In deriva alla città

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In deriva alla città
In deriva alla città
«Ciao, cugino.»
«Non sei mio cugino.»
«Tu compra qualcosa cugino, braccialetti, collane per signora. Accendini.»
«Non ho signora e non fumo.»
«Dà qualcosa cugino.»
«Non ho soldi e non sono tuo cugino.»
«Per mangiare, cugino.»
«Non ho spiccioli, né cugini ti ho detto. Va’ a lavura’ ch’è meglio.»
Il riverbero del sole è insopportabile oggi, fa a gara per infastidirmi con questo ennesimo
vucumprà, venuto da chissà dove a contaminare le ombre sull’erba verdissima del parco
Sempione.
Nero come il peccato e fastidioso come una mosca sui maccheroni, ma non basta un gesto
scocciato per allontanarlo mentre attraverso il parco alla ricerca di una panchina adatta. Ogni
giorno lui e mille come lui disegnano il loro squallido calvario sulle derive di questa città.
Spuntano all’alba dal nulla e nel nulla ritornano al tramonto. Anime nere che ondeggiano
barcollanti con il loro carico di sporcizia. Difficile distinguerli, ma neanche a volerlo ci
riuscirei, proprio non li guardo ormai. L’unico impegno mentale che mi danno è cancellarli
al più presto dalle retine, dopo che mio malgrado ci sono entrati.
Non mi sento di essere cattivo, anzi, credo di essere normale se la penso così. I pensieri
sono diversi dalle parole, non hanno regole, non hanno educazione, non hanno obblighi, non
hanno bisogno di apparire belli, buoni e tutto okay. I pensieri salgono su sgarbati e spontanei
prima di venire violentati dalla lingua.
Intollerante io? Certo, ma molto meglio che ipocrita.
I pensieri di quasi tutti ormai sono etnicamente scorretti, e forse peggiori dei miei.
“Loro”, i diversi, gli altri, i fantasmi, sono troppi e dappertutto, sono come ingombranti
cartonati di pelle infetta, che cominciano a toglierci lo spazio, l’ossigeno, la luce, il sole.
Ogni tipo di guerra, terremoto o sciagura è buona come scusa per invaderci. Ogni sfigato
motivo è buono per atteggiarsi a vittime del mondo, per scalare i gradini dell’atlante e
fottersi anche i nostri paralleli.
“Uno come me, scarpe bianche come me…” Canticchio e scelgo una panchina, tentando
di indovinare quella con la prospettiva giusta per ammirare sullo sfondo del parco il castello
Sforzesco, simbolo purtroppo ormai inutile di nobiltà e vigore. Decido di sedermi su una
panca gialla, all’ombra di un platano. Fa caldo, agosto è lungo da passare a Milano: quasi
tutti i pochi milanesi “veri” sono andati al mare ormai, ma io no, e neanche “Loro”. Ehhh!
figuriamoci se quelli smammano! “Loro” restano avvinghiati addosso a questa città come
zecche ingorde.
Ma chissà poi quante altre fregature si nascondono in quello stesso mare dove a quest’ora
mezza Italia annega nell’oblio; chissà quanti altri sudici barconi stracolmi di speranze
marcescenti vengono cullati da quelle onde sbagliate.
Accoglienza? Ma che scemenza. Chi dovrei accogliere? E perché? Quelli che sapranno
presto imparare come si fa a mordere la mano che li sfama?
Siamo diventati molli e deboli, abbiamo perso quel sacro tocco di egoismo che ci ha
permesso di sopravvivere e superare momenti storici tremendi.
E solo questione di tempo adesso. Quanto passerà? Un secolo? Metà? Basteranno
cinquant’anni perché questa legione di disperati prenda il nostro posto?
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Ma il vero pericolo è quello giallo. Sono loro i più organizzati, un esercito in costante
espansione capillare verso un travaso silenzioso e proprio per questo letale.
«Ciao amico.»
Eccolo! Come se lo avessi evocato. Il giallo che avanza. Da dove è sbucato quest’altro?
Ha ingannato il mio sensore di ombre. Brutto segno.
«Caldo oggi, eh!»
Questo appartiene alla categoria di quelli che vogliono parlare. Cade malissimo. Fingo
indifferenza. Mi sento i suoi occhi a mandorla avariata addosso. Non molla. Anzi, si siede
sfrontatamente di fianco a me.
«Come ti va, amico?»
Come ti va? Che vuol dire come mi va? Forse vuol dire come stai? Vabeh, la solita frase
di aggancio che ti dicono tutti: Come stai… traduzione: chi se ne frega di come stai. E
sempre lo stesso ventaglio di risposte disponibile, una a scelta: Non c’è male; bene grazie;
così così, Ma a questo che rispondo?
E però… però… perché me lo ha chiesto? Perché? Quando mai qualcuno si è interessato
a sapere veramente come sto? Scelgo la seconda risposta.
«Bene grazie, non compro niente.»
«Ma non voglio vendere niente, amico.»
Come non vuole vendere niente?
«Allora non ho soldi.»
«Non voglio tuoi soldi, amico.»
Il movimento del suo coltello è velocissimo. La punta si ferma sulla mia gola.
«Anzi, ti voglio fare regalo.»
È quasi l’una ed è pieno agosto; non me ne sono accorto, ma intorno alla mia panchina è
rimasto un vuoto irreale. Siamo solo io e lui nel parco. Mi sta minacciando adesso.
«Quanto vale la tua vita amico?»
«N-non lo so.»
«Prova a pensarci. Quanto vale tua vita?»
«V-vuoi dei soldi… p-per non uccidermi?»
«Non voglio soldi, io sono ricco, amico, non ho bisogno di tuoi soldi. Sei tu che ne hai
bisogno, perché senza soldi tua vita non vale niente. Dimmi, quanto è grande la tua
gabbia?»
«Q-quale gabbia?»
«Quella in cui sei rinchiuso, amico. Anche se ha sbarre invisibili ci sei dentro. Quanto è
grande? Quanto una stanza? Una casa? Un paese? Una città? Sempre gabbia è.»
«Io… io non lo so.»
«Certo che non sai. Io faccio domande senza risposta, amico.»
Con la punta del coltello mi carezza la gola, forse sta seguendo dei disegni che vede solo
lui.
«Chi sei?» Trovo il coraggio di chiedergli.
«Importa poco chi sono. Ma ti capisco amico, è una domanda che mi fanno in tanti.»
«M-mi ucciderai?»
«Si, amico. Serve spazio, ne serve sempre di più per miei fratelli. Voi siete diventati
ingombranti ormai. Improduttivi. Assediati da vostri problemi, dalle vostre paure.
Indeboliti. Sterili. Vi ammalate per troppo benessere e poi servono tanti soldi per curarvi.
Ora tocca a noi. Noi siamo la specie che sopravvivrà. Non hai letto Darwin?»
«N-no… quello dell’evoluzione?»
«Si, proprio lui.»
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Comincio a piangere.
«Perché piangi amico?»
«N-non lo so… non voglio morire.»
«Non ti preoccupare, non te ne accorgerai. Nessuno se ne accorgerà. Anche tu sei
diventato invisibile. Tua moglie ti ha lasciato, tuoi figli non vogliono saperne di te. Tuoi
amici poi… anzi… tu non hai più amici, vero?»
«N-non so.»
«Sei rimasto solo, amico. La tua vita ormai non vale più niente. Sei come una bottiglia
rotta, svuotata di tutto l’affetto che poteva dare e ricevere. Ti è rimasto solo il tuo castello.
Guardalo.»
Volgo lo sguardo verso il castello: la torre del Filarete è entrata in una prospettiva
centrale perfetta, come non l’avevo mai vista.
«Adesso ti libererò, amico. Ringraziami.»
Sento una piccola puntura sul collo.
Il “grazie” mi resta nella gola. Affogato nel sangue.
Lo guardo negli occhi. Non avevo mai guardato davvero nei loro occhi, ma ora che lo
faccio, non ci leggo malignità, né follia.
Ma solo pietà. Pietà per me.
Non avevo mai pensato che potesse essere al contrario. Che fossimo noi quelli per cui
provare compassione. Noi, assediati dai debiti, dal mutuo, dai problemi, dall’erosione dei
sentimenti, dal vuoto spirituale delle nostre esistenze. Noi, travolti da un sistema di vita
implacabile, così bravi a costruirci le nostre gabbie e a verniciarne le sbarre d’oro.
Noi.
Che adesso dobbiamo andare avanti e fare posto.
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