si aggirava su poco meno di settecentocinquanta trilioni di dollari. Il PIL globale nel 2007 è stato di 57
trilioni di dollari, quindi i derivati in circolazione equivalevano a più di dodici volte il PIL del mondo. Qui bisognerebbe
entrare in alcune tecnicalità, per precisare che il PIL nominale è in genere più alto del valore effettivo del contratto. Nel
2009, ad esempio, 700 trilioni nominali di derivati valevano sul mercato circa 35 – 38 trilioni di dollari. Però ci sono delle
distinzioni da fare, perché un conto sono i derivati sui barili di petrolio che nessuno compra e nessuno vende; un conto
ben diverso sono i derivati del credito che sono delle specie di assicurazioni per proteggersi dal rischio di insolvenza di
un creditore. La banca A paga una commissione a B (che in molti casi è un’altra banca) la quale assicura che se C non
ripagherà il debito contratto verso A provvederà lei a rifondere quest’ultima. In questo caso il valore reale del titolo è
molto vicino al valore nominale perché se la banca debitrice (o altro debitore) non paga, B che ha sottoscritto quel
derivato deve pagare di tasca sua l’intero valore scritto nel contratto.
In sostanza, oltre ad aver creato moltissimo denaro concedendo crediti a fiumi, ad averne creato dell’altro
cartolarizzando le ipoteche sì da poter continuare a concedere prestiti, le banche americane ed europee hanno messo in
circolazione nell’economia sotto forma di derivati un volume di denaro corrispondente a dodici volte il PIL del
mondo. Qualcuno dice: «Ma non è veramente denaro». Bisogna invece sottolineare che all’epoca dei computer, delle
transazioni ad alta frequenza, della massima e istantanea convertibilità di ogni capitale in qualsiasi altra forma, i derivati
funzionano come vero e proprio denaro. Un economista, oggi citato spesso per ragioni sbagliate, Marvin Minsky, aveva
intravisto questo sviluppo già a metà degli anni Ottanta. Allorché qualunque titolo è istantaneamente convertibile in
denaro, quello è come se fosse denaro. Il problema con i derivati è che più dell’80 per cento di essi sono scambiati
direttamente fra privati – “al banco”, come si dice – senza che i regolatori possano esercitare alcun controllo. Si tratta di
un’enorme quantità di denaro che sfugge completamente non soltanto alla presa, ma pure alla vista dei regolatori.
A un certo punto questa montagna di denaro ha cominciato a cascare sulla testa delle banche sotto forma di debiti
inevasi. Se una banca scopre una falla nella catena di debiti che essa stessa ha contribuito a creare, tipo un suo veicolo
che avrebbe dovuto vendere agli investitori i titoli derivanti da una cartolarizzazione ma non ci riesce più perché quelli li
rifiutano; a questo punto, anche se la banca aveva venduto a quel veicolo i suoi titoli, in qualche modo deve far fronte
alle perdite del medesimo. Può avere un bisogno urgentissimo di qualche centinaio di milioni o magari di un miliardo di
dollari o di euro, ma se la banca di fronte (la banca consorella, la banca con cui si avevano comuni rapporti) ha gli stessi
problemi, il tutto si incaglia. È quello che è avvenuto nel 2008, ma che si ripropone fino ad oggi attraverso infiniti canali di
contagio.
Nel generare questo incredibile processo – scrivendo il libro ho speso mesi per verificare i dati, tanto mi parevano fuori
del mondo – rilevantissimo è stato il peso dei politici e delle banche europee, all’incirca dal 1980 a oggi. Alcune leggi
determinanti per la deregolazione dei movimenti di capitale sono state firmate da un Presidente francese socialista,
François Mitterand; per esser poi propugnate, sollecitate e messe in opera dal primo Presidente della Commissione
europea, anche’egli francese e socialista, Jacques Delors. Tutti costoro avevano, certo, delle buone ragioni: i capitali
scappavano e bisognava far qualcosa. Fatto sta che imponenti misure di deregolazione o cancellazione della
sorveglianza sui movimenti finanziari, compresi gli scambi al banco di trilioni di euro di derivati, sono stati adottati ben
presto in Europa e si sono diffusi perché altri paesi hanno seguito la Francia. Pertanto negli anni Novanta la
deregolazione in Europa era molto simile a quella che stava intervenendo negli Stati Uniti. Dopodichè non è stata più
effettuata nessuna seria riforma del sistema finanziario.
Le banche hanno avuto un ruolo di primo piano nella creazione della cosiddetta finanza ombra. Della quale fanno parte
anche quei trilioni di derivati che circolano senza essere regolati da nessuno. Pure i veicoli di investimento strutturato, i
SIV, fanno parte della finanza ombra, perché essendo fuori bilancio non appaiono compresi nel perimetro della banca
che li sponsorizza. Vi sono molti altri soggetti della finanza ombra che operano come banche ma non sono banche: tra
essi rientrano i fondi comuni dei mercati monetari, le società specializzate nel concedere prestiti, le divisioni finanziarie
delle corporation. Tutti enti che non sono visti, e non è possibile siano visti, dal regolatore – per questo viene chiamata
finanza ombra.
Nell’alimentare tanto la finanza visibile quanto la finanza ombra, le banche europee hanno avuto un notevole ruolo, da
diversi punti di vista. In primo luogo, ricerche recenti hanno dimostrato come le banche europee abbiano comprato in
Usa, dal 2000 in avanti, centinaia di miliardi di dollari, di euro, di sterline e anche di franchi svizzeri, di titoli cartolarizzati,
compresi le micidiali obbligazioni aventi per collaterale un debito, definite a disastro avvenuto titoli tossici. Sono titoli
assai complicati, caratterizzati da un taglio difficilmente alla portata di qualcuno di noi, perché esso si colloca in genere
tra uno e due miliardi di dollari). A questi titoli poi definiti tossici, che erano venduti a pezzi o trance con diverse
gradazioni di rischio, le agenzie di rating, pagate dalle stesse banche che emettevano quei titoli, assegnavano la
massima credibilità – ovvero il minimo rischio di insolvenza da parte del creditore – e per questo erano considerati sicuri.
Le banche europee si sono gettate su quei titoli giudicati sicuri, per cui stando alle ricerche menzionate sopra centinaia
di miliardi di derivati di questo tipo sono stati creati in Usa proprio per soddisfare la domanda assidua delle banche
europee. Inoltre, alcune banche europee hanno loro stesse creato titoli analoghi per centinaia di miliardi di dollari. La più
impegnata è stata la Deutsche Bank, che ha creato una serie di titoli – chiamati Gemstone – il cui taglio medio era
intorno a 1,1 miliardi di euro. Qualche banca francese si ritiene abbia fatto lo stesso e forse anche altre, ma l’«ombra»
per definizione è qualcosa in cui è difficile vederci chiaro. Quando il domino ha cominciato a cadere – perché se uno fa
molti debiti distribuiti in una catena di numerosi soggetti, nel caso fallisca anche l’ultimo di questi il problema risale la
catena fino a quando i debiti arrivano al consiglio di amministrazione della banca madre – vi sono state banche quali la
UBS (Unione delle Banche Svizzere), che tra il 2007 e il 2009 hanno dovuto cancellare dai propri bilanci qualcosa come
cinquanta miliardi di dollari. Peraltro senza patire troppo: la UBS ha un bilancio che supera di circa dodici volte il bilancio
federale della Svizzera.
La questione che ci tocca anche oggi e che secondo i governi Ue richiede
per essere risolta licenziamenti facili, austerità, tagli alle pensioni, pensione
a 105 anni e altre cose del genere, ha tuttora le radici nel fatto che le
banche europee sono piuttosto opache, ma al tempo stesso tradiscono
notevoli preoccupazioni di bilancio. Le banche tedesche per prime si
collocano piuttosto in basso quanto a indice di trasparenza o indice di
visibilità del traffico bancario. Tuttavia, dietro alla coltre della finanza ombra
quel che sembra via via più evidente è che le banche sono ora impegnate
allo spasimo per ridurre il loro leverage, il citato rapporto tra capitale
proprio e capitali presi in prestito, spinte in questa direzione dalle nuove
regole di Basilea e dalla Autorità bancaria europea (Eba). Se non, più
probabilmente, dal terrore che succeda qualche nuovo grave incidente,
perché se l’ultimo anello della catena salta il problema del debito risale per
forza sino ai bilanci centrali.
Concludo toccando la questione della riforma del sistema finanziario, della
quale si è parlato a lungo negli Stati Uniti, dove è stata varata nel luglio 2010 una legge che si chiama Dodd Frank Act,
conosciuta pure come Wall Street Reform. Si stima che, a questo proposito, che la lobby bancaria abbia speso
trecentoventicinque milioni di dollari per indebolire e possibilmente bloccare tale legge di riforma, che alla fine è risultata
all’acqua di rose, e per di più immensamente complicata, con un testo che conta 1652 pagine e richiederà 550 decreti
attuativi. Dal luglio 2010 fino all’autunno 2011, per quanto è a mia conoscenza, ne sono stati attuati solamente due o tre.
Pure in Europa si sta discutendo di riforme finanziarie, una discussione estesa a vertici extra Ue come il G20
dell’autunno 2011 a Cannes. La Commissione europea ha allo studio una bozza dettagliata di riforma e il Parlamento
europeo farà una prima proposta a febbraio o marzo del 2012. Accade però che tutte le proposte finora avanzate siano
lontanissime dal cogliere le vere radici del problema. Sarebbe necessaria una forte pressione politica, ci vorrebbero
milioni di persone per le strade a chiedere la riforma finanziaria, uno scenario al momento non molto probabile. Molte ed
evidenti sono le ragioni per le quali si rende necessaria una riforma finanziaria radicale. In realtà niente di rivoluzionario,
sono cose dette da liberal americani o dallo stesso governatore della Bank of England, Mervyn King, che pochi mesi fa
ha dichiarato: «Ci sono molti modi per organizzare l’attività bancaria. Quello che abbiamo oggi è il peggiore che
possiamo immaginare». Bisognerebbe prenderlo sul serio, perché finora le riforme di cui si parla nella Ue sono affatto
insufficienti.
Si dovrebbe intervenire su tre fronti. È ovvio che non si può varare una riforma finanziaria solo in Italia, ma una riforma
nell’ambito dell’Unione Europea andrebbe comunque fatta per via dell’enorme peso che in essa il sistema finanziario
esercita attualmente su tutto: sull’occupazione, la sanità, le pensioni, la terra, il cibo. È in gioco lo svuotamento totale
della democrazia. Bisogna ricondurre il sistema finanziario alle sue funzioni, che pure sono importanti. Non si può
semplicemente dire: «Chiudiamo le banche». Le banche sono indispensabili come pure il sistema finanziario allargato,
ma questi devono essere un ausilio, un mezzo controllato dall’economia reale e soprattutto dai governi, dai cittadini, dai
meccanismi della democrazia. Il sistema finanziario internazionale ha dimensioni eccessive e in esso il sistema
finanziario europeo, il quale, si noti, è molto più grande di quello statunitense, sia come numero delle banche sia in
termini di attivi controllati. C’è un elenco nel mio libro di venti gruppi finanziari che avevano nel 2009 attivi superiori al
trilione di dollari; fra questi venti, le banche europee (con l’aggiunta di due non Ue, Ubs e Credit Suisse) sono ben 14. Se
non si riducono le dimensioni dei singoli gruppi finanziari, essi risulteranno sempre incontrollabili e saranno essi a
dettare le misure di austerità, comprese le condizioni del mondo del lavoro, ai governi. Come stanno facendo.
In secondo luogo, larga parte di questo sistema è in ombra, per questo si chiama shadow banking, Qualcuno parla di
regolare anche detto sistema, ma le ombre non si regolano. Occorrerebbe accorciare, ridurre o, meglio ancora,
smantellare il sistema finanziario ombra.
In terzo luogo le grandi società finanziarie, le bank holding companies, sono troppo complesse. Seppure si costituisse
un’autorità di regolazione europea dotata di grandi poteri e ampi mezzi, essa sarebbe comunque impotente a causa
delle dimensioni e della struttura enorme di esse. Ricordo, per citare un solo dato, che quando fallì nel settembre 2008,
Lehman Brothers era composta da più di 1800 entità giuridiche distinte. Anche in presenza di autorità di regolazione
assai robuste, se mai esistessero, dinanzi a simili castelli organizzativi è impossibile cercare di stabilire “chi fa che cosa”.
Si può certo introdurre per legge, ad esempio, una norma che separi l’attività di depositi e prestiti delle banche dalle
attività di investimento. Nondimeno se una banca continua ad avere una miriade di divisioni o di dipartimenti interni
specializzati, ossia continua ad essere costituita sotto il controllo della casa madre da migliaia di entità giuridiche
indipendenti, come si fa a controllare qual è l’atttività realmente svolta dall’una o dall’altra di esse? Controllare significa
andare negli uffici, tirar fuori i libri, le carte, vuol dire impiegare decine di persone per settimane allo scopo di capire che
cosa realmente fa una sola divisione di una grande banca. È semplicemente improponibile controllare chi fa che cosa se
non si riduce la complessità del sistema.
A parte le bozze di riforma in discussione nel Parlamento europeo e nella Ce, ci sono in giro varie proposte provenienti
da centri studi. Alcune assai interessanti sono state portate a Cannes da un centro tedesco specializzato in studi sullo
sviluppo e l’ecologia per un’economia sostenibile. Ma è chiaro che tali proposte, lasciate a sé, non serviranno a nulla. Il
problema vero è che sono i cittadini che ne dovrebbero discutere, e sarebbe bene che si cominciasse ad allargare la
discussione in modo che il maggior numero capisca la reale entità del problema e cominci a chiedere una riforma
radicale del sistema finanziario. È complicato, è politicamente arduo, certo. Ma per il futuro della democrazia, non
soltanto del sistema economico, è assolutamente indispensabile ridurre a dimensioni ragionevoli i gruppi finanziari e con
essi l’insieme del sistema finanziario internazionale. Un noto economista americano ha detto che sarebbe indispensabile
ridurre il sistema finanziario a un terzo di quello che è oggi. Forse è una misura eccessiva, ma è la direzione in cui
appare necessario procedere. In presenza di troppi segnali attestanti che l’economia del mondo, e con essa la
democrazia dei nostri paesi, sta viaggiando verso la catastrofe. Se non riusciamo a trasformare tutto quanto si è qui
ricordato in istanza, in domanda politica, in un numero di deputati sufficienti per introdurre una riforma del genere,
dovremo aspettarci una crisi, politica ed economica a un tempo, ancora peggiore di quella che stiamo vivendo adesso.
Finora non mi sono stati imputati molti errori nel libro da cui ho tratto queste considerazioni. Concludo rilevandone uno
io. Il libro è stato pubblicato nel marzo del 2011. In esso prevedevo una nuova crisi finanziaria, o meglio una nuova grave
fase di essa, per il 2015. Mi sono sbagliato: è arrivata pochi mesi dopo.