2007-01-18_Roberta Bosisio, Roberto Cammarata, Paola Ronfani
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2007-01-18_Roberta Bosisio, Roberto Cammarata, Paola Ronfani
WWW.SOCIOL.UNIMI.IT Dipartimento di Studi Sociali e Politici Università degli Studi di Milano Working Paper 2/07 Giusto/Ingiusto. Questioni di giustizia e dilemmi morali nelle rappresentazioni degli adolescenti Roberta Bosisio Roberto Cammarata Paola Ronfani WWW.SOCIOL.UNIMI.IT Dipartimento di Studi Sociali e Politici Facoltà di Scienze Politiche, via Conservatorio 7 - 20122 Milano - Italy Tel.: 02 503 18801 02 503 18820 Fax: 02 503 18840 E-mail: [email protected] Presentazione dei risultati della ricerca MIUR-COFIN 2003-2005 “Giustizia e partecipazione nelle rappresentazioni sociali degli adolescenti” Unità di ricerca dell’Università degli studi di Milano Responsabile locale Prof. Paola Ronfani Componenti unità di ricerca Prof. Roberto Escobar Dott. Roberta Bosisio Dott. Roberto Cammarata Dott. Persio Tincani 1. Premessa In questa relazione si espongono alcuni risultati della ricerca Giustizia e partecipazione nelle rappresentazioni sociali degli adolescenti che ha impegnato l’unità di Milano nell’ambito del più ampio progetto nazionale dal titolo Cultura, diritti e socializzazione normativa di bambini e adolescenti, coordinato dal Prof. Guido Maggioni dell’Università di Urbino. L’obiettivo dell’indagine è stato quello di rilevare e analizzare le rappresentazioni normative di un campione di adolescenti in merito a numerose questioni di giustizia, delle quali alcune particolarmente complesse e dilemmatiche. Alla base di questo percorso di studio e di ricerca, durato due anni, vi è l’ipotesi che i bambini e gli adolescenti siano attori sociali in possesso delle necessarie competenze per elaborare ragionamenti morali anche complessi perché, al pari degli adulti, utilizzano nella formulazione dei loro giudizi morali e di giustizia una pluralità di riferimenti normativi nei diversi contesti relazionali e di riferimento. Si è inoltre ipotizzato che le rappresentazioni sociali alle quali tali ragionamenti danno forma siano influenzate, oltre che dalle variabili socio-anagrafiche e culturali, anche dalle esperienze di partecipazione vissute nel corso della socializzazione. Tale orientamento presuppone anche di considerare i bambini e gli adolescenti come soggetti capaci di iniziativa morale e di ragionare attorno a questioni strettamente filosofiche. Nella ricerca, infatti, gli adolescenti sono stati sollecitati ad esprimersi e ad argomentare a proposito di alcuni dilemmi morali che sono stati oggetto di studi filosofici e di ricerche empiriche condotte con soggetti adulti. La presentazione dei risultati relativi ad alcuni items e situazioni dilemmatiche particolarmente significativi è preceduta da una sintetica esposizione del quadro teorico nel quale la ricerca si è inserita. 2. Bambini e adolescenti: senso morale e sentimenti di giustizia. I più recenti approcci sociologici e psicologici sull’infanzia hanno ribaltato la visione tradizionale dei bambini e hanno rivendicato per loro uno spazio nell’ambito dell’analisi sociologica. In accordo con questi approcci, i bambini e gli adolescenti sono considerati attori sociali attivi e capaci di partecipare alla realtà sociale di cui sono parte a partire dalla loro specifica prospettiva sul mondo, così come sono ritenuti anche capaci di elaborare giudizi morali e compiere scelte etiche (Corsaro 1997; James, Jenks, Prout 2002; Hengst, Zehier 2005). Pertanto, l’asserita incompetenza, l’irrazionalità, nonché l’incapacità di valutare il proprio interesse da parte dei bambini, sostenute dalla prospettiva tradizionale della socializzazione, sono oggi messe in discussione. In particolare, si sostiene che i bambini abbiano piena consapevolezza del concetto di violazione della giustizia, e che il tema dell’equità (fairness) ricopra un ruolo centrale nella vita sociale dei bambini sin dai primi anni di vita (Damon 1981). Nelle loro attività quotidiane, relazionandosi con altri bambini e con gli adulti, essi si trovano, infatti, di fronte a questioni che hanno a che fare con la giustizia, con l’equità, con la condivisione e a situazioni che richiedono di prendere decisioni che hanno implicazioni morali, che suscitano l’approvazione o la disapprovazione altrui e richiedono un’assunzione di responsabilità (Mayal 2004). La questione della formazione e dello sviluppo del senso morale e del sentimento di giustizia nell’infanzia e nell’adolescenza è da lungo tempo oggetto di studio da parte soprattutto della psicologia cognitiva (Piaget 1932; Kohlberg 1958, 1976). Secondo gli esponenti di tale disciplina lo sviluppo morale avverrebbe in modo simile in tutti i soggetti e si caratterizzerebbe per il susseguirsi di stadi qualitativamente differenti e progressivamente superiori dal punto di vista delle competenze cognitive. Gli approcci più recenti allo studio dei fondamenti della giustizia hanno messo però in discussione la possibilità di individuare un processo psicologico universale che spieghi il pensiero morale e i criteri di giustizia prescindendo dall’influenza delle variabili sociali, culturali e storiche. Secondo gli attuali studi psicologici e sociologici, infatti, la formazione dei sentimenti di giustizia e del ragionamento morale è influenzata da numerose variabili quali l’età, il genere, lo status socio1 economico e culturale, la scolarità, ma anche le esperienze sociali e partecipative. Questa prospettiva è sostenuta, in particolare, da alcuni studiosi che si ricollegano alla prospettiva dell’apprendimento sociale, i quali ritengono che i bambini e gli adolescenti, per la formulazione dei loro giudizi morali, facciano riferimento ad una pluralità di criteri che variano nelle diverse situazioni e nei differenti contesti relazionali. Essi sottolineano perciò l’importanza nello sviluppo morale dell’ambiente in cui crescono ragazzi e ragazze, ma anche di elementi di natura tanto affettiva quanto razionale. Le persone, pertanto, in contesti diversi adotterebbero differenti codici normativi e quindi anche diversi criteri per definire ciò che è giusto (Bandura 1996). Per questa ragione, non sarebbe possibile costruire una scala gerarchica di ragionamento morale e sostenere quindi che ragionamenti più complessi dal punto di vista cognitivo siano superiori dal punto di vista morale (Bandura 1996). Questa medesima opinione è sostenuta da alcuni filosofi morali, i quali condividono l’idea di un sistema di giudizio pluralistico (Carter 1980, Codd 1977). Si è osservato, infatti, che anche gli adulti, pur essendo in possesso delle necessarie competenze cognitive, non applicano sistematicamente la modalità di ragionamento morale ritenuta da Kohlberg più elevata, bensì utilizzano i diversi principi morali in modo selettivo e complementare a seconda delle circostanze e delle situazioni. Pertanto nel corso dello sviluppo si produrrebbe un pensiero morale «multiforme», e il ragionamento morale sarebbe guidato più da preferenze di carattere personale e soggettivo che da competenze cognitive più o meno elevate. In quest’ottica, gli stadi di Kohlberg non rappresentano livelli progressivamente superiori di ragionamento, bensì diverse prospettive – ugualmente valide – in base alle quali una questione morale può essere analizzata. Questa ipotesi sarebbe confermata anche dai risultati di numerose ricerche che hanno dimostrato come gli individui, nell’elaborazione dei loro giudizi, facciano riferimento a più criteri contemporaneamente. Secondo questo approccio, pervenire ad un giudizio morale utilizzando un sistema di criteri complementari è quindi indice di un’elevata capacità di ragionamento morale (Bandura 1996). L’importanza della componente culturale, ma soprattutto sociale – e quindi delle esperienze partecipative intese come esperienze di condivisione con i pari o con gli adulti – nello sviluppo delle modalità di ragionamento morale e del sentimento di giustizia è stata sottolineata recentemente da numerosi studi che riprendono quelli elaborati nei primi decenni del Novecento da Leon Vygotskij. Secondo questo studioso lo sviluppo deve essere inteso come il risultato della collaborazione guidata dei bambini con gli adulti per la soluzione di problemi di natura tanto intellettuale quanto pratica (Vygotskij 1987). Più specificamente, Sampson ha applicato la teoria di Vygotskij alla formazione e allo sviluppo del senso di giustizia, per comprendere come nasce la motivazione ad agire secondo giustizia. Egli ha concluso che anche la giustizia e il suo significato sono elaborazioni sociali. La motivazione alla giustizia è cioè un processo interpersonale, la cui origine non va ricercata nella mente (Sampson 1981). Lo stesso Kohlberg, nei suoi lavori più recenti (1976), sottolinea come gli stadi dello sviluppo morale da lui individuati non siano né il prodotto della maturazione, né il prodotto diretto della socializzazione. Sono innanzitutto le occasioni di confronto, nelle quali il punto di vista di ciascuno è oggetto di riflessione e suscettibile alla critica e alla contraddizione, a sollecitare forme di ragionamento via via più complesse, profonde e comprendenti, che tengono cioè conto dei diversi punti vista e delle esigenze e rivendicazioni di ciascuno. La nuova concezione del bambino qui sinteticamente descritta pone quindi alcuni interrogativi, che sono alla base del nostra ricerca: nel definire ciò che è giusto e ingiusto, i bambini e gli adolescenti a quali criteri di giudizio si affidano? Sono in grado di elaborare ragionamenti «filosofici» attorno al tema della giustizia? I loro ragionamenti in tema di giustizia differiscono da quegli degli adulti? 3. La giustizia. Sentimenti e rappresentazioni Parlando del tema della giustizia in termini più generali, occorre in primo luogo ricordare che esso coinvolge diversi ambiti disciplinari, da quello della filosofia morale e politica (le teorie della 2 giustizia) a quello della psicologia cognitiva, sociale e dell’età evolutiva (le teorie sullo sviluppo morale e quelle sulle rappresentazioni sociali), fino agli ambiti della filosofia e della sociologia del diritto (con riferimento, in particolare, alle teorie sulla socializzazione normativa e sui sentimenti di giustizia). Come ha sottolineato Raymond Boudon, il pendolo delle prospettive teoriche con le quali le scienze sociali hanno affrontato ed affrontano questo tema oscilla perennemente tra razionalismo e irrazionalismo, tra gli orientamenti che considerano i sentimenti di giustizia come l’effetto di elementi razionali (le teorie funzionaliste, i modelli di matrice utilitarista o d’ispirazione kantiana) e quelli che, al contrario, ricercano l’origine di tali sentimenti in fattori di natura biologica, psicologica o culturale (Boudon 2002). In ambito filosofico e psicologico si è assistito ad un progressivo allontanamento dagli approcci più spiccatamente universalistici, a favore di posizioni aperte alle categorie dell’esperienza, delle relazioni e della diversità culturale. E nella filosofia politica, che nella sua versione classica ha elaborato teorie della giustizia contraddistinte da un deciso approccio universalistico, in tempi più recenti si sono andati costituendo, così come nelle scienze sociali, alcuni approcci di orientamento cognitivistico (Elster 1992; Van Parijs 1995). Questi orientamenti sono critici nei confronti dell’approccio filosofico tradizionale il quale, pur variamente declinato, sottolinea la non compatibilità fra il senso comune e il senso normativo della giustizia. Il paradigma che prende forma è invece quello che considera le opinioni e i sentimenti popolari sulla giustizia come componenti imprescindibili dell’elaborazione teorica. Questi nuovi orientamenti fanno necessariamente riferimento alle teorie psicologiche sulla formazione e lo sviluppo dei sentimenti e del ragionamento morale dall’infanzia all’età adulta, le quali, come si è detto, individuano stadi precisi, progressivi e qualitativamente distinti nel processo di sviluppo morale nei bambini e negli adolescenti (Piaget 1932; Kohlberg 1958). Per quel che attiene alle scienze sociali le riflessioni sui sentimenti di giustizia e di ingiustizia rappresentano un filone di studi che può essere fatto risalire alle teorie utilitaristiche classiche. Già Adam Smith, in The Theory of Moral Sentiments, parla di sentimenti di giustizia, lega la giustizia all’attribuzione di merito e, evocando il suo «spettatore disinteressato» a testimone della giustizia, la distingue nettamente dalla mera utilità (Smith 1759). Successivamente Mill definisce la giustizia come una sottoclasse della moralità e parla del sentimento di ingiustizia come del desiderio che viene espresso nel tentativo di correggere o di prevenire le ingiustizie. Dagli anni Sessanta del secolo scorso sono state sviluppate specifiche prospettive teoriche a partire da numerose ricerche empiriche. In particolare, in un primo momento l’idea della giustizia, secondo la teoria dell’equità, è stata ricollegata alla proporzionalità tra contributi e retribuzioni (Selznick 1969; Homans 1974); successivamente si è evidenziato come i giudizi attorno alle questioni della giustizia siano in realtà il frutto della compenetrazione e del bilanciamento di più criteri, e come essi varino in relazione ai differenti contesti culturali e sociali (Kellerhals, Languin, Sardi 2001). Una prospettiva marcatamente culturalista concepisce poi la giustizia come un vocabolario di motivi che le persone usano in modo diverso a seconda delle esperienze, delle culture e dei diversi interessi da perseguire. Questo approccio è stato recentemente al centro di riflessioni critiche che sottolineano come in esso le opinioni, i modi di sentire e le rappresentazioni delle persone sulle questioni morali vengano lette meramente come effetti di costumi e di pratiche, variabili a seconda dei diversi contesti relazionali e sociali, e non invece come l’«esito di sistemi di ragione che si adattano alla complessità e alla diversità delle situazioni concrete» (Boudon 1995, p. 294). Quest’ultimo orientamento, anch’esso di tipo cognitivistico, intende distinguersi sia dalle concezioni più strettamente culturalistiche o materialistiche, sia da quella razional-universalistica della giustizia. Il tentativo è quello di affrancare il campo degli studi sociologici dalla visione spesso eccessivamente relativistica dei sentimenti di valore (e quindi anche dei sentimenti di giustizia) che deriva in particolare «dalla tradizione positivistica alla quale è ancora legata la sociologia; una tradizione molto sospettosa nei confronti dell’idea di cercare nelle ragioni degli 3 individui le vere cause, intese in senso proprio, dei sentimenti di valore» (Boudon 2002, p. 128). L’approccio di Boudon cerca, in primo luogo, di evitare la scorciatoia della riduzione della razionalità a mera razionalità strumentale, ribadendo, come già avevano fatto Adam Smith e poi Max Weber, che i sentimenti di valore non trovano origine unicamente in considerazioni strumentali e, in secondo luogo, cerca di superare la deriva dell’universalizzazione (o assolutizzazione) dei sistemi di ragioni. Per applicare questa prospettiva teorica è necessario indagare le origini e i punti di forza individuali dei sentimenti di giustizia. Come scrive Boudon, infatti, «non si può comprendere la loro importanza collettiva se non si è certi di avere afferrato bene le loro radici nell’individuo» (Boudon 2002, p. 10). A questo fine vengono in aiuto due filoni di studio che hanno visto protagonisti, in particolare, i sociologi del diritto e gli psicologi sociali, ovvero quello sulla coscienza e sulla socializzazione normativa e giuridica e quello sulle rappresentazioni sociali della giustizia. Il primo di questi filoni teorici considera le idee, i sentimenti e gli orientamenti verso i criteri di giustizia tra gli elementi costitutivi e distintivi del percorso che porta i soggetti, fin dall’infanzia, a maturare il proprio modo di vivere le norme e di stare nella società. Il secondo filone di studi si propone di comprendere il rapporto tra posizioni individuali e sentimenti collettivi in tema di giustizia, nonché di spiegare i meccanismi con i quali vengono interiorizzati e utilizzati i diversi criteri di definizione di ciò che è giusto o ingiusto. Con il concetto di rappresentazioni sociali entriamo, infatti, nel campo della mediazione simbolica tra l’oggetto della conoscenza e il soggetto conoscente (Cassirer 1961). Secondo lo psicologo sociale Willem Doise le rappresentazioni sociali sono definibili come «principi organizzatori dei rapporti simbolici fra individui e fra gruppi» (Doise 2002, p. 78). Esse costituirebbero delle «credenze comuni a proposito di un oggetto sociale rilevante», credenze condivise dai membri di una società o di un gruppo (Doise, Clémence, Lorenzi-Cioldi 1992); una sorta di «mappa mentale» condivisa nella quale convergono i significati comuni che permettono la comunicazione tra i membri di un determinato gruppo. L’esistenza di un comune sistema di riferimento non implica tuttavia «che gli individui si rapportino allo stesso modo all’oggetto sociale in questione» (Doise 2002, p. 79). In estrema sintesi i punti cardine di questa teoria sono: la diversità delle posizioni individuali e dei significati attribuibili agli oggetti sociali e la natura ambivalente dell’individuo, al tempo stesso recettore e creatore della realtà sociale e della sua proiezione simbolica. Mediante il concetto di rappresentazione sociale ci si propone di capire come gli individui e i gruppi possono costruire un mondo di significati comuni, stabili e prevedibili a partire da quella diversità (Moscovici 1989). Per quanto riguarda la giustizia, così come il diritto e i diritti, occorre ricordare che, secondo Doise, si tratta di un oggetto che dà vita ad un tipo particolare di rappresentazioni sociali, da lui definite rappresentazioni sociali normative. Doise usa l’aggettivo normative per indicare unicamente quelle rappresentazioni sociali che hanno per oggetto le norme, e non per sottolineare il carattere normativo che tutte le rappresentazioni sociali possiedono in quanto attribuiscono ad un oggetto sociale un significato e un’immagine verso i quali la realtà, laddove non vi corrisponda nei fatti, dovrebbe tendere e conformarsi (Doise 2002). Le ricerche svolte dagli psicologi e dai sociologi attorno alle rappresentazioni sociali normative della giustizia e dei diritti fondamentali (Delmas-Marty et al. 1989; Moghaddam, Vuksanovic 1990; Clémence, Doise 1995; Spini, Doise 1998; De Piccoli, Favretto, Zaltron 2001; Bosisio, Leonini, Ronfani 2003) hanno studiato le dimensioni che determinano e organizzano le diverse prese di posizione individuali rispetto agli oggetti in esame. Queste ricerche hanno confermato le ipotesi generali della teoria: - la presenza di idee-forza condivise nei diversi campi della giustizia commutativa, distributiva e procedurale; - l’oggettivazione dei principi formali tramite l’utilizzo di criteri più accessibili all’esperienza come il merito, il bisogno, l’uguaglianza; 4 - la differenziazione delle prese di posizione individuali e il loro ancoraggio a variabili socioculturali, quali l’età, il genere, lo status socio-economico e culturale, la scolarità. Queste medesime ricerche hanno inoltre evidenziato altri elementi di interesse. Fra questi vanno sottolineati l’effetto di scollamento tra l’adesione generalmente ampia e netta degli attori sociali ai principi di giustizia e all’idea della dignità umana e la contemporanea tolleranza o non riconoscimento delle violazioni di tali principi in casi concreti; e l’uso etnocentrico delle rappresentazioni normative su categorie quali democrazia e diritti umani, che porta ad un maggiore riconoscimento delle violazioni nei paesi del Terzo mondo, o comunque non occidentali, e viceversa ad una maggiore propensione a tollerare le stesse negli stati democratici occidentali. Sono inoltre stati rilevati due aspetti capaci di influenzare il giudizio di chi deve riconoscere e valutare la gravità di un’ingiustizia: da un lato, il giudizio riservato alla vittima, dall’altro lato, l’influenza del contesto nel quale si svolge o prende forma l’ingiustizia stessa. Secondo Doise entrambi questi aspetti portano ad una visione sfumata dell’universalità e dell’inviolabilità dei principi generali, «a favore di regolazioni di natura interindividuale, di gruppo e sociale » (Doise 2002, p. 106). 4. Le ipotesi della ricerca La ricerca sulle rappresentazioni sociali degli adolescenti attorno al tema della giustizia che la nostra unità di ricerca ha svolto a Milano e Brescia tra il 2003 e il 2005 si è posta l’obiettivo di rilevare i sentimenti, le percezioni e le rappresentazioni degli adolescenti in merito a numerose questioni di giustizia. La fascia di età prescelta per i soggetti della ricerca è quella dell’adolescenza. Infatti, secondo gli orientamenti della psicologia, in questa fase della vita si acquisisce la capacità di giudizio etico e politico, in particolare attraverso l’elaborazione del sentimento di ingiustizia (Lebovici 1995). Questa fascia di età è inoltre ritenuta particolarmente importante dalla psicologia evolutiva non solo ai fini dell’acquisizione delle capacità di discernimento e di autonomia di giudizio, ma anche per ciò che concerne l’assunzione di responsabilità nei gruppi di pari e nelle relazioni interpersonali con gli adulti, anche in attività di tipo partecipativo. Per quest’ultimo motivo si è scelto di includere tra i soggetti della ricerca alcuni iscritti all’associazione Centro Nazionale Giovani Esploratori Italiani (CNGEI) di Milano, un’associazione laica di scout che impegna i ragazzi e le ragazze nel loro tempo libero in molteplici attività. L’Associazione promuove «l’educazione congiunta di ragazzi e ragazze nello spirito di uguaglianza», «l’applicazione della democrazia in un contesto di amicizia e reciproco rispetto», la laicità «che valorizza i principi di libertà delle scelte religiose, politiche e culturali», e infine l’impegno degli adulti «quale supporto per i giovani a divenire cittadini attivi e responsabili nella propria comunità» 1 . La ricerca si è svolta su un campione di 141 adolescenti (69 maschi e 72 femmine) di età compresa tra i 14 e i 17 anni. 125 erano studenti di quattro scuole secondarie superiori di Brescia (un liceo, un istituto tecnico e due istituti professionali) e 16 erano membri dell’associazione CNGEI di Milano. Sono stati intervistati individualmente 99 adolescenti (90 presso le scuole e 9 presso il CNGEI), mentre 42 sono stati coinvolti negli focus groups, 6 dei quali realizzati nelle scuole bresciane e 2 nella sede milanese dell’associazione. Gli adolescenti sono stati posti di fronte a questioni molto diverse fra loro, a partire da quelle più semplici riguardanti la loro vita quotidiana (piccole decisioni da prendere in ambito familiare o amicale), per passare a situazioni a loro meno vicine e abituali (decisioni amministrative e politiche da prendersi in ambito locale o nazionale), fino a questioni anche molto complicate, quali ad esempio quelle relative a possibili violazioni dei diritti umani. È stato anche chiesto loro di confrontarsi con casi dilemmatici e scelte tragiche (Calabresi, Bobbitt 1986), nonché di valutare concreti problemi relativi al rapporto tra il proprio senso di giustizia e questioni strettamente giuridiche relative a precise disposizioni del diritto positivo o a decisioni giudiziarie. 1 www.cngei.it/ita/cngei/history2.htm 5 Nella ricerca è stata adottata la prospettiva in base alla quale i giudizi attorno alle questioni di giustizia sono considerati l’esito e la compenetrazione di più criteri che variano in relazione ai differenti contesti culturali e sociali. Secondo questo approccio, inoltre, gli attori sociali scelgono diversi criteri di giustizia – per esempio in base al merito, al bisogno e all’uguaglianza – a seconda delle situazioni concrete che vengono presentate e dei diversi contesti di riferimento nei quali si inseriscono le situazioni. Per verificare tale ipotesi si è deciso di proporre al campione situazioni anche molto simili tra loro, ma inserite in contesti caratterizzati da rapporti differenti fra gli attori, ovvero situazioni sostanzialmente identiche dove a variare sono unicamente le caratteristiche dei protagonisti o la relazione che li unisce. Più specificamente, l’obiettivo è stato quello di individuare le dimensioni che influiscono sulle diverse prese di posizione individuali rispetto alle singole questioni e ai dilemmi morali, cioè quelli che abbiamo definito gli ancoraggi tra gli orientamenti sulla giustizia e i sistemi di riferimento valoriale, culturale e sociale degli attori sociali. Si è inoltre tenuta in considerazione l’importanza del genere. I risultati delle ricerche sulla socializzazione normativa e sullo sviluppo morale sottolineano, infatti, come nell’elaborazione delle idee attorno alla giustizia le femmine acquisirebbero nel corso della loro socializzazione orientamenti riferibili più alla morale della responsabilità, della lealtà e del bisogno, mentre nei maschi si svilupperebbe un senso della giustizia maggiormente orientato ai diritti e ai doveri che hanno origine nelle convenzioni sociali, giuridiche e politiche (Gilligan 1982). Nella ricerca si è infine prestata specifica attenzione al senso di giustizia nelle relazioni familiari. La famiglia è, infatti, il contesto primario della socializzazione normativa e giuridica nel quale si elaborano e si sperimentano le prime nozioni del giusto e dell’ingiusto e, in senso più lato, della giustizia sia commutativa sia distributiva. Tale contesto peraltro si presenta oggi come molto problematico non solo perché le relazioni familiari sono diventate molto complesse, ma anche perché la regolazione dei conflitti all’interno della famiglia non fa più riferimento a univoche norme di giustizia (Pocar, Ronfani 1999). Inoltre, appare lecito ipotizzare che, per la spiccata personalizzazione delle relazioni, le regole di giustizia che vigono all’interno della famiglia possano essere complessivamente distinte dalle regole di giustizia operanti al di fuori di essa. Si verrebbe così a porre il problema della compresenza di due differenti ordinamenti morali con la conseguente necessità di acquisire la capacità di discernere i rispettivi ambiti di applicazione. Riassumendo, le ipotesi-guida della ricerca possono essere così sintetizzate: a) non è reperibile un criterio unico di giustizia, ma una pluralità di criteri assiologici entro la quale le persone scelgono quello ritenuto adatto nei diversi contesti e situazioni, di natura vuoi personale, vuoi impersonale (Kellerhals, Modak, Sardi 1995); b) può verificarsi uno scollamento tra ciò che è ritenuto giusto ad un livello astratto del ragionamento (le idee-forza sulla giustizia e sui diritti) e ciò che è ritenuto giusto nel momento in cui quel ragionamento e quelle idee sono applicati in specifiche situazioni (Doise 2005); c) la partecipazione ai processi decisionali è un elemento procedurale importante per considerare giusta una decisione (Tyler 1990); d) le esperienze partecipative sono rilevanti nella selezione dei criteri e nella formazione delle rappresentazioni sociali in tema di giustizia (Sampson 1981; Vygotskij 1987); e) l’ambito familiare è un contesto di riferimento speciale per studiare i sentimenti di giustizia; in esso si utilizzano criteri e regole distinti da quelle che vigono all’esterno (Pocar, Ronfani 1999); f) la variabile del genere è influente nel determinare i criteri morali e il senso di giustizia (Gilligan 1982). 5. Il piano della ricerca La ricerca è stata svolta utilizzando una metodologia qualitativa. L’obiettivo è stato, infatti, quello di rilevare le posizioni dei soggetti in relazione alle questioni di giustizia, ai dilemmi e alle scelte tragiche proposti, ma anche di cogliere le motivazioni delle loro scelte. È stato chiesto pertanto ai partecipanti alla ricerca di prendere una posizione, di scegliere tra diverse possibili soluzioni che rispondessero al loro senso di giustizia, e di spiegarne le motivazioni. Secondo gli studiosi, in 6 particolare gli psicologi, che studiano la nascita del senso di giustizia nei bambini questo metodo si presenta particolarmente valido per individuare le basi cognitive per lo sviluppo dei sentimenti di giustizia (Damon 1981, p. 58). Per la raccolta dei dati sono state utilizzate due tecniche: l’intervista semistrutturata e il focus group. Le questioni di giustizia sono state indagate mediante le interviste; le situazioni dilemmatiche sono state presentate e discusse nell’ambito dei focus groups. 5.1 Le interviste Nelle interviste sono stati presentati alcuni scenari significativi attinenti ai diversi ambiti della giustizia distributiva, della giustizia procedurale, dell’attribuzione di responsabilità e della tollerabilità nei confronti dell’ingiustizia. Più specificamente, con riferimento all’ambito della giustizia distributiva nell’elaborazione degli items ci si è soffermati sulla scelta nelle decisioni distributive, da un lato, tra i tradizionali criteri del merito, del bisogno, dell’uguaglianza (Ferrari V. 1996; Kellerhals J., Modak M., Sardi M. 1995; Törnblom 1992). e, dall’altro lato, tra criteri di micro o di macro giustizia (Brickman et al. 1981). Per quanto riguarda l’ambito della giustizia procedurale, negli items si è prestata attenzione alle regole e alle procedure che si applicano nei processi decisionali. È stata considerata la contrapposizione fra decisioni autocratiche e decisioni che rappresentano l’esito di processi di partecipazione e negoziazione; ci si è pertanto soffermati sulla questione della partecipazione del minore al processo decisionale. L’obiettivo è stato quello di verificare se il suo coinvolgimento, in particolare l’ascolto della sua opinione in ambito giudiziario così come extragiudiziario, può essere ritenuto un elemento importante per valutare giusta la decisione assunta (Tyler 1990). Per ciò che concerne l’ambito dell’attribuzione di responsabilità, l’argomento è stato affrontato con riferimento a due diversi temi, quello della responsabilità contrattuale e quello che abbiamo definito della gerarchia della responsabilità. In relazione al primo contesto, si è considerata la possibile tensione tra disposizioni e obblighi contrattuali, da un lato, e sentimenti di giustizia, dall’altro lato, al fine di valutare l’orientamento degli intervistati rispetto alle categorie del formalismo – le responsabilità sono quelle che le parti hanno volontariamente concordato e stipulato – del provvidenzialismo – la responsabilità viene trasferita sulle organizzazioni a cui fa capo l’individuo – e del finalismo – le responsabilità vanno attribuite con il fine di proteggere o migliorare il benessere del maggior numero possibile di soggetti (Kellerhals, Modak, Sardi 1995). Con riferimento al tema della gerarchia della responsabilità sono stati invece scelti alcuni scenari nei quali particolari azioni o comportamenti provocano danno a singoli individui o alla collettività. È stato chiesto agli intervistati di posizionare lungo una scala di responsabilità alcuni attori indicati. Gli obiettivi di questa sezione erano due: quello di verificare se gli intervistati ponessero l’accento più sulla responsabilità individuale o sui condizionamenti sociali, e quello di osservare la rilevanza dei tre criteri dell’iniziativa – per cui la responsabilità è attribuita a chi materialmente ha provocato il danno – della competenza – dove la responsabilità è dell’attore che, per sue specifiche conoscenze o competenze tecniche, è maggiormente in grado di valutare i rischi connessi a determinate azioni – e della gerarchia – secondo cui la responsabilità ricade maggiormente su chi, tra i soggetti coinvolti, possiede lo status gerarchico più elevato (Kellerhals, Modak, Sardi 1995). Infine, il tema della tollerabilità nei confronti dell’ingiustizia è stato affrontato con un duplice obiettivo: verificare, da un lato, la percezione del senso di ingiustizia e, dall’altro lato, se l’accettazione di un’ingiustizia dipenda dalle caratteristiche del soggetto che la subisce (tipo di vittima) e/o dalle motivazioni o finalità per cui tale ingiustizia viene compiuta. A tal fine sono stati formulati cinque items sul tema dei diritti umani. Quattro di essi sono stati presentato in due versioni distinte rispetto al tipo di vittima dell’ingiustizia; l’ultimo, più complesso, riguardava invece il tema dell’accettabilità dell’ingiustizia subita da singoli individui (atti di tortura) quando essa è finalizzata al raggiungimento del bene comune (salvare numerose vite). In questo caso, oltre al sentimento di ingiustizia, si è voluto indagare anche l’aspetto della gerarchia delle responsabilità. 7 5.2 I focus groups Per affrontare i dilemmi morali e le scelte tragiche si è invece scelto di utilizzare la tecnica del focus group. Questa seconda tecnica si rivela particolarmente adatta per analizzare temi sui quali non vi sono posizioni largamente condivise, poiché permette ai partecipanti di discutere e confrontarsi, e offre pertanto al ricercatore la possibilità di rilevare l’interazione nel processo di formazione delle opinioni. Il focus group prevede, infatti, il coinvolgimento dei soggetti in processi decisionali di tipo partecipativo. In tal senso, è stato interessante osservare il ruolo della partecipazione nel ragionamento messo in atto per giungere ad una decisione considerata «giusta» (Corrao 2000). Ciò è stato possibile osservando il processo attraverso il quale i soggetti si sono formati un’opinione in merito alle situazioni dilemmatiche proposte, anche modificando la loro opinione iniziale conseguentemente al confronto e all’interazione con i propri pari. Ai partecipanti ai focus groups sono stati presentati cinque scenari elaborati a partire da altrettante situazioni dilemmatiche che si rivelano particolarmente adatte a verificare se gli adolescenti sono in grado di elaborare complessi ragionamenti in merito ad altrettanto complesse questioni di giustizia; e se, al pari degli adulti, nei loro ragionamenti si richiamano ad una pluralità di riferimenti normativi e di principi morali da utilizzare in modo selettivo e complementare a seconda delle situazioni specifiche. I primi tre scenari, tratti da quelli che Kohlberg e i suoi collaboratori hanno elaborato negli anni Sessanta per le loro ricerche, sono i più semplici. Essi presentano una gamma di situazioni molto diverse fra loro. Il primo è uno scenario di vita quotidiana e riguarda una normale situazione di conflitto di lealtà tra genitori e figli e tra fratelli. Il secondo scenario pone la difficile questione di scegliere tra due comportamenti entrambi illeciti, valutandone comparativamente la gravità e le conseguenze personali e sociali. Il terzo, infine, riguarda una situazione estrema quale la decisione di procurarsi illegalmente un farmaco indispensabile per salvare una vita. Il penultimo scenario presentato è una sintesi dell’opera Michael Kohlhaas di Von Kleist del 1810 ed è finalizzato a far riflettere e discutere i partecipanti ai focus groups sui temi dell’obbedienza alla legge ingiusta, della lotta per la giustizia e della liceità di ricorrere alla violenza per riaffermare un proprio diritto violato. Infine, lo scenario tratto dal saggio scritto da Lon Fuller nel 1949, The case of the Speluncean Explorers, (da noi rielaborato e semplificato) pone i partecipanti ai focus groups di fronte alle diverse soluzioni possibili riguardo alla più classica delle scelte tragiche: sacrificare una vita per salvarne altre. 6. I risultati Presentiamo di seguito alcuni degli items sulle questioni di giustizia rappresentativi dei diversi ambiti di indagine, e due delle cinque situazioni dilemmatiche proposte nei focus groups, per offrire una panoramica, seppur parziale, sui risultati della ricerca svolta. Per ogni ambito di indagine la presentazione dei risultati sarà preceduta da un rapido riferimento alle teorie e alle ricerche utilizzate per l’elaborazione degli items e per la loro interpretazione. 6.1 La distribuzione equa Nell’ambito degli studi sulla giustizia, particolare attenzione è stata dedicata alla giustizia distributiva, sia per quanto riguarda le elaborazioni teoriche sia per quanto riguarda le ricerche empiriche (Ferrari 1996). In particolare, le ricerche hanno messo in luce come il carattere fortemente contestuale delle situazioni influenzi le scelte allocative al pari delle variabili del genere, dell’estrazione sociale e dell’età, e come i giudizi attorno alle questioni della giustizia distributiva siano il frutto della compenetrazione e del bilanciamento di più criteri (il merito, il bisogno, l’uguaglianza) e varino in relazione ai differenti contesti culturali, sociali, ma anche relazionali (Miller 1992; Kellerhals et al. 1995; Kellerhals, Languin, Sardi 2001). 8 L’ipotesi generale è che le norme di giustizia riflettano più la relazione che unisce i soggetti e meno l’equilibrio nello scambio di risorse, e che pertanto esse cambino a seconda del contesto. Più precisamente si può ritenere, in contrasto con una visione «oggettiva» della giustizia, che il senso di giustizia sia l’espressione del tipo di relazione, e che perciò non esista un senso della giustizia individuabile in astratto a prescindere dalle situazioni concrete (Kellerhals et al. 1995, p. 322). Relativamente al contesto relazionale, in questi studi sono stati considerati due aspetti delle relazioni: da un lato, il livello di impersonalità e, dall’altro lato, l’affinità tra le parti coinvolte dal punto di vista culturale o affettivo. Per quanto riguarda il primo aspetto, nelle ricerche sono state ipotizzate situazioni in cui il soggetto identifica il suo interlocutore esclusivamente con «l’insieme dei suoi status» e dei ruoli ad essi connessi (relation agentique 2 ) e situazioni in cui l’altro è invece considerato nella sua soggettività (Kellerhals et al. 1995, p. 321). Il secondo aspetto riguarda invece la somiglianza, cioè quanto le parti coinvolte nello scambio o nella distribuzione sono simili sul piano culturale (degli atteggiamenti, e degli status) e vicini dal punto di vista affettivo (legati da amicizia o parentela, oppure estranei o nemici). Secondo questo approccio, di fronte alla persona, cioè un soggetto con una propria identità e personalità, la regola del merito sembrerebbe perdere rilevanza. Al contrario, quando l’altro è identificato come semplice agente, cioè come rappresentante di un ruolo, di una posizione o di una funzione, il criterio del merito rappresenterebbe quello più giusto (Wilke 1983; Grumbkow et al. 1976; Shapiro 1975; Stake 1983). Le ipotesi di questi studiosi sono riconducibili alla prospettiva che era stata elaborata da Lerner (1977), secondo cui le norme di giustizia sono individuabili a partire da due dimensioni: quella della prossimità dei soggetti e quella della personalizzazione delle relazioni, ove per relazione personalizzata si intende un rapporto tra soggetti che si riconoscono in quanto persone. Ricerche sulla giustizia distributiva sono state condotte anche all’interno di contesti cooperativi, quale ad esempio il lavoro di squadra. In questi lavori è stata sottolineata l’importanza della percezione di sé rispetto al gruppo. Sembra, infatti, che quanto più forte è la coscienza di sé, tanto più frequentemente si prediliga il criterio proporzionale; viceversa, l’accentuazione della coscienza di gruppo porterebbe a preferire il criterio dell’uguaglianza (Greenberg 1980; Wegner 1982). Da questi esperimenti si evince che la condivisione tra i membri del gruppo di un comune obiettivo o destino, rafforzando la solidarietà e la coscienza di gruppo e accentuando l’idea dell’uguaglianza, fa sì che i soggetti siano propensi a rinunciare alla regola della proporzionalità (Wegner 1982). I risultati della nostra ricerca, per quanto concerne l’ambito della giustizia distributiva, hanno confermato, anche nel caso degli adolescenti, come la valutazione di giusto o sbagliato in merito ad una distribuzione di risorse o ricompense sia l’esito di un ragionamento nel quale sono congiuntamente considerati molteplici elementi, tra i quali un ruolo rilevante ricopre il tipo di relazione che unisce i destinatari della distribuzione, nonché la valutazione delle caratteristiche dei singoli soggetti e la percezione di sé rispetto agli altri potenziali destinatari delle risorse. A titolo di esempio riportiamo i risultati di due items i cui risultati sono particolarmente significativi per mettere in luce quanto affermato. 6.1.1 Un lavoro di squadra Il primo item presenta una situazione caratterizzata da un contesto relazionale, oltre che personalizzato e di prossimità affettiva, anche di tipo cooperativo, più specificamente, di lavoro di squadra. Lo scenario presentato agli intervistati era il seguente: 2 L’espressione relation agentique (così come quelle di agentisme, type agentique, report agentique, a cui si farà successivamente riferimento) non ha un’equivalente traduzione italiana. Le espressioni che, nella nostra lingua, sono state usate per indicare concetti simili sono quelle di prospettiva agentica, utilizzata con riferimento ad Albert Bandura (2000) e quella di stato eteronomico, adottata con riferimento a Stanley Milgram (2003). Nel presente lavoro si è deciso di usare i termini agentismo, agentico e prospettiva agentica. 9 Il signor Carlo chiede a Gianni, Luca e Elisa, figli di alcuni vicini di casa, se vogliono guadagnarsi 15 euro lavando la sua automobile. I ragazzi accettano. A lavoro concluso, il signor Carlo deve decidere come distribuire la somma fra i tre ragazzi. Secondo te, il signor Carlo come dovrebbe distribuire la somma? – Dovrebbe dare 5 euro a ciascuno di loro – Dovrebbe dare più soldi a Gianni perché è quello che ha lavorato di più e meglio – Dovrebbe dare più soldi a Luca, poiché sa che in questo momento la sua famiglia è in difficoltà economiche – Dovrebbe dare i 15 euro ai ragazzi e lasciare a loro la decisione di come dividersi il denaro Con riferimento a questa specifica situazione, molti intervistati hanno innanzitutto sottolineato come non esista un criterio definibile «giusto» in assoluto. È infatti loro convinzione che si debbano valutare le specifiche circostanze, e decidere in relazione alle caratteristiche di quello specifico contesto. Alcuni intervistati sottolineano in proposito che l’intensità del legame di amicizia che unisce i ragazzi, cioè la prossimità affettiva tra i soggetti coinvolti, è determinante nel propendere per un criterio piuttosto che per un altro, e dichiarano che quando si è uniti da un legame di amicizia forte è giusto utilizzare il criterio dell’uguaglianza, avvalorando quanto affermato dagli studiosi circa, appunto, l’importanza del legame affettivo per determinare il «giusto» criterio distributivo. L’analisi delle risposte ha quindi rivelato come la maggioranza degli intervistati ritenga giusto adottare il criterio dell’uguaglianza (Tab. 1). Le motivazioni addotte per giustificare la scelta sono riconducibili prevalentemente al fatto che tutti e tre i ragazzi hanno collaborato al lavoro, confermando i risultati delle ricerche realizzate con soggetti adulti in contesti di lavoro di squadra. Altri intervistati ritengono che sia il modo migliore per evitare litigi; qualcuno afferma, invece, che non si devono fare differenze e che perciò i tre amici devono essere trattati allo stesso modo. Possiamo pertanto concludere che i risultati della nostra ricerca relativamente alla giustizia distributiva, confermano sia quanto riscontrato nelle ricerche condotte in contesti relazionali personalizzati, in particolare i risultati di quegli studi che si sono invece soffermati sull’importanza del legame affettivo nella scelta del giusto criterio distributivo (Kellerhals et al. 1995), sia quelli rilevati dalle ricerche nel contesto del lavoro di squadra, brevemente richiamate. Tab. 1 - Come distribuire il compenso per il lavaggio dell’auto Dare 5 euro a ciascuno Dare di più a Gianni che ha lavorato di più Dare di più a Luca che ha più bisogno Lasciar decidere ai ragazzi Totale casi % 60,6 7,1 4,0 28,3 99 È anche importante sottolineare che più di un quarto degli intervistati ritiene giusto lasciare decidere ai ragazzi come dividersi la ricompensa. Ed è inoltre significativo il fatto che la maggior parte di costoro ritenga che il criterio che i ragazzi dovrebbero, a loro volta, scegliere per dividersi la somma, sia quello dell’uguaglianza – confermando anche in questo caso l’importanza del legame affettivo sulla scelta del criterio distributivo. Pur non avendo riscontrato differenze statisticamente significative rispetto alle variabili del genere e dell’estrazione socio-economica, nel nostro campione abbiamo rilevato alcune tendenze. Più specificamente, il numero di coloro che sono favorevoli a lasciar decidere i ragazzi su come distribuirsi il compenso per il lavaggio dell’auto cresce all’aumentare del livello di istruzione e occupazionale della famiglia di origine. Inoltre, contrariamente a quanto comunemente riscontrato nelle ricerche, sono maggiormente meritocratici i soggetti provenienti da famiglie con un basso livello di istruzione familiare e occupazionale. 6.1.2 Il sindaco e le borse di studio La seconda situazione nell’ambito della giustizia distributiva di cui presentiamo i risultati, riguarda una decisione da prendere in un contesto relazionale burocratizzato. Più specificamente, si chiedeva agli intervistati di scegliere quale criterio il sindaco di un comune avrebbe dovuto adottare per distribuire il denaro lasciato da un benefattore al fine di istituire delle borse di studio a favore dei ragazzi e delle ragazze che avevano appena concluso la scuola dell’obbligo. 10 Nel comune di Papalla un benefattore lascia al sindaco una somma di denaro per istituire delle borse di studio a favore dei ragazzi/e che hanno ultimato le scuole medie. Il sindaco, insieme ai suoi consiglieri, deve decidere come distribuire il denaro. È indeciso tra differenti proposte avanzate da diversi consiglieri. Secondo te, quale sarebbe la decisione più giusta? – Dovrebbe dare il denaro ai primi dieci ragazzi/e che hanno avuto la votazione migliore nella licenza media – Dovrebbe dare il denaro ai dieci ragazzi/e le cui famiglie risultano economicamente più bisognose – Dovrebbe dividere il denaro in parti uguali fra tutti i ragazzi/e che hanno concluso le medie – Dovrebbe estrarre a sorte dieci ragazzi/e ai quali destinare il denaro – Dovrebbe istituire un concorso fra i ragazzi/e che hanno ultimato le scuole medie, che prevede lo svolgimento di un tema e premiare con il denaro del benefattore i tre migliori classificati Relativamente a questa seconda questione il nostro campione si divide pressoché a metà tra coloro che ritengono giusto premiare con la borsa di studio gli studenti e le studentesse le cui famiglie sono economicamente più bisognose, in accordo con i risultati ottenuti in altre ricerche condotte con soggetti adulti su questioni simili (Brickman et al. 1981) e coloro che, invece, ritengono giusto adottare il criterio meritocratico, nelle due diverse modalità prospettate – premiare i migliori a scuola o i primi tre classificati in un concorso (Tab. 2). Le motivazioni addotte dalla maggior parte degli adolescenti che optano per il criterio del bisogno fa riferimento al fatto che le famiglie bisognose devono essere aiutate nel compito di far proseguire gli studi ai figli. Altri sottolineano però che, insieme al bisogno, dovrebbe essere tenuto in considerazione anche il merito, nel senso che tra gli studenti bisognosi dovrebbero essere premiati i più meritevoli. Una esigua minoranza ritiene giusto adottare il criterio dell’uguaglianza poiché tutti devono essere trattati allo stesso modo. Infine, nessuno ha ritenuto giusto lasciar decidere alla sorte a chi assegnare il denaro. Tab. 2 Come assegnare le borse di studio % Premiare i migliori dieci Destinarla ai dieci meno abbienti più bisognosi Dividere la somma in parti uguali tra tutti Premiare i primi tre classificati in un concorso Destinarla ai meritevoli e ai meno abbienti Totale casi 28,3 44,4 8,1 17,2 2,0 99 Un confronto rispetto al livello di istruzione e allo status professionale dei genitori mostra – in contrasto con i risultati comunemente riscontrati nelle ricerche – che nel nostro campione sono per lo più ragazzi e ragazze con uno status socio-economico e culturale familiare basso a ritenere giusto adottare il criterio del merito, mentre i ragazzi di estrazione economica e culturale più elevata optano maggiormente per il criterio del bisogno. Tali differenze non sono tuttavia significative dal punto di vista statistico. Alcune differenze, in questo caso invece statisticamente significative, sono state poi rilevate con riferimento all’età e al tipo di scuola frequentata. Al crescere dell’età aumenta infatti il numero di coloro che scelgono il criterio del bisogno, mentre diminuisce il numero di coloro che sono propensi ad adottare uno dei due criteri meritocratici e quello dell’uguaglianza. Infine, gli studenti dell’istituto tecnico e dei due istituti professionali sono maggiormente meritocratici rispetto agli studenti del liceo, i quali ritengono invece più giusto adottare il criterio del bisogno. 6.2 Questione di procedura Il tema del giusto processo è stato affrontato dagli studiosi adottando due differenti approcci: quello strumentale e quello normativo. Secondo un approccio di tipo strumentale i soggetti reagiscono alle loro esperienze con la giustizia sulla base degli esiti a loro favorevoli; pertanto giudicano l’equità dei procedimenti in relazione ai margini, più o meno ampi, della propria influenza sulla decisione. In altre parole, essi ritengono eque quelle procedure che permettono loro di avere un controllo sull’esito del processo. Disporre di tale controllo significa, infatti, avere la possibilità di orientare la decisione a proprio favore (Tyler 1990). 11 Viceversa, secondo una prospettiva normativa, le valutazioni da parte delle persone delle proprie esperienze con la giustizia non sono determinate dall’esito della decisione, ma dalla corrispondenza con il proprio senso di giustizia e con i propri principi morali. Pertanto, con riferimento alla cultura occidentale, esse valuteranno l’equità delle procedure sulla base di elementi distinti dal loro esito, quali la neutralità del giudice, la sua onestà ed equità, la sua correttezza e il rispetto dei diritti delle parti (Tyler 1990). Rientra in questi elementi anche la possibilità dei soggetti coinvolti di intervenire nel corso del processo, in particolare di essere ascoltati e di presentare la propria versione dei fatti (Thibaut, Walker 1981; Tyler 1990). Va sottolineato che il process control, cioè la opportunità di partecipare al procedimento disponendo della possibilità di influire in qualche misura sul processo, è importante in entrambi gli approcci. Ma mentre nell’approccio strumentale questa forma di controllo è finalizzata ad orientare l’esito a proprio favore, e quindi a controllare la decisione (decision control), nell’approccio normativo essa risponde non tanto all’obiettivo di ottenere una decisione a proprio favore, ma a finalità definite value-expressive, che risponderebbero cioè al bisogno dei soggetti di vedere ribaditi nelle procedure giudiziarie i valori che ritengono essere propri della giustizia (Tyler 1990). In tal senso «le persone valutano positivamente l’opportunità di presentare il loro caso, indipendentemente dal fatto che le loro dichiarazioni influenzino le decisione delle autorità (…). Si sentono più equamente trattate se hanno l’opportunità di esprimere le loro opinioni» (Tyler 1990, p. 116). Affinché tale bisogno sia soddisfatto devono sussistere alcuni prerequisiti fondamentali (Tyler, Rasinski, Spodick 1985, Leventhal 1980): l’imparzialità, la buona fede e l’onestà del giudice, la considerazione del punto di vista delle parti e l’accuratezza della decisione, cioè «la capacità di una procedura di giungere a soluzioni che siano oggettivamente di elevata qualità [servendosi] di informazioni accurate e opinioni informate» (Tyler 1990, p. 119). I risultati di alcune ricerche hanno inoltre evidenziato l’influenza del tipo di disputa, delle caratteristiche dei soggetti coinvolti (quali ad esempio il genere, l’etnia, l’età, il livello d’istruzione, il reddito e l’orientamento liberale o conservatore), così come l’importanza della relazione che intercorre tra questi ultimi, sulla valutazione dell’equità di una procedura. Sembrerebbe, ad esempio, che al crescere del livello di istruzione aumenti l’attenzione verso la dimensione dell’eticità della procedura; mentre l’appartenenza ad una minoranza etnica porta a prestare maggiore attenzione alla eventuale faziosità del giudice e alla conseguente possibile disparità di trattamento dei soggetti coinvolti. Non è invece chiaro come agiscano il tipo di disputa e la sua gravità, pur essendosi rilevata la loro importanza. 6.2.1 La paghetta di Luca Nella nostra ricerca, un item relativo a questo ambito di indagine risulta particolarmente interessante da analizzare. Esso, come previsto, era stato formulato in due versioni nelle quali la decisione veniva assunta rispettivamente in modo autocratico e attraverso un processo decisionale partecipativo. Le due versioni, però, si distinguevano anche per un secondo elemento: nella versione nella quale la decisione è assunta coinvolgendo il minore, l’esito è meno favorevole al destinatario della decisione rispetto a quello in cui la decisione è presa autocraticamente. L’item, nelle due versioni, era il seguente: 12 Prima versione Luca ha 12 anni; chiede ai genitori di ricevere una paghetta settimanale per le proprie esigenze personali. Il padre e la madre di Luca, senza interpellarlo in proposito, decidono che sette euro settimanali sono un importo adeguato alle esigenze personali di un ragazzo di 12 anni come Luca. Secondo te, la decisione dei genitori di Luca è giusta? Seconda versione Luca ha 12 anni; chiede ai genitori di ricevere una paghetta settimanale per le proprie esigenze personali. Per stabilire l’ammontare della paghetta i genitori ritengono utile parlarne tutti insieme. Luca dice che, secondo lui, sette euro la settimana possono essere un importo adeguato, che corrisponde più o meno a quello che ricevono i suoi amici. I genitori di Luca sono d’accordo nel ritenere che si tratta di una cifra adeguata, ma gli fanno presente che in questo periodo stanno affrontando molte spese come le rate mensili del mutuo per la casa e quelle per l’acquisto dell’auto nuova. Decidono quindi di dare a Luca cinque euro. Secondo te, la decisione dei genitori di Luca è giusta? Il 66% degli intervistati si dichiara d’accordo con la decisione presa autocraticamente dai genitori. A giudicare giusta la decisione quando la stessa è presa mediante un processo decisionale partecipativo, che prevede il coinvolgimento del figlio, sono però la quasi totalità degli intervistati (Tab. 3). Va sottolineato che un numero maggiore di adolescenti ritiene giusta la decisione presa secondo la modalità partecipata anche se l’importo destinato per la paghetta di Luca in questo secondo caso è inferiore, e quindi a lui meno favorevole. Tab. 3 – Decisione dell’importo della paghetta settimanale autocratica partecipata % % Sì, giusta No, non giusta Totale casi 66,7 33,3 99 94,9 5,1 99 Occorre in primo luogo osservare che coloro che ritengono giusta la decisione presa autocraticamente dai genitori di Luca, hanno motivato la loro risposta soffermandosi esclusivamente sull’adeguatezza dell’importo, e non hanno invece prestato alcuna attenzione al processo mediante il quale la decisione è stata raggiunta. Sono, infatti, solo 5 gli adolescenti che, pur dichiarandosi d’accordo con la decisione dei genitori, hanno sottolineato nei loro commenti che questi ultimi avrebbero dovuto consultare Luca prima di decidere. Al contrario, quasi tutti coloro che non sono favorevoli alla decisione dei genitori presa autocraticamente motivano la risposta facendo esplicito riferimento alla procedura adottata, nel senso che, secondo loro, la decisione è sbagliata perché si sarebbe dovuta dare a Luca la possibilità di esprimere le proprie esigenze e il proprio punto di vista. Le motivazioni addotte da coloro che giudicano giusta la decisione assunta secondo la modalità partecipata, oltre a sottolineare l’importanza del coinvolgimento di Luca nel processo decisionale, mettono anche in evidenza la rilevanza delle specifiche esigenze famigliari e del pieno coinvolgimento di Luca nelle problematiche della famiglia. Proprio il fatto di essere fatto partecipe dei problemi familiari e quindi responsabilizzato nel proprio ruolo di componente della famiglia rende accettabile una paghetta meno ricca. I pochi intervistati contrari al coinvolgimento di Luca, sottolineano che spetta ai genitori decidere, perché Luca sicuramente avrebbe chiesto un importo elevato, forse non corrispondente alle sue reali necessità: «Il ragazzino di 12 anni chiederebbe sicuramente di più, senza basarsi su veri bisogni»; e dichiarano che «la prima procedura è più corretta [perché] è meglio che decidano solo i genitori perché probabilmente sono più oggettivi». Per concludere, dall’analisi dei risultati relativi all’ambito della giustizia procedurale emerge come di fronte ad una decisione favorevole, ma adottata autocraticamente, ed una meno favorevole, ma raggiunta secondo una procedura che risponde a principi ritenuti equi, la maggioranza dei soggetti ha preferito la seconda, confermando così l’importanza di quell’effetto espressivo di un valore dell’equità della procedura decisionale (value-expressive effect), richiamato sopra con riferimento a Tyler. 13 Infine, con riferimento agli items relativi a questo ambito della ricerca, e a differenza di quanto accaduto per la giustizia distributiva, il contesto relazionale, burocratizzato o personalizzato, non sembra esercitare alcuna influenza sulle scelte degli intervistati. Essi ritengono, infatti, più giusto il procedimento decisionale che implica la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti. È inoltre rilevante osservare come le motivazioni dei soggetti siano state ampiamente omogenee e trasversali rispetto alle variabili socio anagrafiche degli intervistati. 6.3 Giustizia e responsabilità Quando si tratta di distribuire la responsabilità tra diversi soggetti in situazioni che hanno quale oggetto delle questioni di giustizia, le ricerche svolte hanno mostrato che il contesto (impersonale o di prossimità) che caratterizza la situazione risulta essere particolarmente rilevante per la scelta dei criteri da adottare per un’attribuzione giusta delle responsabilità relative ad un evento. Ciò è stato riscontrato, come hanno mostrato Kellerhals e i suoi collaboratori, sia quando si tratta di situazioni di tipo contrattuale sia quando, più in generale, ci si trova di fronte alla necessità di attribuire una scala di responsabilità o, in altre parole, quando si affronta un problema di gerarchia della responsabilità (Kellerhals et al. 1995). 6.3.1 La responsabilità nel contratto Il caso dei rapporti contrattuali è particolarmente significativo del tema della responsabilità perché il contratto è il modo più diffuso con il quale si generano diritti e obbligazioni tra i membri della società. In questo ambito di indagine l’ipotesi di una variabilità dei criteri e delle norme di giustizia in base al contesto relazionale ha portato gli studiosi ad analizzare la «filosofia popolare del giusto contratto», e ad individuare le diverse logiche alle quali le persone fanno riferimento. Secondo Kellerhals e i suoi collaboratori (1995) esse sono tre. La prima di queste logiche è quella del volontarismo, o del formalismo, in base alla quale è giusto unicamente ciò che è frutto dell’espressione della volontà delle parti. Ciò significa che in un contratto le responsabilità sono e restano quelle che le parti hanno volontariamente definito all’atto della stipula, indipendentemente dal valore reale dell’oggetto del contratto stesso, dalle possibilità del responsabile della sua eventuale trasgressione, ed escludendo qualunque eventualità di diritto unilaterale al rifiuto. La seconda logica con la quale si individuano e attribuiscono le responsabilità è quella detta del provvidenzialismo, in base alla quale una persona che si leghi con un contratto ad un’organizzazione o ad un’impresa deve essere protetta in ogni circostanza. Ciò vale tanto in un ambito micro, come quello che lega il lavoratore all’impresa nella quale è assunto, quanto nell’ambito macro, dove il legame può essere quello del cittadino con il proprio Stato. La concezione provvidenzialista della responsabilità è pertanto di carattere agentico, tende cioè a trasferire la stessa in capo alle organizzazioni nelle quali l’individuo è inserito. Secondo questa logica egli deve essere protetto dalle conseguenze dei suoi atti, anche se colpevoli ed intenzionali, ed indipendentemente dalla natura del contratto. La terza e ultima logica è quella del finalismo, o comunitarismo. In questo caso più che l’accordo delle volontà sono il benessere degli individui, il valore intrinseco delle cose e la valutazione degli interessi ultimi delle parti a servire da criteri nel giudizio morale. In questa logica non si tratta tanto di provvedere alla protezione del soggetto più debole, ma di difendere e migliorare il «benessere dei più tramite una ponderazione degli interessi in campo, compresi quelli dei gruppi o della società nel suo insieme» (Kellerhals et al. 1995, p. 329). Nella nostra ricerca l’ambito della responsabilità contrattuale è stato affrontato con due scenari, entrambi proposti in due differenti versioni, allo scopo di rilevare l’influenza del tipo di soggetti – individui o organizzazioni «anonime» – e, come già è stato ricordato, del tipo di rapporto – di prossimità o, al contrario, impersonale – sulle scelte degli intervistati. 14 Lo scenario che qui presentiamo riguardava il caso di un risarcimento per un’intossicazione alimentare dovuta al consumo di una scatoletta di tonno. Le due versioni dello scenario prevedevano rispettivamente l’acquisto del tonno presso un piccolo droghiere di quartiere e presso un ipermercato. L’intervistato doveva individuare l’eventuale responsabile dell’intossicazione scegliendo tra l’azienda produttrice dell’alimento, il rivenditore, entrambi o nessuno. Dall’analisi comparata delle due versioni dell’item si evince una rilevante influenza del contesto nell’attribuzione della responsabilità del danno subito dal consumatore. Come si può vedere nella tabella sotto riportata, nella versione in cui il rivenditore è il droghiere da cui il cliente abitualmente si serve, la stragrande maggioranza degli intervistati ritiene giusto attribuire la responsabilità del danno alla ditta produttrice, mentre quasi nessuno sceglie l’opzione «entrambi». Quando invece il rivenditore è un ipermercato (contesto impersonale), la percentuale di coloro che attribuiscono la responsabilità dell’accaduto alla ditta produttrice scende notevolmente, mentre aumenta significativamente quella di coloro che individuano in entrambi i responsabili dell’accaduto. Tab. 4 – Tonno avariato – Attribuzione di responsabilità Azienda produttrice Rivenditore Entrambi Nessuno Totale casi Rapporto personalizzato (droghiere) % 76,8 2,0 2,0 19,2 99 Rapporto impersonale (ipermercato) % 58,6 5,1 18,2 18,2 99 L’analisi delle motivazioni rivela però che l’attribuzione della responsabilità in capo a soggetti diversi in relazione al differente contesto è dovuta più alle diverse caratteristiche del rivenditore che al tipo di rapporto tra i contraenti. Le motivazione più frequenti adottate da coloro i quali attribuiscono all’azienda produttrice l’intera responsabilità dell’accaduto sono quelle che individuano con certezza l’origine del danno in «qualche difetto di produzione» o nei «controlli insufficienti» nel processo produttivo, liberando il rivenditore da ogni responsabilità. Altri intervistati invece si riferiscono alle dimensioni dell’azienda produttrice («essendo una grossa azienda deve dare qualità ai propri clienti e quindi fare maggiori controlli») per imputare alla stessa ogni responsabilità. Coloro che imputano a soggetti diversi la responsabilità dell’accaduto nelle due versioni proposte fanno sempre riferimento nelle loro motivazioni alla maggiore capacità del ipermercato di effettuare controlli, vista la sua dimensione («il droghiere non ha la passibilità di controllare, mentre l’ipermercato è un’azienda grande, ha più possibilità di controllare, anche loro hanno dei tecnici»). Se da un lato possiamo riscontrare in questi soggetti una certa tendenza al provvidenzialismo, attribuendo alla controparte più immediata (il rivenditore) una maggiore responsabilità quando essa è un soggetto impersonale e di grosse dimensioni, va sottolineato che essi costituiscono comunque una minoranza, e che la maggior parte fra loro individua in quel soggetto solo un corresponsabile dell’accaduto. È da evidenziare come nessuno tra gli intervistati che cambiano la loro risposta al mutare del contesto faccia parte della sezione del campione di intervistati iscritti al CNGEI, i quali individuano tutti come unica responsabile in entrambe le versioni l’azienda produttrice mostrando un atteggiamento spiccatamente formalista, che non vede cioè differenze nel tipo di contratto stipulato tra rivenditore e cliente laddove cambi l’identità del rivenditore. Coloro che scelgono la risposta «nessuno è responsabile» tendono a sottolineare nelle loro motivazioni la presenza nell’item della frase «Per un incidente di fabbricazione che non poteva essere individuato dai controllori dell’azienda», abbracciando quindi il criterio dell’intenzionalità che nega la possibilità di attribuire la responsabilità delle conseguenze di un atto a chi non poteva prevederle. 15 Infine, in entrambi i contesti proposti, al crescere dell’età degli intervistati aumenta il numero di coloro che attribuiscono la responsabilità all’azienda produttrice e diminuisce il numero di quelli che rispondono «nessuno è responsabile». Osservando nel complesso i risultati di questa sezione della ricerca si può affermare che anche tra gli adolescenti è riscontrabile, seppure in misura meno significativa di quanto emerge nelle ricerche svolte su popolazioni adulte, l’influenza del tipo di rapporto tra i contraenti sulla scelta dei criteri per l’attribuzione della responsabilità. Quanto più il rapporto contrattuale è impersonale tanto più gli intervistati tendono ad attribuire maggiore responsabilità per il danno causato alla diretta controparte, che viene percepita come maggiormente in grado e in dovere di farsi carico sia del controllo sulla corretta esecuzione del contratto, sia dell’eventuale risarcimento alla parte lesa. Ciononostante, in ambito di responsabilità contrattuale il criterio maggiormente utilizzato, sia quando il rapporto è impersonale sia quando è di prossimità, è quello formalista, che richiede di attenersi agli accordi presi e di individuare la responsabilità oggettiva. 6.3.2 Chi è più responsabile? Un’altra questione che abbiamo voluto indagare, sempre nell’ambito dell’attribuzione di responsabilità, è quella dell’individuazione dei criteri che sottostanno alla definizione di una gerarchia delle responsabilità in situazioni che esulano dal contesto contrattuale in senso stretto e riguardano più in generale la questione della responsabilità civile in casi che vedono coinvolti più soggetti, individuali e non, con diverse caratteristiche e livelli di coinvolgimento. In questo ambito le ricerche evidenziano la presenza di tre principi attorno ai quali si costruiscono tali scale di responsabilità. Il principio dell’iniziativa fa pesare la responsabilità delle riparazioni di un danno su colui che ha voluto o provocato l’atto colpevole. Il principio di competenza attribuisce la responsabilità principale all’attore che, in una situazione problematica, è maggiormente in grado di valutare i rischi o le possibili conseguenze di un’azione, di un comportamento o di una scelta, quale che sia il suo grado di iniziativa nella stessa. Il principio della gerarchia, infine, corrispondente grosso modo a quella che abbiamo richiamato come concezione agentica, pone la responsabilità sulla persona che possiede il più alto status gerarchico nel gruppo considerato, quali che siano il suo grado di iniziativa o il livello di competenza (Kellerhals et al. 1995). Infine, in quelle questioni di giustizia che coinvolgono i rapporti tra l’individuo e la collettività, è interessante indagare se e in che termini esista una tendenza a delegare o proiettare la responsabilità degli atti e dei comportamenti di singoli individui (e di conseguenza anche la riparazione dei danni da essi causati) su quelle collettività astratte e anonime con le quali essi si trovano sempre più in relazione. A tale riguardo Kellerhals e i suoi collaboratori parlano del provvidenzialismo caratteristico della mentalità contemporanea. Secondo questa visione, l’individuo, e in particolare il giovane, «vuole essere libero di agire come crede; potersi al bisogno liberare dalle proprie responsabilità o limitarle alle proprie possibilità; vedere l’assicurazione coprire tutti i rischi e persino assolvere le colpe; esigere dallo Stato sicurezza e protezione, ma impedirgli di invadere troppo i suoi affari privati» (Kellerhals, Languin, Sardi 2001, p. 263). In generale si può affermare che gli studi e le ricerche sull’argomento mostrano che il carattere impersonale piuttosto che di prossimità del contesto genera tre diversi effetti sui giudizi di responsabilità. In primo luogo, e in particolare in ambito lavorativo, i contesti caratterizzati da una relazione di prossimità e di riconoscibilità tra i soggetti favoriscono la presa in carico individuale della responsabilità. In secondo luogo, la presenza di un contesto astratto tende ad aumentare l’ampiezza della responsabilità attribuita all’organizzazione, fino a comprendere tutte le conseguenze di un azione dannosa. In terzo luogo, nelle situazioni caratterizzate da contesti astratti, si rileva una maggiore propensione a rifiutare il diritto di esonero a priori della responsabilità (Kellerhals et al. 1995). Uno degli scenari presentati agli intervistati relativamente a questo ambito riguardava il caso di un intervento di chirurgia estetica non andato a buon fine. Veniva chiesto di graduare in ordine di 16 importanza la responsabilità dei soggetti coinvolti, fra i quali è stata considerata anche la società nel suo complesso, intesa come potenziale fattore in grado di influire sulle scelte dell’individuo e quindi come soggetto collettivo a cui è possibile attribuire una quota di responsabilità. Maurizio ritiene di avere il naso troppo grosso e ciò lo fa sentire a disagio nei rapporti sociali. Prende perciò appuntamento da un chirurgo estetico che lavora in una clinica della sua città per effettuare una visita in previsione di un intervento per correggere il naso. Il medico accetta di effettuare l’intervento e lo opera. L’intervento non dà però l’esito sperato perché sul naso di Maurizio rimane un’evidente cicatrice. Secondo te, chi dovrebbe essere responsabile del danno subito da Maurizio e in quale ordine di importanza? a. Maurizio b. Il chirurgo c. La clinica d. La società che ci impone modelli estetici rispetto ai quali sentiamo di doverci adeguare La maggioranza degli intervistati ha individuato il chirurgo come principale responsabile del danno subito dal paziente e ha indicato la clinica al secondo posto (Tab. 5). Tab. 5 – Chirurgia estetica – Attribuzione di responsabilità: graduatoria 1° 2° 3° 4° Maurizio Chirurgo Clinica Società 21 15 29 34 55 26 14 3 5 40 31 22 18 17 27 36 Sembra che gli intervistasti prestino un’attenzione particolare alla responsabilità oggettiva di chi ha commesso l’errore e quindi procurato il danno, sia dal punto di vista soggettivo (il chirurgo), sia dal punto di vista della struttura nella quale opera il soggetto che ha compiuto l’errore (orientamento di tipo agentico). È significativo rilevare come la responsabilità venga qui individuata più nel rapporto di fiducia che si instaura tra paziente e medico che in quello di tipo contrattuale tra paziente e clinica. Utilizzando le categorie sopra menzionate si può dire che in questo caso prevalga l’adozione del criterio della competenza (il chirurgo), seguito da quello della gerarchia (la clinica), mentre il criterio dell’iniziativa (il soggetto che sceglie di farsi operare) trova un forte bilanciamento nell’influenza esercitata su di esso dalla società. La preferenza per il criterio della competenza è più netta tra gli iscritti al CNGEI (il 66,7% contro il 54,4% degli intervistati a scuola) e tra i frequentanti il liceo rispetto alle altre scuole (61,1% contro il 46,4% dei frequentanti il professionale e il 55,9% dei frequentanti il tecnico commerciale). Se leggiamo questi risultati al fine di valutare quale relazione esista per gli intervistati tra scelte individuali e condizionamento sociale, notiamo un sostanziale equilibrio tra il numero di preferenze riconducibili al criterio della responsabilità individuale (Maurizio) e il numero di quelle riferibili al criterio del provvidenzialismo (la società). 6.4 Questioni di ingiustizia Lo studio delle reazioni all’ingiustizia, a partire dal suo riconoscimento, dalla sua valutazione in termini di gravità, dalla sua inaccettabilità o accettabilità a seconda delle situazioni concrete nelle quali si manifesta o delle caratteristiche dei soggetti che la subiscono, ci può dire molto sulle rappresentazioni della giustizia negli adolescenti. Come si è detto, è infatti proprio a partire dall’elaborazione del sentimento di ingiustizia che essi acquisiscono le capacità di giudizio etico, politico e filosofico (Lebovici 1995). Nella reazione all’ingiustizia si possono osservare i sentimenti di giustizia più genuini, cioè meno mediati da altre variabili o motivazioni che ne orientano il senso, che li rendono dipendenti e relativi. Gli items di questa sezione hanno richiesto agli intervistati un radicale cambio di prospettiva. Nelle questioni di giustizia fin qui presentate, infatti, il punto di vista degli intervistati coincideva con quello di chi doveva prendere una decisione o fare una scelta. Qui invece hanno dovuto 17 assumere il punto di vista della vittima, che è un elemento irrinunciabile per avere un quadro completo delle rappresentazioni della giustizia. Come sostiene Judith N. Shklar, infatti, per formulare una corretta teoria dell’ingiustizia (e, di conseguenza, aggiungiamo noi, della giustizia) è necessario assumere su di sé l’atteggiamento delle vittime, ascoltare il loro risentimento, la loro delusione e la loro reazione per aver visto negati i propri diritti o traditi i propri principi. Quella è la vera «voce del senso di ingiustizia» (Shklar 2000, p.101). Seguendo un filone di ricerche che ha trovato recentemente in Willem Doise un importante studioso di riferimento, abbiamo voluto indagare il sentimento di ingiustizia attraverso lo studio dei diritti umani (e in particolare delle loro violazioni) intesi come rappresentazioni sociali normative. Si è già avuto modo nel corso di questo lavoro di spiegare cosa si intende con tale concetto. Basti qui ricordare che, adottando questo approccio, ci siamo proposti di indagare «quei principi organizzatori dei rapporti simbolici fra individui e fra gruppi» (Doise 2002, pp. 77-78) che ne regolano le relazioni alla luce di idee-forza condivise, quali la dignità della persona, la libertà personale, l’inviolabilità del corpo, ecc… Le ricerche riconducibili a tale campo di studio hanno mostrato come tali idee-forza subiscano una differenziazione nelle prese di posizione individuali in rapporto a situazioni specifiche, ed hanno evidenziato inoltre un significativo scollamento tra l’astratta adesione di principio alle idee-forza e il non riconoscimento – e a volte l’accettazione – delle loro violazioni. Sono stati inoltre analizzati gli ancoraggi tra le prese di posizione individuali e l’appartenenza socio-culturale degli intervistati. Nella nostra ricerca abbiamo voluto indagare questi aspetti del senso di ingiustizia mediante specifici items che riproponevano ai nostri intervistati alcune situazioni, parzialmente rielaborate, già sottoposte dallo stesso Doise ad un campione di studenti ginevrini della stessa età dei soggetti della nostra ricerca. In questi items si è domandato agli intervistati se, a loro giudizio, alcuni comportamenti costituissero delle violazioni dei diritti umani. Le situazioni considerate miravano anche a verificare la percezione della gravità e il livello di tollerabilità nei confronti delle violazioni, con riferimento a diverse tipologie di vittime. A proposito di questo ultimo aspetto si voleva verificare l’influenza della variabile «tipo di vittima» sui giudizi espressi in merito alle violazioni dei diritti. L’ipotesi è che tanto più la vittima appare screditata o «fuori dalla norma», quanto più saranno accettabili o giudicate meno gravi le violazioni nei suoi confronti. Tra gli scenari proposti nelle interviste, ne presentiamo rispettivamente uno relativo all’abolizione della gratuità della scuola primaria e un altro riguardante un caso di perquisizione senza mandato del giudice. 6.4.1 La gratuità della scuola primaria Il primo scenario, nelle due versioni presentate separatamente che avevano rispettivamente come vittima dei bambini immigrati e dei bambini disabili, era il seguente: Prima versione Il governo della Rutenia, in un periodo di grave crisi economica, è costretto a ridurre le spese dello Stato. Decide quindi di eliminare la gratuità dell’insegnamento elementare per quei bambini che necessitano di interventi di sostegno comportanti un forte costo per le finanze pubbliche. In particolare questo provvedimento è previsto nei confronti dei bambini immigrati che parlano solo la loro lingua d’origine. Seconda versione Il governo della Rutenia, in un periodo di grave crisi economica, è costretto a ridurre le spese dello Stato. Decide quindi di eliminare la gratuità dell’insegnamento elementare per quei bambini che necessitano di interventi di sostegno comportanti un forte costo per le finanze pubbliche. In particolare questo provvedimento è previsto nei confronti dei bambini portatori di handicap fisici o mentali. 1) Secondo te, eliminare la gratuità della scuola primaria è una violazione dei diritti umani? 2) a. b. c. 3) (in caso di risposta affermativa) È una violazione da considerare: poco grave grave molto grave Nel caso di una situazione di grave crisi economica questa violazione può essere accettata? 18 Comparando le risposte alle due versioni dell’item, si riscontra che il tipo di vittima influenza la percezione della violazione e la sua gravità e accettabilità. Sono infatti più numerosi gli intervistati che ritengono il provvedimento del governo una violazione dei diritti umani quando esso è disposto nei confronti dei bambini disabili anziché dei bambini immigrati. Si passa, infatti, dall’83,8%, quando i destinatari sono gli alunni immigrati, al 90,9% quando i destinatari sono i bambini disabili (Tab. 6). Così come coloro che ritengono la violazione «molto grave» passano rispettivamente dal 37,3% al 48,9% (Tab. 7). Infine coloro che, pur riconoscendo la violazione, la ritengono accettabile nella specifica circostanza di una grave crisi economica, passano dal 15,7% al 12,2% (Tab. 8). Tab. 6 – Abolizione gratuità scuola primaria - Riconoscimento della violazione Sì No Totale casi Immigrati % 83,8 16,2 99 Disabili % 90,9 9,1 99 Tab. 7 – Abolizione gratuità scuola primaria - Gravità della violazione poco grave Grave Molto grave Totale casi Immigrati % 8,4 54,2 37,3 83 Disabili % 4,4 46,7 48,9 90 Tab. 8 – Abolizione gratuità scuola primaria - Sopportabilità dell’ingiustizia Sì No Totale casi Immigrati % 15,7 84,3 83 Disabili % 12,2 87,8 90 Tra le motivazioni addotte per giustificare il cambiamento di opinione prevale quella in cui si afferma che i disabili soffrono già di una situazione difficile della quale «non hanno colpa», che «non è una loro scelta», a differenza degli immigrati, la cui condizione è l’esito di una «scelta» di cui devono essere disposti a pagare gli eventuali costi. Sempre nell’opinione di questi intervistati, i bambini disabili «hanno gravi problemi e non sarebbe giusto farli pagare per questi problemi», o ancora «loro senza queste cose vivono male, mentre… [gli immigrati] … possono comunque imparare la lingua indipendentemente dalla scuola gratuita». Dalle motivazioni di alcuni intervistati si rileva anche che molti ignorano che il diritto all’istruzione è un diritto umano riconosciuto: «È comunque un diritto quello all’istruzione, però non è un diritto umano», o «È una violazione ma non dei diritti umani». È da sottolineare come la quasi totalità di coloro che non ritengono l’abolizione della gratuità della scuola primaria una violazione dei diritti umani siano studentesse (nella prima versione dell’item, infatti, il 95,8% dei maschi si esprime riconoscendo la violazione, contro «solo» il 70,6% delle femmine). Inoltre, la percentuale di coloro i quali non riconoscono la violazione risulta significativamente più bassa fra i frequentanti il liceo e fra chi appartiene a famiglie con un livello di istruzione e di occupazione più elevato. In queste stesse categorie sono tuttavia più numerosi coloro i quali ritengono accettabile la violazione in presenza di una crisi economica. È infine da evidenziare come in entrambe le versioni presentate tutti gli iscritti al CNGEI riconoscono la violazione di un diritto umano. 6.4.2 La perquisizione senza mandato Nell’item successivo sono state presentate due versioni di una scenario nel quale, per ottenere le prove di un reato, l’autorità di polizia ha effettuato una perquisizione senza mandato. Nella prima 19 versione a subire la perquisizione era una donna sospettata di spacciare eroina, nella seconda versione la donna era sospettata di aver commesso un furto in un supermercato. Prima versione Un giovedì mattina, verso le 6.30, alcuni poliziotti, senza un mandato del giudice, effettuano una perquisizione nella casa di una giovane donna sospettata di spacciare eroina. Dopo una meticolosa ricerca i poliziotti scoprono le prove del reato e arrestano la donna. Seconda versione Un giovedì mattina, verso le 6.30, alcuni poliziotti, senza un mandato del giudice, effettuano una perquisizione nella casa di una giovane donna sospettata di aver rubato in un supermercato. Dopo una meticolosa ricerca i poliziotti hanno scoprono le prove del reato e arrestano la donna. 1) Secondo te, effettuare una perquisizione senza mandato è una violazione dei diritti umani? 2) (in caso di risposta affermativa) È una violazione da considerare: a. poco grave b. grave c. molto grave 3) Nel caso del reato sospettato, questa violazione può essere accettata? Nella primo caso il 77,8% degli intervistati ha individuato nella perquisizione senza mandato una violazione di un diritto umano (Tab. 9). Tra chi non la ritiene tale, le motivazioni più frequenti riguardano la presenza di un sospetto fondato, la presenza di prove (peraltro in realtà assenti prima della perquisizione) e la gravità del reato commesso, potenzialmente dannoso per altre persone. Vi è inoltre da sottolineare che anche in questo caso si riscontra una non chiara conoscenza di quali siano i diritti umani, evidenziata da risposte come: «È una violazione del codice giuridico, dei diritti, ma non umani… io intendo con diritti umani quelli che per esempio sono venuti a mancare nei campi di sterminio», oppure è una violazione «dei diritti civili sì, dei diritti umani no». Più in generale, nelle motivazioni di coloro che non riscontrano nella perquisizione senza mandato una violazione dei diritti umani, è diffusa l’idea che se la perquisizione conferma il sospetto della colpevolezza, gli agenti avevano il diritto di fare irruzione: «Se è colpevole è giusto che abbiano fatto la perquisizione, se trovano le prove è giusto, se no, no», oppure «Se una persona era innocente magari sì… È più che altro una violazione della privacy, però se una persona viene trovata con la droga, il fine giustifica i mezzi». La maggior parte di coloro i quali hanno evidenziato la violazione ritiene però che essa sia accettabile nella specifica situazione descritta, subordinando pertanto, anche in questo caso, la tutela del diritto oggetto della violazione al tipo di vittima (tab. 11). Tab. 9 – Perquisizione senza mandato – Riconoscimento della violazione Sì No Totale casi Spacciatrice % 77,8 22,2 99 Ladra % 83,8 16,2 99 Tab. 10 – Perquisizione senza mandato – Gravità della violazione poco grave Grave molto grave Totale casi Spacciatrice % 36,36 55,84 7,79 77 Ladra % 29,27 53,66 17,07 83 Tab. 11 – Perquisizione senza mandato – Sopportabilità dell’ingiustizia Sì No Totale casi Spacciatrice % 51,95 48,05 77 Ladra % 20,48 79,52 83 20 Come si nota osservando le tabelle sopra riportate, nella seconda versione dell’item la percentuale di coloro che ritengono si tratti di una violazione dei diritti umani è lievemente superiore: si passa infatti dal 77,8% all’83,8% (Tab. 9). A ritenere molto grave la violazione è in questo secondo caso il 17,07% contro il 7,79% riscontrato nella versione precedente (Tab. 10). Coloro che ritengono accettabile la violazione passano dal 51,95% della prima versione al 20,48% della seconda (Tab. 11). Anche in questo caso, quindi, la variabile «tipo di vittima» sembra influenzare non poco le scelte degli intervistati. Si deve infine rilevare come, anche relativamente a questo item, tutti gli iscritti al CNGEI riscontrino la violazione. Significativo risulta inoltre il fatto che la percentuale di coloro che non riscontrano la violazione salga fortemente al crescere del livello di istruzione della famiglia: dal 20% quando il livello di istruzione familiare è basso, si passa al 40,1% quando è alto. In conclusione, relativamente alla questione della percezione e tollerabilità dell’ingiustizia, si può osservare che, tranne che in un caso qui non presentato, in tutti gli altri la stragrande maggioranza riconosce le violazioni dei diritti umani. L’analisi delle risposte e delle argomentazioni relative all’ambito della tollerabilità dell’ingiustizia conferma però l’esistenza di uno scollamento tra le condivisione delle «idee-forza», cioè tra l’adesione astratta ai diritti, e la tolleranza nei confronti delle loro violazioni nelle situazioni concrete. In particolare, si rileva un alto livello di sopportazione dell’ingiustizia laddove essa viene considerata necessaria al raggiungimento di un obiettivo ritenuto giusto e prioritario (come nel caso della perquisizione senza mandato) e un’influenza non trascurabile della variabile «tipo di vittima» sulla valutazione della gravità di tale violazione. 6.5 Situazioni dilemmatiche Presentiamo di seguito due dei cinque scenari riferiti a situazioni dilemmatiche presentati nei focus groups, a nostro parere particolarmente significativi. 6.5.1 È peggio rubare o ingannare? Il primo scenario è tratto dai noti dilemmi formulati da Kohlberg per le ricerche da lui realizzate sullo sviluppo del ragionamento morale nei bambini. In esso si narra una storia i cui protagonisti si procurano del denaro, entrambi in modo illecito: Due fratelli, Alessandro e Giovanni, sono in serie difficoltà perché sono costretti a lasciare la città di nascosto in tutta fretta, e hanno bisogno di soldi. Alessandro irrompe in un negozio e ruba 500 euro. Giovanni si reca da un anziano pensionato, noto in città per aver aiutato numerose persone. Gli dice di essere gravemente malato e di avere bisogno di 500 euro per pagare l’operazione di cui necessita. In realtà Giovanni non è malato e non ha nessuna intenzione di restituire i soldi. Anche se il pensionato non lo conosce molto bene, gli presta il denaro. Così Alessandro e Giovanni lasciano la città, ciascuno con 500 euro in tasca. Dopo la lettura della breve vicenda, è stato chiesto ai partecipanti ai focus groups di esprimersi in merito al comportamento da loro giudicato più biasimevole. La maggioranza dei partecipanti, indipendentemente dalla scuola frequentata, dal genere o da altre variabili socio-anagrafiche e culturali, ha indicato come peggiore il comportamento di Giovanni, il fratello che per procurarsi i soldi ha scelto la strada del raggiro dell’anziano benefattore. In alcuni focus groups (in particolare in uno tenutosi all’istituto tecnico e in uno con i ragazzi, tutti maschi, di un istituto professionale) sono stati espressi dagli intervistati giudizi di uguale gravità, mentre quasi nessuno ha giudicato più biasimevole il comportamento del fratello che ha optato per la rapina al negozio. Le motivazioni date dai ragazzi hanno principalmente fatto riferimento al valore della fiducia: viene cioè giudicato peggiore il comportamento di chi, per ottenere illecitamente del denaro, non si «limita» a rubarlo, ma sfrutta la fiducia offertagli da qualcuno, tradendo chi si dimostra disponibile nei suoi confronti: «È peggiore il comportamento del truffatore, perché una persona vuole essere gentile con te e tu la deludi». Ma vi è anche chi ha valutato la diversa gravità dei due comportamenti prestando attenzione alle sue minori o maggiori conseguenze sulla vittima: 21 «Probabilmente io rapinerei il negozio, tenendo conto che non sia proprio un negozio di poveracci, perché il pensionato riceve solo i soldi della pensione». Le motivazioni dei pochi che hanno ritenuto più grave la rapina sono riconducibili all’aspetto della costrizione e della violenza: mentre l’anziano signore ha dato i soldi di sua spontanea volontà («un po’ se l’è cercata…»), il commerciante è stato obbligato a farlo, non aveva alternative, e ciò rende, ai loro occhi, più grave l’atto di Alessandro. La discussione è poi proseguita invitando i ragazzi e le ragazze ad analizzare l’accaduto da differenti prospettive. È stato infatti chiesto loro di esprimersi sulla gravità degli atti compiuti dai due fratelli analizzando la situazione dal punto di vista rispettivamente della legge, della società, e della vittima. Nel secondo e nel terzo caso i ragazzi sono restati sostanzialmente concordi con il loro punto di vista iniziale, indicando quasi unanimemente la maggiore gravità della truffa rispetto alla rapina e hanno motivato la loro scelta sostenendo che dal punto di vista della società è più grave il venir meno della fiducia tra le persone, poiché si mettono a rischio i rapporti interpersonali e la pratica della solidarietà. Dal punto di vista della vittima, l’anziano signore si sentirà più ingiustamente trattato, in quanto tradito senza rimedio, sentendosi anche in colpa per aver creduto a delle menzogne: «Magari l’anziano si sentiva anche bene ad aiutare le persone… e vedersi tradito in questo modo… è peggio!»; mentre il commerciante può rifarsi con la sua attività e deve anche «mettere in conto» simili spiacevoli avvenimenti. L’opinione cambia quasi specularmente nel momento in cui ai ragazzi e alle ragazze è stato chiesto di assumere il punto di vista della legge. In questo caso, infatti, la maggioranza dei partecipanti ha individuato nella rapina il comportamento peggiore, o punito con più severità dalla legge. Dalle argomentazioni elaborate per motivare questo cambiamento di giudizio emerge con chiarezza la distinzione tra la sfera giuridica e quella morale: «moralmente è peggio truffare, ma la legge giudicherebbe più grave il furto». Anche chi si è espresso per l’uguale gravità dell’atto dal punto di vista legale ha sottolineato che moralmente è più condannabile la truffa. Molti di coloro che hanno ritenuto più biasimevole la truffa, hanno aggiunto che considerano giusto che la legge punisca maggiormente la rapina per via degli elementi della costrizione e della violenza insiti nell’atto, che la legge deve considerare come aggravanti. Tra chi invece ha giudicato più condannabile il raggiro anche dal punto di vista giuridico, vi è chi ha sostenuto che la legge «dovrebbe tenere conto anche del danno morale». Ma sono pochi coloro i quali, individuando la distinzione tra piano giuridico e piano morale, ritengono che la legge debba ispirarsi maggiormente ai sentimenti e ai precetti morali. In generale la distinzione tra legge e morale non viene ritenuta come una contraddizione da sanare, ma come una giusta presa di distanze della legge, che «deve essere generale ed uguale per tutti», dalle valutazioni di ordine morale, che «possono essere diverse da persona a persona». I ragazzi sono stati successivamente posti di fronte a due alternative. La prima riguardava il fratello rapinatore, e consisteva nella scelta tra rapinare un piccolo negozietto di paese o un grande negozio di proprietà di una multinazionale. In quasi tutti i focus groups i ragazzi e le ragazze hanno pressoché unanimemente valutato meno grave il furto nel grande negozio poiché, nella loro opinione, il danno causato in questo caso viene considerato minore: «se si rubano tanti soldi nel negozio piccolo lo si può mandare anche in rovina, invece le grandi catene non ne risentono tanto». Ritroviamo qui la concezione provvidenzialista richiamata da Kellerhals in tema di responsabilità a cui già abbiamo fatto riferimento. Ricordiamo che, in base a tale logica, quando si è di fronte ad una grande organizzazione, anonima e impersonale, si tende a ridurre la responsabilità del singolo per le conseguenze dell’atto compiuto, indipendentemente dalla sua natura lecita o illecita. Anche in questo caso, molti hanno sottolineato che il giudizio cambia a seconda che ci si riferisca al piano morale o a quello legale: «Moralmente è peggio rubare nel negozio più piccolo, ma per la legge è uguale ed è giusto che sia così», «non penso che la legge si metta a guardare il guadagno di chi ha subito il furto, però sarebbe giusto che lo facesse». Infine si è chiesto ai partecipanti se secondo loro fosse peggio truffare un estraneo o un amico. Anche in questo caso i ragazzi si sono espressi in modo pressoché unanime, considerando più grave 22 ingannare e tradire la fiducia di un amico: «Io preferirei essere tradita da uno che non conosco, su un amico riponi la fiducia, gli credi, per me è peggio»; «Per me è peggio ingannare un amico perché oltre ad ingannarlo rovini anche un rapporto di amicizia»; e ancora «Dal punto di vista legale non cambia, da quello morale è peggio tradire un amico, perché si ha anche un rapporto con questa persona». Per i ragazzi e le ragazze l’amicizia è un valore molto importante e inviolabile e ciò renderebbe il raggiro ancora più deprecabile. Uno dei pochi ragazzi che ha ritenuto peggiore raggirare un estraneo ha motivato la sua risposta sostenendo che «l’amico può rintracciarti, magari dopo un po’ lo rivedi e gli ridai i soldi e gli chiedi anche scusa. È meno grave perché puoi rimediare», dimostrando così il disagio a dover scegliere comunque tra due atti riprovevoli e cercando di optare per quello che lascia aperta la strada per rimediarvi e liberarsi dal senso di colpa. 6.5.2 Pur di avere giustizia Un altro scenario è stato costruito, come si è detto, a partire dalla celebre opera Michael Kohlhaas del drammaturgo Von Kleist (1810). Molto sinteticamente, la storia è la seguente: il mercante di cavalli Michael Kohlhaas, dopo aver chiesto giustizia contro il nobile sassone Von Tronka che gli ha sequestrato e danneggiato due cavalli e malmenato un servo, non avendola ottenuta decide di farsi giustizia da solo. Si mette a capo di una banda di criminali e assalta il castello del nobile, incendia e fa stragi per ricevere ascolto e vedere riconosciuto il suo diritto negato. Ottiene quindi la riapertura del processo per la questione dei cavalli. Il tribunale sentenzia a favore di Kohlhaas, ma i suoi nemici lo fanno arrestare per gli atti di banditismo. Egli quindi ottiene giustizia per il danno subito, ma contemporaneamente viene condannato a morte per aver minacciato l’ordine dell'impero. Pur avendo la possibilità di sottrarsi, ritiene doveroso scontare la pena per i reati commessi affermando così il valore morale supremo della giustizia. Il dilemma sollevato nel racconto può essere sinteticamente riassunto in questa domanda fondamentale: è giusto sottrarsi ad una legge considerata ingiusta perché contraria al proprio sentimento morale? Oppure ogni legge, anche quella ingiusta, va obbedita, in quanto tale, «in quanto reclama obbedienza in se stessa, in quanto legge, in nome di una meta-regola, di un principio superiore, il cui fondamento risiede in un’esigenza di lealtà politica, o di ordine sociale» (Ferrari 1996, p. 101)? Il tema dell’obbedienza/disobbedienza alla legge ingiusta è da sempre centrale nel dibattito filosofico. Alla sua origine vi sono le diverse posizioni degli studiosi, soprattutto filosofi morali, politici e del diritto, di fronte al conflitto tra legge morale e legge positiva. Con estrema semplificazione, da un lato, ritroviamo coloro i quali ritengono che ogni conflitto tra legge morale e legge positiva dovrebbe essere risolto a favore della prima. Dall’altro lato, ritroviamo l’orientamento secondo cui legalità e moralità attengono ad ambiti distinti, e qualora conflitti tra loro possano sollevare dilemmi di tipo morale, essi non devono alterare il dovere di ciascuno di obbedire alla legge. Pertanto anche una legge sbagliata secondo i principi della morale va obbedita, salvo restando nel contempo il dovere di battersi, legalmente, per cambiarla. Michael Kohlhaas dunque, come Antigone, si trova di fronte ad un profondo conflitto di doveri. E come Antigone, il personaggio di von Kleist suscita sentimenti contrastanti: da alcuni è giudicato un eroe, un paladino della giustizia, da altri il suo comportamento è giudicato insensato, perché animato da spirito di vendetta, perché al di fuori della legge e perché è costato il sacrificio di innocenti (Jhering 1870, Mann 1997). La storia di Michael Kohlhaas solleva anche un’altra importante questione. Ci si chiede: Kohlhaas lottando per il riconoscimento della violazione di un suo diritto, oltre ad ottenere una riparazione per l’offesa subita, non garantisce anche la giustizia per i propri concittadini? La sua lotta non ha cioè anche una dimensione pubblica (Jhering 1870; Chazel 2003)? Da ultimo, la storia suscita un altro interrogativo: è giusto sacrificare persone innocenti in nome di un interesse superiore? In questo caso in nome della giustizia? Più specificamente, la reazione a un’ingiustizia, può trasformarsi nella forma più eclatante di ingiustizia, quella inferta all’innocente? 23 Dopo aver letto insieme la storia di Michael Kohlhaas, abbiamo avviato la discussione ponendo la seguente domanda «Come giudicate il comportamento del protagonista della storia? Provate a calarvi nei suoi panni: cosa avreste fatto?». La quasi totalità dei ragazzi ha definito Michael Kohlhaas «stupido», «ingenuo», «matto», «esagerato», «fanatico», e ha ritenuto perciò sbagliato il suo comportamento. La motivazione più ricorrente è che «non doveva sacrificare la famiglia» e che «non ne valeva la pena». È vero che ha subito un’ingiustizia, ma «oltre alla giustizia ci sono altri valori, come quello della famiglia»: «C’è da chiedersi se ne è valsa la pena (...). È vero che in teoria tutti lo farebbero, ma in pratica se lo fai sei pazzo!»; «Ha sbagliato tutto, secondo me, perché mette in mezzo persone che non c’entravano niente per avere giustizia, poi muore la moglie e anche lui… E alla fine della giustizia che cosa se ne fa?»; «La vita è una sola, non puoi rovinarla solo per un principio»; «Dovresti cercare di far valere le tue ragioni senza rimetterci la vita e se vedi che non ce la fai dovresti lasciar perdere». Tra questi c’è anche chi ha condannato il metodo utilizzato da Kohlhaas, pur condividendo l’ideale di giustizia da lui difeso: «Io non sono d’accordo [con il comportamento di Kohlhaas] perché anche quelli a cui ha bruciato le case hanno subito un’ingiustizia e se si fossero comportati come lui non si finiva più…». Alcuni hanno sottolineato che non vale la pena scontrarsi, anche se per una giusta causa, con i potenti e che bisogna rassegnarsi poiché la sconfitta in questi casi è prevedibile: «È sbagliato lasciar perdere [...] ma il mondo alla fine va così, purtroppo. A pagare sono le persone giuste». Qualcuno ha giudicato Kohlhaas «egoista» perché pensa a difendere un principio, ma non pensa alla sua famiglia mettendo in pericolo la vita della moglie, che morirà, e privando i figli della madre prima, e del padre poi: «Però mi sembra egoista: non si sottrae alla pena di morte pur sapendo che i figli cresceranno da soli, senza nessuno: non è un comportamento esemplare». Tra i pochi che hanno approvato il comportamento di Kohlhaas, alcuni lo hanno definito «eroico», ed hanno espresso ammirazione nei suoi confronti. Hanno sottolineato che ha agito per difendere un principio, quello della giustizia, per il quale ha rinunciato ad una vita agiata, alla famiglia e, addirittura, alla sua stessa vita: «Per me Kohlhaas è da ammirare perché aveva il senso della giustizia. Il suo comportamento è estremo – è vero – ma segue questo suo ideale anche a costo di perdere la moglie, lasciare i figli (…) Oggi non credo ci siano persone disposte a farlo»; «Michael ha fatto bene perché ha combattuto per la giustizia. E siamo nel 500 dove i poveri dovevano lottare per avere giustizia ed è per questo che noi tutti oggi abbiamo la giustizia, grazie a questi personaggi che hanno combattuto per un principio». Al quesito se sia lecito reagire con violenza di fronte all’autorità pubblica che non riconosce la violazione dei propri diritti legittimi e non ripara i torti subiti, quasi tutti i ragazzi e le ragazze hanno risposto negativamente. Porsi al di fuori dalle regole e farsi giustizia da sé nel momento in cui si è subita un’ingiustizia è ammesso purché non si ricorra alla violenza. La ribellione e la lotta al di fuori delle regole, pur quando condotta per una giusta causa, non devono condurre alla violenza in ogni sua forma e contro chiunque: «violenza no, ribellione pacifica sì»; «non credo sia giusto usare la violenza, ma credo sia giusto ribellarsi alle ingiustizie»; «Farsi giustizia da soli la trovo una delle cose più sbagliate che esista perché comunque – anche se le leggi sono ingiuste – non è questo il modo». Altri hanno affermato che farsi giustizia da sé non deve comportare l’esercizio della violenza contro individui innocenti: «C’è un limite a tutto, nel senso che avrei capito l’atto di incendiare il castello di Von Tronka, ma non quello di incendiare villaggi e uccidere i loro abitanti». Qualcuno invece si è schierato dalla parte di Kohlhaas: «Io avrei fatto la stessa e identica cosa perché non vedermi riconosciuto un torto subito mi porterebbe inevitabilmente a farmi giustizia da solo, non accetterei la sentenza del tribunale che in questo caso si è rivelata a favore di una famiglia potente»; «Se la giustizia sbaglia o, in qualche modo, è corrotta dal potente è giusto porsi al di fuori dalle regole e farsi giustizia da sé». In generale si ritiene che il ricorso alla violenza faccia passare la vittima dalla parte del torto e inneschi una spirale di sopraffazioni da cui è difficile poi uscire: «Dopo diventi tu il prepotente perché distruggi villaggi… ti abbassi al livello di Von Tronka». 24 Pochi ritengono che di fronte alla decisione anche se ingiusta, ci si debba arrendere, soprattutto quando ci si trova di fronte a persone che dispongono di molto potere «bisogna accontentarsi di quello che si riesce ad ottenere attraverso le vie legali»; «Se fossi stato al suo posto, dopo che il tribunale mi ha dato torto, avrei lasciato perdere». Infine, per quanto riguarda l’ultimo interrogativo nel quale si chiedeva se, difendendo un proprio diritto violato, Michael Kohlhaas ottiene solo una riparazione per l’offesa subita oppure garantisce anche la giustizia per i propri concittadini, un numero elevato di ragazzi/e ha ritenuto che l’azione del protagonista della storia avrà delle ricadute positive: «Personaggi come Kohlhaas hanno contribuito a cambiare alcune regole e condizioni di vita, di convivenza… che sarebbero peggiori oggi se questi personaggi non ci fossero stati…»; «Sicuramente questo episodio ha aiutato la giustizia a non dipendere troppo dai potenti […] la rivolta di Michael ha diminuito la prepotenza di questi signorotti»; «…È per questo che oggi noi abbiamo giustizia, grazie a questi personaggi che hanno combattuto per un principio». Altri hanno controbattuto che il mondo rimarrà sempre diviso tra deboli e potenti e che le azioni di personaggi come Kohlhaas non sono servite e non servono perché «dopo tutto tornerà come prima»; «Per me non garantisce la giustizia per gli altri cittadini, perché alla fine giustizia la ottiene solo per lui; probabilmente il tribunale non ce la faceva più, von Tronka era stufo, e allora gliel’hanno data vinta, ma le altre persone dopo di lui probabilmente non otterrebbero lo stesso trattamento, a meno che non usino gli stessi mezzi che ha usato lui, si ribellino come lui…». 7. Osservazioni conclusive Complessivamente i risultati della ricerca hanno confermato l’ipotesi fondamentale del lavoro: gli adolescenti appaiono essere attori sociali dotati di un pensiero morale competente con riferimento a questioni che concernono non solo situazioni afferenti la vita quotidiana, in ambiti da loro stessi sperimentati in prima persona, ma anche a situazioni di diverso tipo, riguardanti azioni di natura sia privata sia pubblica, nelle quali i processi decisionali sono di rilevante complessità e afferiscono ad ambiti (giudiziario, politico, amministrativo e contrattuale) in larga misura estranei alla loro comune esperienza. Gli intervistati hanno, infatti, mostrato, da un lato, di possedere una notevole abilità nell’uso dei diversi criteri di giustizia, secondo le peculiarità degli specifici contesti e situazioni e rispetto a decisioni che coinvolgono sia singoli soggetti sia la collettività, e dall’altro lato, di avere buone capacità di ragionamento anche su items che coinvolgono questioni di natura giuridica. Per quanto concerne le questioni di giustizia, la prima osservazione riguarda l’ipotesi dell’influenza del contesto relazionale (personalizzato o burocratizzato) e della natura del rapporto tra gli attori (di prossimità o impersonale) sulla scelta dei criteri di giustizia. I risultati della nostra indagine confermano, sebbene in modo meno netto, quanto già riscontrato nelle ricerche sulle rappresentazioni della giustizia condotte su popolazioni adulte, cioè la rilevanza della relazione e della natura del rapporto che unisce i soggetti coinvolti. Ciò risulta, infatti, in due dei tre ambiti della giustizia nei quali tale variabile è stata considerata, ovvero quelli della giustizia distributiva e dell’attribuzione della responsabilità, mentre non si è rilevata alcuna influenza nell’ambito della giustizia procedurale. Più specificamente, in tema di giustizia distributiva, si è rilevata una chiara prevalenza della scelta del criterio dell’uguaglianza quando i soggetti sono legati da un rapporto affettivo, di tipo vuoi familiare, vuoi amicale; mentre nel caso di un contesto relazionale di tipo burocratizzato (pubblica amministrazione) i criteri prevalentemente scelti sono rispettivamente quelli del merito e del bisogno. Anche in tema di attribuzione della responsabilità in ambito contrattuale, gli adolescenti hanno nel complesso confermato che il tipo di rapporto tra i contraenti esercita un’influenza sull’adozione dei diversi criteri per distribuire la responsabilità tra i diversi soggetti coinvolti. Più precisamente, i risultati mostrano come ad una maggiore personalizzazione della relazione corrisponda un più ampio ricorso alla logica del provvidenzialismo in base alla quale, come si è visto, prevale l’esigenza della tutela del consumatore e, più in generale, dell’individuo nei confronti delle organizzazioni. 25 Per ciò che concerne la giustizia procedurale, invece, in entrambi i contesti, rispettivamente familiare e istituzionale, gli intervistati hanno ritenuto più giusto il procedimento decisionale di tipo partecipativo, che implica appunto la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, siano essi adulti o minori, rispetto al procedimento di tipo autocratico. Sempre in tema di giustizia procedurale, si è inoltre riscontrato come oltre al coinvolgimento delle parti, gli intervistati apprezzino altri elementi procedurali quali l’imparzialità del decisore e l’essere adeguatamente informati sulle motivazioni delle decisioni. L’ipotesi che abbiamo chiamato dello scollamento, già verificata in diverse indagini condotte con adulti, trova particolare riscontro nei risultati relativi agli items riguardanti il tema della tollerabilità dell’ingiustizia. Essi mostrano infatti come su una categoria ormai entrata nel senso comune come quella dei diritti umani, sia rilevabile una distanza tra l’adesione generalizzata agli stessi, intesi come principi generali e astratti e, al tempo stesso, una significativa tolleranza nei confronti di alcune loro violazioni in situazioni concrete. Pur in presenza di un riconoscimento delle situazioni di ingiustizia, una minoranza in alcuni casi significativa di soggetti si è, infatti, dichiarata disposta ad accettarla qualora venga ritenuta necessaria al raggiungimento di uno scopo giudicato più alto o prioritario. Lo stesso ambito della ricerca ha mostrato anche l’influenza che il «tipo di vittima» esercita sulla percezione e sulla valutazione della gravità delle violazioni dei diritti. L’influenza delle esperienze partecipative degli intervistati sulla formazione delle loro rappresentazioni della giustizia, rilevata attraverso la comparazione delle risposte fornite dai soggetti selezionati nelle scuole con quelle degli iscritti all’associazione CNGEI, è risultata rilevante in particolar modo in alcuni items sull’attribuzione della responsabilità. Gli adolescenti che vivono esperienze di partecipazione associativa e, nel caso specifico, esperienze che si richiamano ai valori ispiratori dell’associazione CNGEI, e principalmente alla libertà, alla tolleranza e all’impegno civico, tendono ad attribuire maggior peso alla responsabilità individuale, sia essa a carico del soggetto che prende l’iniziativa, sia essa imputabile all’attore che ha causato materialmente il danno. La partecipazione a queste esperienze sembra quindi contribuire ad accrescere l’etica della responsabilità individuale, aumentando la consapevolezza della necessità di farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni. Anche nei confronti di alcune questioni relative ai diritti umani l’appartenenza all’associazione pare esercitare un’influenza nel senso di rafforzare l’orientamento universalistico verso questi diritti, nonché attenuando lo scollamento tra l’adesione di principio ai diritti umani e la percezione della loro reale applicazione o violazione nei casi concreti. Per ciò che riguarda l’influenza del genere sulla scelta dei criteri di giustizia, l’analisi della risposte nel loro complesso non consente invece di stabilire differenze significative e generalizzabili, ma solo alcune tendenze rilevabili dalle risposte a singoli items. Tali tendenze sembrano in accordo con quella rilevate nella letteratura per cui i maschi sarebbero più orientati all’autonomia e all’individuazione di criteri oggettivi di giustizia, mentre le femmine sarebbero maggiormente orientate ad un’etica del care e al confronto e al bilanciamento dei criteri di giudizio. In particolare, relativamente all’ambito dell’attribuzione di responsabilità, le ragazze intervistate esprimono un orientamento decisamente più propenso ad individuare responsabilità collettive e condizionamenti sociali, laddove i ragazzi tendono a riconoscere in via prioritaria la responsabilità individuale. Gli adolescenti che hanno partecipato ai focus groups hanno saputo argomentare e discutere sulle complesse questioni proposte, dimostrando una buona conoscenza operativa dei concetti morali. In particolare, la tecnica adottata, basata sul coinvolgimento attivo di tutti i soggetti nella discussione, ha permesso di evidenziare il processo attraverso il quale gli intervistati sono giunti a esprimere, sui diversi dilemmi etici, le loro opinioni in merito a decisioni ritenute giuste, talora anche modificando i giudizi iniziali attraverso il confronto con le argomentazioni degli altri partecipanti. Nell’ambito dei focus groups la discussione attorno agli scenari proposti ha mostrato, in primo luogo, come i partecipanti avessero la percezione di trovarsi di fronte a situazioni dilemmatiche e quindi la consapevolezza della difficoltà o impossibilità di trovare una soluzione soddisfacente e giusta su 26 tutti i piani di giudizio. È stata evidente in modo particolare la consapevolezza dell’esistenza di due diversi piani di giudizio, quello giuridico e quello morale. In più occasioni essi hanno sottolineato come non sempre ciò che è «giusto secondo la legge» sia considerato «giusto moralmente» e come la morale possa considerare in modo differenziato – con riferimento a criteri e valori specifici quali la lealtà, la fiducia, i legami familiari e di amicizia – situazioni che la legge deve invece trattare in modo indifferenziato. Anche con riferimento alle scelte dilemmatiche, gli specifici contesti relazionali e il tipo di rapporto tra i soggetti coinvolti negli scenari sembrano influenzare l’adozione dei criteri di giudizio. Complessivamente l’analisi di quanto emerso nei focus goups mostra che i ragazzi e le ragazze si sono espressi con ferma convinzione sulle decisioni «giuste» da prendere da parte dei diversi protagonisti delle storie narrate, pur essendo consapevoli dei conflitti morali di fronte ai quali questi venivano a trovarsi, conflitti che gli intervistati hanno spesso spontaneamente e chiaramente esplicitato. Tranne che nel caso di una scelta tragica che li ha visti dividersi sulle diverse possibili opzioni, gli adolescenti hanno preso posizioni tra loro ampiamente condivise. Tale condivisione di opinioni su alcuni dilemmi è emersa fin dall’inizio, mentre su altri è stata l’esito del confronto e della discussione fra i partecipanti. In generale i ragazzi hanno mostrato di essere consapevoli del fatto che ogni scelta comporta inevitabilmente delle conseguenze positive e negative, rispetto alle quali è necessario assumersi le personali responsabilità. In sintesi, possiamo rilevare che i soggetti della nostra ricerca possiedono una buona capacità di ragionamento morale che ha consentito loro di individuare, distinguere e valutare i differenti criteri ai quali facevano riferimento le opzioni proposte nei vari scenari presentati loro. La constatazione che dalle risposte spesso non emerga un orientamento univoco rispetto all’adozione di tali criteri non è da considerarsi come indice di scarsa certezza nell’utilizzo degli stessi o, addirittura, di «caos morale» degli adolescenti. Ciò dimostra piuttosto la loro capacità di valutare e scegliere fra i diversi criteri quelli che meglio si adattano alla situazione concreta, facendo dipendere la scelta dalle specifiche circostanze e dalle situazioni prospettate, senza per questo mancare di riferimenti a più stabili principi di ordine generale. Infatti, tanto le discussioni nei focus groups quanto le risposte alle interviste, hanno mostrato che essi posseggono un senso spiccato, e realistico, della complessità delle diverse situazioni morali, e che nel definire ciò che è giusto o ingiusto fanno riferimento ad un nucleo ben strutturato di valori guida, nei quali si ritrovano non solo la famiglia, e l’amicizia – in accordo con i risultati delle note ricerche sugli orientamenti valoriali dei giovani italiani e, più in generale, dei giovani europei – ma anche il rispetto per gli altri, l’avversione per la violenza, e il senso della responsabilità individuale per le proprie azioni seppure, come si è visto, temperato da una prudente consapevolezza dei forti condizionamenti sociali sull’autonomia individuale nell’assunzione di tale medesima responsabilità. Riferimenti bibliografici Bandura A., 1996 Teoria socialcognitiva del pensiero e dell’azione morale, «Rassegna di psicologia», 1, pp. 23-92. 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