Seguono altri articoli sul Festival di Berlino 2012.

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Seguono altri articoli sul Festival di Berlino 2012.
Una panoramica sulla cultura
cinematografica del mondo
di Roberto Pecci
«A
B erlino! A Berlino!» ci incitano dalla Sede. Dopo
l’iniziale sorpresa, l’eccitata curiosità ha avuto il sopravvento sul senso di inadeguatezza ed ecco il resoconto
della nostra partecipazione a questo Festival del cinema,
evento che sempre più vuole porsi ai vertici di simili manifestazioni internazionali.
“L’intera città è cinema” recita lo slogan ideato dagli organizzatori con il direttore Dieter Kosslick. In effetti massiccia appare la partecipazione dei cittadini che riempiono
costantemente le sale, sempre comode ed adeguate alla
visione. La proposta dei film suddivisi in varie sezioni è
enorme e quasi rende difficile l’orientamento per lo spettatore appassionato che non vorrebbe rinunciare a nulla!
La sezione “Berlinale Special” ha proposto il film di Angelina Jolie - che con coraggio pari ad incoscienza si immerge con una storia d’amore contrastato nel gorgo delle
guerre balcaniche - e l’adattamento cinematografico di
Stephen Daldry (Billy Elliot, The Hours, The Reader) del
variegato romanzo Estremamente forte, incredibilmente
vicino di J. S. Foer. Da segnalare anche la bella prova attoriale di Charlize Theron nel nuovo film di J. Reitman
(Juno, Tra le nuvole) Young Adult, e a proposito di attrici citiamo la partecipazione come co-protagonista della nostra
Alba Rohrwacher nel film di Dorris Dörrie (presente al festival): Glück.
Werner Herzog, procedendo nelle sue ricerche sulla
pena di morte, ha dedicato il nuovo documentario Death
Row alle storie di quattro detenuti in attesa della sentenza
capitale. Il premio alla carriera a Meryl Streep è divenuto
occasione per la presentazione di tutta la sua filmografia
fino al recente Lady di ferro. Non potremo riferire qui dei
film delle sezioni “Forum” e “Generation”, ricche anch’esse
di generose proposte filmiche.
Ha inaugurato il concorso Les adieux à la Reine del
francese Benoît Jacquot, di cui poco è arrivato in Italia,
anche se ricordiamo una coinvolgente Isabelle Huppert
Les adieux à la Reine
nel suo film Villa Amalia, transitato qualche anno fa sugli
“Schermi d’amore” veronesi. In questo riuscito film vediamo con gli occhi delle cameriere quanto accade alla
corte di Louis XVI nei giorni dell’inizio della Rivoluzione
francese, seguendo in particolare le affannate giornate di
Marie Antoinette e di chi le sta intorno.
Anche più ricchi di suggestioni, tanto da entrare nel novero dei film premiati, sono Csak a szél (Just the wind) di
Bence Fliegauf (Budapest 1974), che interviene su un materiale scottante nell’Ungheria di questi giorni, raccontando di persecuzioni a carico di famiglie Rom, ed ancora
Rebelle di Kim Nguyen, di origini canadesi (Montreal
1974), che con poeticità, ricorrendo ad attori non professionisti e girando il film in Congo, volge il suo sguardo alle
drammatiche vicissitudini dei bambini-soldato in Africa.
Nella sezione “Panorama” sono presentate in gran
parte opere di autori ai loro primi lungometraggi. Possiamo
riferire di Sharqiya (Vento del deserto) dell’israeliano Ami
Livne; anche qui si tratta di esclusi: le difficoltà di una pur
anomala famiglia di beduini ridotta a vivere in baracche ai
limiti del deserto del Negev sono riportate con partecipazione, che sa però non rinunciare al controllo della forma.
Ancora, in The Woman Who Brushed Off Her Tears la talentuosa regista macedone Teona Strugar Mitevska ha
coinvolto l’attrice spagnola Victoria Abril in un’opera che
si svolge su diversi piani temporali, in luoghi diversi e con
momenti di forse eccessiva emotività tragica, ma che riesce, almeno nella parte di film girata in Macedonia, a destare un intrigato interesse. In Kuma (La seconda sposa)
del regista austriaco, ma di origini turche, Umut Dag
(Vienna 1982) siamo alle prese con i problemi di inserimento delle comunità turche emigrate nell’Europa del
nord, che non rinunciano però alle tradizioni dei villaggi di
origine con immaginabili conflitti culturali e generazionali.
Si può pertanto desumere come le numerose proposte - e molte altre sarebbero da riportare! - diano un reale
panorama della cultura cinematografica del mondo, facendoci sentire, se possibile, ancora più sprovveduti ma
indeffetibilmente curiosi di quanto quest’arte sa produrre.
Ci piace così terminare con la citazione di Indignados dell’algerino Tony Gatlif (1948), che ben conosciamo al Circolo del Cinema (Exil); stimolato dalla casuale lettura del
libro di Stéphane Hessel Time for Outrage, costruisce sul
tema dell’immigrazione, incrociato con le esperienze degli
“Indignados”, una fantasia visiva che riesce a smuovere
attitudini alla “rivolta”, che credevamo in noi irrimediabilmente sopite; basti ricordare la scena di migliaia di arance
che scivolano verso il mare dai vicoli di Tunisi, formando
un’irresistibile e trascinante corrente, a memoria dell’episodio del venditore ambulante di frutta che si era immolato
con il fuoco per protestare contro chi lo aveva obbligato a
chiudere la sua misera attività!
■
I film che abbiamo amato
di Gigliola Bellinato e Roberto Pecci
primo posto collocheremmo L’enfant d’en haut di UrAlsula
Meier, film ambientato in un paesaggio, dove al
Metéora di Spiros Stathoulopoulos (1978). Urania e
Teodoro si amano; niente di nuovo, se non si trattasse di
finto splendore delle stazioni sciistiche d’alta quota svizdue monaci votati alla solitudine di due monasteri abbarzere ed alla indifferenza verso gli altri di chi le frequenta fa
bicati sulle scoscese cime delle Meteore in Tessaglia. Ma
da contraltare la squallida desolazione del fondovalle. Ma
l’amore, finalmente anche carnale, vince su tutto in un film
a questo film è stato dedicato uno spazio a parte (pagina
che, pur in economia di mezzi, sa aprire insospettabili
5), perché merita un’analisi approfondita.
squarci su di una fede vissuta non come rinuncia, ma
Gli altri film, in ordine di preferenza:
come scoperta di quanto di divino c’è anche nella natura.
Inframmezzato da inserti animati ricreati sulle immagini di
Aujourd’hui di Alain Gomis (Parigi 1942). Oggi, per l’apantiche icone su cui scorre la
punto, è stabilito che sarà
lettura di estratti dai Salmi,
l’ultimo giorno di vita di Satencomiabili appaiono anche
ché, rientrato in Senegal
le scelte musicali basate
dopo un periodo vissuto negli
sulle polifonie di Magister PeStati Uniti lontano da tutti,
rotinus.
anche dalla moglie e dai figli
rimasti in Africa. “Oggi”, menCaptive di Brillante Mentre a Dakar tutto procede con
doza (San Fernando, Filipgli immutabili ritmi, con copine 1960). Regista a noi
struzioni che appena edifinoto soprattutto per i suoi
cate sembrano già corrose
passaggi nel notturno Fuori
dal tempo, si sveglia Satché:
orario televisivo, si dedica, in
apre gli occhi con una ripresa
una produzione ad alto budin soggettiva che dà inizio al
get, alla ricostruzione del raAujourd’hui
film; l’unica altra soggettiva
pimento realmente avvenuto
dell’opera sarà quella della
nel 2001 in un resort filippino
fine, con la chiusura degli
di un gruppo di persone, in
occhi del protagonista dopo
parte anche di provenienza
questa particolare giornata.
americana ed europea, da
Tra queste due inquadrature
parte dei guerriglieri musulè una affilata macchina da
mani di Abu Sayyaf che represa, più spesso a spalla,
clamano l’indipendenza della
che segue gli incontri - soregione di Mindanao. Fin dalspesi tra realtà e sogno - del
l’inizio siamo gettati nella diprotagonista e del fido amico
sperazione di non capire
Saké, nelle vie e negli interni
cosa sta accadendo e quale
della città in un ininterrotto
sarà la sorte dei rapiti, molti
di religione cristiana ed attivi
flusso di coscienza dagli alti
Metéora
nelle Filippine come operarichiami letterari e cinematotori sociali, trascinati per setgrafici, quasi un 81/2 che sa
timane e lunghi mesi nel
però mantenere vivi i rapporti
profondo della foresta, con le
con la cinematografia d’orisue oscure presenze vegetali
gine africana (Sembène e
ed animali, sottoposti alle anCissé). Tra i tanti incontri di
gherie dei guerriglieri - dietro
questo giorno a Dakar, riporcui esistono, però, altre stotiamo quello con colui che
rie di sopraffazione e viofungerà da “passatore” verso
lenza da cui sono stati
l’aldilà e che in un passaggio
irrimediabilmente segnati di grande partecipazione ancon l’incombere di improvvisi
ticipa sul corpo ancora vivo di
raid delle forze governative,
Satchè gli atti che compirà
che seminano morte ma non
sul cadavere per predisporlo
risolvono il problema, mentre
ad un sereno lungo riposo.
Captive
2
La delusione
dei film tedeschi
in concorso
di Roberto Pecci
sembrano stagnare (almeno per il poco che se ne sa) le
trattative per il rilascio. Il film appare quanto mai claustrofobico, nonostante l’ambientazione in esterni; solo qualche barlume di umanità fa forzatamente capolino in un
così lungo periodo e, pur se non dà speranza, allenta momentaneamente le tensioni; la magistrale partecipazione
di Isabelle Huppert si integra in un’opera dove gli attori
erano tenuti all’oscuro della sceneggiatura per aumentare
la loro insicurezza.
Tabu di Miguel Gomes (Lisbona 1972) ha vinto il premio della Critica cinematografica (Fipresci). Ancora una
diversa maniera di declinare l’opera cinematografica con
il linguaggio filmico riportato alla sua essenza di racconto
con e dalle immagini. Nella prima parte (Paradiso perduto)
siamo a Lisbona e in toni che richiamano De Oliveira ma
anche Kaurismäki, si racconta della signora Pilar - il cui
scopo nella vita è “fare del bene” - e dei suoi rapporti personali con l’anziana vicina di casa Aurora, che dilapida le
sue sostanze al Casino inseguendo i fantasmi di un passato che ritorna nei suoi sogni. Le condizioni mentali e fisiche di Aurora, assistita anche da un’emblematica
cameriera di Capo Verde, si deteriorano irrimediabilmente
fino a portarla a morte, non senza aver richiesto a Pilar di
contattare tal GianLuca Ventura. Il ritrovamento in un pensionato di questo nuovo personaggio dà origine alla seconda parte (Paradiso), in cui si scoprono le carte della
regia con gli aperti riferimenti all’opera di Murnau ed alla
storia del cinema. Inizia infatti un lungo racconto orale di
Ventura, mentre in un flashback muto scorrono le immagini, che ricreano le tormentate vicende amorose tra Aurora e GianLuca nelle colonie africane; il racconto è
soltanto interrotto di quando in quando dalle riprese di
canzoni degli anni sessanta interpretate dai protagonisti
di questa storia, al modo di seminali videoclip con effetti
anche qui estranianti. L’operazione di Gomes, che pure ritorna al film muto e all’uso del bianco e nero, pare agli antipodi di quanto si è cercato di fare con The Artist, tanto qui
tutto tende al raffreddamento dell’emozione pur riferendosi a vicende ricche di passione.
en tre film tedeschi erano presenti in Concorso e, stimolati da un’intervista che i registi avevano rilasciato
prima del festival parlando di radicalità di scelte, abbiamo
fatto il possibile per visionarli. In Barbara di Christian Petzold, autore con una nutrita filmografia alle spalle, l’attrice
Nina Hoss, molto apprezzata in Germania, dà vita ad un
intenso ritratto di donna-medico nella Germania Est del
1980, prima della caduta del muro. Viene trasferita dalla
capitale ad un piccolo ospedale di provincia, per contrastare la sua volontà di emigrare in occidente, e viene sottoposta ad una sorveglianza spesso umiliante, con
colleghi di lavoro che appaiono essere essi stessi delatori
della polizia segreta. Ma non tutto è come sembra e l’incontro con una giovane ricoverata farà prendere alla vicenda un insospettabile andamento. Film dal solido
impianto drammaturgico ma piuttosto uniforme nella resa
formale, tanto da farci ritenere d’accordo con chi (Roberto
Manassero sul blog Anarene) lo ha definito di assoluta
medietà. La critica tedesca lo ha, invece, apprezzato molto
e forse il premio alla regia assegnatogli è stata una maniera di accontentare i padroni di casa, che pronosticavano una vittoria nel Concorso.
Anche Was bleibt (Cosa resta) di Hans-Christian
Schmid (1965) ci ha fatto un po’ rimpiangere la genialità
“sporca” di Fassbinder e la fluvialità storica dell’Edgar
Reitz di Heimat. In questo film siamo dalle parti di Bergman rivisto alla luce di “Dogma”: in una moderna abitazione della ricca provincia tedesca si entra e si esce di
continuo verso l’annesso giardino, a parafrasare entrata
ed uscita dalla coscienza dei protagonisti. Si riuniscono
infatti, in un assolato fine settimana della gradevole estate
renana, i componenti di questa “famiglia” (genitori e due
figli maschi, uno a sua volta con il piccolo figlio e l’altro con
la giovane fidanzata): la madre è affetta da una cronica
forma di sindrome maniaco-depressiva e svelerà proprio
in quest’occasione di aver abbandonato le terapie tradizionali per dedicarsi a trattamenti di medicine alternative,
dando così origine ad un dramma famigliare dagli esiti cinematografici un po’ scontati.
Non abbiamo visionato il terzo film, Gnade di Matthias
Glasner (1965), ma le critiche poco confortanti ci hanno
indotto a pensare che, nonostante il buon esito de Le vite
degli altri, se non arrivano in Italia molte opere tedesche
non è solo per censura del mercato. I più curiosi potranno
però visionare alcune loro opere sulla piattaforma MUBI
■
con streaming di basso costo.
B
Foto in alto: Tabu
Qui di fianco: Was bleibt
L’enfant d’en haut
regia di Ursula Meier
di Gigliola Bellinato
mmaginavo che alla Berlinale mi sarei imposta una visione
Idei
film il più intellettualizzata possibile, filtrata dalla lettu-
ra preventiva di pareri critici esperti, ricercati certosinamente
ogni giorno sulla stampa e sul web. E così in gran parte è stato.
Ma L’enfant d’en haut - ribattezzato Sister per la distribuzione internazionale - della quarantenne elvetica Ursula Meier,
che si è conquistato l’ambito Orso d’Argento Menzione Speciale, mi ha sedotta in modo del tutto viscerale e inaspettato,
paradossalmente, essendo un film asciutto e duro, rigoroso, a
tratti aspro, che nulla concede al facile sentimentalismo. Merito certo di una bella storia, molto ben scritta e formalmente
equilibrata, senza parole di troppo e senza scene inutili, e merito della bravura della regista e dei suoi interpreti come Léa
Seydoux nel ruolo di Louise (apprezzata in concorso a Berlino
anche nel film di apertura della kermesse Les adieux à la Reine
del francese Jacquot) e, nel ruolo di Simon, il giovane Kacey
Mottet Klein (che recitò accanto a Isabelle Huppert nel surreale
Home, precedente lavoro della Meier, visto anche al Circolo).
Nulla di più lontano dal melodramma, nulla di più vicino ad
una composta compassione verso un’umanità desolata, in questo film che mi ha commossa. I personaggi e le loro problematiche relazioni richiamano gli scripts dei fratelli Dardenne,
mentre lo sguardo critico sul paese e le sue contraddizioni ricorda Alain Tanner, di cui la Meier è stata assistente.
Louise, madre troppo giovane e inaffidabile, si perde in relazioni improbabili e quindi infelici, e tira a campare accudita
per quanto possibile da Simon, lo sveglio ragazzino che è suo
figlio e non suo fratello, come si apprenderà a metà della storia. A Simon tocca mandare avanti materialmente il loro strambo
ménage, rubacchiando ogni possibile ammennicolo al danaroso turistame che infesta l’opulenta stazione sciistica a un tiro
di teleferica dallo squallido fondovalle, dove bruttezza e anaffettività oltraggiano le vite degli esclusi. Il film parla di drammatiche solitudini private ma anche di classi sociali molto
lontane per l’assai diverso potere di acquisto, in una logica dove
tutto si può comprare. Descrive con sapienti pennellate da un
lato il fatuo mondo dei turisti ricchi e superaccessoriati di cose
inutili e costose, tanto arido quanto meschino, dall’altro il microcosmo dove sopravvivono gli emarginati, tra i quali si ripropongono i medesimi rapporti di sopraffazione del forte sul
debole. Nessuno in questo film è “buono” o “fa la cosa giusta”,
tuttavia nessuno viene giudicato, si mostrano le cose così come
sono, con composta pietas. Nessuno vede oltre la strafottente
sicurezza di Simon, non la madre-bambina che continua a viverlo come un peso nonostante sia proprio lui che le impedisce di andare in pezzi, non coloro che lo rispediscono a valle
nella cabina della spazzatura come fosse egli stesso nient’altro che spazzatura, non il vacanziere che lo riempie di botte per
esser stato derubato, non la bella e algida turista inglese che
egli aveva eletto a madre ideale, indifferente come le belle e
algide montagne intorno. Quando Louise sembra aver trovato
finalmente un uomo che potrebbe cambiare la sua esistenza,
Simon, spinto dalla gelosia, rivela la verità al potenziale fidanzato facendogli alzare i tacchi. E per questo Louise non lo perdona, ancora una volta, di essere nato. Disturbante, ai limiti del
fastidio fisico, è la scena in cui la madre accetta di essere pagata dal figlio per concedergli il suo affetto. La mercificazione
persino dello scambio più sacro, dove nulla è sacro, è forse
l’unico canale comunicativo possibile tra i due miserabili, oppure, secondo una chiave interpretativa più benevola, si può
leggere come una sorta di pudore per l’incapacità di dirsi altrimenti i propri sentimenti reciproci.
Soltanto quando rimane bloccato in quota per la chiusura
serale degli impianti, Simon scoppia in un pianto liberatorio,
non tanto perché è notte, ha paura ed è solo, quanto perché, arrestato il suo continuo girovagare privo di senso, prende finalmente coscienza della sua paura e della sua solitudine come
condizioni esistenziali che trascendono la contingenza della situazione momentanea.
Nel finale è forse suggerita una timida apertura alla speranza se Louise, preoccupata per l’assenza del ragazzo, corre
a cercarlo in montagna. Ma non è detto, perché i due si guardano attoniti dai vetri delle cabine della teleferica che procedono in senso inverso, lei sale e lui scende: riusciranno mai ad
incontrarsi davvero?
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Foto in alto: Kacey Mottet Klein con Gillian Anderson
In basso: con Martin Compston
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