L`ingombro dell`altro dagli ebrei agli zingari
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L`ingombro dell`altro dagli ebrei agli zingari
DOTTORE A PAVIA Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci della lectio magistralis «L’altro e il suo ingombro», tenuta il 22 ottobre da Moni Ovadia all’Università di Pavia. L’attore teatrale, cantante e compositore di origine ebraica è stato insignito della laurea honoris causa in Lettere dall’ateneo lombardo. MONI OVADIA, UNA «LECTIO» CONTRO IL DEMONE DELL’ODIO L’ingombro dell’altro dagli ebrei agli zingari di Moni Ovadia Sono il secondogenito di due fratelli e quando nacqui, a Plovdiv in Bulgaria, mio fratello maggiore e primogenito Samuil aveva cinque anni e mezzo. La Bulgaria si avviava allora a divenire un Paese del blocco comunista, erano gli anni dello stalinismo permeati dalla grande vittoria contro il nazifascismo e mio fratello maggiore era stato inquadrato fra i pionieri del popolo con tanto di bustina militare e fazzoletto rosso. La mia nascita, come è ovvio e frequente ancorché sia molto imprudente, aveva polarizzato le attenzioni affettive e le coccole più calorose sulla mia personcina, a quanto mi raccontano graziosetta e paffuta; mio fratello Samuil, che da piccino piccino era di una sconcertante ed aristocratica bellezza, un Amleto in erba, dovette vivere la mia comparsa come un’usurpazione ed un giorno, in preda ad misto di un accesso di gelosia e di indignazione politica, si avventò contro la mia culla e cercò di strangolarmi al grido di: « Toi è fascist », che tradurrei: 'Quello è un fascista' [...]. Mio fratello Samuil non aveva certo reagito all’ingombro fisico della mia personcina, troppo minuscolo per essere fastidioso, ma a quello affettivo che era enorme e che comprimeva il suo 'spazio emotivo'. È una sindrome che coglie frequentemente chi arriva per primo e ritiene che lo spazio, il tempo e l’energia che occupa siano esclusivamente suoi fino a quando non compare l’intruso, che rivendica la sua parte per il solo fatto di esserci. La Torah ebraica ci propone una straordinaria narrazione paradigmatica dell’esordio della storia umana, se la intendiamo come storia di relazioni, nella vicenda di Caino ed Abele. Caino è il primogenito figlio unico di Eva ed Adamo. La sua condizione è inebriante: c’è mamma, c’è papà, c’è lui e su di loro il Santo Benedetto. Caino può pensare di essere l’erede di tutto il creato. La comparsa di Abele, il fratello piccolo, l’altro, l’ultimo arrivato viene a porre il problema della relazione interumana, il problema della fratellanza, dell’alterità. A questa sollecitazione Caino non ha gli strumenti per rispondere creativamente, e risponde con aggressività incontrollata uccidendo suo fratello, non per cattiveria, ma per ebbrezza di unicità [...]. L’ebrezza di unicità segna anche gli edificatori monolinguistici della Torre di Babele con la loro sfida al cielo [...]. Le parole babeliche non accoglievano le altre lingue, non accettavano l’ingombro del controargomentare, non lasciavano spazio alla dignità della critica: per questo erano asfittiche e generavano asfissia, come i linguaggi delle tirannie, come la lingua dell’universo concentrazionario nazista [...]. Duemila anni dopo che un giovane ebreo era salito sulla croce, saliva sulla croce di Auschwitz l’intero popolo ebraico con un milione e mezzo di bambini. In un bimbo particolare, che condannato all’impiccagione per una ridicola trasgressione a causa del suo piccolo peso agonizzò più di mezz’ora prima di rimettere l’anima al Creatore, una certa teologia cristiana ravvisò il Cristo del Duemila: ma sulla croce del Golgota nazista non sono saliti i cristiani in quanto tali, ma gli ebrei in quanto tali; di educazione cristiana erano tutti i carnefici. Il sacrificio più immane di quel diluvio colpì il popolo della yiddishkeit, l’ebraismo ostjudish, un popolo in tutto e per tutto per cultura, per lingua, per identità, per profonde strutture dell’emozione intraducibili in parole, per sentimento di appartenenza, per fede, per spirito di redenzione, per musica canto letteratura... opolo, insomma, con la sua lingua unica, lingua di esilio di un popolo esiliato, condizione dello spirito più che lingua, che Kafka descrive: «Ma una volta che [lo yiddish] vi abbia afferrati, allora non conoscerete mai più la vostra pace di un tempo. Allora sentirete la vera unità dello yiddish, e così forte che avrete paura, ma non più dello yiddish: di voi stessi». Un popolo capolavoro di umanità senza confini, senza frontiere, senza eserciti, senza burocrazie, senza deliri nazionalisti. Un popolo di uomini semplici e sapienti [...], goffamente belli con i loro cernecchi svolazzanti ai lati delle tempie (ho sempre pensato che Gesù sia stato ritratto coi capelli lunghi perché aveva delle peyot lunghe come un super khassid, e così lo rappresenterò in un mio prossimo spettacolo). Erano persino malinconicamente belli nei loro difetti e nelle superstizioni, separati dal mondo che li circondava ma non chiusi ad esso, ai suoi umori, ai suoi suoni, alle sue musiche e alla sua gente buona, sognatori ed umoristi per vocazione, inventori dell’umorismo ferocemente autodelatorio come rimedio contro l’idolatria e la violenza. Questo popolo della domanda, che rimane aperta anche dopo che la bocca si è chiusa, era un ingombro insopportabile per un mondo brutale posseduto dal demone dell’odio, del nazionalismo, animato da pulsioni di morte, dalla brama di risposte perentorie, di supremazia. È stato così facile annientarlo perché era solo e indifeso: «Chi è mai un grande ebreo del passato di fronte a un piccolo ebreo di oggi, un semplice ebreo di Polonia, di Lituania, di Volinia? In ogni ebreo urla un Geremia, un Giobbe immenso in sofferenze, un re deluso canta il suo canto d’Ecclesiaste», scrisse Katzenelson. Al loro ingombro inespresso carico di energia spirituale e poetica ho dedicato gran parte della mia vita, convinto che essi ci abbiano lasciato in eredità la loro incessante interrogazione per costruire un futuro fondato sulla fragilità. Oggi l’ebreo ha perso questi statuti; li cede in cambio di certezze, di confini, di forza, di status sociale autorevole. Un tempo l’ebreo era come lo zingaro, oggi lo zingaro è l’ebreo, porta il suo ingombro anche se per taluni l’ebreo rimane ingombrante, come dimostra il presidente dell’Iran Ahmadinejad. Ma talora l’antico ingombro dell’ebreo si specchia negli occhi di un vecchio palestinese, che infrangono il loro sguardo contro un brutto muro di cemento elettrificato, o negli occhi di una palestinese, che guarda la sua casa abbattuta e i suoi olivi sradicati in nome della sicurezza. L’ingombro dell’altro è sempre lì per parlarci, sta a noi ascoltarlo. da Avvenire di domenica 28 ottobre 2007