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La traversata
Estratto da
Margaret Drabble, Voliera estiva
Titolo originale dell’opera
A Summer Bird-Cage
Traduzione dall’inglese
di Marina Morpurgo
© Margaret Swift 1963
© 2013 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: agosto 2013
ISBN 978-88-96919-66-8
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Mi toccava tornare a casa per il matrimonio di mia sorella. Casa mia è il Warwickshire, e il posto da cui stavo
tornando era Parigi. Adoravo Parigi, ma mi asterrò dal
lanciarmi in descrizioni della Senna. Lo farei se potessi,
ma non posso. Mi piace l’aspetto esteriore delle cose, ma
quando servirebbe non me lo ricordo mai. E quindi lasciamo perdere Parigi. Stavo tornando a casa per fare la
damigella d’onore al matrimonio di mia sorella Louise. E
d’altra parte non mi dispiaceva partire: quella sensazione
potente di essere straniera, che mi era parsa così incantevole quando ero arrivata lì in luglio, aveva cominciato a tirarmi pazza. Ogni volta che qualcuno mi pizzicava sul metrò
mi veniva voglia di gridare, e quanto ad altre cose tipo la
carta igienica e il prezzo del cioccolato e le ragazzette sveglie, eleganti e con le gonne corte cui impartivo lezioni di
conversazione in inglese… insomma, mi pareva di averne
avuto abbastanza. Ero a Parigi da appena due mesi, ma mi
sembravano molti di più. E così, quando arrivò la lettera
in cui Louise mi chiedeva di tornare e farle da damigella,
io feci un sospiro di sollievo e mi comprai il biglietto. Oltretutto sentivo che era ora che io la smettessi di buttare
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via il mio tempo. Non so perché io odii così tanto perdere
tempo.
A Parigi non stavo combinando nulla di concreto. Ci
ero andata subito dopo essere uscita da Oxford con la mia
nuova laurea bella, lucente e inutile, era stata una scelta
borghese alla faute de mieux, per occupare il tempo. Per occupare il tempo in attesa di cosa? Già, di cosa? Dare lezioni
a quelle ragazzine sveglie era piacevole, ma per me non era
una faccenda abbastanza seria. Non mi avrebbe portata da
nessuna parte. E così, quando Louise mi scrisse, l’immagine
dell’Inghilterra si materializzò davanti ai miei occhi, tetra,
fredda, ma sicuramente seria. E poiché io volevo essere seria, mi comprai il biglietto per tornare a casa, dissi addio
alle ragazzine e alla mia padrona di casa, e rivolsi i miei
pensieri all’Appointments Board e alla previdenza sociale, e
ad altre questioni di analoga, assoluta serietà. Ci pensai per
l’intera durata del viaggio fino a Calais, mentre attraversavo
distese sabbiose masticando un panino al prosciutto strapieno di aglio. Pensai al lavoro, al concetto di serietà, e a quel
che può fare di se stessa una ragazza troppo istruita e priva
di alcuna vocazione. Louise naturalmente una risposta ce
l’aveva. Stava per sposarsi. E per di più stava per sposare
un uomo molto ricco e anche famoso, sia pure in maniera
marginale. Sembrava l’unica via di fuga dall’umiliazione di
quel gorgo “corso per segretarie-cameriere da bar” in cui
era sprofondata subdolamente da quando anche lei, due
anni prima, aveva lasciato il paradiso massonico ed esoterico di Oxford.
D’altra parte io non avrei sposato Stephen Halifax neppure se lui fosse stato la mia ultima spiaggia. Non sapevo
perché mi stesse così antipatico: non ero neppure sicura che
quella che provavo fosse antipatia. Forse era in parte paura.
Mi sentivo intimidita e inibita perché Stephen era uno scrittore, con quattro romanzi pubblicati, e tutti avevano ricevuto recensioni piuttosto lusinghiere. Il successo incute sempre
timore, specie nelle persone ambiziose. E poi io detestavo i
suoi libri. Erano ripugnanti, ma tanto buoni quanto ripugnanti: uno che non avesse conosciuto Stephen si sarebbe
figurato l’autore come inacidito, di mezza età e omosessuale, mentre Stephen è inacidito, trentenne e sposato con
mia sorella, qualsiasi cosa questo fatto possa o non possa
significare. Tutti e quattro i romanzi sono pieni di scherno
sociale, e di osservazioni acute formulate in tono sostenuto.
Non fa mai battute scherzose. Detesto i libri privi di battute scherzose. Perfino le battute vittoriane un po’ penose
sono meglio di niente. Penso che Stephen non ami affatto
le battute. Le recensioni lo definiscono come un “autore di
satira sociale” e parlano della sua percezione delicata e del
suo spirito tagliente, ma per me se li possono pure tenere. E
lui si comporta in modo consono ai suoi libri: quando parlo
con Stephen provo sempre la sensazione di essere malvestita e di avere l’accento sbagliato. Sono certa che questo sia
esattamente quello che pensa, ma dato che lo pensa di tutti,
l’opinione di Stephen non è molto obiettiva. Non si salva
nessuno. Sono tutti o ridicolmente ricchi, o ridicolmente
poveri, o ridicolmente mediocri, o ridicolmente di classe.
Non lascia alcuna possibilità a nessuno di essere nel giusto, a meno che non intenda lasciare se stesso come misura
del giusto, il che sarebbe logico perché Stephen è quasi del
tutto privo di caratteristiche in positivo. Ha un’aria grigia.
Immagino dipenda dalla pelle, perché i suoi capelli sono di
un castano normale. Stephen è poco appariscente e distinto
e grigio.
Non riuscivo proprio a capire perché Louise avesse de-
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ciso di sposarlo. Sapevo che si erano frequentati parecchio
da quando lei aveva lasciato Oxford ed era andata a vivere
in un appartamento nei pressi di Fulham Road, ma non
avevo mai pensato che si sarebbe arrivati a quel punto. Capivo che era una persona con cui era piacevole cenare di
tanto in tanto, perché una poteva scegliere tutti i piatti più
costosi del menu, ma quanto a sposarlo… e che lo sposasse
Louise… Mia sorella, devo dirlo, è bella da togliere il fiato.
Lo è sul serio. La gente si zittisce quando lei entra in una
stanza, la fissa sull’autobus, si gira a guardarla per strada.
Non so da chi abbia preso. Mia madre è piuttosto graziosa,
ma lo è in modo un po’ tremulo, debole, e io sono come lei,
suppongo, mentre Louise ha una vera grandeur predatoria,
da aristocratica. È quella che si definisce una grande dame
mentre io sono una jeune fille, e lei conduce tutta la sua esistenza in modo tale da esserne all’altezza. Ha la carnagione
molto chiara, e sopracciglia favolose e capelli neri, una figura alta, un po’ a stiletto, e via dicendo. Pensavo tra me e me,
mentre il treno passava tra le facciate posteriori delle case
che annunciano l’arrivo a Calais, che forse Stephen stava
per sposare Louise perché lei non appariva mai ridicola.
Alla peggio avrebbe potuto definirla “aquilina” e “intensa”,
ma perfino questo suonerebbe come ragguardevole. Forse
Stephen voleva una moglie che fosse una statuina, una polena sul cofano della sua auto trionfale, un ornamento della
casa offerto alla pubblica ammirazione. Una hostess. Ma io
non riuscivo a capire che cosa, in tutto ciò, potesse andare
bene a Louise; mia sorella non era mai stata tagliata per
fare il secondo violino. Anzi, era incline a perseguire i propri desideri in modo spietato. Era possibile, supponevo, che
lei desiderasse Stephen. Mentre il treno rallentava mi venne
in mente che forse lei amava Stephen, e un istante dopo mi
venne in mente che questa spiegazione era talmente ovvia
che se fosse stata vera ci avrei certo pensato prima. E così
scartai l’idea dell’amore.
Perlomeno per quel che riguardava la vecchia Louise.
Amore. Amore. Pensai oziosamente a Martin che alle sette
e trenta di quella mattina mi aveva detto addio alla Gare du
Nord. Era stato carino da parte sua alzarsi presto. Mi era
dispiaciuto lasciarlo, ed eravamo rimasti abbracciati per un
attimo, ma non in modo significativo. In realtà ero contenta
che nella partenza ci fosse un elemento di strappo. Faceva
apparire il mio andare via più come una decisione e meno
come una deriva. Pensavo a quanto fosse meno improbabile
che io sposassi Martin o quasi chiunque altro, rispetto al fatto che Louise sposasse Stephen Halifax. Che razza di nome.
Stephen Halifax. Al matrimonio almeno avrei scoperto se si
trattava o no di uno pseudonimo. Louise sosteneva che non
lo fosse ma a me non suonava affatto un nome vero.
Il treno si fermò.Tutto a un tratto provai una tristezza
terribile per i treni francesi e per i cartelli che dicevano ne
te penche pas au dehors (è così che dicono? te? E perché
non vous?): e altrettanto immediatamente dimenticai la
mia tristezza per la solita ondata di rabbia che mi travolge
tra gli spintoni, i colpi, le code e le attese che accompagnano la discesa dal treno, il passaggio attraverso la dogana e
l’imbarco. Non chiamo mai un facchino, principalmente
perché detesto separarmi dal mio bagaglio, e quindi sopporto tutto il fastidio delle gambe contuse, delle braccia
indolenzite e dei capelli negli occhi che senza una mano
libera non riesco a scostare. Non so perché mi punisco così,
però lo faccio sempre. In vacanza o in viaggio sono una
calamità, non riesco a godermela se non faccio ogni cosa
nel modo più scomodo possibile. Forse mi comporto così di
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proposito, perché la sensazione di sollievo e di abbondanza
di spazio, che nel momento in cui si sale sulla barca subentra alla spossatezza sudata, è meravigliosa e può essere
assaporata dopo aver sopportato la piena iniziazione dello
sforzo. Nulla mi affascina quanto la traversata della Manica. Spero che non ci faranno mai un tunnel. Ormai l’ho
attraversata dieci volte, e ogni volta sono rimasta incantata
e assorbita da ogni cosa, il porto, la gente, gli annunci inudibili degli altoparlanti, l’odore, i gabinetti delle donne, i bar
con le loro sigarette a buon mercato che mi rammarico di
non desiderare, e cioccolato delizioso. Io compro cioccolato
francese quando parto dall’Inghilterra, e cioccolato inglese
al ritorno. C’è qualcosa di così solido e familiare nel cioccolato al latte di Cadbury in quadrotti da sei pence, e sei
pence sembrano un prezzo straordinariamente esiguo per
una tavoletta di cioccolato.
Ne comprai due e con quelle andai a sedermi sul ponte;
era una giornata meravigliosa, soleggiata e ventilata con un
sacco di nubi bianche che correvano sfilacciandosi nel cielo.
La gente continuava a stare male, cosa che mi rallegrava
perché io non soffro mai il mal di mare e mi piace sentirmi
più tosta degli altri. Ero lì seduta, con il vento che mi scompigliava i capelli e mi tornò in mente l’ultima traversata
che era seguita a un soggiorno di un mese in Italia e un indicibile viaggio notturno su un treno di studenti partito da
Milano: a parte che non ero riuscita a dormire e neppure
ad assopirmi brevemente, mi ero anche congelata a morte,
e non avevo con me neppure uno straccio di cappotto, solo
una maglia abbondante e jeans leggeri, che si erano rivelati inadeguati a livello allarmante mentre il treno correva
attraverso le Alpi gelide e le altrettanto gelide Strasburgo et
cetera. Alla fine avevo abbandonato il mio posto ed ero anda-
ta a sedermi in corridoio, dove alla luce fioca delle stazioni
di passaggio e delle fabbriche con i turni di notte avevo letto
la Repubblica di Platone sulla quale la settimana successiva
avrei dovuto scrivere un saggio. Una volta sul traghetto,
Simon, che è un po’ un bon viveur alla sua maniera giovanile,
aveva insistito affinché lui e Kay e io ci concedessimo un
pasto come si deve al ristorante, e avevamo finito il chianti
comprato appena prima di partire da Milano, e dopo ci
eravamo seduti sotto il ponte, al calduccio e assonnati, in
mezzo a un gruppo di immigrati cinesi provenienti da Diosa-dove. Era stato delizioso, ma era delizioso anche stare lì
da sola nel vento a mangiare cioccolato e a fare gli occhi
dolci agli uomini che passavano.
Folkestone apparve al nostro arrivo così deliziosamente
brutta, con tutti gli alberghi e le case a schiera dalle facciate
monotone. Oh, ero molto allegra, fino al momento in cui
salii sul treno. Odio i treni. Dormii senza interruzione fino
a Londra, e mi svegliai con il mal di testa e un risentimento nei confronti del viaggio in generale. Ma insomma, mi
dissi mentre trascinavo la valigia attraverso Charing Cross
Station e la caricavo sull’autobus per Paddington, ma insomma, Louise è stata davvero egoista a costringermi a fare
tutto questo viaggio per tornare a casa, in questo paese orrendo dove la gente non ti sorride mai e non ti pizzica il sedere quando passi, dove piove tutto l’anno e gli edifici sono
i più repellenti del mondo. Quando arrivai a Paddington
ero di umore nero, anche perché scoprii di avere appena
perso il treno, quindi telefonai a casa senza eccessivo entusiasmo per informarli del mio ritorno. Quando finalmente
qualcuno tirò su il ricevitore io dissi: “Pronto, sono Sarah,
con chi parlo?” e una voce rilassata disse: “Louise”.
“Santo cielo,” dissi. “Come stai?”
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“Bene. E tu?”
“Anch’io bene.”
“Dove sei?”
“A Paddington. Arrivo a New Street alle otto e cinque.”
“D’accordo. Vuoi che venga a prenderti?”
Questo mi scosse davvero. “Oh, non ce n’è alcun bisogno,” dissi. “Sono certa che lo farà papà, se glielo chiedi.”
“No, no, ci penso io. Non mi dispiace uscire per un’oretta.”
In quell’ultima frase mi parve di cogliere quasi un bagliore espressivo, quindi azzardai una domanda. “Come
vanno le cose, lì a casa?”
Louise emise un sospirone che fece vibrare la cornetta.
“Oh, uno schifo,” disse. “Te lo puoi immaginare, gente tra i
piedi, regali, l’albergo che vuol sapere il numero degli ospiti, lettere da scrivere, e la vecchia Daphne che fa la ficcanaso. Entra perfino in camera mia,” disse Louise, con toni
di tale disprezzo che sembrava stesse parlando di un insetto
molesto, non di una prima cugina.
“Non ci fare caso,” dissi. “Tra ben poco sarai fuori da
tutto ciò.”
“È quello che mi dico.”
“Il mio vestito è lì?”
“Oh, sì.”
“Spero mi vada bene.”
“Se non ti va bene non è colpa mia. Ti avevo detto di
tornare a casa prima per fartelo sistemare. E quando le hai
mandato le tue misure in centimetri la signorina McCabe è
andata in confusione.”
“A Parigi non ci sono pollici.”
“Oh insomma, non fa nulla, in ogni caso non potrai avere un aspetto peggiore di quello di Daphne, no?”
“Oh, Louise.”
“Senti, è la verità.”
“Dove sono tutti quanti, adesso?”
“Stanno prendendo il tè.”
“Capisco. Bene, allora è meglio se torni da loro.”
“A presto,” disse Louise, riattaccando. Non era da lei
un diminuendo di “Bene, è stato bello sentirti, e anche tu,
grazie della telefonata, arrivederci, arrivederci, arrivederci,
’rivederci allora, ci vediamo, ciao ciao,” e fine.
Andai a comprarmi l’“Evening Standard” e salii sul treno, dove lessi quello e Tenera è la notte (B meno) e guardai la
campagna monotona, ravvivata solo, di tanto in tanto, dalla
guglia di qualche chiesa antica. Cominciai a sentirmi sporca e appiccicaticcia e mentalmente confusa, e a fare pensieri meschini e superficiali sugli abiti da damigella d’onore e
sulla nostra spaventosa cugina Daphne e sul perché diamine Louise avesse deciso di sposarsi a casa anziché a Londra.
Insomma, a che serviva avere centinaia di ospiti e veli bianchi e champagne nel Warwickshire? Doveva entrarci qualche elemento di galateo, troppo raffinato perché io potessi
comprenderlo: Louise era una grande, in fatto di galateo.
E dunque, con la mente così sgradevolmente occupata,
arrivai a New Street, e stoicamente, con animo irritato, tirai giù le valigie dalla reticella e le trascinai lungo il binario. Stavo per pensare “Naturalmente lei non è puntuale”
quando avvistai Louise, che aveva la schiena rivolta al treno
e al binario, e stava giocando con una di quelle macchine
per stampare targhette. Sembrava mezza addormentata e
distratta. Fui travolta dalla solita invidia nel prendere nota
dei suoi capelli magnificamente raccolti in una crocchia,
del color beige chiaro e della impeccabilità della sua maglia, dei suoi pantaloni di lino dall’aria ben stirata. Anch’io
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avevo addosso dei calzoni di lino, ma i miei erano del tipo
sformato sul ginocchio, e all’improvviso mi sentii sciatta e
sporca dal viaggio, ridotta come una scolaretta con la cintura mal messa, l’impermeabile che penzola sulle caviglie e
una treccia sfatta. Louise mi fa sempre questo effetto. Sempre. Misi giù la valigia, mi scostai i capelli dagli occhi e dissi:
“Ciao, Loulou”.
Lei si girò e disse: “Oh, eccoti qui”. Poi si girò di nuovo
verso la macchina e schiacciò il pulsante. Ne uscì una targhetta metallica. Louise la guardò e poi la buttò per terra.
Le diedi un’occhiatina. Diceva louise bennett xxxxxxxx.
“Mi chiedevo se avessi azzeccato il treno,” disse.
“Certo che lo hai azzeccato,” dissi. “Era un treno orribile. Grazie al cielo è finita, non ne potevo più di viaggiare.”
“Bene, allora andiamo,” disse. “Cerchiamo un facchino.”
Glielo lasciai cercare senza protestare, e lei ci riuscì senza difficoltà, dato che tutti i facchini liberi la stavano comunque fissando a bocca aperta. E lei si incamminò con
passo tranquillo da ereditiera, e io la seguii strascicando i
piedi come Cenerentola o meglio come le sue sorelle brutte
dopo l’episodio della zucca. Louise non disse nulla finché
non arrivammo alla macchina (mi toccò dare la mancia
al facchino con uno dei miei ultimi scellini); lì lei accese il
motore, si guardò nello specchietto retrovisore con quella
sua tipica, trattenuta nonchalance narcisistica, sistemò lo
specchietto e disse: “Allora, com’era Parigi?”.
Avrei voluto che riuscisse a parere un po’ più interessata.
“Non lo so,” dissi. “Piuttosto meravigliosa, suppongo.”
Louise ingranò la marcia e andammo. Guida abbastanza bene, secondo me.
“Immagino che tu abbia fatto comunella con tutti quei
beatnik,” disse, dopo un’altra lunga pausa.
“I beatnik vengono dall’America,” dissi. “A Parigi ci
sono gli esistenzialisti.”
“Ancora?”
“Perché no?”
“Oh, non saprei.”
“In ogni caso non ci ho fatto comunella. Ho passato la
maggior parte del tempo in compagnia di alcune ragazzine
brillanti e sciocche cui davo lezione, e con un tizio di nome
Martin che lavorava in una libreria.” Ripensai a Martin e
divenni espansiva: raccontai a Louise di come io e lui fossimo soliti fare colazione insieme al bar sotto la mia stanza in
affitto, e di come Martin parlasse un francese così magnifico che tutti erano convinti che fosse francese, nonostante
lo avesse imparato a scuola al pari di chiunque altro, e del
giorno in cui eravamo andati a Versailles e il nostro treno
era rimasto bloccato su un binario di servizio. Mi divertii
nel rievocare l’episodio, anche se non divertii molto Louise.
In cambio lei mi diede assai poco – alcune bizzarre affermazioni sui nostri cugini Daphne e Michael e su zia Betty,
la triste sorella vedova di nostra madre, e sui regali di nozze.
Su Stephen non una sola parola. Dopo un po’ scivolammo
nel silenzio.
Guardai fuori dal finestrino. Dall’auto la campagna appariva così diversa: appariva unica e bella, non piatta e funerea. Una volta attraversato il paesaggio industriale, che
io giudico emozionante e solenne, la rusticità è incantevole. Il crepuscolo era imminente e i colori autunnali erano
più profondi e carichi nella luce morente: i campi di grano
erano marrone scuro e oro, punteggiati estaticamente di
papaveri. Ero commossa da quel miscuglio di tonalità. Il
cielo era purpureo, con sprazzi di luce che in qualche modo
ci venivano più vicini davanti a un cupo, massiccio fondale
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di nubi che parevano di pelouche. Oh, era bello, faceva
molto Inghilterra ed era bello. Perché mai non ce ne sono
abbastanza, perché mai non servono queste cose, come gli
arcobaleni e i campi di grano.
Mi godo sempre l’arrivo a casa per quanto possa poi
odiarla, una volta che ci sono. La speranza sgorga sempiterna nel petto umano, questo è certo, e dopo ogni assenza
penso che magari la mia famiglia sarà migliorata, anche se
non migliora mai. Una vaga sensazione di calore e conforto
mi prese mentre percorrevamo il vialetto e vidi mamma,
che aveva sentito l’automobile, ritta sulla soglia. Era così
estasiata nel vedermi, così commossa ed emozionata per
il mio arrivo, che fui contagiata dal suo entusiasmo. Ero
sempre stata la prediletta di mamma. A volte mi disprezzo
per aver ceduto alla comodità dei pasti assicurati e dei letti
rifatti, ma lei non ci vede proprio niente di male. Mia madre non giudica una debolezza il desiderio di essere accuditi, lo trova naturale, pensa che io sia pazza a preferire la
sporcizia e la stanchezza e la solitudine che sono pronta ad
affrontare pur di conquistare un senso di speranza. Tuttavia
ho bisogno sempre di almeno un giorno, o anche due, per
rendermi conto del perché in questa casa io non abbia alcuna possibilità, e così quella sera mi accomodai abbastanza
confortevolmente tra le facce e i mobili del salotto per mangiare il mio pollo freddo, e pensai quanto fossero in realtà
piacevoli e al di là di ogni critica la moquette e le tende con
le mantovane e le luci a parete a candeliere e i campanelli che paiono campane. Convinsi mio padre ad aprire la
bottiglia di liquore che gli avevo portato dalla Francia, e lo
bevemmo con il caffè, e ci raccontammo aneddoti e ascoltammo i problemi del matrimonio e ammirammo i regali di
nozze. Avevo portato qualcosa a ognuno: il Cointreau per
papà, profumo per mamma e zia Betty e Daphne, cinque
libri in vecchie edizioni popolari per Louise e una cravatta per Michael, non scelta da me. A quanto pareva era di
suo gradimento: era l’unico dono sul quale avessi avuto dei
dubbi. Alcuni dei regali di nozze di Louise erano stupendi,
deliziosi oggetti in cristallo e scaldavivande e argenteria. Ma
Louise non pareva particolarmente interessata. Sembrava
che la cosa non la riguardasse.
A me piace il cugino Michael. Abbiamo esattamente
la stessa età, siamo nati a due settimane di distanza, e da
bambini andavamo molto d’accordo. Daphne ha tre anni
di più, ha l’età di Louise, una ragazza semplice e occhialuta, adesso fa la maestra, ed è una di quelle, immagino,
che portano la disperazione nei cuori delle giovani alunne
quando queste vedono i sottili grigi orizzonti della maturità attraverso simili lenti. Era stato l’unico vantaggio di cui
avevo goduto su Louise nella nostra prima infanzia, che
Michael fosse amico mio, non suo: quando andavamo a
stare da mia zia in occasione delle vacanze troppo frequenti, che i miei genitori facevano senza di noi, in me cresceva
il senso di autostima e di arricchimento, mentre Louise si
rifugiava irritata in un libro e si rifiutava categoricamente di giocare con Daphne. Allora non mi rendevo conto,
anche se adesso sì, che Louise doveva essere stata molto
gelosa di me e Michael; di solito a casa nostra non facevo
che darle il tormento, volevo che Louise mi parlasse o mi
portasse con sé nelle sue spedizioni, ma a casa della zia B.
non avevo alcun bisogno di affliggerla. E in effetti parte del
piacere di giocare con Michael era dato dal sollievo di non
essere costretta a disturbare Louise, che immancabilmente reagiva rispondendomi male o facendo la prepotente o
ignorandomi: ma in realtà penso che sentisse la mancanza
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delle mie attenzioni timide e ossequiose. In ogni caso un po’
del vecchio legame tra me e Michael era rimasto: lui era un
ragazzone da rugby, ma del tipo proprio piacevole, e chiacchierammo un bel po’ di Parigi e lui mi raccontò della sua
nuova ragazza. Disse che a sua volta sarebbe partito per la
Francia il mese successivo e io pensai di dargli l’indirizzo di
Martin. E mentre tutti noi parlavamo e bevevamo il nostro
Cointreau e gongolavamo compiaciuti, Louise sedeva alla
scrivania di mia madre, sulla sedia con la fodera di tappezzeria a rose, e scriveva lettere di ringraziamento con la sua
grafia gigantesca e disordinata.
La massima attrazione per il comfort la provai nell’andare a letto. C’è qualcosa di così attraente nella mia stanza da
risultare – dopo i letti francesi, i mozziconi sparsi ovunque
e il vino sul copriletto – totalmente demoralizzante. Dopo
essermi svestita davanti a un caminetto a gas acceso senza
motivo, gironzolai per la camera aprendo cassetti e guardando vecchi indumenti di cui avevo dimenticato l’esistenza
e vecchie lettere, e me stessa nei grandi specchi di servizio.
Poi mi infilai nel letto e mentre ero lì che leggevo tra le
lenzuola pulite e ben rimboccate, immersa in un piacere
zitellesco, mi chiedevo perché diamine detestassi così tanto
lo stare a casa mia.
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