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LE PRIGIONI MENTALI
DI CHRIS BERGE
Le prigioni mentali di Chris Berge
Renato Fortuna
2013
Correzione bozze, progetto grafico e impaginazione a cura di: Giulia Abbate
Studio83 - Servizi Letterari
studio83.info
In copertina: Immagine di Roberta Ingranata
robbertopoli.blogspot.it/
Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti
è da ritenersi puramente casuale.
LE PRIGIONI MENTALI
DI CHRIS BERGE
RENATO FORTUNA
Capitolo 1
“Informiamo i signori passeggeri che il volo 791CA è in arrivo al
Gerylville Airport. Siete pregati di allacciare le cinture.”
Passate le due di notte erano oramai trascorse più di nove ore da
quando Pelin aveva completato il check-in all’aeroporto Charles de
Gaulle di Parigi, e in maniera composta e garbata, come era suo solito, si era messa dietro un’interminabile fila mista di turisti alle
prese con un pessimo francese e professionisti addobbati da ventiquattrore in pelle, ricontrollando vecchi messaggi sul palmare per
pianificare i prossimi giorni di lavoro. Non aveva scelto di viaggiare in prima classe, non quella volta almeno, ma la telefonata notturna da parte di una vecchia compagna del college, che non
sentiva oramai da più di un anno, l’aveva costretta a rivedere i suoi
piani settimanali e ad acquistare in fretta il primo posto disponibile
su un aereo che fosse arrivato a Gerylville il giorno dopo.
Mentre la sua amica spiegava l’accaduto in maniera molto asettica, lei non voleva credere al fatto che si fosse svegliata, e che tutte
le parole ascoltate non fossero in realtà figlie di un sonno molto
profondo. Ma dopo qualche minuto di conversazione stava veramente attraversando l’inaspettata tragedia, così, ancor prima che la
razionalità riprendesse il controllo sulle sue emozioni si lasciò cadere nel letto, inerme, sfogando quel profondo senso di angoscia,
che certe volte solo una bottiglia di scotch riesce ad alleviare, in un
pianto incontrollato, a tratti bambino e quasi spasmodico.
La chiamata l’aveva talmente scioccata che il sole, sopra quel letto,
sembrava non voler sorgere mai, come se timidamente rimanesse
aggrappato al lato nascosto dell’orizzonte, spaventato dal nuovo e
mutevole mondo che avrebbe dovuto scoprire.
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Renato Fortuna
Pelin, in uno stato di finto sonno, capace di offuscare i ricordi più
belli della sua vita, lasciò passare le ore fin quando al mattino, col
suono della sveglia, si alzò per avvertire Sophie che non sarebbe
andata a lavoro per un paio di giorni; poi con gli occhi ancora gonfi
e affaticati si spogliò nuda ed andò verso il bagno per affrontare
una difficile e lunga giornata.
Il suo corpo, longilineo, leggero, agile come quello di una ballerina classica all’apice della carriera, si posò delicatamente nella
vasca lasciando che l’acqua calda le desse conforto dopo una notte
insonne e travagliata. Almeno sulla pelle aveva bisogno di sentire
quel calore avvolgente che l’aiutasse a riflettere sugli sviluppi delle
prossime ore.
I capelli, sciolti, di un biondo lucente come il grano d’estate, si bagnarono delicatamente e nell’acqua presero la forma di un velo
mosso dalla leggera brezza primaverile. Gli occhi chiusi, il piccolo
naso e l’intero volto si immersero piano finché tutte quelle forme
furono mosse da sussulti ordinati e concentrici capaci di creare
mille impercettibili espressioni differenti. Rimase così, in quello
stato, per qualche secondo, fin quando un raggio di sole le colorò
il viso tirandola in superficie per farla respirare.
Sarebbe stato bello se la mattinata fosse stata densa della stessa
quotidianità che tutti i giorni non le lasciava neanche il tempo di riflettere sul suo futuro, così da non avere ancora una volta la possibilità di fermarsi a pensare al suo ruolo di donna, oltre che
intraprendente, anche madre e moglie.
Sarebbe stato bello se alzandosi da quella vasca, invece di scegliere
l’abito più adatto per l’epilogo di una tragedia, fosse tornata nel suo
atelier a Rue des Ecouffes, in pieno centro parigino, a programmare e
gestire il lancio della nuova linea primavera-estate, da lei disegnata.
Sarebbe stato bello se Pelin non avesse dovuto mettere in valigia
uno dei suoi capi più eleganti per affrontare nel migliore dei modi
un funerale. Per l’occorrenza, infatti, in mezzo a centinaia di vestiti da lei stessa disegnati, aveva tirato fuori dal suo armadio un
abito nero dalla linea molto fine: un capo tagliato sopra il ginocchio in maniera obliqua per mostrare, senza essere troppo provocante, una parte della coscia destra, con la stoffa che andava
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Le prigioni mentali di Chris Berge
disegnando lungo il corpo una forma semplice per esaltarne i fianchi lasciando che un timido ricamo fosse appeso a una spalla, così
da riprendere la linea diagonale della gonna.
La sua preoccupazione maggiore, nel momento in cui la hostess
annunciava l’arrivo all’aeroporto di Gerylville, era proprio legata
alla possibilità che per colpa di un errore quell’abito stesse volando
su un’altra tratta e fosse disperso da qualche parte nel mondo.
Era uno dei pezzi meglio riusciti della sua precedente collezione,
a detta della rivista francese La nouvelle mode la linea Deleaurd rappresentava l’estro della donna in carriera capace di affrontare con
classe e provocazione anche le occasioni più glamour senza nulla
togliere alla grande professionalità che rappresentava.
Pelin tirò un sospiro di sollievo quando vide comparire, nella pedana automatica, in mezzo ai primi bagagli, la sua borsa di pelle
marrone. Il vestito era salvo, ora poteva finalmente tornare nella
sua vecchia casa, ma la fretta di arrivare il prima possibile la obbligò a non avvertire nessuno che sarebbe tornata in città e così ad
aspettarla all‘uscita c’era soltanto la trepidante calca di gente che
necessitava anch’essa un passaggio per raggiungere la città.
Gli arrivi internazionali rilasciavano una quantità incredibile di
persone, alcune in balia delle cocenti tariffe notturne dei taxi altre
accompagnate dai loro familiari, viaggiavano o attendevano la loro
sorte tutte disposte lungo il grande marciapiede sotto la gigantesca
scritta blu Gerylville Airport.
In mezzo a quel viavai convulso di gente, mentre cercava di acchiappare un taxi per tornare nella sua vecchia casa, Pelin appariva come un timido puntino giallo strapazzato da una brutta
giornata che sembrava proprio volesse durare trentasei ore.
In quel momento i taxi sembravano non essere sufficienti per tutti
quelli che erano in fila, così rimase ad attendere più di venti minuti il suo turno, prima che un grasso autista messicano sulla cinquantina, il volto raschiato da una scottatura, pelato, con dei folti
baffi neri accostasse la propria auto di servizio di fronte a lei. Mentre andava sedendosi e ancor prima che l’omone chiedesse la destinazione, Pelin vide avvicinarsi una coppia di genitori alle prese
con due bambini.
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Uno dei quali indossava ancora il cappello del Disneyland Paris e
sembrava talmente stanco che appena posate le valige a terra si lasciò stendere su una di esse per riuscire a chiudere gli occhi e riposare. La donna, mora, con un caschetto liscio alla Louise Brooks,
indicava al marito un taxi che sfrecciava troppo lontano da loro e
che non si sarebbe mai fermato a caricarli. L’altro figlio, di qualche
anno più grande del primo, non sembrava troppo sbattuto dal
viaggio e teneva la mano di suo padre attendendo composto seduto sopra un bagaglio. Era proprio una bella famiglia, pensò
Pelin, in quel momento ne avrebbe voluta una identica, così richiamando l’attenzione del tassista con un tono pacato e pizzicato
da un lieve accento francese esclamò: “Mi perdoni.”
Gli occhi dell’uomo la guardarono dallo specchietto e Pelin aggiunse: “Faccia salire loro, io prendo il prossimo” indicandoli dal
finestrino. Scese dall’auto tra i ringraziamenti di tutti i componenti
della famiglia.
Tornata in mezzo a quella frenetica notte aeroportuale d’inizio
primavera, si trovò ancora una volta circondata da un centinaio di
volti sconosciuti, indaffarati e affaticati. Sembrava che non riuscisse
proprio a toglierseli di dosso.
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Capitolo 2
L’auto gialla aveva superato un grosso cartello che indicava l’arrivo alla città di Gerylville. Tutt’intorno una fitta vegetazione ricca
di conifere, in particolar modo betulle, raccoglieva un’imponente
quantità di buio, così profondo e a tratti spaventoso che non permetteva di vedere nemmeno una flebile forma oltre dieci passi dal
taxi. Catturata da quell’oscurità, con lo sguardo intenso come
l’abisso che stava osservando, Pelin ripensava ai suoi vecchi amici.
La sua immagine stanca ma ancora sensuale veniva riflessa dal
vetro e i suoi occhi azzurri preziosi come due zaffiri sembravano
l’unica cosa che in quel momento riuscisse a brillare nel bel mezzo
della notte. Cosa era cambiato in due anni? Sentiva la nostalgia degli
affetti che rendevano particolare quella città e che era certa non sarebbero mai più tornati.
Per qualche intenso minuto erano rimasti sommersi da questo
spettacolo silenzioso e immutabile, dove gli unici fari che illuminavano le strisce bianche dell’asfalto erano quelli della loro auto.
Soltanto dopo qualche miglio, superata un’enorme montagna, quel
panorama lasciò spazio alle prime luci di civiltà che pian piano riuscivano a creare la fisionomia di una mastodontica metropoli. La
discesa da quel bosco tortuoso durò finché non arrivarono a ridosso della zona industriale, quando l’ambiente si popolò degli ultimi, o forse i primi, trasportatori che andavano caricando le merci
dai container.
Lavoravano indossando elmetti fluorescenti, tute lerce d’olio,
scarpe pesanti come i cingoli di un macchinario che proteggevano
i piedi da qualsiasi infortunio. Era come se fossero stati plasmati da
quell’ambiente malsano, forse incattiviti dall’odore acre di petrolio
e imbruttiti dalle incrostazioni di ruggine dei capannoni.
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Renato Fortuna
Appartenevano a quel sottobosco lavorativo che in pochi in città
si rendevano conto esistesse. L’area che il taxi stava percorrendo si
snodava attraverso una fitta rete di strade a due corsie dove grossi
camion facevano la spola per rifornire l’intera città di ogni genere
di prodotti. Era un mondo senza riposo, frenetico, chiassoso, dove
ogni mossa era seguita da un tonfo e una bestemmia, che respirava
un’aria insalubre e raccoglieva gli spiccioli lasciati dall’alta società
che si sarebbe svegliata sei ore dopo per gestirli. Pieno di gente infreddolita, provata dalla stanchezza che aspettava l’inizio del proprio turno fumando nevroticamente una sigaretta di fronte a
enormi cancelli di ferro.
L’auto, nel frattempo, viaggiava precisa verso la sua meta e si spostava in quei meandri come un corpo invisibile dentro un organismo incancrenito dalla fatica. Nessuno si era mai voltato a
guardare il taxi che attraversava le vie dei grossi capannoni: quelli
che attendevano tremanti di cominciare la giornata non avevano
voglia di distogliere lo sguardo dai loro problemi, gli altri invece
speravano di chiudere il loro compito il prima possibile affinché
nessun sovraintendente, poche ore più tardi, si sarebbe potuto lamentare del loro operato. Perché se hai un lavoro, oramai devi
avere paura di perderlo ogni volta che timbri al mattino. Così mentre l’auto si allontanava da quella parte di Gerylville colma di problemi, anche quel forte lezzo di monossido di carbonio e sudore
stava per essere abbandonato per far sì che fosse l’odore della notte
brava e impertinente a essere respirato.
Mentre passava dalla periferia nord ai grattacieli della grossa
zona finanziaria, l’auto su cui viaggiava Pelin, angolo dopo angolo,
stava dipingendo, attraverso il finestrino, una quantità immensa
di storie. Quegli stessi volti che di giorno rimanevano nascosti nella
quotidiana frenesia lavorativa adesso erano i protagonisti di un’infinita varietà di vicende: dalla gente ubriaca all’uscita dei pub più
grezzi della città ai colletti bianchi incravattati che abbracciavano
donne ornate da abiti lussuosi e agghindate da luccicanti gioielli
dorati, tutti andavano rincasando in cerca di un’ultima, disperata
emozione. Due ragazzi afroamericani che caricavano i loro stru12
Le prigioni mentali di Chris Berge
menti musicali su un furgone bianco anni ottanta avevano chiuso
la serata con sessanta dollari in tasca e ancora l’affitto del loro appartamento da ricercare attraverso qualche altra attività, un vecchio clochard col suo cane racimolava da terra un gratta e vinci
buttato da un allampanato tizio che stava portando con se otto lattine di birra appena comprate da un cinquantenne coreano con un
camice bianco ora indaffarato a ripulire, prima della chiusura, il
marciapiede di fronte all’insegna del suo bar.
Una città viva in ogni sua parte, che respirava l’aria stanca di fine
nottata, in procinto di partorire i dubbi che solo la notte, dopo che
l’alcool cominciava ad abbandonare i suoi pregi più ricercati, riusciva a comporre.
Pelin era distante pochi isolati da casa, aveva appena passato
anche il cuore finanziario di Gerylville ed era in procinto di raggiungere la parte nord della zona residenziale dove una volta abitava. Percorreva indisturbata strade disarticolate geometricamente
come le cave di un formicaio e riempite da una quantità innumerevole di villini, tra le altre cose abitati per lo più da famiglie simili
a quella che aveva incontrato proprio pochi minuti prima all’aeroporto. Tutte oneste persone che consumavano la propria vita sedici ore al giorno, dodici mesi l’anno, immerse in quel marasma di
storie intrecciate che la routine quotidiana componeva. Seduta nel
taxi, lei ripensava a quando, qualche anno fa, aveva alimentato le
immagini di quei posti buttando legna al fuoco in quel trepidante
mondo che era convinta di essersi lasciata alle spalle. Ma che adesso,
colpita dalla tragedia, andava a ripercorrere attraverso i più limpidi
ricordi.
La notte, su quelle vie schiarite soltanto dai lampioni, era diventata una dolce oasi di silenzio, disturbata soltanto dal suono delle
ruote che scorrevano veloci sull’asfalto. E Pelin, coccolata da quel
delicato andare, chiuse gli occhi, lasciando che la sua testa si poggiasse verso la parte destra del sedile posteriore. Avrebbe voluto
tanto riposarsi e per qualche minuto ci riuscì, finché il tassista non
la svegliò con un timido “Scusi.”
Una volta arrivata a destinazione pagò l’uomo e scese dall’auto.
Di fronte a lei, il passato la disturbava più di quanto avesse potuto
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Renato Fortuna
credere, perché ogni minima parte del suo viaggio anche se in maniera lieve le aveva ricordato il motivo di quell’improvviso ritorno.
E la casa in quell’istante sembrava un tuffo nella sofferenza.
Il luogo per eccellenza che raffigurava tutti i suoi legami andati
s’innalzava eterno e lei non fece altro che entrarci dentro.
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Capitolo 3
La casa era una villetta, sviluppata attraverso un unico piano, colorata di un arancione chiaro, quasi salmone, con un tetto bianco
che riprendeva l’intonazione degli infissi. Era una delle abitazioni
meglio dislocate della città: da una parte il lungo fiume Hutkinson
regalava un panorama imperdibile in qualsiasi stagione dell’anno
mentre di fronte le vetrate luminose degli immensi istituti finanziari ti rendevano partecipe della grossa espansione economica che
aveva interessato la zona per più di venti anni. Pelin camminava
sul selciato che portava all’ingresso dell’abitazione osservando
come le piante che un tempo curava in maniera maniacale non davano più l’impressione di voler vivere quell’abbandono.
Una volta arrivata davanti la porta infilò la chiave e sentì subito,
all’interno della serratura, una piccola resistenza che non faceva
girare del tutto la mandata, come se qualcosa di più grande avesse
corrotto gli ingranaggi del chiavistello. In maniera energica si impegnò forzatamente a girare il pomello in modo che riuscisse a spalancare la porta ed entrare in casa. Qualcuno si era introdotto
quand’era fuori, pensò. Come in un crescendo di battiti cominciò
a girare e spingere verso l’interno, cercando di far scattare il meccanismo inceppato della porta che però non sembrava cedere a
quella timida veemenza. Presa da un nervosismo morboso, figlio di
una giornata troppo carica, andava ad aumentare la frequenza dei
colpi che percuotevano la porta, fin quando, all’apice dell’esasperazione, cadde a terra in un tonfo, con le mani che toccavano il gelido pavimento dell’abitazione.
“C’è nessuno?” urlò, alzando lo sguardo al salotto. Tutto sembrava, immutato, come se stesse guardando una vecchia fotografia
e il primo pensiero che passò per la mente alla bionda parigina fu
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proprio che quel qualcuno che aveva manomesso la porta non
aveva portato via nulla dall’abitazione. Ogni cosa era incartata da
metri di teloni di plastica, i mobili, i quadri, persino il tavolino e il
divano erano protetti da un cellofan bianco che celava ogni forma.
Non toccò nessuna di quelle cose, né le svestì della protezione,
bensì una volta poggiata la borsa sul tavolo e spogliatasi del suo
cappotto andò a perlustrare con timore ogni stanza. Pelin si era ricordata che qualche mese fa aveva letto un articolo in cui il signore
e la signora De Flores, dopo essere stati sfrattati, avevano vissuto
per dieci anni in una villa da tre milioni di dollari a Miami, per
tutto il periodo in cui i legittimi proprietari restavano a lavorare a
New York. Costantemente, la coppia ogni anno smontava le tende
in estate e si metteva a vivere accampata in qualche campeggio a
miglia di distanza, per poi attendere che se ne andassero di nuovo
e tornare ad abitare nel lusso.
I coniugi avevano curato ogni cosa nella villa e a ogni viaggio vacanziero dei proprietari, questi la trovavano rigogliosa allo stesso
modo in cui l’avevano lasciata, dal giardino all’argenteria, nessuna
cosa era mai stata toccata. Soltanto un anno, in cui Emilio De Flores si era pesantemente ammalato, Rita, sua moglie, obbligata a rimanere in quella casa, confessò tutto ai titolari che commossi dalla
loro storia decisero di concedergli la stanza degli ospiti in cambio
di prendersi cura della casa come avevano sempre fatto. La giusta
ricompensa per chi compie bene il proprio lavoro, pensò Pelin
quando lesse ciò.
Però questo non somigliava al suo caso, lì ogni elemento e ogni
angolo respirava il plastificato delle coperte, tutto risultava così
immobile che accendendo le luci del salotto il locale si presentava
asettico come una sala operatoria. Anche aprendo le finestre in
modo che nuova aria entrasse nell’ambiente per risanarlo, un fruscio strano, quasi spettrale, cominciò a risuonare tra il mobilio dell’appartamento. Come se il vento muovesse i rami di un albero
rinsecchito dall’abbandono.
Pelin era stanca ma ancora non crollava a terra dalla fatica: era
una donna forte, che aveva affrontato ogni dispiacere da sola; e ancora una volta esausta dal non poter condividere la sua pressante
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Le prigioni mentali di Chris Berge
disperazione, entrò in cucina per vedere se almeno l’acqua riuscisse a uscire dai rubinetti.
Anche quella, dormiente come il resto della casa, era colma di
un’aria stagnante che cominciava a nausearla e una volta tesa la
mano verso l’interruttore della luce una scatoletta poggiata sopra
il telone di plastica, che copriva il tavolino in marmo, le apparve di
fronte, come se qualcuno l’avesse messa lì per lei. Era qualcosa che
non ricordava di aver lasciato, che stonava col resto dell’ambiente.
Si avvicinò incuriosita, prese in mano la scatoletta nera non
troppo pesante e riconobbe che si trattava di un hard disk esterno.
Non c’era alcun biglietto o informazione su chi l’avesse messo,
l’unica cosa da fare era collegarlo al computer per vedere cosa contenesse.
Aprì la valigia, accese il suo portatile e mentre aspettava che si
fosse avviato poggiò un gomito sul tavolo per lasciare almeno che
la testa si posasse sul palmo della mano in modo che risultasse
più leggera. Pochi istanti dopo collegandolo al computer vide che
al suo interno dei pesanti files ne occupavano parte della memoria e lei non fece altro che premere avvio e alzare il volume delle
casse.
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Capitolo 4
“Click.”
Ascolto un leggero fruscio... poi due secondi di silenzio...
“Prendi fiato, ascolta, resisti.”
Ascoltala mentre, come il vagito di un neonato, pronuncia le sue
prime parole. “Vedrai che se resisti forse migliorerai, arriva alla
fine.”
“Non capisco perché alterni questi stati di gioia a momenti di totale abbandono... Tesoro.”
Intorno a me avrò circa una decina di persone, gente comune,
qualche volto già visto ma mai conosciuto, ognuno con i cazzi propri e io con i miei e adesso il problema più grosso sembra far entrare
il mio muffin al cioccolato tutto intero nel cappuccino, senza doverlo
aprire a metà. Tentenno con il dolce in mano, provo a infilarlo, ma
niente; lo capovolgo, ma sembra proprio non essere la sua taglia.
“Ti sei ingrassato” gli sussurro piano.
Dovrebbero fare tazze più grosse in questa merda di bar.
Ah, sono così ridicolo che mi rassegno all’idea di doverlo aprire
a metà come un tacchino nel giorno del ringraziamento.
Lo guardo intero per l’ultima volta, sembra un momento quasi
epico quando lo divido simmetricamente in due parti, è ancora così
caldo al centro che mentre lo apro a metà vedo esalare il suo ultimo respiro fumante all’odore di cacao magro.
Che poi tanto magro non mi sembra.
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Le prigioni mentali di Chris Berge
Prendo la parte di sinistra, ci soffio un po’ e alzando gli occhi noto
un vecchio, davanti a me, sorseggiare il suo caffè: è lì di fronte che
guarda fuori la vetrina del bar, lo seguo con lo sguardo, pensando
che si senta solo perché fuori di qui non c’è proprio niente di interessante, né una mignotta in minigonna né due cani che si azzuffano. Soltanto il sole del primo mattino che si posa su di una calma
apocalittica.
È così fervida la mia immaginazione? Donne e cani randagi?
“Cosa cazzo c’entrano donne e cani randagi?” dico a bassa voce,
poi chino un po’ il capo e massaggiandomi la fronte esclamo tra
me e me: “Oh cazzo, non devo stare troppo bene.”
Nel frattempo, ecco lì che quel barista pelato che non si fa i cazzi
suoi cattura ancora una volta la mia attenzione passandomi a
fianco. Con il suo capello ben curato, corto, che accenna un primo
stato di calvizia.
Odio i baristi, soprattutto quelli impiccioni, quelli che parlano a
rotta di collo, ti sorridono e vogliono attaccare per forza bottone,
parlano a sproposito, sono gentili e alla prima svista sperano di
sputarti nel caffè: per questo motivo evito sempre di girarmi mentre mi stanno servendo.
“Ehi, non credere che il tuo mestiere sia professionalmente più
valido se fai un sorriso in più” vorrei dirgli mentre passa, ma non
lo faccio. Mi riconcentro sul muffin, anzi, oramai sono due metà,
quindi mi correggo: mi riconcentro sui due mezzi muffin.
In matematica due metà fanno comunque un intero, quindi forse
avrei tra le mani un muffin intero, ma si fottesse la matematica!
Vallo a dire a George Peckabell, che dopo un colpo di sonno al volante è stato ritrovato in due carreggiate diverse. Adesso cos’è? Ora
i due mezzi George Peckabell fanno un uomo intero? Penso sempre che la spiegazione dell‘incidente sia stata nella volontà dei due
emisferi di prendere due strade ben diverse. Insomma, diciamolo,
George Peckabell soffriva di chiari disturbi psicologici, per la precisione: disturbo dissociativo d’identità. Cazzo, se non sai scegliere
se andare verso Bonneville o verso Henetcage, non è detto che ti
debba far dividere a metà dal guardrail, sei uno psicotico del cazzo,
figlio mio.
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Renato Fortuna
Torno a guardare il vecchio, sulla settantina, capello rado, con
quei pochi peli sulla testa che brillano sotto uno strato abbondante
di gel, ora pare si sia messo a leggere il Wall Street Journal: “Un ex
uomo d’affari, il tizio” dico al muffin posato ancora sulla mia mano.
Il suo volto magro, rugoso, con la bocca segnata da una leggera
espressione di disprezzo. Già me lo immagino, costretto dalla sua
ambizione a non creare un rapporto con qualcuno, è questa la fine
che fai, bello mio: arrivato all’età in cui capisci che con i soldi puoi
anche pulirtici il culo, ti rimane solo chinarti a raccogliere le ultime
briciole di contentezza attraverso il quotidiano che amavi leggere,
mentre l’immagine del vecchio rampollo che eri ti fotte da dietro
senza avere paura di farti male.
“Amico, sei solo, non lo vedi?” mi viene da dirgli, ma non glielo
dico, è domenica mattina e quando a Gerylville ti ritrovi a perdere
tempo in un bar invece di essere in chiesa a pregare il santo Dio di
vegliare sulle nostre teste di cazzo, allora sei veramente solo. Do
un’occhiata al mio orologio ed è quasi ora di andare, lascio cadere
sul tavolo il povero muffin dilaniato e mi alzo per andare a pagare.
Nel mentre, una bambolona mi sfiora sorridendomi come se volesse portarmi di fretta al bagno e farsi togliere la camicetta bianca
di seta leggera. Mi basta guardarla appena, per capire al volo che
vale dieci punti: bionda, origini europee forse svedese, alta, con
due meloni in silicone al posto del petto. Non so se rimanere più
stupito di quanto sia topa o del fatto che va a mettersi seduta accanto al vecchio pederasta fratello di Gordon Gekko.
“Che bastardo...” faccio tra me e me, mentre in quel momento
passa ancora una volta accanto il barista, sorride un’altra volta il
maledetto, in una maniera così indelicata che vorrei infilargli la testa
nel tritarifiuti e poi, con l’immagine di lui che smette di urlare soffocato dal suo stesso lago di sangue, me ne vado verso la cassa.
In tutto pago quattro dollari e mi ritrovo fuori baciato dal sole e
leccato dal vento umido di fine inverno, colpa del lago Clericol,
che in questa stagione alza il tasso di umidità a livelli registrabili
giusto nell’Amazzonia pluviale. Questa merda di città finirà per
uccidermi.
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Le prigioni mentali di Chris Berge
Passeggio su Beker Street e svolto a destra dopo la Barclays Bank,
una signora accanto va di fretta col suo passeggino e mi supera
come se stesse facendo una gara di nascar: le guardo un po’ il culo,
niente di che, sarà stato il post parto a danneggiarlo in quel modo,
ma un’ammaccatura in più non gliela avrei di certo negata.
Sono le undici e gira poca gente.
Infilo le mani in tasca e sembra tutto a posto, tutto tranquillo come
sempre, tutto bene tranne per il gelo dietro la schiena che rende
questa uscita una pessima trovata.
“Dovevo starmene a casa, cazzo.”
Voglio l’afa estiva, il caldo torrido che copre questa valle benedetta dal demonio. Oh, Cristo! Guardo dall’altro lato della strada
e noto qualcosa che mi era sfuggita l’ultima volta che ero passato
qui: hanno aperto una pasticceria nuova. Attraverso senza nemmeno guardare, tanto la domenica mattina non passa nessuno, casa
o chiesa, solo io qua fuori per colpa sua, e l’immagine più chiara a
cui riesco a riferirmi sono quei due ciuffi di pelo che ha sulla testa
che indossa i suoi occhiali modello “ero brutto anche venti anni
fa”. Mentre passo guardo la vetrina, ammiro le finte composizioni
di cacao, vaniglia e nocciola, belle a vedersi, difficili a mangiarsi,
credo. Un cavallino, alto una quarantina di pollici, impennato come
quello di un Ferrari, mostra i suoi zoccoli fondenti lucidi come le
unghie laccate di una vecchia.
“Io comincerei azzannandolo alla testa.” Ma chissà quanto tempo
è che sta infilato qui dentro.
Quando mi decido, finalmente entro e chiedo un muffin al cioccolato: ce l’hanno, ma stavolta non mi pare così caldo, tre dollari e
passa la paura, esco fuori ancora inebriato dagli odori della pasticceria e fisso un secondo il muffin da dentro la busta. Lo guardo
ancora un po’, poi lo prendo in mano e dopo averlo annusato per
qualche secondo, in maniera del tutto discreta, lo getto nel primo
cassonetto che trovo: non voglio farmi beccare dal commesso del
negozio, che figura farei? Meglio svignarsela, guardo l’orologio e
affretto il passo pensando ancora che John dovrebbe comprarsi un
parrucchino per quei ciuffi biondi sulla fronte. Certe persone si
ostinano a pettinarsi, non ne comprendo proprio il motivo, chia21
Renato Fortuna
matela rassegnazione, ma delle volte è utile prenderla come
un’eventualità.
Finalmente, dopo qualche isolato sono davanti al Belrose Park.
Attendo un paio di minuti, poi lo vedo uscire da una macchina, accompagnato da tutta la sua aurea d’invidia verso il mondo. Non ci
sentiamo da un paio di settimane, quest’uomo sembra peggiorare
giorno dopo giorno, mi saluta calorosamente e non mi piace molto,
io accenno un sorriso e gli dico un ciao breve e distante allo stesso
tempo.
“Come va?” chiedo, tenendo le mani ben salde in tasca per accendere il registratore.
Lui non sente il click e mi risponde: “Bene, bene, come vuoi che
vada?” e strofinandosi le mani l’una con l’altra mi rimanda un sorriso, anch’esso poco caloroso, seguito da una leggera pacca sulla
spalla che sento odiare sin dal primo momento mi si posa addosso.
“Non lo so” gli faccio mentre guardo i suoi capelli sventolare fini
al vento come peli di laniccia solitari all’angolo di una piazza, dovevo proprio ridurmi ad osservare un tale spettacolo di domenica?
Ci incamminiamo addentrandoci nel parco, e mentre il nastro implacabile assorbe tutto quello che ci stiamo dicendo, mi parla del
suo lavoro alla Global Economy Institute. Si sente bello mentre mi
nomina quanti soldi ha guadagnato questo mese, ma non ha capito che l’unica cosa che ruba la mia attenzione sono quei suoi
ciuffi sulla testa e il suo aspetto secco e triste da malato terminale.
Ecco un chiaro esempio di settantenne precoce, cazzo, datti una sistemata o arriverai a quarant’anni che sembrerai uscito dalla bara
di Tutankamon.
“Ti vedo bene” mi ripete un paio di volte
Non posso dire lo stesso di te, mi viene voglia di rispondergli, comunque anche io mi vedo bene, grazie, testa di cazzo. “Grazie, sì,
pare che le cose vadano per il verso giusto anche da me” gli dico
un attimo dopo avergli sorriso in maniera leggera e garbata. Poi
mi soffermo a guardare dei ragazzini che si azzuffano dietro ad un
pallone, mi sembrano così uniti, così felici e spensierati, che riesco
a rivedere me e John correre dopo la scuola al Veyo Park.
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