A. Cavadi - Rassegna di Teologia

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A. Cavadi - Rassegna di Teologia
Augusto Cavadi
Il Dio dei mafiosi
A. CAVADI, Il Dio dei mafiosi, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2009, pp. 243, € 18,00.
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«Come mai Filippo Marchese – prima
di torturare, strangolare e sciogliere nell’acido una vittima, spesso a lui del tutto
ignota sino a cinque minuti prima – invocava la benedizione di Dio, facendosi il
segno della croce?» (218).
Questa domanda, formulata nel post
scriptum del volume, rappresenta l’interrogativo di fondo, come spiega Cavadi,
da cui ha preso le mosse la scrittura del
libro. È noto, infatti, che i mafiosi, salvo
poche eccezioni, si dichiarano cattolici e
praticanti, sostengono o gestiscono manifestazioni religiose come le processioni; si sa che nei covi dei latitanti sono state rinvenute Bibbie e altri libri religiosi.
La religiosità dei mafiosi è un fenomeno
che si è imposto all’attenzione del pubblico per il risalto mediatico che ad essa è
stato dato – ad esempio in occasione della cattura di uomini di mafia come Bernardo Provenzano con la sua Bibbia cifrata – ma non solo. Su di essa, infatti, si è
acceso anche un dibattito culturale e diverse pubblicazioni si occupano dell’argomento, sebbene lo facciano da differenti
prospettive: sociologica, storica, antropologica. Tra le più recenti vanno richiamaRECENSIONI
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te quelle di V. Ceruso (Le sagrestie di Cosa
Nostra. Inchiesta su preti e mafiosi,
Newton Compton, Roma 2007); A. Dino
(La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa
Nostra, Laterza, Roma-Bari 2008) e l’ancora più recente testo di I. Sales (I preti e
i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e
chiesa cattolica, Baldini Castoldi Dalai,
Milano 2010). Rispetto a questi studi, il
libro di Cavadi prova ad affrontare la questione da un’ulteriore prospettiva, quella
teologica. Egli cerca di indagare la concezione religiosa della mafia, che considera
al pari di una teologia. Il precedente a cui
si richiama è un articolo, di cui riprende
il titolo, del magistrato R. Scarpinato («Il
Dio dei mafiosi», in Micromega [1998/1]
45-68) che, però, a giudizio di Cavadi, non
mantiene ciò che promette.
Il libro si articola, grosso modo, in due
sezioni. Nella prima viene presa in esame la transcultura mafiosa e i suoi legami con la teologia mafiosa, mentre nella
seconda vengono discussi gli aspetti specifici di una teologia incompatibile con
quella mafiosa.
Secondo Cavadi la mentalità mafiosa
mostra delle contiguità con una certa mentalità cattolica o, per meglio dire, con alcuni atteggiamenti ecclesiastici verificatisi nel corso della storia. Ad esempio, il
rifiuto della giustizia civile e la rivendicazione da parte della mafia di un’amministrazione in proprio della giustizia, vengono accostati al fenomeno delle storiche
immunità ecclesiastiche; o ancora l’omertà
mafiosa viene posta in relazione con la segretezza ecclesiastica. Tra gli aspetti comuni alle due mentalità Cavadi segnala il
«dogmatismo cognitivo» e il «fondamentalismo identitario» (80). La teologia mafiosa sarebbe, però, una teologia profondamente atea. Scrive l’A.: «[…] l’ateismo
di alcuni esplicita, svela, la “verità” nascosta dietro le menzogne, autoingannatrici, degli altri, perché la religione dei
mafiosi è una delle tante versioni in cui si
configura l’atteggiamento più sostanzialmente irreligioso che l’uomo possa nutrire» (93). Cavadi delinea le caratteristiche
di questa teologia atea dei mafiosi e in
questa parte del volume sviluppa confronti
con l’articolo di Scarpinato. In realtà non
si tratta di «una teologia consapevole e
meditata, organicamente articolata» (98),
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ma di «una teologia irriflessa e approssimativa, anche se interiorizzata e praticata» (99). Questa teologia enfatizza alcuni
aspetti della teologia cattolica mutilandone altri. Ad esempio, propone un’immagine di Dio caratterizzata da «onnipotenza senza misericordia» (101); da «trascendenza senza immanenza» (105); si tratta
di un Dio «garante dell’ordine cosmico e
sociale» (109) a cui si deve obbedienza
cieca così come se ne deve ai capi di Cosa
Nostra. Inoltre la mafia tiene in gran conto
la mediazione dei santi, la cui funzione di
intercessori li caratterizza come veri e propri “padrini” celesti, secondo un modello
di religione eminentemente clientelare.
Particolarmente pericolosa si è rivelata,
secondo Cavadi, la teologia della soddisfazione vicaria: se Dio sacrifica il suo
unico Figlio, allora è legittimata e giustificata ogni vendetta anche attraverso la
morte di parenti innocenti di pentiti e traditori a vario titolo. Insomma, emerge
«un’idea “tribale” di Dio» e «un’ecclesiologia altrettanto “tribale”» (121). Si tratta poi di una teologia dal «registro lugubre» (132) in cui è esaltata la passione e la
morte e omessa la risurrezione.
Ma questa teologia, che definirei caricaturale, in che rapporto sta con la teologia cattolica? Si tratta di una deviazione e
di una deformazione o in qualche modo
essa dipende da una teologia cattolica che
ne ha favorito lo sviluppo? Secondo l’A.,
se «la teologia cattolica non produce la
mafia» (142), essa però «contribuisce alla
concreta configurazione di questa mafia»
(143). In particolare la commistione è da
ricondursi a quella particolare teologia che
egli definisce cattolico-mediterranea, frutto di un intreccio piuttosto complesso di
componenti che non sono solo di natura
religiosa. Infatti, «in Sicilia la mentalità
cattolica è anche un po’ borghese e un po’
mafiosa, la mentalità mafiosa è anche un
po’ borghese e un po’ cattolica» (152). Ne
consegue, secondo Cavadi, che non è sufficiente demistificare, da parte della teologia cattolica, la cultura mafiosa: bisogna
anche demistificarne gli aspetti borghesi e
capitalistici e quelli cattolico-mediterranei.
I tratti caratterizzanti una teologia incompatibile con la mentalità religiosa della
mafia sono quelli di una teologia negativa e non trionfalistica, né antropomorfa,
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che sappia indicare le vie della liberazione e della misericordia di Dio annunciate
da Gesù; una teologia capace di animare
una prassi credente, che dà vita a una spiritualità che l’A. delinea come incarnata,
sobria, conviviale, sovversiva, non violenta e gioiosa. Figure di martiri come don
Pino Puglisi – la cui testimonianza è più
volte richiamata nel testo – incarnano
questo modello. Si potrebbe osservare che
questa teologia e la spiritualità e la prassi
che la esprimono, producono martiri. Solo
una testimonianza evangelica diffusa, una
teologia condivisa e tradotta in pratica
non da parte di singoli ma a livello ecclesiale può marcare veramente la distanza
con la mafia e sottrarle terreno: come ricorda Cavadi, i martiri della mafia sono
martiri anche della solitudine in cui vengono a trovarsi e della singolarità della
loro testimonianza.
Complessivamente il testo è ricco di
spunti e induce a riflettere sulla zona di
confine tra la teologia speculativa e i suoi
risvolti pratici; una zona magmatica in cui
possono generarsi ambiguità e allignare
pericolose connivenze: un rischio storicamente sottovalutato o addirittura negato
anche da uomini di Chiesa e rispetto al
quale si vanno finalmente delineando chiare prese di posizione, come quelle contenute nel recente documento della Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno.
Anna Carfora
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