UMORISMO e la Chiesa in Italia - in preparazione,UNIVERSITA` e la

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UMORISMO e la Chiesa in Italia - in preparazione,UNIVERSITA` e la
Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume II - Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015
Voce pubblicata il 18/01/2015 -- Aggiornata al 18/01/2015
UMORISMO e la Chiesa in Italia - in
preparazione
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
UNIVERSITA' e la Chiesa in Italia
Autore: Raffaele Savigni
Lo sviluppo culturale dell’Europa occidentale nei secoli XI-XII favorì la nascita di nuovi centri di
istruzione superiore, che, pur presentando qualche affinità con esperienze precedenti (come le “case
della scienza” del mondo islamico), rappresentano un fenomeno sostanzialmente nuovo, di dimensione
internazionale, che accompagna l’emergere della figura moderna dell’”intellettuale” ed al tempo stesso si
caratterizza per un legame più o meno stretto con la Chiesa (sottolineato da Boncompagno da Signa, per
il quale «ordo quippe scholasticus est ecclesie speculum»). Le università, nate dall’incontro tra studenti e
docenti ma inizialmente prive di locali appositi e di strutture stabili, assumono progressivamente, intorno
al 1200, una più precisa configurazione giuridica come Studia promossi e governati da associazioni
(universitates) di docenti (come a Parigi) o studenti (come a Bologna), in una complessa e variabile
interazione con i due poteri universali (Papato ed Impero, ai quali Alessandro di Roes aggiunse, alla fine
del ʼ200, proprio lo Studium per formare un trittico ideale) e con le autorità locali. Il primo Studio
italiano, quello bolognese, sorto da una comitiva di docenti e studenti di diritto, si sviluppa
progressivamente come istituzione incentrata sulla universitas scholarium (poi articolata in nationes):
allo studio del diritto romano si affianca quello del diritto canonico, e, nel secolo XIV, anche della
medicina, delle arti, della teologia.
Sulle origini dello Studio di Bologna (per il quale, diversamente dal caso parigino, non è dimostrabile un
preciso legame con una preesistente scuola della cattedrale, anche se G. Ropa ha raccolto alcuni indizi
della vitalità della cultura ecclesiastica bolognese del sec. XI, a partire dal celebre Codice Angelica 123),
si è sviluppato negli ultimi decenni un vivace dibattito: se Carlo Dolcini ha ipotizzato un ruolo decisivo del
vescovo filoimperiale Pietro (forse identificabile con il misterioso Pepo che secondo fonti più tarde
avrebbe insegnato diritto a Bologna prima di Irnerio: si veda l’allusione di Rodolfo il Nero, intorno al
1180, «Cum igitur a magistro Peppone velut aurora surgente iuris civilis renasceretur initium»),
Giovanna Nicolaj ha ricondotto piuttosto la figura di Pepo ad un ambiente notarile. Da parte sua
Giuseppe Mazzanti ha attribuito a Irnerio un curriculum di studi anche teologici, che sarebbe sfociato
nella redazione di un Liber divinarum sententiarum (di cui lo stesso Mazzanti ha fornito l’edizione critica:
Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1999): ma questa proposta non è condivisa da molti
storici del diritto. Non appare più sostenibile l’ipotesi, accreditata nel ‘200 dal giurista bolognese
Odofredo, di una translatio dei libri legales da Roma a Ravenna e di qui a Bologna, e sembra preferibile
sottolineare il policentrismo che caratterizzava la realtà culturale del secolo XI.
Con la costituzione autentica Habita di Federico I (1155) gli studenti approdati a Bologna per frequentare
lo Studio («fatti esuli dall’amore della scienza») vennero sottratti alla giurisdizione comunale e sottoposti
al giudizio del loro maestro o, a scelta, del vescovo. Più tardi, per nobilitare lo Studio bolognese nel
momento in cui Federico II creava l’Università di Napoli (1224), vietando ai sudditi del Regno di Sicilia di
frequentare scuole al di fuori del Regno stesso, venne fabbricato (intorno al 1225) il falso privilegio
teodosiano, che riconduceva a Teodosio II la fondazione dell’Ateneo bolognese. Sebbene il Comune
cercasse di trattenere a Bologna i docenti mediante l’imposizione di vincoli giuridici e la concessione di
benefici economici (ad esempio assicurando un salario ai maestri che insegnavano nello studium locale),
si verificarono diverse migrazioni di studenti e docenti, che diedero origine agli Studi (talora destinati al
successo, talora di durata effimera) di Modena (discusso trasferimento di Pillio da Medicina, 1182),
Vicenza (1204), Arezzo (1215), Padova (1222), Vercelli (1228: trasferimento promosso da studenti
padovani col sostegno attivo del Comune di Vercelli). I nuovi Studi sorti nella penisola in seguito alla
volontaria migrazione di gruppi di studenti e professori seguono sostanzialmente il modello bolognese
(quello dell’universitas scholarium: è il caso della «societas bazallariorum et scollarium liberalium arcium
de Studio paduano» che nel 1262 approva la Cronaca di Rolandino da Padova) piuttosto che quello
parigino (incentrato sull’universitas magistrorum e maggiormente dipendente dall’autorità ecclesiastica,
che controllava lo Studio tramite la figura del cancelliere vescovile); ma sembra che quest’ultimo abbia
esercitato un’influenza sulla nascita dell’Ateneo pisano, formalmente sancita da Clemente VI nel 1343.
Nel secolo XIII venne utilizzato, per indicare un centro di studi superiori capace di attirare studenti da
tutta Europa, il termine Studium generale; e a questi Studi venne riconosciuto dal pontefice, nel 1291, il
potere di conferire la licentia ubique docendi, che estendeva la validità della licentia docendi (la laurea
con valore legale) già introdotta nei decenni precedenti (nel quadro di un processo di
istituzionalizzazione che implicò il superamento dell’iniziale spontaneismo) e conferita dall’autorità
ecclesiastica. A Bologna tale compito fu affidato nel 1219 da papa Onorio III non al vescovo o al suo
cancelliere, ma all’arcidiacono: come ha osservato Lorenzo Paolini, questo provvedimento non riflette
tanto una volontà di ingerenza della Chiesa (che appare invece più evidente verso la fine del secolo),
quanto piuttosto l’intento di favorire un superamento delle tensioni che negli anni precedenti avevano
caratterizzato i rapporti tra studenti, docenti ed autorità cittadine (le quali tentavano di sottoporre lo
Studio al proprio controllo). L’intervento papale bloccò le pressioni localistiche e salvaguardò il respiro
internazionale dello Studio, ma non eliminò il vaglio scientifico dei candidati da parte della commissione
esaminatrice, in quanto il compito dell’arcidiacono si limitava al conferimento del titolo finale nel quadro
di una cerimonia pubblica.
A Bologna la nascita di una vera e propria universitas scholarium, ben presto articolata in nationes, ma
chiamata a rappresentare unitariamente gli studenti di fronte alle autorità comunali, va collocata tra la
fine del XII e l’inizio del XIII secolo: dopo un’iniziale divisione tra studenti citramontani (italici) e
ultramontani, nel 1265 è attestata l’esistenza di ben tredici nationes ultramontane, che fissarono i criteri
di rotazione per l’elezione del loro rettore. Gli studenti d’oltralpe erano mediamente più anziani e
studiavano prevalentemente diritto canonico, mentre quelli italiani privilegiavano lo studio del diritto
civile. Se Parigi mantenne a lungo il monopolio sull’insegnamento universitario della teologia, nel 1360
Innocenzo VI istituì anche a Bologna la facoltà di teologia, che, inaugurata nel 1364, fu affidata al
controllo dell’arcivescovo, il quale assumeva la funzione di cancelliere. Tale facoltà svolse però un ruolo
non troppo incisivo, in quanto nell’insegnamento della teologia si affermarono ben presto gli Ordini
Mendicanti (già sostenuti dal Papato nella polemica che nel Duecento li aveva contrapposti a Guglielmo
di S. Amore ed ai maestri “secolari” dello Studio parigino). Nel 1304 il capitolo generale dei Domenicani
(che sin dagli inizi avevano stabilito rapporti di contiguità con gli ambienti universitari) stabilì che in ogni
provincia dell’Ordine sorgesse uno Studium generale; nel corso del Quattrocento gli Studia dei
Mendicanti vennero incorporati nelle Università, per cui le facoltà universitarie di teologia che
mantennero un’autonomia formale rispetto ad essi vennero di fatto marginalizzate.
Altre università furono fondate dall’imperatore, dal papa o da altri sovrani europei. L’iniziativa di
Federico II, che fondando l’Ateneo di Napoli sulla base del principio del monopolio statale
dell’insegnamento intendeva preparare i funzionari del Regno (per questo egli sottopose al proprio
controllo la nomina dei docenti), pose le premesse per una serie di fondazioni di atenei nazionali (Lisbona
1290, Praga 1347, Vienna 1365) o comunque controllati dai poteri regionali (Pavia 1389, Torino 1405,
Catania 1444). A partire dalla fine del ‘300 diversi Studi, come quello padovano, tentarono sempre più di
limitare il reclutamento dei docenti all’ambito locale, chiedendo come prerequisito per potervi insegnare
il possesso della cittadinanza, e concessero l’ingresso gratuito nel collegio dei giuristi ai soli discendenti
maschi di un dottore che ne avesse fatto parte: si verificò quindi un processo di graduale
nazionalizzazione degli Studia, mentre il corpo accademico tendeva a diventare una casta ereditaria. In
età umanistica si registra inoltre uno scollamento tra le Università e le Accademie umanistiche create dai
principi.
La libera ricerca razionale, che con Abelardo aveva caratterizzato la figura di un intellettuale orgoglioso
del proprio status ed almeno tendenzialmente autonomo rispetto al gruppo sociale di provenienza ed ai
diversi poteri, cedette il passo ad un potenziato ruolo politico del docente, concepito come educatore dei
sudditi e garante dell’ordine sociale e morale. Nel corso del XV secolo, che nonostante le sfumature
introdotte dagli studi più recenti segna indubbiamente una frattura cronologica, le università diventarono
quindi, come ha osservato J. Le Goff (Università e pubblici poteri, p. 187), «centri di formazione
professionale al servizio degli Stati» piuttosto che centri di lavoro intellettuale disinteressato. Carlo V
nominò (1530) conti palatini i dottori dello Studio bolognese, che però assunse sempre più una
connotazione cittadina e vide progressivamente attenuarsi quella dimensione internazionale che lo aveva
caratterizzato nei primi due secoli.
A Roma gli istituti di istruzione superiore furono a lungo rivolti esclusivamente al clero urbano (è il caso
della scuola capitolare lateranense e dello Studium Curiae istituito da Innocenzo IV, che non rilasciava
veri e propri titoli accademici). La prima vera università di Roma, lo Studium Urbis, matrice dell’attuale
Università «La Sapienza» (laicizzata nel 1870), venne istituita da Bonifacio VIII con la bolla In Supremae
praeminentia dignitatis (20 aprile 1303: «uno Studio generale dotato di tutte le facoltà, i cui maestri e
studenti godano di tutti i privilegi, libertà e immunità concessi ai dottori e agli studenti degli Studi
generali»), e rifondata, dopo un periodo di decadenza, nel 1406. Lo Studium Urbis (presso il quale si
tennero corsi di teologia, materie letterarie, diritto civile e canonico, quindi anche di medicina e
chirurgia) subì dalla metà del ‘500 la forte concorrenza del Collegio romano dei Gesuiti, innalzato al
rango di università da papa Paolo IV (1556); e venne sottoposto nel 1824 da Leone XII, con la bolla Quod
divina sapientia, ad uno stretto controllo da parte della Congregazione degli studi, che, composta da
cardinali e prelati, sovrintendeva ai programmi e all’organizzazione di tutte le università dello Stato della
Chiesa, con ampi poteri di censura. In età moderna sorsero altri Atenei pontifici, come l’Università
Urbaniana, che trae le sue origini dal Collegio Missionario di Propaganda Fide, fondato nel 1624 dal
prelato spagnolo J.B. Vives y Marja, con lo scopo di formare missionari secolari attenti alle culture dei
popoli extraeuropei: il collegio, affidato ai Teatini, fu elevato al rango di Pontificio Ateneo da papa
Urbano VIII con la bolla Immortalis Dei Filius (1 agosto 1627). In concomitanza con la soppressione della
Compagnia di Gesù (1773) Clemente XIV affidò le facoltà di teologia e di filosofia del Collegio Romano al
clero della diocesi di Roma; nel 1824 Leone XII le restituì ai Gesuiti, ma consentì al clero secolare che li
aveva sostituiti di continuare a dedicarsi all’insegnamento, e da questo nucleo sorse, sotto Pio IX,
l’Ateneo del Pontificio Seminario Romano, che con Giovanni XXIII (1959) divenne la Pontificia Università
Lateranense.
Il passaggio, nel corso dei secoli, da un’ampia peregrinatio di studenti (e talora di maestri) ad una
progressiva regionalizzazione del reclutamento studentesco favorì la diffusione dei collegi. I Gesuiti
fondarono scuole e collegi che talora divennero vere e proprie università: il loro inserimento a Bologna
provocò il progressivo scorporo di una parte delle discipline propedeutiche (come la grammatica) dal
controllo degli organi accademici, mentre non ebbe successo il tentativo di rilancio della Facoltà di
teologia dello Studio avviato dal card. Paleotti, per cui nel ‘700 Benedetto XIV inserì all’interno del
Seminario gli insegnamenti di teologia destinati alla formazione del clero secolare.
La soppressione delle cattedre di teologia nelle Università statali per iniziativa del ministro Correnti
(1873) relegò tale insegnamento negli atenei ecclesiastici e favorì quella divaricazione tra cultura “laica”
e cultura ecclesiastica che ha caratterizzato la storia dell’Italia unita.
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Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
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Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
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Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
VALDESI e la Chiesa in Italia
Autore: Stefano Cavallotto
Il movimento valdese nasce tra il XII-XIII secolo intorno alla figura di Valdo (†1206), commerciante di
Lione convertitosi nel 1170 ca. dopo una profonda crisi religiosa agli ideali evangelici della povertà e
della predicazione itinerante secondo il modello apostolico (Mt 10) nella scia peraltro dei movimenti
penitenziali e pauperistici. Intenzionato inizialmente a rinnovare la chiesa dal suo interno, Valdo ne viene
messo ai margini con l’accusa di eterodossia e ribellione. La stessa sorte tocca ai suoi seguaci (chiamati
all’inizio “poveri di Lione” e più tardi “valdesi”), i quali dopo una prima approvazione papale nel 1179
rifiutano la proibizione imposta dalla gerarchia di predicare senza autorizzazione, radicalizzando via via
in alcuni filoni la loro critica contro la chiesa istituzionale a sostegno di una «chiesa di laici» con culto e
sacramenti propri e in cui anche le donne possono accedere al ministero della predicazione. Condannati
come eretici, assieme ai catari, da Lucio III nel 1184 e dal IV Concilio Lateranense nel 1215 sotto
Innocenzo III, sono sottoposti a repressione e persecuzione da parte dei poteri civili e religiosi.
Paradossalmente, però, le difficoltà e gli attacchi inquisitoriali finiscono per accrescere il consenso
popolare nei loro riguardi e a far sì che nonostante il forzato ricorso alla clandestinità si espandano non
soltanto nella Francia meridionale e in Lombardia, ma un po’ in tutta l’Europa. Fra il XIV-XV secolo la
loro presenza appare lungo le valli alpine del versante piemontese fino all’Austria, all’Ungheria e
specialmente in Boemia, dove influenzano i seguaci di Jan Hus (†1415) e i Taboriti.
Le zone in cui però si radicano maggiormente sono il Delfinato, le Alpi Cozie, la Provenza, la Calabria, la
Puglia e la Germania meridionale. L’espansione del movimento valdese è dovuta principalmente al
carattere missionario della sua predicazione, ma anche alla radicalità degli ideali proposti in antitesi col
quadro ufficiale della societas christiana e alla natura popolare, fraterna, solidale e ugualitaria della
comunità. Centro della testimonianza valdese sino al Cinquecento sono la fedeltà al Vangelo
nell’obbedienza “letterale” agli insegnamenti di Gesù e la conseguente scelta di povertà della chiesa con
la rinuncia al potere politico e all’uso della violenza; testimonianza continuamente alimentata dai
predicatori itineranti, i “barba” o “barbetti” secondo un termine popolare che indica una persona di
riguardo, i quali visitando le comunità svolgono la funzione di maestri e curatori delle anime. A giudizio di
alcuni studiosi più che di un movimento unitario bisognerebbe parlare di “valdismi medievali” al plurale
(c’è anche un movimento di «Poveri cattolici» guidati da Durando di Osca [† dopo 1210] e sottomessi al
papa) e ciò anche a motivo del debole collegamento istituzionale che vige tra i diversi gruppi. Altri si
chiedono pure, se e fino a che punto i movimenti valdesi del Trecento e Quattrocento abbiano conservato
l’identità propria dei seguaci del “povero di Lione”. E’ indubbio comunque che la loro convinzione, come
si evince dalla letteratura valdese del tempo, è di essere rimasti in linea di continuità con i “figli di
Valdo”.
Ciò non impedisce alle comunità del Meridione francese e del Piemonte, costrette anche dalle
persecuzioni della fine del XV secolo, di aderire alla Riforma calvinista nel 1532 col sinodo di Chanforan.
Una data di svolta (di “morte” del movimento medievale secondo lo storico Gabriel Audisio) nella storia
dei valdesi che li porta a chiudere l’esperienza medievale e ad organizzarsi secondo il modello della [→]
Riforma ginevrina in chiese locali con predicatori-pastori propri per il culto e la celebrazione dei
sacramenti. Come minoranza protestante ormai fuori della clandestinità, seppur circoscritta nello Stato
Sabaudo, subisce assieme alle altre presenze evangeliche in diverse città dell’Italia gli attacchi della
Controriforma fino alla Convenzione di Cavour del 1561, con cui Emanuele Filiberto di Savoia sancisce il
libero esercizio del culto riformato-valdese in modo limitato e all’interno dei confini nelle Valli. Tali
comunità, formate da poche migliaia di persone, costituiranno per quasi tre secoli una specie di
avamposto del [→] protestantesimo europeo. Diversa è invece la sorte del valdismo in Calabria e in
Puglia, dove a causa delle persecuzione e della diaspora tende a scomparire, lasciando comunque
significative testimonianze di martirio, come quella del predicatore Giovan Luigi Pascale (†1560). Oltre
all’emarginazione, le comunità valdesi delle Valli sperimentano nella seconda metà del Seicento nuove
persecuzioni, dovute anche al progetto, mai abbandonato, dei sovrani francesi e piemontesi di riportarle
alla chiesa cattolica. Così nel 1655 subiscono il tremendo eccidio, noto come «Pasque piemontesi», ad
opera dell’esercito sabaudo (secondo fonti valdesi i morti sono oltre 1700); una strage, stigmatizzata con
forza dall’Europa protestante e che provoca l’intervento dell’Inghilterra di Oliver Cromwell.
Un’altra prova che mette in pericolo la stessa loro sopravvivenza è effetto del decreto emanato in
Piemonte nel 1686, su pressione di Luigi XIV, che l’anno prima ha revocato l’Editto di Nantes: Vittorio
Amedeo II di Savoia impone di scegliere tra l’abiura e l’esilio. La risposta dei valdesi è la resistenza
armata, conclusasi però con una disfatta e l’espatrio dei pochi sopravvissuti nei cantoni protestanti
svizzeri. Da Ginevra tre anni dopo tornano con un’operazione politico-militare spettacolare e coraggiosa
(«Glorioso rimpatrio») guidati da Enrico Arnaud (†1721) per occupare alcune valli delle Alpi piemontesi,
rimanendo però confinati in un’area intorno a Pinerolo, che verrà chiamata il «ghetto alpino», e subendo
ogni tipo di discriminazioni. La sopravvivenza delle comunità viene assicurata dagli aiuti dei protestanti
di tutto il mondo, in particolare dagli inglesi (notevole l’apporto del quacchero rev. William Allen [†1843]
e del rev. Stephen Gilly [†1855]). Negli anni Venti dell’800 i valdesi piemontesi «risvegliati» dalla
predicazione carismatica di Felix Neff (†1829) partecipano non senza rotture interne al rinnovamento
della vita protestante europea («Risveglio»).
L’affrancamento dalla ghettizzazione viene solo nel 1848 grazie alle “Regie Lettere Patenti”, con cui
Carlo Alberto pone fine a secoli di discriminazione, riconoscendo ai suoi sudditi valdesi i diritti civili e
politici. Un editto di tolleranza che comunque concede una libertà molto limitata, dal momento che «nulla
[è] innovato» per quanto riguarda la libertà religiosa, e perciò restano in vigore tutte le restrizioni
dell’età controriformista. Il Risorgimento vede i valdesi impegnati in prima linea: per loro è un’occasione
provvidenziale per “ridiventare italiani” e riprendere nello spirito del «grande Risveglio» la predicazione
e la diffusione della bibbia assieme ad altri gruppi protestanti («Liberi», «Fratelli», metodisti, battisti,
pentecostali). Col processo di unificazione dell’Italia e il conseguente conflitto tra Chiesa romana e Stato
si aprono nuove possibilità di evangelizzazione, specialmente nel Meridione, e di presenza con attività
accademiche e culturali (risale al 1855 la fondazione della Facoltà Valdese di Teologia, la più importante
istituzione culturale di tutto il Protestantesimo italiano) e nel settore dell’educazione e della carità con
molteplici opere sociali.
Nella seconda metà dell’Ottocento si intensifica inoltre, anche per ragioni economiche, l’emigrazione
valdese verso l’America Latina e gli Stati Uniti (esiste oggi una chiesa valdese di migliaia di membri
anche nel distretto del Rio de la Plata [Uruguay e Argentina]). Emarginati durante il ventennio fascista
(1922-1943) e protagonisti convinti nella Resistenza (1943-1945) con un notevole contributo di sangue (le
Valli sono uno degli epicentri più significativi della lotta antifascista), nel secondo dopoguerra i valdesi
avviano un duplice processo: di negoziazione per un riconoscimento statale e di unificazione con le altre
realtà evangeliche italiane, in linea con lo spirito ecumenico che pervade la cristianità evangelica dopo il
conflitto mondiale, e di dialogo “sincero” con le componenti più aperte della chiesa cattolica specialmente
a partire dal Concilio Vaticano II. Nel 1984 siglano un’Intesa con lo Stato italiano in applicazione dell’art.
8 della Costituzione; intesa che sarà integrata nel 1993 e perfezionata nel 2007.
Nel 1975-1979 assieme ai metodisti, con i quali sin dal 1948 hanno partecipato al Consiglio Ecumenico
delle Chiese, realizzano un patto d’integrazione, basato sulla medesima confessione di fede calvinista del
1655 e nel rispetto delle proprie identità, creando una struttura amministrativa comune: le due chiese si
presentano con il nome di «Chiesa Evangelica Valdese – Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste» con un
unico organo esecutivo, che è la «Tavola Valdese», e un Sinodo annuale “unito”, composto di laici e
pastori, dove si assumono le decisioni più importanti per la vita delle chiese e la loro testimonianza.
Anche con i battisti realizzano un accordo: dal 1990 la Chiesa Evangelica Valdese e l’Unione Cristiana
Evangelica Battista d’Italia si riconoscono reciprocamente e insieme pubblicano il settimanale “Riforma”.
La Chiesa valdese, che ha un’organizzazione di tipo presbiteriano e sinodale (i «presbiteri» – uomini e
donne – a cui è affidato il ministero della predicazione hanno il titolo di pastori; la comunità locale è
guidata da consigli di «anziani» eletti dai fedeli), fa propria la teologia calvinista con i principi del solus
Christus, sola fide, sola gratia, sola Scriptura, e conserva alcune tradizioni ecclesiastiche tipiche del
mondo riformato (matrimonio dei pastori, comunione col pane e vino, rifiuto del culto delle immagini e
del principio episcopale). Nel campo dell’etica sessuale e in quello politico-sociale non interviene con
disposizioni obbliganti i propri fedeli, mentre sull’aborto e l’eutanasia lascia aperto il dialogo con la
scienza in linea con gli orientamenti del gruppo di lavoro sui problemi di bioetica nominato dalla Tavola
Valdese.
A partire dagli anni Settanta del XX secolo dietro l’impulso ecumenico del Vaticano II si sono intensificati,
seppure con alti e bassi, i rapporti dei valdesi con la chiesa cattolica italiana. Se nell’orizzonte europeo la
Carta Ecumenica, sottoscritta a Strasburgo il 22 aprile 2001 dai rappresentanti della KEK e del CCEE e
accolta lo stesso anno dal Sinodo valdese, costituisce il documento più importante dell’incontro
istituzionale tra le due chiese, a livello nazionale uno dei documenti più rilevanti del dialogo ufficiale con
la Conferenza Episcopale Italiana è il Testo comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici
e valdesi o metodisti, approvato nel 1997, a cui ha fatto seguito, nel 2000, il Testo applicativo. Sempre
nel solco del nuovo clima ecumenico post-conciliare bisogna ricordare la traduzione interconfessionale
della bibbia in lingua corrente negli anni Settanta, promossa dalla Società Biblica in Italia. E ancora: una
rappresentanza della Commissione per il dialogo ecumenico ed interreligioso della C.E.I. è regolarmente
invitata quale ospite al sinodo che ogni anno le comunità valdesi italiane celebrano a Torre Pellice; così
come docenti valdesi insegnano in varie strutture universitarie pontificie, tra cui vale la pena menzionare
il ben qualificato Istituto di Studi Ecumenici s. Bernardino di Venezia. Cattolici e i valdesi, assieme ad
ortodossi ed ebrei, sono tra gli animatori dell’associazione laica ed interconfessionale Segretariato
Attività Ecumeniche che in Italia già dai primi anni Sessanta è impegnata a promuovere in sede locale e
nazionale con molteplici iniziative la formazione ecumenica delle diverse comunità cristiane. Frequenti e
significativi sono pure i rapporti e le collaborazioni tra le due confessioni in ambito locale nelle varie
diocesi della chiesa italiana.
Fonti e Bibl. essenziale
G. Audisio, Les «Vaudois». Naissance, vie et mort d’une dissidence (XII-XVI siècles), Claudiana, Torino
2000; G.G. Merlo, Valdesi e valdismi medioevali. Itinerari e proposte di ricerca, Claudiana, Torino 1984;
ID., Valdesi e valdismi medioevali. 2. Identità valdesi nella storia e nella storiografia. Studi e discussioni,
Claudiana, Torino 1991; ID., Valdo. L’eretico di Lione, Claudiana, Torino 2010; G. Spini, Risorgimento e
protestanti, Mondadori, Milano 1989 (nuova edizione Claudiana, Torino, 1998); Storia dei Valdesi: vol. 1
di A. Molnar, Dalle origini all’adesione alla Riforma (1176-1532), Claudiana, Torino 1974; vol. 2 di A.A.
Hugon, Dall’adesione alla Riforma all’emancipazione (1532-1848), Claudiana, Torino 1984; vol. 3 di V.
Vinay, Dal movimento evangelico italiano al movimento ecumenico (1848-1978), Claudiana, Torino 1980;
G. Tourn, I valdesi, La singolare vicenda di un popolo-chiesa, Claudiana, Torino, 2008; S. Peyronel
Rambaldi – M. Fratini, 1561. I valdesi tra resistenza e sterminio: in Piemonte e in Calabria, Claudiana,
Torino 2011; C. Maurizio, L’emigrazione dei valdesi in Sud America: 150 anni fa dalla Val Pellice a
Montevideo, Pinerolo (TO) 2008.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
VISITE AD LIMINA e la Chiesa in Italia
Autore: Angelo Turchini
Anche se le vicende storiche influenzano la realizzazione delle visite ‘ad limina’e la conseguente
trasmissione delle relazioni a Roma – fra 1853 e 1870 a Milano ad esempio ci fu una interruzione delle
relazioni, poi riprese con regolarità – non cambia molto per quanto concerne la pratica, che nella prassi
segue una tradizione secolare consolidata; anche se gli argomenti trattati restano sostanzialmente quelli
tradizionali e, in genere, quelli di carattere preminentemente istituzionale, la stesura talora sembra più
libera, al di là di schemi prestabiliti.
Alcune innovazioni circa le scadenze relative alla visita e alla relativa relazione arrivano con il CIC del
1917 (can. 340-342), che obbliga alla presentazione della relazione alla Sede apostolica ogni 5 anni (c.
340), adeguandosi al decreto A remotissima (31 dicembre 1909), con cui Pio IX aveva portato la scadenza
a cinque anni per i vescovi europei (e a dieci per gli extraeuropei), ribadendo l’obbligo di effettuare la
relazione quinquennale (can. 380) anche nel giuramento di fedeltà alla Sede apostolica prima della
consacrazione episcopale.
Il vescovo è poi tenuto a relazionare secondo il formulario e le modalità predeterminate dalla Sede
apostolica, con riferimento ai decreti Ad sacra limina del 28 febbraio 1959 e Ad Romanam Ecclesiam del
29 giugno 1975; quest’ultimo prevede anche che la relazione sia da inviare alla congregazione
competente in anticipo (da non meno di tre a sei mesi prima) per permettere una adeguata conoscenza
preliminare della realtà locale, utile in quanto finalizzata per eventuali colloqui; della Congregazione dei
vescovi si vede pure l’apposito Formulario per la relazione quinquennale (Città del Vaticano 1981).
Successivamente il CIC emanato nel 1983 (can. 399-400), affermando che “il vescovo diocesano è tenuto
a presentare ogni cinque anni una relazione al sommo Pontefice sullo stato della diocesi affidatagli,
secondo la forma e il tempo stabiliti dalla Sede apostolica” (can. 399), mette in primo piano la relazione
ovviamente connessa alla visita ‘ad limina’; infatti solo poi precisa che “il vescovo diocesano nell’anno in
cui è tenuto a presentare la relazione al sommo Pontefice… si rechi nell’Urbe per venerare le tombe dei
beati apostoli Pietro e Paolo e si presenti al romano Pontefice” (can. 400).
L’importanza della visita ‘ad limina’ viene inoltre focalizzata da alcune precisazioni, soprattutto nel
richiamo alla configurazione come giusta causa per l’assenza del vescovo dalla residenza in diocesi (can.
395, § 2) in quanto obbligo “personale” cogente, al punto da essere soddisfatto in caso di legittimo
impedimento (come da tradizione secolare consolidata) tramite vescovo coadiutore o ausiliare o
“sacerdote idoneo” (can. 400, § 2).
Poi, a partire dal CIC 1983, con la costituzione Pastor bonus del 28 giugno 1988 papa Giovanni Paolo II
ricorda la visita quinquennale e la relazione da farsi da parte dei vescovi (art. 28-35), sottolineando in
appendice l’importanza pastorale della visita ‘ad limina’, il nesso fra chiesa particolare e chiesa
universale, il consolidamento di una collegialis conformatio dei vescovi e insieme della comunione
gerarchica; infatti se il singolo vescovo è tenuto a visitare in pellegrinaggio il sepolcro degli Apostoli, ed è
possibile l’incontro fra vescovo e pontefice per un colloquio personale, le visite sono però organizzate per
gruppi episcopali della stessa conferenza episcopale che magari indirizzano istanze comuni alla Sede
apostolica; resta appieno la possibilità di contatto con le varie realtà della Curia romana per problemi,
questioni, richieste, chiarificazioni, informazioni, precisazioni.
Da ultimo un Direttorio per la visita ‘ad limina’ (Città del Vaticano 1988) significativamente emanato
nella stessa data della Pastor bonus da parte della Congregazione per i vescovi precisa le modalità di
adempimento.
Fonti e Bibl. essenziale
Cfr. V. Cárcel Orti, Nota storico giuridica, in Direttorio per la visita ‘ad limina’, Città del Vaticano 1988,
31-34; Id., Historia, derecho y diplomatica de la visita ‘ad limina’, Valencia 1990; F.M. Cappello, De
visitatione liminum, I-II, Roma 1912-1913; G. Ghirlanda, La visita ‘ad limina Apostolorum’, “Civiltà
cattolica”, 140/II, 1989, 359-382; E. Apeciti, Visita ‘ad limina’, in Dizionario storico della chiesa
ambrosiana, VI, Milano, 3978-3979; U. Dovere, La chiesa di Napoli nel 1860. Considerazioni in margine a
una relazione ‘ad limina’, “Campania sacra”, 26, 1995, 7-98.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
VISITE AD LIMINA e la Chiesa in Italia
Autore: Angelo Turchini
La visita ‘ad limina apostolorum’ in pellegrinaggio devoto è una prassi remotissima, affonda nei primi
secoli (tracce in una lettera indirizzata al papa dal concilio di Sardica del 343), legata al culto delle
reliquie degli apostoli Pietro e Paolo; papa Zaccaria (741-752) sarebbe stato il primo a imporla come
obbligo ai vescovi nel sinodo romano del 743; i vescovi più vicini dovevano recarsi a Roma, quelli più
lontani potevano assolvere all’obbligo tramite un chirografo (probabilmente una relazione sullo status).
L’omaggio al successore di Pietro, visitando le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo, e comunque la sede
apostolica, vedrà diverse fasi e momenti, compresa la fissazione della periodicità, variabile a seconda
della distanza da Roma (ogni anno, ogni due, se al di qua o al di là delle Alpi, e ogni tre o cinque, poi ogni
quattro, se oltremare) non ben definita ancora alla fine del XII secolo; Gregorio VII (sinodo romano del
1079) stabilisce che i vescovi, prima della consacrazione, giurino di fare una visita ‘ad limina’ annuale
(anche tramite delegati); poi il concilio Lateranense del 1215 (c. 26) prevederà la visita ‘ad limina’ del
vescovo (personalmente se possibile) per la conferma dell’elezione. Gregorio IX nel 1234 (costituzione
apostolica Rex pacificus) dà forza di legge all’obbligo del giuramento dal 1234 la visita ‘ad limina’ per
disposizione di papa Gregorio IX viene richiesta a tutti i vescovi, con frequenza proporzionata alla
distanza. Al di là dell’oggetto della visita propriamente detta (al papa e alle tombe degli apostoli) si fissa
un anche contenuto della visita, ovvero la presentazione dello ‘status’ della chiesa particolare,
esplicitamente ricordato nella tradizione canonistica già verso il 1265 (E. Ostiense), divenendo poi
opinione comune (e non considerando il pagamento di censi dovuti alla sede apostolica).
Per soddisfare all’atto dovuto e universalmente previsto dalla bolla Romanus pontifex emanata da papa
Sisto V il 20 dicembre 1587, il vescovo si deve recare a Roma ogni tre anni (almeno per le diocesi
italiane) per prestare il dovuto omaggio, e presentare, personalmente o tramite procuratore specifico o
delegato, le ‘relationes ad limina’ ovvero le relazioni sulla diocesi alla competente Congregazione romana
(in questo caso quella detta del Concilio) perché potesse rendersi conto della situazione delle diocesi,
stimolare l’attività dei vescovi, risolvere tutti i dubbi e le difficoltà; la norma verrà poi incorporata nel
Pontificale romano. Le relazioni da allora prodotte tendono a dare un resoconto, una descrizione
completa della diocesi, sia di quanto sotto il controllo e giurisdizione episcopale sia di quanto esente, e
sono scritture molto utili per conoscere la vita e la storia delle diocesi, permettendo di cogliere la
complessità e la diversità delle istituzioni presenti in chiave sincronica e diacronica, offrendo soprattutto
dati pertinenti alle istituzioni ecclesiastiche e alla loro organizzazione, con precisi riferimenti ad un
quadro d’insieme della realtà (sia pure limitata ad alcuni ambiti, mentre vorremmo sapere molto di più
per tanti altri), percepita e selezionata dal vescovo in ottemperanza ad un obbligo previsto con
tempistica, formalità, contenuti ben determinati. Esse sono conservate e disponibili nell’Archivio Segreto
Vaticano, nel fondo della Congregazione del Concilio.
Il problema di una sollecitazione alla visita era già stato presente a C. Borromeo che ne aveva disposto le
modalità tematiche nel VI concilio provinciale del 1582, relazionando con particolare riguardo sullo stato
della chiesa, sulla disciplina del clero e sul progresso dei fedeli ‘in via Domini’; poi papa Gregorio XIII sul
finire del pontificato aveva elaborato un questionario apposito probabilmente rivolto a questo fine, e
incentrato sulla attività dei vescovi: non è qui il caso di soffermarvisi se non per un doveroso richiamo ai
suoi Capita rerum quarum rationem…nunc ab episcopis petit; ma Sisto V non sembra offrire precise
istruzioni in proposito; alcune formule, come una “formula ultima episcoporum per se visitantium”, e
un’altra “formula episcoporum visitantium limina apostolorum per procuratorem”, peraltro compariranno
nel 1588. Successivamente interviene ancora papa Benedetto XIII proponendo nel 1725 un questionario
molto ricco, in cui ai punti principali sullo stato della chiesa materiale (I.), sul vescovo (II.), sul clero
secolare (III.) e regolare (IV.), sulle monache (V.), sul seminario (VI.), sugli oneri delle messe, le
confraternite e i pia loca (VII.), sui fedeli (VIII.), richieste, quesiti, problemi (IX.) segue una serie
articolata e precisa di paragrafi oggetto di ulteriore richiesta informativa; seguirà un intervento di
Benedetto XIV con la costituzione Quod sancta del 23 novembre 1740. Le ‘relationes’ stavano con
l’Archivio del buon governo sino al 1767, trasferite quindi in un’altra stanza sotto la terrazza di Pio IV, e
riordinate prima del trasferimento a Parigi e il ritorno in Vaticano.
Uno schema ideale prevede (anche se l’ordine non è rispettato nella sequenza) nascita e sviluppo della
diocesi, la diocesi, amministrazione della medesima (vicario e simili), cattedrale e residenza episcopale,
capitolo della cattedrale, collegiate, monasteri maschili e femminili, fondazioni religiose, pia loca e
confraternite, parrocchie, fedeli, clero, azione episcopale, residenza e attività pastorale (sinodi, visite,
clero, liturgia, seminario e scuole e simili. Nulla sfugge nella relazione al controllo episcopale, anche gli
esenti sono oggetto di un discorso da parte di chi conosce bene la realtà diocesana da un punto di
osservazione eccezionale, ma spesso si riscontra genericità, magari circa l’organizzazione regolare, e
quella caritativo assistenziale; naturalmente si presta particolare attenzione ai problemi maggiormente
avvertiti.
Le relazioni, sfruttate ancora episodicamente nella ricerca delle realtà diocesane, magari erroneamente
considerate inadeguate alla conoscenza della vita religiosa e istituzionale, possono essere sommarie o
analitiche, più o meno ben strutturate, fino a presentare la trattazione divisa in capitoli, quindi in
paragrafi, a loro volta ulteriormente articolati per punti (la cosa è agevolata avendo a modello gli schemi
emanati), per chiudere con una serie di domande o postulati, o quesiti; tuttavia anche nella loro
asciuttezza e talvolta secchezza schematica presentano un quadro documentario notevolmente ricco e
articolato, offrendo articolate forme di presenza della chiesa nel contesto della società. Nella loro
attendibilità gioca la persona del vescovo estensore, l’attenzione, l’impegno, la conoscenza.
La struttura in genere segue un ordine definito, che parte dalla descrizione della città, per passare a
parlare dell’episcopato (in realtà offrendo un breve curriculum del vescovo e della sua attività),
presentando poi il territorio diocesano, la struttura istituzionale e la popolazione nel suo complesso; si
passa poi alla cattedrale, alla prestazione del culto e dei divini offici nella medesima, quindi alle
parrocchie con particolare riguardo all’amministrazione dei sacramenti, per venire alla presentazione dei
loca pia, delle case religiose presenti (monasteri maschili e femminili); infine si segnalano alcuni casi
particolari, prima di concludere in generale sulla diocesi nel suo complesso, presentando eventuali
questioni per cui in qualche modo si richiede l’intervento della S. Congregazione del concilio. Nella
estensione non mancano aspetti di ripetitività quando viene assunto il modello della visita precedente non
solo per lo schema, ma anche sotto l’aspetto lessicale (con intere frasi e parti del discorso, per punti non
problematici) che va ben oltre la struttura dei temi affrontati; importano anche valutazioni talora affidate
a un aggettivo o a un avverbio.
Come viene recepito dai vescovi l’obbligo della presentazione della relazione sulla diocesi? E’ evidente
una lettura pastorale, e non burocratica, dell’atto, per quanto incanalato in forme e modalità
determinate, e anche ripetute; la cosa non viene spesso esplicitata dal vescovo estensore e, quando ciò
accade compare generalmente in occasione d’inizio episcopato. Spesso i vescovi ripercorrono
rapidamente la loro carriera, scrivendo il loro curricolo a partire dalla nomina, sottolineando tuttavia di
osservare la residenza, di espletare le visite pastorali e via dicendo; una volta esposto lo stato materiale
della diocesi (ovvero la struttura istituzionale) si passa a descrivere la parte formale del clero ed i
costumi della popolazione e la valutazione talora volge al panegirico. Dalle relazioni traluce la coscienza
dei doveri episcopali, la percezione soggettiva dei problemi, e i loro riflessi pastorali, e insieme la
limitazione dei medesimi ad una sfera precisa, di tipo amministrativo, generalmente (e
obbligatoriamente) rivolta a tutta la diocesi; del resto ci si rifà ai dettami del concilio di Trento, assunti
come principi motori delle dinamiche pastorali, e della stessa coscienza episcopale.
Le relazioni, una volta accolte, vengono esaminate negli uffici curiali romani, che vi lasciano tracce e
appunti, da sottolineature di richiamo marginale su alcuni aspetti o punti problematici o anche
apprezzabili; in qualche caso si procede a sottolineature, o ancora ad annotazioni con parentesi quadre; a
margine ancora compare qualche nota del lettore che probabilmente si appunta dubbi ed eventuali
quesiti di qualche problema da affrontare e discutere, evidentemente meritevole di approfondimento
ulteriore, da trattare o sottoporre a parere alla Congregazione (talora anche il referente), comunque
meritevoli di risoluzione adeguata, tanto più se il vescovo chiede lumi sul da farsi e via dicendo. A tale
riguardo non mancano annotazioni del lettore curiale con qualche riferimento giuridico richiamando
risoluzioni già adottate altrove, atto a costituire evidentemente la base della risposta alla richiesta
esplicitamente posta nel corso della relazione; si apre una pratica e diverse scritture possono accrescere
il fascicolo della visita.
Fonti e Bibl. essenziale
Per l’epoca precedente al Tridentino mi limito a segnalare J. Cottier, Eléments nouveauz des normes de la
visite “ad limina” et elur valeur juridique respective, des Décrétales au concile de Trent, “Ephemerides
juris canonici”, VIII, 1952, 1; poi cfr. La sacra Congregazione del Concilio. Quarto centenario della
fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964; per il questionario, edito in fine al
concilio romano del 1725, rinvio ad A. Lucidi, De visitatione sacrorum liminum seu instructio S. C.
Concilii S. M. Benedicti XIII super modo conficiendi relationes de statu ecclesiarum exposita et
illustrata…, I, 1-2, Romae-Parisiis-Tauruni 1866 (2a ed. 1878) (riproposto in F.L. Ferraris, Bibliotheca
canonica iuridica moralis theologica nec non ascetica polemica rubricistica historica, V, K-O, Romae
1889, 165-168); si v. M. Rosa, Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Bari 1976, 1774 (Geografia e storia religiosa per l’Atlante storico italiano, già edito in “Nuova rivista storica”, 1969),
poi M. Chiabò, C. Ranieri, L. Roberti, Le diocesi suburbicarie nelle “visitae ad limina” dell’Archivio
segreto vaticano, Città del Vaticano 1988, quindi A. Turchini, Lo stato materiale e spirituale della diocesi
di Pesaro nelle ‘visite ad limina’, secoli XVII-XVIII, in Pesaro dalla devoluzione all’illuminismo, IV, 1,
Venezia 2005, 31-49, e Le relazioni “ad limina” della diocesi di Catania (1595-1890), Catania 2009; infine
v. gli importanti contributi di D. Menozzi, Per l’utilizzazione delle “relationes ad limina” in sede storica.
L’esempio di Reggio Emilia e Guastalla, in Presiedere la carità. Studi in onore di mons. G. Baroni,
vescovo di Reggio Emilia e Guastalla, a c. di E. Mazza, D. Gianotti, Genova 1988, 407-415 e, dello stesso
autore, L’utilizzazione delle “relationes ad limina” nella storiografia, “Storia e problemi contemporanei”,
V, 1992, n. 99, 135-156.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
VISITE APOSTOLICHE e la Chiesa in
Italia
Autore: Maurilio Guasco
Interrotte nel corso del XVII e XVIII secolo, riprese in qualche occasione nel periodo della Restaurazione,
le visite apostoliche divennero nuovamente uno strumento importante nel corso del XX secolo,
soprattutto come elemento di preparazione della riforma di alcuni settori della Chiesa, o per verificare
l’applicazione di documenti romani particolarmente significativi. Dopo le timide riprese fatte da Leone
XII, Gregorio XVI e Pio IX, sarebbe stato soprattutto Pio X a ricorrere a tale strumento di governo fin dai
primi anni del pontificato e in vista di quelle ampie riforme che intendeva introdurre nella curia romana e
nella vita delle diocesi. Pio XI poi vi avrebbe fatto ricorso in vista o dopo la Costituzione Deus scientiarum
Dominus (1931) che avrebbe provocato una profonda trasformazione nella formazione del clero, causa la
quasi totale soppressione delle facoltà teologiche nei diversi paesi.
Era stato Leone XIII, tramite la Congregazione del Concilio, a prevedere nel 1902 una visita apostolica,
che venne però realizzata da Pio X in vista delle riforme che intendeva attuare già nei primi anni del suo
pontificato; una visita che avrebbe coinvolto le diocesi e i seminari e che sarebbe proseguita negli anni di
Benedetto XV, anche se con criteri modificati essendo nata la Congregazione dei seminari e delle
Università Cattoliche. Non vi è d’altronde da stupirsi se si prende atto che i criteri e la nomina dei
visitatori risentissero dei ruoli, e anche del potere, che le singole Congregazioni e i loro Prefetti avevano
in base agli orientamenti dei pontefici e ai ruoli attributi alle Congregazioni stesse. In questo senso, le
Visite decise da Pio X avevano anche come scopo di preparare da un lato una riforma che ribadisse
alcune linee ecclesiologiche proprie del pontefice, e dall’altro tenessero conto del clima di repressione
del modernismo, che per Pio X rappresentava il pericolo assoluto, la sintesi di tutte le eresie, secondo la
definizione che ne aveva dato lo stesso pontefice. Per dare una certa uniformità alle diverse visite, la
Congregazione del Concilio aveva anche preparato delle “Regole per la Visita Apostolica” e un
“Regolamento personale e questionario del visitatore apostolico”.
Benedetto XV avrebbe poi fatto ampio ricorso alle visite apostoliche concernenti diverse istituzioni e
diocesi italiane. Lo stesso futuro Pio XI, mentre era Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, nel
1918 era stato inviato in Polonia come visitatore apostolico. Divenuto papa, Pio XI nel 1931 avrebbe
istituito la carica di “visitatore apostolico” per i seminari italiani, attribuendogli dei poteri molto ampi,
mentre avrebbe fatto spesso ricorso a visite apostoliche soprattutto nelle Chiese dell’Europa Orientale,
ma anche in diocesi di altri paesi.
Nel corso degli anni ’20 aveva inviato visitatori apostolici nei seminari e nelle facoltà teologiche, spesso
presenti nei seminari. Avrebbe così potuto constatarne la vita difficile, nominando quindi una
commissione che avrebbe preparato la Costituzione Deus scientiarum Dominus, che avrebbe
determinato, come è già stato ricordato, la soppressione di molte facoltà teologiche. Dopo la Costituzione,
Pio XI avrebbe indetto altre visite apostoliche, che avevano il compito di verificare l’attuazione di quella
Costituzione che aveva sollevato non poche riserve, per esempio in Spagna.
La prassi delle visite è rimasta in vigore anche in anni recenti, promosse spesso dalle Congregazioni
romane e rivolte ad aspetti specifici delle singole Chiese locali. Lo stesso Giovanni Paolo II vi ha fatto
ricorso, anche se spesso, causa la delicatezza di certe visite, le ragioni e le indicazioni fornite alla Santa
Sede sono rimaste segrete.
Fonti e Bibl. essenziale
L. Bedeschi (ed.), L’antimodernismo piemontese. b) Relazioni dei visitatori apostolici, in “Fonti e
Documenti”, n. 9, 1980, 55-95 (nei numeri successivi della rivista si trovano altre relazioni concernenti
diverse regioni); V. Cárcel Ortí, Informe de la visita apostolica a los seminarios españoles en 1933-1934.
Edicion del Informe y estudio sobre “La formacion sacerdotal en España (1850-1939)”, Salamanca 2006;
F. Iozzelli, Roma religiosa all’inizio del Novecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1985; G.
Tuninetti, Facoltà teologiche a Torino. Dalla Facoltà universitaria alla Facoltà del’Italia Settentrionale,
Piemme, Casale Monferrato 1999; G. Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della
società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X
(1903-1914), Herder, Roma 1998.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
VISITE APOSTOLICHE e la Chiesa in
Italia
Autore: Maurilio Guasco
Il termine assume un significato specifico solo con il Concilio Tridentino, e possiamo dire che i papi vi
fanno ricorso con una certa frequenza nel corso dei secoli XVI e XVII. Le ragioni sono le più diverse. Il
pontefice può nominare un suo visitatore che indaghi e presenti una relazione alla Santa Sede quando in
certe zone si verifichino situazioni di irregolarità o di disubbidienza a determinate regole. Oppure può
decidere di estendere a intere regioni ecclesiastiche una visita o per verificare se e come viene applicata
una determinata riforma, oppure in vista di meglio programmare proprio quella riforma che si sta
preparando. Per questo le visite possono essere ordinate direttamente dalla Santa Sede, ma più sovente
vengono indette da una Congregazione romana: in questo caso il visitatore riceverà un mandato connesso
con gli aspetti della vita di una diocesi o di una regione ecclesiastica dipendenti dalla Congregazione che
decide la visita. Si tratta, come precisa il canone 343 del Codice di Diritto Canonico del 1917, e
attribuendo alla visita apostolica gli stessi scopi connessi con la visita pastorale, di conservare “sanam et
orthodoxam doctrinam”, di difendere i buoni costumi e correggere quelli cattivi.
Non esiste una specifica normativa che regoli tali visite. Esse infatti, come viene ricordato nei documenti
romani, sono occasionaliter decretatae, il visitatore quindi agisce nei modi e negli ambiti che sono
specificati dal mandato ricevuto, che si estende ai vari aspetti indicati dal documento con cui la visita è
stata decisa dall’autorità romana. Si distinguono dalle visite pastorali, termine con il quale vengono
indicate le visite che il vescovo compie periodicamente nella sua diocesi.
Sarebbe però riduttivo indicare con tale termine solo il modello messo in atto dal Concilio Tridentino, dal
momento che già in epoca precedente alcuni Concili e Sinodi hanno parlato di visite da compiersi in
alcune diocesi o in alcuni monasteri, e non solo per ordine di qualche vescovo o di qualche abate, ma
anche facendo riferimento esplicito alla Sede apostolica.
Troviamo ad esempio un cenno alla visita canonica da parte di un arcivescovo o metropolita nel Concilio
Costantinopolitano IV (869-870), che condanna gli abusi che il visitatore può compiere proprio con la
scusa della visita canonica, mentre nel Lateranense III (1179) si danno delle precise norme perché tali
visite vengano svolte con una certa sobrietà, per non gravare eccessivamente sulle chiese visitate, al
punto da costringere i sudditi “a vendere le suppellettili della chiesa, mentre i viveri accantonati per un
lungo periodo sono consumati in breve tempo”.
Il Lateranense IV (1215) dà invece disposizioni perché “siano nominate persone religiose e prudenti” che
visitino le abbazie sia maschili che femminili del regno o della provincia avendo come compito di
“correggere e riformare ciò che ha bisogno di correzione e di riforma”, in modo che “i visitatori al loro
arrivo vi trovino più cose da lodare che da riformare”. Il secondo Concilio di Lione (1274) ricorderà la
proibizione per i visitatori di ricevere sotto qualsiasi forma del denaro o dei doni, dovendo invece
accontentarsi della semplice ospitalità. Il Concilio di Vienna (1311-1312) parla invece delle visite ai
monasteri femminili facendo esplicito riferimento all’autorità pontificia. Questi infatti riceveranno “la
visita degli ordinari locali in nome della loro personale autorità, se essi non sono esenti, in nome
dell’autorità apostolica se fossero esenti”.
Sarà poi il Concilio di Trento (1545-1563) a dettare una serie di regole sulle visite apostoliche, che man si
differenzieranno dalle visite pastorali, di pertinenza degli ordinari del luogo. Tale visita verrà svolta dai
vescovi “in virtù dell’autorità apostolica” e in certi casi particolari “anche in qualità di delegati della Sede
apostolica”.
Gli stessi vescovi d’altronde potevano diventare oggetto della visita apostolica. Il Concilio di Trento infatti
era orientato, causa i problemi sollevati dalla Riforma, a una certa centralizzazione romana, e soprattutto
voleva creare strumenti che garantissero che nelle varie diocesi si sarebbero attuati i provvedimenti
decisi dallo stesso Concilio. La visita apostolica diventava così anche uno strumento di controllo sulla
attuazione delle riforme, e vi avrebbe fatto ricorso con una certa regolarità Gregorio XIII, successore di
Pio V anche nella volontà di far applicare le riforme del Tridentino.
Tale strumento però, utilizzato con una certa regolarità nel corso del XVI secolo, venne di fatto
abbandonato nel corso del XVII secolo, al di là di qualche caso considerato grave. Fu solo negli anni della
Restaurazione che i papi fecero nuovamente ricorso alla visita apostolica. Leone XII, ad esempio, fece
svolgere una visita apostolica tra il 1824 e il 1828. Si trattava però, e questo vale per altre visite
apostoliche concernenti la diocesi di Roma, più che di una visita apostolica, di una visita pastorale. Il
termine deriva dal fatto che il papa viene indicato come il dominus apostolicus, e quindi anche la visita
pastorale alla diocesi viene definita visita apostolica.
Negli anni della Restaurazione, la Chiesa stava vivendo una situazione parzialmente simile a quella
vissuta nei decenni successivi alla Riforma, dopo la bufera napoleonica e mentre gli Stati si stavano
lentamente riorganizzando. Era dunque necessario avere a Roma una panoramica delle diverse
situazioni, e l’Italia, causa la presenza di Stati con culture e amministrazioni civili molto diverse, così
come i territori pontifici, avevano particolarmente bisogno di tale verifica.
Fonti e Bibl. essenziale
G. Alberigo, L’episcopato nel cattolicesimo post-tridentino, in “Cristianesimo nella storia”, VI (1985), 7191; Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le Scienze religiose di Bologna,
Dehoniane, Bologna 1991; L. Fiorani, Le visite apostoliche del Cinque-Seicento e la società religiosa
romana, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 4 (1980), 53-148; S. Pagano, Le visite apostoliche a
Roma nei secoli XVI-XIX. Repertorio delle fonti, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 4 (1980),
317-464; A. Prosperi, Riforma cattolica, controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia
religiosa, II, L’età moderna, a cura di G. De Rosa e T. Gregory, Laterza, Roma-Bari 1994, 3-48; Visita
apostolica e decreti di Carlo Borromeo alla diocesi di Brescia, a cura di A. Turchini et alii, “Brixia sacra.
Memorie storiche della diocesi di Brescia”, 6 voll., Brescia 2003-2007.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
VISITE PASTORALI e la Chiesa in Italia
Autore: Angelo Turchini
Il XIX e il XX secolo non sono parchi di visite pastorali, occorre piuttosto studiarle più di quanto sia stato
fatto, per uno studio non solo della vita sociale e religiosa, centrata sempre più sulla parrocchia sia al
Nord che al Sud del nuovo stato unitario, una realtà non chiusa ai moti della società civile e religiosa,
riflettendosi in esse la storia della chiesa calata nei contesti locali, presentando magari situazioni in lenta
evoluzione, andando al di là di mode elevate a criterio di scienza e di verità, ritornando alle fonti che
obbligano all’umiltà della ricerca.
In questo senso G. De Rosa, riferendosi al Veneto dopo l’unità, annota: “L’annessione del ’66, liberando
parroci e vescovi dal legame di una stretta sudditanza al monarca e limitando la proprietà ecclesiastica,
scristianizzò il popolo o non piuttosto mise in luce le insufficienze di un’educazione religiosa protetta?
Come vide e visse il clero, che aveva responsabilità di cura d’anime, questa crisi civile, che sembrò
infirmare anche l’autorità religiosa? E, all’inverso, fu cristianizzazione la corsa affannosa a recuperare le
masse, portando politica, economia, ideologia in chiesa?” (De Rosa, 331).
Si ricalca magari il modello di visite precedenti, si segue la tradizione che vede la visita locale e
personale (più i decreti), ma al di là della disposizione del materiale, che dipende sempre dalla
personalità e dalla sensibilità del vescovo, si affrontano o si toccano contenuti nuovi. Si evidenzia
attenzione alle specifiche, effettive necessità del momento, agli obbiettivi generali e tradizionali calati
nelle realtà concrete, adeguati ai problemi contemporanei.
Nel 1917 si ha la pubblicazione del CIC, con cui cambia la struttura della visita, con un questionario
abbastanza fisso e determinato: il vescovo visiti la diocesi almeno in parte ogni anno e per intero una
volta ogni cinque anni – di fatto con diverse tornate di visita, con un inizio e una fine, si tratti di una visita
generale (uffici e persone in genere) o speciale (con oggetto particolare) – guardando a quanto serve
all’esercizio pubblico del culto, ai benefici, alle fondazioni e ai legati pii, ai beni ecclesiastici, alle cause
pie, ai luoghi sacri pubblici e semipubblici, luoghi pii (più diritto di resa dei conti can. 1492, §1), non
escludendo gli esenti (i regolari come da tradizione) per quanto concerne la cura delle anime, e gli ordini
femminili.
Il vescovo, tramite questo strumento di inchiesta sulle parrocchie e sulla vita religiosa della diocesi,
prende conoscenza diretta, mediante ispezione, del territorio a lui affidato, per provvedervi
adeguatamente (can. 343),emanando eventuali decreti e precetti; ma nella visita il pastore deve
procedere in forma paterna per ciò che riguarda l’oggetto della visita; il questionario eventualmente
predisposto diventa più che per il passato come uno strumento di lavoro per i parroci disposti ad
interrogarsi sui più diversi aspetti della vita parrocchiale, dalla statistica socio-religiosa alla prassi
sacramentaria dei fedeli, dal regime beneficiale al patrimonio artistico, dalle fabbricerie alle associazioni,
dalla catechesi degli adulti e organizzazione della dottrina cristiana per i bambini, alle devozioni ed opere
di pietà e via dicendo.
Dopo il concilio Vaticano II cambia l’attenzione non tanto all’elemento gerarchico (al rapporto esistente
fra vescovi e sacerdoti in cura d’anime andando oltre una visione più interna) quanto al modo di sentire la
vita religiosa da parte del popolo dei fedeli nel suo rapporto continuo, amministrativo e comunitario, con
il pastore.
Così nel CIC del 1983 si ricordano i molteplici scopi della visita, ribadendo quelli consolidati della
tradizione: sono soggetti alla visita ordinaria le persone (chierici e laici), istituzioni come le scuole
cattoliche, gli oggetti e i beni ecclesiastici, i luoghi sacri (chiese, oratori, cimiteri), mentre la visita ai
membri di istituti religiosi di diritto pontificio e alle loro case può avvenire solo nei casi espressamente
previsti (can. 397); si aggiunge inoltre che la visita offre materiale per compilare oggettivamente la
relazione ‘ad limina’ quinquennale, con cui stabilisce un nesso formale.
Ma soprattutto la visita diventa quasi un atto finale di un lavoro preparatorio precedente (magari anche
con Carlo Borromeo), di un rinnovato impegno del clero parrocchiale per la riorganizzazione della
parrocchia in funzione dell’incontro visitale; la preparazione diventa importante più che gli atti seguenti
ai fini di una rinascita religiosa e morale, di una mobilitazione di energie, come atto di rilievo comunitario
pubblico maggiore che per il passato.
Fonti e Bibl. essenziale
Cfr. G. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, Napoli 1971 (il saggio di ordine generale Introduzione
alle visite dei vescovi veneti nell’Ottocento, già in La visita pastorale di Ludovico Flangini nella diocesi di
Venerzia, 1803, a c. di B. Bertoli, S. Tramontin, Roma 1969) e la collana Thesaurus ecclesiarum Italiae
recentioris aevi [sec. XVIII-XX], Roma 1976 ss.
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Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
VISITE PASTORALI e la Chiesa in Italia
Autore: Angelo Turchini
Fin dalle origini la visita è ritenuta uno dei più gravi obblighi del ministero sacerdotale, a partire dalle
testimonianze degli apostoli Pietro che “circuibat civitates et vicos ut confirmaret fideles” (At 9,32), e
Paolo. Attestata dal IV secolo, l’istituzionalizzazione dell’istituto giuridico della visita si ha nel VI secolo:
per la prima volta un concilio provinciale, quello di Terragona del 516, formula l’obbligo delle visite (can.
8), con riferimento ad un ordine di antica consuetudine, generalizzata un po’ ovunque, specialmente in
Italia sotto il pontificato di Gregorio magno e in Francia. La disposizione del 516, ripetuta e meglio
determinata dal concilio di Toledo del 633, verrà riproposta nel Decretum di Graziano (1150 circa), per
entrare poi nelle compilazione autentiche.
Visita pastorale e sinodo nel IX e X secolo si articolano come organizzazione di controllo; l’obbligo di
visita è imposto ai vescovi dai capitolari carolingi (capitolare mantovano del 781 ad esempio); anche se
non sono rimasti verbali di visita sino al X secolo, non mancano i formulari di visita, testimoniati dal De
synodalibus causis et de disciplinis ecclesiasticis (906) di Reginone di Prum, opera inspirata dai Capitula
di Incmaro di Reims (845-882), e poi ripresa da Burchard di Worms (1025).
Non mancano litigi fra vescovi e arcidiaconi, fra metropoliti e suffraganei per applicazioni, periodicità,
modalità dei controlli all’interno della diocesi, con concorrenza fra visitatori per l’esercizio del diritto, con
relativa riscossione di tributo (cfr. Extravagantes c. 6 de censibus, e le decretali per lo più limitate alla
repressione di abusi), giacché il vescovo itinerante, come il sovrano, ha dei costi /ovvero diritto “de gite”/;
Innocenzo IV nel 1246 promulga la costituzione Romana Ecclesia, contenente un trattato giuridico sulla
visita pastorale; nel 1270 se ne sottolinea l’importanza nel concilio Lateranense 4 (cap. 12); la visita poi
diventa un dovere, ma privilegi ed esenzioni non permettono libera giurisdizione episcopale su persone
fisiche e morali, e non manca chi cerca di approfittarne per usurpare diritti.
Visite in diocesi della penisola sono attestate fin dal XIII secolo, per diventare un po’ più diffuse nel XIV e
più frequenti nel XV, connesse ad una nuova sensibilità episcopale e ad un sentimento di riforma della
chiesa; non di rado le visite pastorali nel basso medioevo seguono un questionario, comunque
ricostruibile, ad esempio per le diocesi di Pisa, Milano, Piacenza; si effettuano inchieste amministrative,
disciplinari e riformatrici e qualche volta il visitatore, in preciso contesto, è anche giudice su questioni
giuridiche e patrimoniali, attuando la cosiddetta visitatio synodalis, come farà ancora G. M. Giberti a
Verona poco prima del concilio di Trento. Un Ordo ad visitandas parochias nel Pontificale di G. Durand,
testo liturgico, ma solo con il Pontificale romanum di Clemente VIII (1595, reso obbligatorio nel 1596) si
ha una procedura cerimoniale uniforme, per cui il cerimoniale di visita viene ben definito, con ragguagli
sull’accoglienza, la procedura, la processione alla chiesa con l’assegnazione dei posti, i riti all’ingresso e
all’altare con benedizione, quindi sulla predica del visitatore, con i motivi della venuta (inchiesta, verifica,
giudizio, consiglio) durante la messa; nota delle confraternite, ospedali e luoghi pii e dell’amministrazione
della cresima.
Dopo la conclusione del concilio di Trento, la visita pastorale diventa dovere personale del vescovo, da
effettuarsi obbligatoriamente ogni due anni, come importante strumento di riforma ecclesiastica, nei
riguardi del clero come dei fedeli. La visita pastorale secondo il concilio (Sess. XXIV, de ref. cap. 3)
intende soddisfare a diversi scopi: in primo luogo indurre e proporre una dottrina pura e ortodossa,
conservare una buona prassi di vita cristiana, animare i fedeli (“populum”) con esortazioni ed
ammonimenti, stimolandoli alla religione, alla collaborazione sociale (“ad…pacem”), alla purezza di vita;
in altri termini si propone una acculturazione religiosa e comportamentale ad extra e ad intra, in chiave
di disciplinamento morale e sociale, ben illustrato dalla teoria e soprattutto nella prassi visitale di
personaggi influenti non solo in loco, come Carlo Borromeo a Milano. Dopo il concilio di Trento (al di là di
un’ottica tridentinocentrica degli studi) si assiste ad una forte mutamento nella prassi visitale, ben
rilevabile dalla documentazione sedimentata negli archivi diocesani: la visita tocca la città e la diocesi,
può esplicarsi in diverse tornate di visita e vede l’emanazione di decreti, intervenendo conseguentemente
sulla realtà; per quanto limitata, essa offre un quadro specifico e nuova è la generalizzazione diffusa della
visita, la sua rivalutazione, la sua formalizzazione come dovere personale del vescovo, come il suo
costante (parziale) adeguamento alle situazioni del tempo. Importa l’azione della visita, oltre lo
svolgimento della medesima, il cui contesto naturale è pastorale e insieme amministrativo, in una precisa
realtà istituzionale investigata.
Come è noto, nella pratica della visita, si hanno alcuni momenti fondamentali: oltre il momento della
preparazione, si ha quello dell’ingresso come incontro fra comunità e visitatore alla scoperta del
territorio; segue la ‘visitatio rerum’ e la ‘visitatio hominum’ (con particolare riguardo ai chierici), ma si
presta attenzione anche ai laici, organizzati o meno, ai loro specifici interessi, anche con diverse attese
ed aspettative rispetto ad un potere più vicino che tende a reintegrare eventuali motivi di lacerazione
della comunità; si assumono inoltre informazioni relative all’organizzazione ecclesiastica sul territorio,
tendendo al controllo del funzionamento delle istituzioni, anche per via delegata; non manca la
predicazione come occasione di insegnamento, di ricognizione amministrativa e di animazione religiosa;
infine si adottano i ‘decreta’, ovvero i provvedimenti ritenuti utili per quella specifica realtà.
Si esaminano gli edifici ecclesiastici per verificarne lo stato di conservazione, gli altari e le suppellettili e
soprattutto le reliquie dei santi, al pari dei cimiteri; si guarda allo stato dei chierici, dei benefici, del loro
modo di vivere, considerando la figura di un buon sacerdote quale punto di riferimento per i fedeli;
tramite un clero residente e predicante, esercitante appieno le funzioni amministrative, si intende
pervenire al controllo della comunità, alla sua formazione ed educazione, con l’insegnamento della
dottrina cristiana; lo stato del ministro assume una visibilità istituzionale maggiore rispetto al passato,
così come quello del fedele ha caratteristiche evidenti di battezzato e catecumeno, confermato, sposato,
confessato e pascalizzato, il tutto accertabile attraverso la scrittura aggiornata dei libri dei battesimi,
delle cresime, dei matrimoni, dei morti.
Si evidenzia il luogo sacro rispetto a quello profano, in un processo più che di sacralizzazione della realtà,
di clericalizzazione della società; del resto lo spazio sacro è luogo deputato ad una socializzazione
comunitaria con uno statuto spaziale simbolicamente determinato a segnalare la natura liminare dei riti
nel loro complesso; nella chiesa parrocchiale si riuniscono le assemblee della popolazione come
espressione sia del grado di organizzazione raggiunto in campo civile, della comunità locale, sia della
tipologia della struttura ecclesiastica meridionale a base largamente laicale. I gesti e le formule del
rituale come circostanze uniformi sono destinati ad imprimersi in ognuno, costruendo una comunità che
confessa la sua identità; il rito costituisce un indice comportamentale, designando tanto il gruppo, con
punti di riferimento identitario, quanto le persone, in cui ciascuno riceve il nome, alimenta l’itinerario di
fede, con ruoli differenziati da permetterne il riconoscimento confessionale.
La struttura organizzativa del territorio, all’alba della introduzione delle riforme disciplinari previste dal
concilio di Trento, attraversa una fase di grande fluidità all’interno della quale si assiste ad un tentativo
di razionalizzare i rapporti tra centro e periferia attraverso figure intermedie fra curia e sacerdoti
diocesani, destinate a diventare permanenti con l’obbiettivo di riorganizzare il clero e conseguentemente
i fedeli amministrati. Conoscere per governare è funzionale all’amministrazione, per cui esercitare il
controllo del clero e della popolazione dei fedeli, nel loro complesso e nella loro particolarità, è cruciale
come si è visto per la realtà della diocesi di Trento. I verbali di visita pastorale sono una fonte importante
per la conoscenza della storia, preziosi rivelatori della situazione religiosa (almeno in parte), in virtù della
loro larghissima diffusione nel tempo, dal XV secolo soprattutto, e nello spazio, sin nei più piccoli territori
all’interno delle istituzioni diocesane; non è facile avere ampi quadri spaziali e temporali, come ad
esempio per la realtà delle diocesi della Sardegna.
Occorre considerare nel particolare le specificità territoriali, mettendo l’accento su quanto il concilio ha
potuto o meno modificare, sullo sfondo della lunga durata delle istituzioni ecclesiastiche, sia in un
periodo temporale relativamente breve (entro il XVI secolo e da questo punto di vista è interessante
l’edizione degli atti delle visite pastorali della diocesi di Arezzo dal 1207 al 1609) che anche più lungo e
plurisecolare sino al XVIII secolo e oltre nel XIX. Ad un primo momento di entusiasmo, segue una fase più
statica o amministrativamente piatta, con veri e propri momenti di routine (anche nei singoli episcopati);
in ogni caso le visite pastorali risentono degli uomini come del tempo: se sono magari concentrate nella
prima metà del XVIII secolo per diminuire nella seconda metà, si può osservare una loro ripresa
successiva nel corso del XIX, e magari un cambio d’uso della lingua (con prevalenza dell’italiano sul
latino); si può avvertire maggiormente il rapporto con la società civile e politica durante, ma non solo, la
stagione dei moti risorgimentali soprattutto nel Nord della penisola, evidenziati non solo dalle visite nelle
diocesi venete, mentre il visitatore rinforza ciò che fa il parroco (e la figura dei laici è ridotta ai margini).
Se la fonte in genere testimonia, al di là della pastoralità del vescovo, una porzione della realtà (quella
interessante l’istituzione promotrice che ne condiziona il punto di vista), l’interesse maggiore sta
nell’andare al di là della realtà abbracciata dall’istituzione che ha creato la fonte, interrogandola
adeguatamente, con l’attenzione volta a conoscere direttamente le condizioni religiose, sociali,
economiche di ogni realtà istituzionale e la vita religiosa di ogni comunità attorno ad essa aggregata nel
contesto politico, sociale, economico, culturale coevo.
Fonti e Bibl. essenziale
Cfr. in generale G. Baccrabere, Visite canonique de l’éveque, DDC, VII, Paris 1965, coll. 1512 ss.; per un
approccio alle visite cfr. U. Mazzone, A. Turchini, Le visite pastorali. Analisi di una fonte, Bologna 1990,
poi Visite pastorali ed elaborazione dei dati. Esperienze e metodi, a c. di C. Nubola, A. Turchini, Bologna
1993, quindi A. Turchini, Dai contenuti alla forma della visita pastorale: problemi e prospettive, in
Ricerca storica e chiesa locale in Italia: risultati e prospettive. Atti del IX convegno di studio
dell’associazione italiana dei professori di storia della Chiesa, Grado 9-13 settembre 1991, Roma 1995,
133-158; per situazioni esemplari si v. il classico G. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, Napoli
1971, nonché A. Turchini, I questionari di visita pastorale di Carlo Borromeo per il governo della diocesi
milanese, “Studia borromaica”, X, 1996, 71-120 e anche, dello stesso autore, Les visites pastorales en
Italie après le concile de Trente, in La paroisse communauté et territoire. Constitution et recomposition
du maillage paroissial, sous la dir. de B. Merdrignac, D. Pichot, L. Plouchart, G. Provost, Rennes 2013,
207- 215; S. Sitzia, ‘Congregavimus totum clerum et visitavisum eum’. Le visite pastorali in Sardegna dal
Medioevo all’età moderna. Approcci metodologici per l’utilizzazione delle fonti visitali sarde, Tesi di
dottorato, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Sassari, aa. 2008-2009.
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A cura della Redazione
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integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma