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RIUNIONE SATELLITE
XV RIUNIONE SCIENTIFICA ANNUALE DEL GRUPPO DI STUDIO ITALIANO
DI PATOLOGIA CARDIOVASCOLARE (GSIPC)
ghdghd
PATHOLOGICA 2004;96:401-406
Le vasculiti
Classificazione
F. Gori, C. Anichini, L. Novelli, E. Pedemonte, S. Tozzini, S. Dini
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze
Nonostante il continuo fiorire di nuovi contributi, le “vasculiti” rappresentano ancora uno dei più complessi ed oscuri capitoli della patologia: si tratta di eventi flogistici localizzati o
sistemici che possono colpire qualsiasi tipo di vaso, di qualsiasi calibro, in qualsiasi distretto e questo spiega l’estremo
polimorfismo dei quadri anatomo-clinici che, insieme alla
mancata conoscenza in molti casi dei fattori eziologici, rendono difficile qualsiasi tentativo di inquadramento nosologico. Un ulteriore problema deriva dal fatto che i pazienti affetti da “vasculite” possono consultare ogni tipo di specialista il quale può indicare la malattia con un’altra definizione
(ad esempio glomerulonefrite, polmonite, porpora) e può non
pensare all’eventualità di un processo sistemico. Da sottolineare infine che “vasculiti” con le stesse manifestazioni cliniche possono avere prognosi e terapia molto diverse.
La diagnosi finale è affidata alla biopsia che deve dimostrare una infiltrazione cellulare flogistica della parete vasale con
presenza o meno di necrosi fibrinoide; il materiale fibrinoide,
intensamente eosinofilo, è la conseguenza di un danno endoteliale o di un danno parietale più grave. Anche la biopsia può
comunque presentare dei limiti, se il prelievo viene effettuato in una zona del vaso risparmiata dalla “vasculite” che
spesso si distribuisce in maniera segmentale o se il processo
flogistico non è in una fase evolutiva conclamata. I distretti
più facilmente sottoposti a biopsia sono la cute, il muscolo, il
nervo, di rado il testicolo ed il tratto intestinale.
Il quadro morfologico è per lo più aspecifico: in alcuni casi
può orientare verso un determinato tipo di “vasculite”, ma una
diagnosi precisa è possibile solo con l’integrazione dei dati clinici e di laboratorio. Sul piano istologico si distinguono vari
profili di “vasculite”: neutrofila, eosinofila, linfocitaria, con
infiltrato cellulare misto, granulomatosa. È tuttavia da ricordare che le “vasculiti” sono eventi dinamici e che gli aspetti microscopici si modificano nel tempo e per le terapie effettuate.
Per quanto concerne la patogenesi di queste affezioni i meccanismi più noti sono: 1) un danno diretto dei vasi da parte di
agenti infettivi, 2) un danno immunologico mediato da immunocomplessi, da ABMA, AECA (anticorpi anti membrana basale, anticorpi anti cellula endoteliale), da ANCA (anticorpi
anti citoplasma dei neutrofili), da cellule (linfociti T, macrofagi); in molti casi però la patogenesi è ancora sconosciuta.
L’evoluzione è varia: alcune forme lievi vanno incontro a
guarigione senza postumi, altre possono condurre a morte in
fase acuta/subacuta, altre infine presentano un decorso cronico, ricorrente, con lesioni attive, in via di guarigione, guarite
con sclerosi.
In merito alle complicanze, le “vasculiti” che impegnano vasi di grosso e medio calibro sono solitamente responsabili di
infarti per occlusione trombotica e talora di emorragie per
rottura di dilatazioni aneurismatiche, mentre quelle dei piccoli vasi producono ovunque numerosi, microscopici focolai
flogistico-necrotici configurando sul piano clinico e morfologico processi a carattere infiammatorio quali miositi, polmoniti, miocarditi, enteriti, mononeuriti e simili.
Una prima fondamentale distinzione delle “vasculiti” identifica
forme primitive o idiopatiche, ad eziologia sconosciuta, nelle
quali la “vasculite” rappresenta la malattia principale, e forme
secondarie che possono complicare il decorso di altre affezioni
come malattie infettive, connettivopatie, tumori, crioglobulinemie, oppure che fanno seguito all’arrivo di microrganismi patogeni alla parete vasale, alla somministrazione di farmaci, di
proteine eterologhe, a radiazioni, ad agenti chimici, a rigetto
d’organo, ed altre ancora. Le forme secondarie sono di gran
lunga assai più numerose delle forme primitive e pertanto la
diagnosi di “vasculite” primitiva è una diagnosi di esclusione.
In particolare, per quanto attiene le “vasculiti primitive”, la
classificazione attualmente più seguita perché consente un
buon orientamento in questo complicato capitolo di patologia
vascolare è quella che tiene conto delle dimensioni e del tipo
dei vasi interessati (Chapel Hill Consensus Conference on
the Nomenclature of Systemic Vasculitis, 1994) 1 2.
Si distinguono “vasculiti”che colpiscono prevalentemente
vasi di grosso calibro (aorta e sue collaterali), vasi di medio
calibro (arterie dirette ai visceri e loro principali diramazioni), vasi di piccolo calibro (piccole arterie, arteriole, venule e
capillari). Esistono tuttavia notevoli, importanti sovrapposizioni anatomo-cliniche tra i diversi tipi di vasculite, motivo
per cui il calibro dei vasi non può e non deve rappresentare
l’unico parametro valutabile a scopo diagnostico.
Le “vasculiti” dei grossi vasi comprendono l’Arterite a Cellule Giganti e l’Arterite di Takayasu, entrambe a patogenesi
sconosciuta, caratterizzate sul piano morfologico da una flogosi granulomatosa che nel tempo evolve in fibrosi. Rispondono bene al trattamento con cortisonici.
L’Arterite a Cellule Giganti coinvolge le arterie temporali, i
rami delle carotidi, ma anche l’aorta e le sue principali diramazioni; predilige donne sopra i 50 anni e frequentemente si
associa a polimialgia reumatica. I granulomi con cellule giganti da corpo estraneo si sviluppano intorno al tessuto elastico che appare distrutto e frammentato.
Al contrario l’Arterite di Takayasu colpisce preferenzialmente donne giovani tra i 15 e i 45 anni. Interessa l’aorta e i suoi
grossi rami, comprese le arterie renali e le arterie coronarie;
nell’aorta l’infiltrato granulomatoso, soprattutto spiccato al
limite tra la media e l’avventizia, restringe ed oblitera le principali collaterali arteriose (malattia dei senza polso, sindrome
dell’arco aortico).
Alle “vasculiti” dei vasi di medio calibro appartengono la
Poliarterite Nodosa e la Malattia di Kawasaki.
La Poliarterite Nodosa è una malattia ricorrente che si riscontra in soggetti di ogni età anche se è più frequente nella
quinta, sesta decade di vita; la flogosi necrotizzante colpisce
in modo focale e/o circonferenziale la parete arteriosa evolvendo col tempo in fibrosi: lesioni vecchie e nuove spesso
coesistono in una stessa arteria. La più importante complicazione è l’ipertensione nefrovascolare per l’interessamento
del rene ma anche nervi, muscoli, cuore, fegato, tratto gastrointestinale ed altri organi e tessuti possono essere coinvolti fatta eccezione per il polmone. Nei casi tipici l’angiografia mette in rilievo la presenza di numerosi aneurismi viscerali. La prognosi rimane grave nonostante sia migliorata
in seguito alla terapia con immunosoppressori.
La Malattia di Kawasaki (sindrome mucosocutanea-linfononodale) predilige bambini sotto i quattro anni di età e, nella
forma classica, si presenta con febbre, emorragie e ulcerazio-
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ni della mucosa orofaringea, linfoadenopatia cervicale, eritema palmare e plantare che si estende poi agli arti ed al tronco. I dati clinici ed epidemiologici parlano a favore di un
agente infettivo ad oggi non identificato e, in fase acuta, sono stati dimostrati nel siero autoanticorpi litici diretti contro
cellule endoteliali citochine attivate. Frequentemente sono
colpite le arterie coronarie con un quadro istopatologico assimilabile a quello della poliarterite nodosa. Nella maggior
parte dei casi la prognosi è buona ma nell’1-3% la vasculite
può condurre a morte per rottura di aneurismi coronarici, per
trombosi delle arterie coronarie e/o miocardite.
Il gruppo delle “vasculiti” che interessano prevalentemente i
piccoli vasi (arteriole, capillari, venule) annovera cinque forme sistemiche e una forma localizzata. Fra le forme sistemiche, tre sono caratterizzate dalla presenza nel siero di ANCA
mentre sono per lo più assenti depositi di immunoglobuline
nella parete dei vasi: la Sindrome di Churg-Strauss, la Granulomatosi di Wegener e la Poliangioite Microscopica; due
sono invece contrassegnate dal costante riscontro di immunocomplessi nella parete vasale mentre la ricerca degli ANCA risulta negativa: la Porpora di Henoch-Schoenlein e la
Crioglobulinemia Mista Essenziale. Dal punto di vista
morfologico nella Sindrome di Churg-Strauss e nella Granulomatosi di Wegener sono reperibili oltre alle microangioiti
granulomi peri ed extravasali, mentre nelle altre affezioni si
documenta soltanto l’infiammazione dei piccoli vasi.
La Sindrome di Churg-Strauss mostra una spiccata predilezione per il polmone, il cuore, il sistema nervoso periferico. Esordisce con crisi asmatiche ed ipereosinofilia e, dopo un intervallo di tempo variabile di mesi o di anni, subentra la fase vasculitica che si rende evidente con segni e sintomi riferibili alla presenza di pericardite, miocardite, polmonite, mononeuriti,
nonché di manifestazioni relative alla compromissione di altri
organi ed apparati. La diagnosi istopatologica si avvale di tre
parametri che tuttavia non sono mai presenti simultaneamente
nel tempo e nello spazio: l’infiltrazione tissutale da parte di eosinofili, la vasculite necrotizzante, i granulomi peri ed extravasali che vanno incontro a fibrosi e calcificazione. La terapia
può evitare serie e irreversibili complicazioni.
La Granulomatosi di Wegener si distingue per il riscontro nelle vie aeree superiori ed inferiori di microvasculiti e di lesioni
necrotizzanti circondate da reazioni granulomatose la cui evoluzione in cicatrizzazione provoca importanti stenosi. La malattia coinvolge il rene in forma di glomerulonefrite proliferativa extracapillare a focolai o diffusa e molti altri distretti; la
prognosi, notevolmente migliorata per l’uso combinato di immunosoppressori e di cortisonici, rimane tuttavia grave.
Particolarmente insidiosa per il profilo clinico quanto mai
polimorfo è la Poliangioite Microscopica (cosiddetta forma
microscopica della Poliarterite Nodosa) il cui quadro istologico è caratterizzato solo da lesioni acute necrotizzanti senza
fenomeni riparativi. I distretti più colpiti sono il rene con la
diffusa formazione di semilune ed il polmone dove la capillarite provoca emorragie alveolari pericolose; ma anche la
cute, i nervi e qualsiasi altra sede possono essere interessati.
La prognosi è in rapporto alla rapidità della diagnosi peraltro
non facile e del trattamento immunosoppressivo.
La Sindrome di Schoenlein-Henoch (Porpora di SH) si osserva per lo più in bambini e mostra una spiccata predilezione
per la cute, il rene, le articolazioni, il tratto gastro-intestinale. La porpora palpabile è il segno clinico più appariscente
ma il vero problema è rappresentato dalle eventuali lesioni
glomerulari renali (glomerulonefrite proliferativa mesangiale) che richiedono numerosi controlli nel tempo. È una malattia ricorrente che in genere guarisce senza terapia.
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La cute e il rene costituiscono le sedi di elezione anche nella
Crioglobulinemia Mista Essenziale nella quale la risposta infiammatoria è evocata dalle crioglobuline (alcune in funzione
di antigene, altre in funzione di anticorpo) che si depositano
nella parete dei piccoli vasi. La malattia predilige soggetti sui
40-50 anni, mostra un decorso cronico con remissioni e riesacerbazioni, ma la prognosi è in genere favorevole.
La classificazione considera infine una forma di angioite
localizzata, la Vasculite Leucocitoclasica Cutanea che
coinvolge soprattutto le venule post-capillari e, sebbene
per definizione sia confinata alla cute, potrebbe rappresentare l’esordio o comunque far parte di una vasculite sistemica. La parete venulare ed il connettivo circostante appaiono infiltrati da granulociti neutrofili che degenerando
danno luogo al peculiare aspetto della “polvere nucleare”
(nuclear dust). Nella parete dei piccoli vasi l’immunofluorescenza mette in rilievo abbondanti depositi granulari di
immunocomplessi.
Negli ultimi decenni la ricerca di specifici elementi atti a
identificare i singoli tipi di vasculite ha consentito una loro
migliore caratterizzazione facilitandone sia la diagnosi che la
terapia. È necessario sottolineare che quadri anatomo-clinici
sovrapponibili a quelli osservati nelle “vasculiti” primitive
sono reperibili nelle forme secondarie. Ad esempio, aortiti
granulomatose a cellule giganti possono verificarsi in corso
di artrite reumatoide o di sifilide; un modello di vasculite assimilabile a quello della Poliarterite Nodosa può essere il risultato di una infezione da virus B o C dell’epatite; e ancora,
vasculiti dei piccoli vasi a volte complicano il decorso dell’infezione da HIV, del Lupus Eritematoso Sistemico oppure
sono espressione di una intolleranza a farmaci.
La classificazione delle “vasculiti” proposta dal Gruppo di
Studio Internazionale (Chapel Hill Consensus Conference,
1994) è al momento quella che senza dubbio consente di navigare in maniera più sicura in questo difficile capitolo di patologia con il quale clinici e patologi hanno scarsa familiarità: non deve essere intesa in modo troppo rigido e schematico sia per i possibili sconfinamenti di una categoria in
un’altra, sia perché sicuramente mancano all’appello altre
forme di vasculite sistemica e localizzata, sia per l’eventualità che vengano identificati gli agenti eziologici di queste
malattie; ha certo il merito di aver reso semplice e razionale
l’approccio allo studio di queste complesse entità.
Bibliografia
1
Jennette JC, et al. Nomenclature of Systemic Vasculitides. Proposal of
an International Consensus Conference. Arthritis Rheum
1994;37:187-192.
2
Vasculitis. Semin Diagn Pathol 2001;18:1-77.
LE VASCULITI
Problemi di diagnostica differenziale nelle
vasculiti
Cuore
G. Bartoloni
Dipartimento di Anatomia, Patologia Diagnostica, Igiene e
Medicina Legale; Unità Operativa di Anatomia Patologica,
Università di Catania; Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma “La Sapienza”
Polmone
F. Calabrese
Istituto di Anatomia Patologica, Università di Padova
Cute
O. Leone*, F. Bacci**
*
Istituto di Anatomia Patologica; ** Servizio di Emo-linfopatologia, Università di Bologna
Aorta
C. Anichini
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze
Cuore
Introduzione
Le vasculiti coronariche possono essere causa primaria di
insufficienza coronarica e dovrebbero essere sospettate in
tutti pazienti ritenuti affetti da collagenopatia, vasculite sistemica o che manifestino dolore toracico o insufficienza
cardiaca congestizia. I fattori di rischio per aterosclerosi
possono inoltre sommarsi e complicare la suddetta sintomatologia.
La diagnosi differenziale nelle vasculiti cardiache, è spesso
impegnativa per le frequenti similitudini morfologiche che
diverse sindromi vasculitiche esprimono quando l’organo
bersaglio è il cuore. I quadri anatomo-clinici sono sempre
meno specifici quanto più le lesioni sono confinate esclusivemente all’albero coronarico con manifestazioni extracardiache assenti o pressochè silenti.
Un razionale iter diagnostico differenziale dovrebbe considerare complessivamente il quadro cardiaco unitamente alle
manifestazioni dei rimanenti organi ed apparati.
Scopo del lavoro è la revisione di due casi autoptici di morte
improvvisa con manifestazioni morfopatologiche simili ma
con possibili diverse conclusioni diagnostiche.
Metodi
È stato sottoposto a revisione il materiale patologico proveniente da due studi autoptici, relativi ad altrettanti soggetti di
sesso maschile, rispettivamente di 21 e 31 anni di età, deceduti improvvisamente.
Caso 1: soggetto di 21 anni, semiagonista di pallavolo. Viene
trovato morto nel proprio letto, in corso di terapia sintomatica per sintomatologia a tipo influenzale.
Caso 2: soggetto di 32 anni, muore improvvisamente dopo
una partita amatoriale di calcetto.
Effettuati i due studi autoptici, si ottenevano preparati istologici dopo prelievo dei cuori in toto e di frammenti dei principali parenchimi. I preparati di miocardio, sono stati colorati
con metodi di routine, con metodiche istochimiche per il col-
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lagene e con metodiche immunoistochimiche per la tipizzazione di infiltrati infiammatori, ove necessario.
Risultati
In entrambi i casi non si evidenziavano lesioni macroscopiche dei parenchimi e sistemi extracardiaci.
I cuori pesavano rispettivamente 450 e 385 grammi. Nel caso
1, si apprezzavano lesioni coronariche esclusivamente nell’emisistema di sinistra, consistenti nella trombosi occlusiva recente di un aneurisma prevalentemente cilindrico, di tutta la
coronaria circonflessa e in circolo dominante sinistro. Nulla di
macroscopicamente evidente per la coronaria destra, il tronco
comune di sinistra e l’interventricolare anteriore. Il miocardio
transmurale mostrava un’ampia lesione infartuale subrecente
dell’intera parete laterale libera del ventricolo di sinistra.
Nel caso 2, in circolo coronarico dominante destro, si osservavano lesioni coronariche di entrambi gli emisistemi destro
e sinistro: una trombosi prossimale della coronaria destra con
modesta dilatazione aneurismatica. Lesioni ostruttive plurifocali sull’interventricolare anterore e su altri rami di sinistra. Non erano apprezzabili lesioni macroscopiche delle pareti ventricolari.
L’istologia delle lesioni coronariche mostrava infiltrati infiammatori perivascolari e nello spessore della tonaca media,
prevalentemente linfo-plasmacellulari, ma con evidenza di
granulociti nel caso 1; lesioni a tipo di necrosi fibrinoide erano presenti in entrambi ma con maggiore importanza nel caso 2. Il caso 1 inoltre esprimeva focolai di miocardite anche
con evidenza di istiociti giganti plurinucleati coesistenti a lesioni infartuali acute e subacute. Silente era invece l’istologia
del miocardio nel caso 2 se si eccettuano piccoli focolai di
danno acuto a tipo di bande di contrazione miofibrillare.
Conclusioni
In nessuno dei casi i quadri anatomo-clinici sono stati specifici. Il nostro orientamento diagnostico si è diretto verso la
malattia di Kawasaki e verso la panarterite nodosa. Maggiore compatibilità con la prima è stata osservata nel caso 1. Tale conclusione è stata basata sulla presenza di uno stato febbrile e del consistente reperto di miocardite. Con criterio di
esclusione, assenza di febbre e di miocardite, ci si è orientati
per la maggiore compatibilità con panarterite nodosa del caso 2. Sempre nello stesso paziente, le dimensioni degli aneurismi erano peraltro non eccessive e pertanto più consone per
la diagnosi; era inoltre coerente la maggiore evidenza di necrosi fibrinoide della tonaca media coronarica.
Purtroppo, la negatività dei reperti extracardiaci, assenza di
lesioni vascolari renali e di altri parenchimi, non ha consentito di porre una diagnosi di certezza. D’altra parte tale reperto negativo è frequentemente riportato in letteratura, in
studi caratterizzati solo da isolate lesioni cardiache.
Per questo motivo, nei casi dubbi, alcuni autori suggeriscono
di formulare una più prudente diagnosi di vasculite coronarica, seguita dall’elenco delle lesioni osservate.
Bibliografia
Seve P, Bui-Xuan C, Charhon A, Broussolle C. La Maladie de Kawasaki
de l’adulte / Adult Kawasaki disease. La revue de Medicine Interne
2003;24:577-584.
Paul RA, Helle MJ, Tarssanen LT. Sudden death as sole symptom of coronary arteritis. Ann Med 1990;22:161-162.
Polmone
Le vasculiti polmonari comprendono un gruppo di patologie
eterogenee dal punto di vista clinico ed ezio-patogenetico,
caratterizzate da flogosi e necrosi della parete vascolare con
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Tab I. Vasculiti polmonari
Granulomatosi di Wegener
Sindrome di Churg-Strauss
Poliangioite microscopica
Poliarterite nodosa
Arterite di Takayasu
Porpora di Henoch-Schoenlein
Vasculite crioglobulinemica
Arterite a cellule giganti
Arterite granulomatosa idiopatica
Sarcoidosi classica
Malattie del collagene
Tumori
Infezioni polmonari
Granulomatosi broncocentrica
Ipertensione polmonare
Pneumopatie interstiziali
Droghe o sostanze tossiche
Radiazioni
Trapianto
Granulomatosi linfomatoide
Linfoma maligno intravascolare
Linfoma non-Hodgkin
Vasculiti idiopatiche polmonari
Vasculiti idiopatiche con raro coinvolgimento polmonare
Vasculiti secondarie a disordini sistemici
Vasculiti secondarie o localizzate
Coinvolgimento vascolare nei disordini linfoproliferativi
conseguente riduzione del lume ed ischemia dei tessuti irrorati. Si riconoscono forme primitive o idiopatiche nelle quali
il coinvolgimento vascolare rappresenta la principale manifestazione clinica e forme secondarie in cui la vasculite è la
conseguenza di un processo patologico concomitante o riconosce una causa o concausa identificabile (Tab. I) 1.
Si tratta di patologie dal difficile inquadramento e questo
spiega il motivo per cui, nonostante negli ultimi decenni siano state proposte varie classificazioni, manca attualmente
una classificazione univocamente accettata. La classificazione maggiormente condivisa è stata proposta nel 1992 alla
Chapel Hill Conference 2 2 3 ed è basata su:
• aspetti clinici ed istopatologici
• la dimensione dei vasi maggiormente coinvolti più
• la presenza di markers sierologici e di altri fenomeni autoimmunitari (ANCA) e/o
• la presenza di depositi composti da anticorpi e/o complemento nel tessuto esaminato.
Le vasculiti ad interessamento prevalentemente polmonare: la
Sindrome di Wegener, la sindrome di Churg-Strauss e la poliangioite micro-scopica hanno differenti aspetti clinici e morfologici ma sono tutte comunque comprese nel capitolo delle vasculiti ANCA (anticorpi antineutrofili) correlate (Tab. II).
L’inquadramento delle vasculiti polmonari e l’approccio clinico sono complicati da almeno altri due fattori. Nei primi
studi sull’argomento venivano comprese entità, con profilo
clinico e radiologico simile se non in alcuni casi sovrapponibile, successivamente classificate in altro modo: la sarcoidosi necrotizzante, oggi considerata una variante della sarcoidosi, la granulomatosi linfomatoide oggi vista come espressione particolare di linfoma (cosiddetto “T cell rich B cell
lymphoma”, linfoma T angiocentrico e molto più raramente
Tab. II. Vasculiti idiopatiche polmonari: principali aspetti clinico-patologici
Asma
Eosinofilia
ANCA
Glomerulonefriti
Interessamento cardiaco
Interessamento enterico
Lesioni necrotizzanti vie aeree
Granulomi necrotizzanti
Vasculite necrotizzante
Flogosi eosinofila
Alveolite emorragica
Granulomatosi di
Wegener
Sindrome di
Churg-Strauss
No
Di solito: No
60-95%, di solito C-ANCA
Frequente
Raro
No
Occasionale
Si
Si
Rara
Rara
Si
Si
70%, di solito P-ANCA
Occasionale, lieve
Frequente
SI
No
Si
Si
Si
No
Poliangioite
microscopica
No
No
80%, di solito P-ANCA
Usuale
Raro
Si
No
No
Si
No
Si
LE VASCULITI
linfoma a cellule NK), correlata nella maggioranza dei casi
alla infezione da virus di Epstein Barr, la granulomatosi
broncocentrica (processo infiammatorio legato a differenti
condizioni, per lo più di natura infettiva).
La presenza o assenza di autoanticorpi, in particolare gli
ANCA non è elemento diagnostico patognomonico di queste
affezioni. Esistono casi di vasculite (Wegener “limitato”,
Churg-Strauss e poliangioite microscopica) ad importante interessamento polmonare senza che sia possibile identificare
questi autoanticorpi nel siero e ci sono patologie polmonari
non vasculitiche che possono essere associate alla positività
per ANCA.
Altrettanto difficoltosa risulta la caratterizzazione patologica
e le motivazioni potremmo così riassumerle: 1) le vasculiti
polmonari si devono considerare delle entità clinico-patologiche sicché la diagnosi conclusiva non può basarsi unicamente su criteri patologici ma deve tenere conto delle informazioni cliniche radiologiche e di laboratorio; 2) le vasculiti
polmonari sono patologie rare, così solo pochi patologi hanno un’adeguata esperienza diagnostica in tale ambito; 3) alcuni aspetti patologici sono sovrapponibili a lesioni granulomatose di natura infettiva; 4) in molti casi mancano i marker
isto-morfologici caratteristici delle vasculiti, in tali casi è necessario prospettare una diagnosi di sospetto basandosi unicamente su alcuni indizi.
Bibliografia
1
Travis WD, Koss MN. Vasculitis. In: Dail DH, Hammar SP eds. Pulmonary pathology, 2nd ed. New York: Springer-Verlag 1994:1027-95.
2
Jennette JC, et al. Arthritis Rheum 1994;37:187-192.
3
Jennette JC, et al. N Engl J Med 1997;337:1512-23.
Cute
L’associazione fra vasculiti cutanee e malattie linfoproliferative è ben conosciuta.
Alcuni linfomi possono esordire con lesioni infiammatorie
cutanee, che simulano le vasculiti sia dal punto di vista clinico che patologico; in altri casi, le vasculiti si manifestano come complicanza delle malattie linfoproliferative.
Esempi di linfomi che simulano le vasculiti cutanee, per
quanto poco frequenti, sono costituiti da:
• il linfoma T angiocentrico cutaneo, che causa lesioni vascolari simili a quelle della poliarterite nodosa o caratterizzate da obliterazione del lume vascolare e da aspetto a
“bulbo di cipolla” delle arterie;
• il linfoma angiotropico che può porre il problema della
diagnosi differenziale con le panniculiti o le vasculiti sistemiche
• i linfomi T a cellule periferiche, che possono interessare la
cute ed entrare in diagnosi differenziale con panniculiti,
vasculiti ed eruzioni eczematose
• il linfoma marginale splenico, nel quale è stata descritta la
possibilità di presentazione sotto forma di vasculite leutocitoclasica.
Per quanto riguarda le vasculiti cutanee che intervengono come complicanza di malattie linfoproliferative, le più frequenti sono rappresentate dalle arteriti necrotizzanti o leucocitoclasiche, mentre le vasculiti granulomatose occorrono raramente in associazione con i disordini linfoproliferativi.
Un’altra entità descritta nei pazienti affetti da linfoma è la vasculopatia/vasculite linfocitica cutanea, che ha significato paraneoplastico ed è caratterizzata istologicamente da una vasculite o da infiltrati perivascolari costituiti da linfociti T non
neoplastici.
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Poiché, quindi, le vasculiti possono precedere la diagnosi
delle malattie linfoproliferative o entrare in diagnosi differenziale con alcuni linfomi ad esordio “vasculitico”, è opportuno che i pazienti affetti da vasculite vengano studiati e monitorati anche per l’eventuale presenza di un processo linfoproliferativo.
Studi più sistematici, per quanto anch’essi poco numerosi, riguardano le lesioni cutanee in pazienti affetti da leucemia o
da sindromi mielodisplastiche. In particolare, ci soffermeremo sulla cd. “leucemia cutis” e sulle vasculiti leucemiche.
Il coinvolgimento cutaneo in alcuni sottotipi di leucemie è
piuttosto frequente e riflette la capacità che questi tumori
hanno di infiltrare i tessuti.
L’infiltrazione della cute da parte delle cellule leucemiche
determina la formazione di un’eruzione cutanea che, più frequentemente, viene denominata leucemia cutis, anche se altri
termini sono stati utilizzati, fra cui quelli di sarcoma granulocitico o di cloroma, soprattutto in presenza di precursori
granulocitici, e di mieloblastoma. L’incidenza varia con il tipo di leucemia ed è più frequente nei pazienti affetti da leucemie acute non linfoblastiche (soprattutto FAB M4 e FAB
M5) che in quelli con leucemia acuta linfoblastica.
L’interessamento cutaneo può, raramente, anche precedere lo
sviluppo della fase leucemica.
Più recentemente è stato descritto che, in una sottopopolazione di pazienti, la leucemia cutis può essere accompagnata
dalla presenza di vasculiti. In questo ambito, sono state descritte due tipi di vasculiti:
• vasculiti leucocitoclasiche non leucemiche, che precedono
o compaiono contemporaneamente alla leucemia, in genere di tipo mielomonocitico;
• vasculiti leucemiche, descritte in pazienti con leucemia
mielomonocitica o monocitica, in cui il danno vascolare
sembra mediato dai blasti leucemici e non da cellule infiammatorie reattive.
Nelle vasculiti leucemiche, il grado del danno vascolare può
essere molto variabile, configurando quadri istopatologici
differenziati:
• nei casi in cui il danno vascolare è focale, si osservano infiltrati di cellule blastiche perivascolari e solo scarse cellule neoplastiche nel lume e nella parete vasale, associati a
deposizione di fibrina nei capillari e a stravasi di eritrociti, indicativi di danno vascolare. In altri piccoli vasi del
derma, sono spesso evidenti alterazioni secondarie come
edema perivascolare e rigonfiamento delle cellule endoteliali. Talora, nelle biopsie cutanee in cui è presente una vasculite leucemica di scarsa entità, concomitano arteriti severe nei vasi sottocutanei.
• in altri casi, invece, il quadro istopatologico è costituito da
una severa arterite necrotizzante delle arterie muscolari di
piccolo e medio calibro del derma superficiale e profondo,
con blasti endoluminali e distruzione di numerosi piccoli
vasi.
Poiché nella cute, la identificazione cito-morfologica delle
cellule leucemiche può risultare difficoltosa e poiché la modalità di presentazione della leucemia cutis può variare in
modo significativo, bisogna spesso prendere in considerazione alcune diagnosi differenziali, fra cui:
• processi infiammatori reattivi non specifici (porpora, altri
tipi di vasculiti cutanee, eritroderma esfoliativo, pioderma
gangrenoso bolloso, eritema multiforme, orticaria, panniculiti);
• dermatosi batteriche, virali o fungine
• graft-versus-host-disease, nei pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo
406
• altre neoplasie metastatiche, soprattutto nelle forme di leucemia cutis morfologicamente polimorfe, associate a leucemie mieloidi.
Fra le altre neoplasie ematologiche che provocano infiltrazione vascolare o lesioni angiodistruttive, ricordiamo infine
la leucemia a tricoleucociti, la cui associazione con un’arterite simil-nodosa o con la vasculite leucocitoclasica è ben documentata.
Ad esemplificazione delle problematiche brevemente riportate, presentiamo il quadro istopatologico di una biopsia cutanea relativa ad una lesione papulosa della gamba destra, in un
paziente di 72 anni affetto, da alcune settimane, da astenia,
modesto calo ponderale, pallore della cute e delle mucose e
modesti sanguinamenti gengivali.
Bibliografia
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Dan Jones, Dorfman DM, Raymond L, Barnhill, Scott R. Granter.
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Aorta
Prelievi multipli effettuati su un campione di aorta toracica
aneurismatica proveniente dalla U.O. di Cardiochirurgia hanno dimostrato istologicamente una grave compromissione della tunica media con aree di frammentazione e scomparsa delle
fibre elastiche e aree di necrosi fibrinoide contornate da un infiltrato infiammatorio mononucleato con presenza di cellule
giganti; nell’intima lesioni aterosclerotiche di grado lieve, indenne la tunica avventiziale. Il campione apparteneva ad una
donna di 65 anni ricoverata per episodi di dispnea parossistica
notturna e tachicardia atriale. All’esame obiettivo del cuore era
presente una grave insufficienza aortica, l’RX del torace mostrava un voluminoso aneurisma dell’aorta ascendente coinvolgente anche l’arco aortico. L’ecocardiografia bidimensionale e l’angiografia confermavano tali reperti. Esami di laboratorio nella norma. Cinque anni prima, per la presenza di cefalea di tipo pulsante, difficoltà alla masticazione, indici di flogosi aumentati, la paziente fu sottoposta a biopsia dell’arteria
temporale che evidenziò un’arterite a cellule giganti. La donna
trattata con cortisonici, fu ritenuta guarita ai controlli successivi. Diagnosi attuale: aortite a cellule giganti.
È noto che la maggior parte degli aneurismi di tipo infiammatorio si localizzano nell’aorta toracica verosimilmente
perché più ricca di vasa vasorum 1 2. Data l’età della paziente, nella diagnosi differenziale è in primo luogo da considerare l’aterosclerosi che talora distrugge ampiamente le strutture muscolo-elastiche della tunica media suscitando una reazione flogistica talmente esuberante da configurare quell’en-
RIUNIONE SATELLITE
tità definita “aneurisma infiammatorio” la cui sede tipica è
nel tratto addominale dell’aorta, ma che recentemente è stato
descritto anche in sedi extra-aortiche. Nella paziente le lesioni aterosclerotiche erano di modesta entità. Altre aortopatie
da prendere in esame sono le aortiti di tipo non infettivo fra
le quali l’arterite di Takayasu che peraltro può essere esclusa
in quanto colpisce soggetti di giovane età e la flogosi si
estrinseca prevalentemente nell’avventizia coinvolgendo i
vasa vasorum. E neppure può trattarsi di un’aortite in corso
di artrite reumatoide poiché mancano segni e sintomi articolari di tipo artritico e risulta negativa la ricerca di anticorpi
specifici. È da rilevare che nell’aortite reumatoide solo il
50% dei casi mostra i tipici noduli reumatoidi mentre nei rimanenti casi i reperti istopatologici sono aspecifici e sovrapponibili ad altri tipi di aortite. In altre connettivopatie che
possono interessare l’aorta toracica come la spondilite anchilosante e la sindrome di Reiter, il sesso maschile e la giovane età rappresentano importanti fattori discriminanti.
Sempre in merito alla diagnostica differenziale vanno infine
considerate le aortiti infettive talora responsabili di dilatazione aneurismatica dell’aorta ascendente e di insufficienza aortica. Da segnalare in primo luogo l’aortite sifilitica caratterizzata, principalmente nelle fasi inziali, da un infiltrato infiammatorio di tipo linfoplasmacellulare intorno i vasa vasorum avventiziali che vanno incontro ad endoarterite obliterante; nella tunica media sottostante si possono osservare
aree necrotiche circondate da flogosi produttiva con presenza talora di cellule giganti. Ancora una volta l’aspetto morfologico aspecifico della lesione non permette una diagnosi di
certezza se non con l’aiuto degli esami di laboratorio e dei test sierologici specifici. Il crescente numero di nuovi casi di
tubercolosi polmonare e linfoghiandolare nei paesi sviluppati, rende possibile anche l’incontro con un’aortite granulomatosa tubercolare. Nell’ambito delle aortopatie infiammatorie di tipo infettivo, occorre anche valutare l’eventualità di
un’aortite batterica, che è il risultato dell’impianto dell’agente infettivo direttamente sull’intima attraverso il torrente circolatorio, di un embolo settico nei vasa vasorum, dell’estensione per contiguità da un focolaio infettivo extravascolare,
ad esempio un’endocardite valvolare, dell’inoculazione traumatica nella parete aortica di materiale contaminato. L’abbondanza nell’infiltrato infiammatorio di polimorfonucleati
depone per un’aortite da piogeni. Nella presente osservazione le notizie anamnestiche, gli esami clinici e di laboratorio,
nonché i reperti istopatologici hanno consentito di escludere
un’aortite di tipo infettivo.
Bibliografia
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Weidner N. Giant-Cell Vasculitides. Semin Diagn Pathol 2001;18:2433.
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L’ipertrofia miocardica
Metabolismo energetico ed ipertrofia
miocardica
C. Giordano, G. d’Amati
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma “La Sapienza”
L’ipertrofia cardiaca patologica rappresenta la risposta adattativa del cuore ad un sovraccarico di lavoro, come un sovraccarico cronico di volume o di pressione. Essa è caratterizzata da un incremento della massa muscolare in assenza di
divisione cellulare e, a livello molecolare, da una serie di alterazioni qualitative e quantitative che riguardano la funzione contrattile sarcomerica, il metabolismo del calcio, la composizione della matrice extracellulare e, non per ultimo, il
metabolismo energetico. Queste alterazioni sono determinate
da modificazioni nell’espressione genica conosciute solo in
parte. Una migliore comprensione dei meccanismi di regolazione potrebbe offrire l’opportunità di modulare gli aspetti
potenzialmente deleteri della risposta ipertrofica del miocardio.
Negli ultimi anni è stata data grande enfasi alla possibilità
che un’alterazione del metabolismo energetico possa giocare
un ruolo importante tra i meccanismi che portano all’ipertrofia ventricolare patologica ed al rimodellamento cardiaco.
Nei mammiferi, infatti, il metabolismo energetico cardiaco è
strettamente regolato durante lo sviluppo ed in risposta a diversi stimoli sia fisiologici che patologici. Il cuore fetale, che
lavora in condizioni di relativa ipossia, ricava energia dal
metabolismo del glucosio e del lattato. Alla nascita, a seguito dell’aumentata richiesta energetica del miocardio dovuta
alla variazione delle condizioni emodinamiche, il numero dei
mitocondri e l’espressione delle proteine mitocondriali aumentano drasticamente, e l’ossidazione mitocondriale degli
acidi grassi diviene la principale fonte di ATP per il miocardio neonatale.
L’attivazione post-natale delle vie di produzione energetica
mitocondriale implica l’espressione di geni nucleari che codificano sia per enzimi della ossidazione degli acidi grassi,
che per altre proteine importanti nelle vie di produzione e trasduzione energetica.
Studi recenti hanno identificato il gene noto come peroxisome proliferator-activated receptor-α (PPARα) ed il suo coattivatore PPARγ-1 (PGC-1) come i più importanti regolatori
dell’espressione dei geni dell’ossidazione degli acidi grassi.
Numerosi studi dimostrano che durante lo sviluppo dell’ipertrofia ventricolare patologica il metabolismo energetico del
miocardio assume di nuovo le caratteristiche tipiche della vita fetale, con una drastica riduzione dell’ossidazione degli
acidi grassi ed una ridotta espressione dei corrispondenti enzimi. Questa “regressione” metabolica è causata dall’inattivazione del complesso PPARα/PGC-1, che probabilmente è
da interpretare come una iniziale risposta adattativa, volta a
ridurre la necessità di ossigeno da parte del cuore ipertrofico.
Tuttavia, l’utilizzo del glucosio come principale substrato
metabolico può comportare, alla lunga, un deficit energetico
e può favorire l’evoluzione verso il rimodellamento cardiaco
patologico. A favore di questa ipotesi è l’osservazione che
l’aumentato utilizzo di glucosio nel miocardio ipertrofico
non è accompagnato da un corrispondente incremento del
tasso di ossidazione del piruvato ma bensì da un aumento di
produzione di acido lattico. Da ciò risulta pertanto improbabile che la glicolisi anaerobia sia sufficiente a compensare il
declino della ossidazione degli acidi grassi in termini di produzione di ATP. Inoltre, la ridotta espressione degli enzimi
della β-ossidazione, nel cuore ipertrofico umano, non sembra
associata ad un parallelo incremento di espressione degli enzimi coinvolti nel metabolismo glicidico. Infatti, l’espressione e l’attività degli enzimi glicolitici e l’espressione di proteine coinvolte nel trasporto intracellulare del glucosio, come
GLUT1 e GLUT4, non sono aumentati nel cuore ipertrofico
umano ed risultano perfino ridotti nel cuore scompensato.
Queste osservazioni suggeriscono la possibilità di una loro
regolazione a livello post-trascrizionale. Infatti, uno studio
recente, effettuato su cuori ipertrofici di ratto, ha dimostrato
un aumento di GLUT4 e GLUT1 a livello della plasmamembrana dei cardiomiociti, non accompagnato da un parallelo
aumento dell’espressione totale di queste proteine nella cellula. Questi dati potrebbero suggerire un aumento della traslocazione delle molecole dei trasportatori dai depositi intracellulari alla membrana cellulare, come già dimostrato in
cuori soggetti a danno da ischemia/riperfusione. La dimostrazione, in un modello sperimentale di ipertrofia, che l’over-espressione di GLUT1 protegge dalla evoluzione verso lo
scompenso congestizio, sottolinea ancora l’importanza del
metabolismo dei glicidi nell’ipertrofia e suggerisce potenziali obiettivi terapeutici.
Sebbene i meccanismi di regolazione delle proteine coinvolte nel metabolismo glicidico nell’ipertrofia miocardica siano
ancora poco noti, dati di letteratura evidenziano il ruolo della proteina chinasi AMPciclico-dipendente (AMPK).
L’AMPK fa parte di un vasto gruppo di protein-chinasi che,
funzionando come sensori metabolici, sono implicate nell’omeostasi cellulare dell’ATP e nella biogenesi mitocondriale.
Numerosi studi evidenziano come l’AMPK sia attivata in risposta ad una deplezione di ATP o di fosfocreatina (PCr) nella cellula, e stimoli il trasporto intracellulare e l’utilizzo del
glucosio così come la β-ossidazione degli acidi grassi. Nonostante il ruolo dell’AMPK nello sviluppo dell’ipertrofia cardiaca non sia stato ancora completamente elucidato, la recente osservazione che mutazioni nella sua subunità catalitica γ2 sono responsabili di una forma di cardiomiopatia ipertrofica (CMI) associata a sindrome di Wolff-Parkinson-White ne sottolinea la potenziale importanza.
I pazienti con CMI secondaria a mutazioni nella subunità γ2
dell’AMPK hanno una prognosi particolarmente infausta,
con evoluzione precoce verso la dilatazione biventricolare e
lo scompenso cardiaco. Questa marcata tendenza alla progressione verso lo scompenso è comune anche a cardiomiopatie secondarie ad alterazioni funzionali della catena respiratoria, in particolare quelle causate da mutazioni del DNA
mitocondriale. D’altro canto sono state frequentemente riportate alterazioni mitocondriali sia nell’ipertrofia miocardica umana che in modelli sperimentali. Queste consistono in
proliferazione ed alterazioni morfologiche dei mitocondri associate ad alterazioni funzionali come la riduzione dell’attività degli enzimi della catena respiratoria e del ciclo degli
acidi tricarbossilici.
In aggiunta alla ridotta produzione energetica, il cuore ipertrofico risulta caratterizzato anche da un deficit nei sistemi di
trasporto e di utilizzo dell’energia. Ad esempio, numerosi
studi hanno evidenziato una riduzione del contenuto di crea-
RIUNIONE SATELLITE
408
tina (Cr), fosfocreatina (PCr) e del rapporto PCr/ATP sia in
modelli sperimentali che in cuori umani ipertrofici. Il rapporto PCr/ATP, in particolare, anche in presenza di normali
concentrazioni di ATP, è indice di una ridotta riserva energetica del miocardio e risulta essere direttamente correlato sia
con l’incremento della massa ventricolare che con il rischio
di progressione verso lo scompenso congestizio. La riduzione del pool delle creatine si associa, inoltre, alla riduzione
dell’attività enzimatica della creatina chinasi (CK) e/o ad alterazione della distribuzione delle sue isoforme.
In particolare, l’isoforma mitocondriale mi-CK si localizza
specificamente sulla superficie della membrana mitocondriale esterna, in prossimità del traslocatore di ATP/ADP adenine nucleotide translocator (ANT). La mi-CK è responsabile
del trasferimento di un gruppo fosforico dall’ATP, generato a
livello della catena respiratoria, alla creatina. Questa reazione permette l’immediato rilascio di una molecola di ADP che
può essere trasportata dall’ANT di nuovo nella matrice mitocondriale, dove rappresenta un potente stimolo per la fosforilazione ossidativa. La riduzione della mi-CK è stata osservata in diversi modelli animali di ipertrofia miocardica e sembra essere un marker di transizione dalla ipertrofia patologica allo scompenso congestizio.
Genetica molecolare e correlazioni
genotipo-fenotipo nella cardiomiopatia
ipertrofica
F. Cecchi, I. Olivotto, S. Nistri, P. Petrone, F. Girolami*, I.
Passerini*, F. Torricelli*
Centro di riferimento per le Cardiomiopatie, U.O. Cardiologia, Dipartimento Cardiologia; * U.O. Citogenetica e Genetica, Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi
La Cardiomiopatia ipertrofica familiare è una malattia del
muscolo cardiaco, caratterizzata da una ipertrofia ventricolare sinistra in assenza di altra causa di ipertrofia. La sua prevalenza è di circa 1:500 nella popolazione generale; rappresenta la più frequente cardiopatia geneticamente determinata
con trasmissione autosomica dominante e penetranza variabile. Ad oggi sono state identificate oltre 200 mutazioni in 10
geni che codificano proteine sarcomeriche. Una sua particolare caratteristica è rappresentata dalla eterogeneità genetica
e clinica, con espressioni fenotipiche diverse e decorso variabile da forme benigne a forme altamente maligne con elevata mortalità prematura per morte improvvisa o scompenso
cardiaco.
Recentemente sono state identificate anche mutazioni in geni che non codificano proteine sarcomeriche in soggetti che
presentano un fenotipo non distinguibile sul piano ecocardiografico ed anatomopatologico macroscopico dalla Cardiomiopatia ipertrofica. Queste includono malattie da accumulo
come le glicogenosi (PRKAG2, Lamp2), la malattia di Anderson-Fabry, l’amiloidosi familiare e ipertrofie su base genetica come la atassia di Freidreich. Di conseguenza appare
oggi necessaria una distinzione ed una precisa diagnosi differenziale di queste forme, riconoscibili attraverso l’analisi
genetica, ma soprattutto per il rilievo di alterazioni anatomopatologiche ed istopatologiche tipiche ben evidenziabili nei
campioni bioptici. In una particolare forma derivante da mutazioni della γ-subunità della protein chinasi A (PRKAG2), il
fenotipo è tipicamente rappresentato da una preeccitazione
ventricolare tipica all’ECG di superficie, che deriva dalla rot-
tura dell’anello fibroso da parte del tessuto miocardico infiltrato.
La scarsità delle correlazioni genotipo-fenotipo, nei soggetti
e nelle famiglie studiate, fa ipotizzare la presenza di geni modificatori, che possono influenzare direttamente l’espressione
fenotipica dell’ipertrofia, la sua espressione clinica ed il suo
andamento nel tempo.
In un lavoro recente di analisi genetica in un ampio gruppo di
pazienti francesi (n 197) non correlati fra sé, affetti da Cardiomiopatia Ipertrofica, in circa il 63% dei probandi sono
stae identificate mutazioni in geni che codificano proteine
sarcomeriche. Le mutazioni più frequenti erano comprese nei
geni che codificano la Proteina C legante la miosina
(MYBPC3 42%) e le catene pesanti della beta miosina
(MYH7 40%), mentre le restanti mutazioni erano presenti nei
geni che codificano la Troponina T (TTNT2 6,5%), Troponina I (TNNI3 6,5%), catene essenziali leggere 2 della beta
miosina (MYL2 4%) ed infine catene essenziali leggere 1
della beta miosina (MYL2 < 1%) 1. Da questi dati deriva che
uno screening basato sull’analisi delle mutazioni nei 5 principali geni che codificano proteine sarcomeriche può consentire l’identificazione della mutazione o delle mutazioni genetiche in oltre la metà dei soggetti diagnosticati clinicamente.
Le correlazioni fra genotipo e decorso clinico sfavorevole in
alcune famiglie selezionate, riportate nei primi lavori scientifici, devono ancora essere confermate su casistiche molto
ampie prima che la mutazione genetica possa assumere un
ruolo prognostico certo.
Con questo principale scopo l’analisi genetica effettuata sulla casistica afferente al Centro di riferimento, iniziata nel
2001 ed ancora in corso, ha consentito ad oggi la identificazione della mutazione genetica in oltre 70 pazienti affetti. Ha
permesso di valutare la prevalenza dei geni soggetti a mutazione nell’ambito di una casistica italiana, in gran parte residente nel centro Italia, e la sua correlazione con l’espressione fenotipica e l’andamento della storia familiare e decorso
clinico del singolo paziente. Nella nostra esperienza le mutazioni del gene della Troponina T (TNNT2) sono risultate
molto rare e non associate né ad ipertrofia ventricolare sinistra di grado lieve né ad andamento clinico sfavorevole 2. Negli stessi pazienti sono in corso anche studi di espressione genica e di analisi funzionale delle proteine espresse.
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Stem cells and cardiac hypertrophy
A. Angelini, C. Castellani, G. Thiene
Institute of Pathological Anatomy, University of Padua
The concept that the adult heart is a terminally differentiated organ has been a generally accepted paradigm for many
years. As a post-mitotic organ the heart has been considered
to be characterized by a predetermined number of
parenchymal cells that is defined at birth and is preserved
L’IPERTROFIA MIOCARDICA
throughout life until death of organ and organism. According to this concept the increase of myocardial mass or in
other words, myocardial hypertrophy, has been referred as a
growth of single terminally differentiated myocytes, able to
produce contractile elements and organells, but not capable
to divide. Ventricular remodelling has been envisaged as a
balance between the phenomena leading to either increase
in cardiac mass (hypertrophy) or loss of myocytes ( apoptosis or necrosis). The recognition that the heart may belong
to organs with self-renewing property suggests that the controversy on myocyte regeneration must be reconsidered. At
the beginning of the sixthies, Linzbach was the first to report an increase in myocyte number in severely hypertrophic human left ventricles. Later, Rumyantsev showed
that a limited percentage of adult ventricular myocytes can
overcome the block in DNA synthesis and reentry the cell
cycle. More recently the data from the Anversa group confirmed the existence of an high regenerative capacity in the
adult myocardium through quantitative measurements of
the mitotic index both in normal and pathologic conditions.
The high frequency of cardiac myocytes replication pointed
to myocyte regeneration as an important contributor to the
maintenance of cardiac mass. Moreover the measured rates
of cell death by apoptosis and necrosis in the heart of man
with chronic ischemic cardiomyopathy is very high. These
seems to confirm that, in keeping with the high death rate,
there must be an intense regenerative activity that counterbalance an unbearable cell loss.
Cardiac chimerism after transplantation of female hearts into male recipients offered a unique opportunity to recognize
the formation of myocytes and vascular structures from
primitive cells resident in the heart or homed to the heart
from the extracardiac progenitors cells originating from
bone morrow stem cells or from circulating stem cells. The
detection of the Y chromosome, though reported by different groups to be present in a highly different percentage
magnitude, confirmed myocyte replication in adult hearts.
Moreover, the recognition that a subset of myocytes retains
the ability to proliferate has led to the identification of their
founders, the cardiac stem cells. Until there, it was difficult
to accept that a fully mature myocyte has the ability to dedifferentiate, re-enter the cell cycle and divide or that a subpopulation of partially differentiated myocytes would maintain its capacity to proliferate from prenatal life. The presence of cardiac stem cells support the concept that the heart
belongs to the group of constantly renewing tissues, in
which the capacity to replace cells lays on the persistence of
a stem cell compartment. Stem cells have a high capacity of
cell division, and this properties is retained throughout the
lifetime of an organism. The less primitive cells, namely the
transient amplifying cells, have a limited proliferative capacity but represent the largest group of dividing cells. Regeneration depends on resident stem cell small pool, which
gives rise to a proliferating lineage-restricted progenitor
cells that becomes committed precursor and then reaches
growth arrest and terminal differentiation. However little is
known about their origin, biological properties and homeostasis, and particularly how aging can affect cardiac stem
cell reservoir.
In a recent paper the Anversa group presented the results of
a study on myocardial regenerative capacity in human aortic
stenosis, where the increased cardiac mass results from a
combination of myocyte hypertrophy and hyperplasia. Intense new myocyte formation was produced by the differentiation of stem-like cells committed to the myocyte lineage.
409
These cells express stem cell markers and telomerase. Stem
cell markers included mAb against c-kit, the receptor of
stem cell factor, MDR1, a protein extruding toxic substances
and Hoechst dye, and Sca-1 reactive protein which is involved in self-renewal of hematopoietic stem cells. Telomerase is expressed in stem cells of self-renewing organs,
such as bone marrow, skin, brain, and intestine. Telomerase
is a reverse transcriptase that during the cell cycle synthesizes telomeric repeats at the end of chromosomes, preventing loss of DNA. Telomerase is present in dividing cells and
is absent from resting and terminally differentiated cells.
Their number increased more than 13-fold in aortic stenosis.
The finding of cell clusters with stem cells making the transition to cardiogenic and myocyte precursors, as well as very
primitive myocytes that turn into terminally differentiated
myocytes, provides a link between cardiac stem cells and
myocyte differentiation. Growth and differentiation of these
primitive cells was markedly enhanced in hypertrophy, consistent with activation of a restricted number of stem cells
that, through symmetrical cell division, generate asynchronously differentiating progeny. These clusters strongly support the existence of cardiac stem cells that amplify and
commit to the myocyte lineage in response to increased
workload. Their presence is consistent with the notion that
myocyte hyperplasia significantly contributes to cardiac hypertrophy and accounts for the subpopulation of cycling myocytes. Cycling cardiomyocytes throughout life continuously changes the proportion of young and old cells in the heart.
Small myocytes are young and retain the ability to divide
and enlarge. Large myocytes lose the potential for cellular
hypertrophy and proliferation and these defects increase
with age. Large cells express more inhibitors of cell cycle,
and in response to work overload, are unable to activate the
program responsible for the quantitative and qualitative
changes in gene expression characteristic of myocyte hypertrophy. Relative cell size may be viewed as an indicator of
myocyte age, whereas the accumulation of large myocytes
characterizes organ aging.
We have recently undertaken a study to evaluate the presence of putative cardiac stem cells in the setting of right
ventricular hypertrophy. The model is represented by the
human right ventricle which has to adapt to pressure and
pressure-volume overload in cases of congenitally malformed hearts with hypoplasia of the left ventricle. The
right ventricle is used as systemic ventricle to support the
systemic circulation. Our preliminary results point to the
presence of cardiac stem cells in the interstitial and perivascular myocardium as reported by the Anversa group for left
ventricular hypertrophy in the setting of human aortic
stenosis. These cardiac stem cells were located in small
clusters of two-five cells and were positive for stem cell
antigen c-kit. This cell population in the right ventricle
could represent the reservoir of pluripotent cells able to differentiate into new cardiomyocytes or into vascular structures eventually producing hyperplasia with consequent increase in ventricular mass.
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Comunicazioni
Caratterizzazione immunoistochimica in un
caso di Malattia di Kawasaki
A. Celeste, A. Linari, M. Tibaldi*, F. Martino**, F. Mignone**, C. Riva**, A. Pucci
Incidenza, eziologia, quadri istologici,
evoluzione e prognosi delle aortiti, in una
casistica di 629 pazienti affetti da patologia
dell’aorta toracica
Anatomia Patologica; * Cardiologia; ** Clinica Pediatrica,
Malattie Infettive, Az. Osp. OIRM S. Anna, Torino
O. Leone*, A. Lo Forte**, D. Pacini**, G.N. Martinelli*, R.
Di Bartolomeo**
Introduzione
La Malattia di Kawasaki, tipica dell’infanzia ed alquanto
rara, è generalmente caratterizzata da febbre con rash cutaneo. Può causare nel 25% circa dei pazienti aneurismi coronarici ed avere esito infausto. La sua eziopatogenesi rimane
incerta: il TNF-α ha un ruolo centrale nella patogenesi della vasculite, e l’aplotipo 308A del gene TNF-α determinerebbe una scarsa efficacia terapeutica delle immunoglobuline. Il decorso clinico può essere atipico; la tempestività di
diagnosi e terapia (con immunoglobuline) è prognosticamente importante.
Materiali e metodi
Una bambina di 3 mesi, con madre HIV+ di razza nera, veniva ricoverata per iperpiressia di n.d.d. persistente da 15
giorni. La paziente presentava al ricovero dilatazioni aneurismatiche multiple dei 3 principali rami coronarici e sviluppava dopo pochi giorni rash cutaneo. La PCR per la ricerca di sequenze virali HIV-specifiche risultava negativa.
Non risultavano presenti anticorpi specifici. La terapia di
supporto e con immunoglobuline veniva intrapresa subito
dopo il ricovero, ma la paziente decedeva 10 giorni dopo e
veniva eseguita l’autopsia. Sui segmenti coronarici aneurismatici e sul miocardio venivano eseguite colorazioni immunoistochimiche per popolazioni linfocitarie e monocitomacrofagiche, per citochine e fattori di crescita (TNF-α,
Tissue Factor, VEGF), per l’antigene endoteliale CD31 e
l’antigene di istocompatibilità di Classe II HLA-DR, mediante tecnica ABC.
Risultati
Tutti i 3 principali rami epicardici coronarici presentavano
plurime dilatazioni aneurismatiche per tutto il decorso ed il
miocardio mostrava estese aree di necrosi coagulativa, oltre
a significativo versamento pericardico. L’infiltrato infiammatorio nei segmenti aneurismatici era composto da Tlinfociti e da una quota rilevante di monociti; vi era intensa
immunoreattività per TNF-α, minore positività per VEGF e
Tissue Factor, con numerosi vasi neoformati e discreta
espressione di HLA-DR sia su cellule dell’infiltrato infiammatorio sia su endoteli.
Conclusioni
In questo caso insolito di Malattia di Kawasaki il quadro
clinico rapidamente infausto correlava con la severità del
quadro anatomopatologico, così come la diagnosi e quindi
la terapia tardive (a poco più di 15 giorni dall’esordio della
sintomatologia febbrile) apparivano influenzare l’ esito prognostico sfavorevole; l’immunoreattività per TNF-α era
molto intensa nei segmenti coronarici aneurismatici, tale reperto suggerendo l’ipotesi che un’aumentata espressione di
TNF-α (verosimilmente determinata su basi genetiche) possa avere un ruolo prognostico sfavorevole nella Malattia di
Kawasaki.
* Istituto di Anatomia Patologica; ** Cardiochirurgia, Università di Bologna
Al fine di rilevare l’incidenza e l’eziologia della patologia infiammatoria dell’aorta toracica e di descriverne i quadri istologici, abbiamo riconsiderato le diagnosi istopatologiche di
aortite, effettuate in 629 campioni di aorta toracica di pazienti operati per aneurisma e dissezione fra l’aprile del 1997
e il giugno del 2004.
Abbiamo, inoltre, valutato il profilo evolutivo della malattia,
correlando i quadri istolopatologici con quelli pre-operatori e
chirurgici, e le complicanze peri-postoperatorie e a distanza.
Metodi
Trenta pazienti (4,7%), con età media di 65,7 ± 11,4, erano
affetti da aortite, di cui 17 femmine (età media di 67,7 ± 7,9)
e 13 maschi (età media di 63 ± 14,8). La maggior parte (29
casi) erano stati operati per patologia aneurismatica ed, in 1
solo caso, per dissezione cronica.
Risultati
Le eziologie erano così distribuite: 21 (70%) aortiti a cellule
giganti (66,5% femmine, età media 69,3 ± 5,3); 1 aortite di
Takayasu (3,3%); 1 aortite associata a lupus eritematoso sistemico (3,3%) ed 1 aortite associata a malattia di Behcet
(3,3%) (nei 2 casi, età media di 39 ± 22,6); 1 aortite sifilitica
(3,3%); 2 aortiti linfo-plasmacellulari (6,8%) e 3 aneurismi
infiammatori (10%, età media di 69,6 ± 5).
Nel 90% dei pazienti, le lesioni istologiche erano diffuse e
severe (marcato infiltrato infiammatorio, estesa fibrosi parietale e distruzione delle fibre elastiche), in fase evolutiva subacuta-cronica. Al momento dell’intervento chirurgico, l’estensione della patologia è stata valutata come limitata all’aorta ascendente nel 40% dei casi e più estesa nel 60%.
Complicanze precoci sono intervenute in 11 pazienti (36,6%)
e, in 3 casi (27,2%), erano da riferire alla patologia infiammatoria; nel 10% dei casi, si sono resi necessari reinterventi.
La mortalità complessiva è stata del 16,6% (5/30) (precoce
nell’80% dei casi); nel 40%, il decesso era correlabile alla
patologia infiammatoria (1 caso di emorragia dopo 24 ore
dall’intervento ed 1 caso di distacco di protesi intervenuto
dopo 6 anni).
Conclusioni
Le aortiti sono più frequenti nei soggetti anziani, soprattutto
l’aortite a cellule giganti e l’aneurisma infiammatorio; l’età
media è più bassa nelle forme associate a malattie del connettivo. Nella nostra casistica, l’incidenza complessiva delle
aortiti è inferiore a quella riportata in letteratura e la prevalenza nel sesso femminile più contenuta.
I risultati preliminari mostrano come, nella grande maggioranza dei casi, i pazienti giungano all’intervento chirurgico in
una fase evolutiva cronica della malattia, con una severa
compromissione morfologica dell’aorta ed una estensione significativa della patologia nel 60% dei casi. Questo dato, unitamente a quelli relativi alle complicanze peri-postoperatorie,
sottolinea l’importanza della diagnosi precoce, al fine di ge-
COMUNICAZIONI
stire in modo mirato i pazienti e cercare di intervenire sul decorso della malattia.
L’infarto miocardico “emorragico” da
riperfusione spontanea nella miocardiopatia
ipertrofica
L. Novelli, C. Anichini, E. Pedemonte, S. Tozzini, F. Gori
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze
L’ischemia miocardia acuta e/o cronica, asintomatica o sintomatica nella miocardiopatia ipertrofica (MI) chiama in causa
meccanismi patogenetici atipici la cui natura, non del tutto
chiarita, può essere meglio indagata nei soggetti giovani, indenni da lesioni aterosclerotiche coronariche. Il problema è
stato ancora una volta affrontato in una donna di 26 anni affetta da MI asimmetrica del setto interventricolare, venuta a
morte improvvisamente per un infarto acuto “emorragico” in
assenza di sintomatologia specifica. Il carattere “emorragico”
dell’infarto indica un meccanismo dinamico di ostruzione/riperfusione a livello dell’albero coronarico. In una precedente osservazione di infarto miocardico acuto emorragico in un
bambino di 8 anni, la presenza di ponti muscolari (tunneling)
sovrastanti la coronaria discendente anteriore ha consentito
di spiegare la perfusione miocardica intermittente e quindi
l’infarcimento ematico dell’area di necrosi coagulativa settale. I ponti muscolari sopra le coronarie, in particolare il ramo
discendente anteriore, si riscontrano nel 30-50% dei casi di
MI: non sono un reperto specifico della malattia e assumono
significato patologico solo se sufficientemente lunghi e di altezza superiore ai 5 mm 1. Nella giovane donna le coronarie
decorrono regolarmente nel grasso subepicardico ed il problema della riperfusione spontanea si ripropone. Il reperto
patologico che in questo caso potrebbe fornire la chiave di
lettura per l’insulto ischemico acuto è rappresentato dalla
grave “displasia fibromuscolare” che interessa le arterie
perforanti e le loro diramazioni intramiocardiche. Queste arterie mostrano parete spessa, lume ristretto, talora a stella, a
fessura, ad Y e sono reperibili soprattutto nelle aree di disarray. È noto che le arterie intramurali modulano il flusso coronarico variando il loro diametro in rapporto a stimoli umorali e/o nervosi. Il restringimento progressivo del loro lume,
eventualmente associato a spasmo parietale o a compressione ab estrinseco da parte del miocardio in disarray può aver
causato nella giovane donna l’infarto ad impronta emorragica per l’intermittenza del flusso coronarico. È ancora possibile che una caduta brusca della pressione arteriosa (aritmie
sopraventricolari, disfunzione diastolica, ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro) agendo su un substrato miocardico patologico (esteso disarray, fibrosi, displasia grave delle
diramazioni coronariche) abbia provocato l’infarto e, il ritorno in tempi brevi ad una situazione pressoria normale, abbia
condizionato la riperfusione dell’area necrotica. Anche la displasia delle piccole arterie coronariche non è un reperto specifico della MI ma accompagna questa malattia nell’83% circa dei casi 2 coinvolgendo prevalentemente l’intima o la media. Nella presente osservazione all’esame istologico del
miocardio infartuato colpisce la singolare alternanza di zone
di necrosi coagulativa, focolai di necrosi a bande, zone di tessuto sano, aree di fibrosi. La saltuarietà di tali reperti lascia
intravedere un danneggiamento miocardico ripetuto e progressivo nel tempo; la necrosi a bande dei miociti è verosimilmente espressione di danno da riperfusione.
411
Bibliografia
1
Kitazume H et al. Myocardial bridges in obstructive hypertrophic
cardiomyopathy. Am Heart J 1983;106:131-135.
2
Maron BJ et al. Intramural (small vessels) coronary artery disease in
hypertrophic cardiomyopathy. J Am Coll Cardiol 1986;8:545-557.
Ponte coronarico del ramo discendente
anteriore e cardiomiopatia ipertrofica:
aumenta il rischio di morte improvvisa nel
giovane?
C. Basso, Barry J. Maron, D. Corrado, J.L. Titus, G.
Thiene
Istituto di Anatomia Patologica, Università di Padova; Minneapolis Heart Institute Foundation, Minneapolis; Jesse
Edwards Cardiovascular Registry, St Paul, USA
Introduzione
Sebbene il ponte coronario (PC) del ramo discendente anteriore dell’arteria coronaria sinistra sia stato associato ad
ischemia miocardica e morte improvvisa (MI) in giovani affetti da cardiomiopatia ipertrofica (CMI), non è nota la prevalenza di tale anomalia in diversi gruppi di età nonché rimane da stabilire il suo significato patogenetico.
Metodi
Sono stati rivisti i database delle collezioni anatomiche di patologia cardiovascolare dell’Istituto di Anatomia Patologica
dell’Università di Padova e del Jesse Edwards Registry di St
Paul alla ricerca di casi con CMI. Un totale di 105 cuori sono stati così identificati, provenienti da 32 femmine e 73 maschi, di età variabile 1 giorno-90 anni, media 30 ± 21. Il peso del cuore e lo spessore del setto interventricolare erano
465 ± 208 g e 19 ± 6 mm, rispettivamente. La modalità di
morte/failure era la MI in 67 (64%), scompenso cardiaco
congestizio in 27 (27%) (14 da trapianto cardiaco), decesso
postoperatorio precoce in 2 (miectomia), endocardite infettiva in 1e causa extracardiaca in 6.
Risultati
Il PC del ramo discendente anteriore è stato riscontrato in 40
(38%) su 105 CMI, in confronto a 21 (21%) su 100 controlli
consecutivi deceduti per patologia diversa dalla CMI (p =
0,01). Il PC presentava una lunghezza media di 14,8 ± 6,6
mm e uno spessore medio di 2,0 ± 1,5 mm. Il PC era presente nel 39% dei casi di MI, 41% dei casi di scompenso cardiaco, e 33% dei casi che erano deceduti per causa extracardiaca (p = NS). La prevalenza del PC in diversi gruppi di età era
variabile dal 20% nei pazienti di età <10 anni al 57% in quelli di età 20-30 anni. Una prevalenza maggiore di PC era riscontrabile nei pazienti di età >20 anni (46%) rispetto a quelli ≤20 anni (26%, p = ,05), mentre non si riscontrava alcuna
differenza tra i casi di MI di età >20 anni (41%) rispetto a
quelli di età ≤20 (38%, p = NS). Non si riscontrava alcuna
correlazione tra presenza o spessore del PC e entità dello
spessore del setto interventricolare e del peso del cuore. Era
invece presente una correlazione lineare tra lo spessore del
PC e la sua lunghezza. All’esame istologico, il PC per lo più
risultava costituito da un manicotto di fibre miocardiche con
“disarray” che circondava completamente il ramo coronarico
discendente anteriore (71%), mentre più raramente era costituito da rare fibre superficiali orientate trasversalmente
(29%).
Conclusioni
Il PC nella CMI è risultato presente all’esame postmortem in
più di un terzo dei casi. Peraltro, la sua prevalenza era solo di
RIUNIONE SATELLITE
412
poco maggiore che in una popolazione controllo e non differiva nei vari sottogruppi di CMI deceduti per MI o altra causa, e nemmeno in rapporto al sesso o all’età. Tali reperti non
supporterebbero l’ipotesi che il PC rappresenti un fattore prognostico di MI in giovani affetti da CMI.
Terapia anti-dislipidemica ed istologia della
placca “in vivo”
L. Formato*, A. Celeste, M. Crudelini, C. Moretti*, P.G.
Greco-Lucchina*, E. Tessitore, I. Sheiban*, A. Pucci
Divisione Universitaria di Cardiologia, Università di Torino;
Servizio di Anatomia Patologica, Az. Osp. OIRM S. Anna,
Torino
Introduzione
La terapia con statine è in grado di ridurre il livello di lipoproteine aterogeniche, ma anche morbidità e mortalità cardiovascolare. Il target e le modalità ottimali della terapia sono ancora non ben definiti. Studi in vivo mediante ecografia
intracoronarica hanno recentemente mostrato l’efficacia della terapia con atorvastatina nel prevenire la progressione dell’aterosclerosi.
Materiali e metodi
Abbiamo studiato i reperti istopatologici di aterectomie coronariche direzionali eseguite in 25 pazienti affetti da Angina
Stabile (AS, n = 11 ), Instabile (AI, n = 8) o recente Infarto
Miocardio Acuto (AMI, n = 6). In particolare, abbiamo verificato la presenza e l’estensione di ateroma, trombo, calcificazioni, placca fibrosclerotica, fibrocellulare o ipercellulare
(valutati morfometricamente ed espressi in percentuale) ed
inoltre l’immunoreattività per l’antigene istiocito-macrofagico CD68 e per l’antigene endoteliale CD31, espresse con
score semiquantitativo variabile tra 0 e 4, e la positività per
la Glicoforina A, una glicoproteina della membrana eritrocitaria (valutata morfometricamente ed espressa come percentuale). I pazienti sono stati distinti in 3 gruppi: displipidemici in terapia con statine (n = 12), dislipidemici non trattati (n
= 6), e non dislipidemici (n = 7).
Risultati
Le indagini istopatologiche hanno mostrato una prevalenza
di placca fibroateromatosa nei dislipidemici non trattati
(100%) vs. quelli trattati (41%); nei non dislipidemici, ateroma era presente in 2/7 (28%). La presenza di cellule CD68+
era maggiore nei casi con dislipidemia non trattati, seguita da
valori lievemente inferiori nei dislipidemici trattati, mentre
era nettamente inferiore nei non dislipidemici (valore medio
2,3 - 2,0 e 0,7, rispettivamente) e lo stesso andamento si osservava per l’angiogenesi (valore medio 2,3 -1,4 e 0,14 rispettivamente). Infine per quanto riguarda la diagnosi clinica, le placche fibroateromatose erano maggiormente rappresentate nel gruppo di pazienti con AI/AMI (69%) rispetto a
quello con AS (45%) così come la immunoreattività per Glicoforina A, espressione della presenza di emorragia nella
placca, aveva valori maggiori nei pazienti con AI/IMA rispetto a quelli con AS.
Conclusioni
In questo studio preliminare, abbiamo confermato come anche “in vivo” la presenza di dislipidemia corrisponda ad una
determinata tipologia di placca, ed abbiamo altresì osservato
gli effetti della terapia con statine sulla morfologia della placca stessa. AI ed AMI erano infine caratterizzati dalla maggiore presenza di emorragia e di fibroateroma nei frammenti
di placca ottenuti mediante aterectomia.
Uno strano caso di embolia polmonare in un
donatore di organi
C. Giacometti, F. Calabrese, M. Valente
Istituto di Anatomia Patologica, Università di Padova
Introduzione
I nematodi Dirofilaria immitis e repens sono parassiti responsabili di zoonosi canina (filariasi). Casi di infezione da
vermi immaturi sono stati segnalati nell’essere umano, nel
quale il verme non raggiunge lo stadio adulto e la microfilaremia tipica del cane non si presenta. Le filarie, penetrando
nel sottocutaneo, raggiungono il cuore destro, muoiono ed
embolizzano piccoli vasi polmonari, dando origine a piccoli
infarti polmonari che poi appariranno come noduli solitari 1.
Un numero sempre crescente di casi è stato riportato in Italia,
che risulta essere uno dei Paesi con maggiore prevalenza di
dirofilariasi al mondo.
Metodi
Nel dicembre del 2003, nel corso della valutazione per trapianto ortotopico del fegato di un donatore maschio di 65 anni, morto per cause cerebrovascolari, è giunto alla nostra osservazione anche un nodulo della base polmonare destra che
il chirurgo aveva ritenuto sospetto e per il quale richiedeva
un esame istologico estemporaneo. Il nodulo misurava circa
cm 1 di diametro e al taglio appariva di colorito biancastro; è
stato quindi congelato e poi colorato con Ematossilina-Eosina. Successivamente alla fissazione in formalina e all’inclusione in paraffina, si sono eseguite anche la colorazione Elastic Van Gieson e il Grocott.
Risultati
Il nodulo consisteva di un’area costituita quasi esclusivamente
da una zona centrale con necrosi coagulativa circondata da flogosi linfocitaria, istiocitaria e con rare cellule giganti tipo Langhans. Centralmente all’area necrotica erano presenti sezioni
trasverse di larva di nematode, tipo dirofilaria. Con la colorazione Elastic Van-Gieson si è potuto dimostrare che la dirofilaria si trovava all’interno di una piccola arteria trombizzata.
Conclusioni
Come riportato da Pampiglione et al., anche nel nostro caso
la diagnosi clinica di partenza non era corretta 2. Le difficoltà
che possono insorgere anche nella diagnostica istologica,
quando i fenomeni regressivi rendono le caratteristiche
morfologiche del parassita quasi completamente irriconoscibili possono essere superate eseguendo sezioni seriate per
metterne in evidenza le strutture ancora conservate. La possibilità di embolizzazione da parte di larve nel distretto polmonare deve essere presa in considerazione nei soggetti adulti abitanti in zone rurali 2. Nel nostro caso la diagnosi istopatologica è risultata essenziale nel permettere di confermare
l’eligibilità del paziente alla donazione d’organo.
Bibliografia
1
Rena O, et al. Eur J Cardiothorac Surg 2002;22:157-159.
2
Pampiglione S, et al. Histopathology 2001;38:344-354.
Asimmetria e frattura dei perni quale causa
di fuoriuscita dei dischi nella protesi
valvolare meccanica TRI-Tech
G. Thiene
Istituto di Anatomia Patologica, Università di Padova
La fuoriuscita dei dischi è stata recentemente descritta come
COMUNICAZIONI
causa di morte improvvisa o reintervento d’emergenza in pazienti portatori di valvole meccaniche “bileaflet” TRI-Tech.
Su un totale di 3.841 pazienti con impianto della protesi, la
fuoriuscita dei dischi è stata segnalata in 9 casi: in Italia 3, in
Turchia 2, in Brasile 2, in Argentina 1, in Armenia 1.
La frattura del perno è stata riscontrata in un paziente deceduto per emidisco fuoriuscito 10 giorni dopo l’intervento di
sostituzione valvolare aortica, con una asimmetria nell’altezza dei perni di 0,55 mm. Al fine di accertare se questo errore
di costruzione fosse un difetto isolato, limitato ai casi nei
quali era avvenuta la frattura del perno, o se fosse intrinseco
anche alle altre valvole meccaniche “bileaflet” TRI-Tech, sono state condotte misurazioni in 150 protesi non impiantate e
ritirate dalla rete commerciale in Italia, di diametro variabile
da 19 a 31 mm (cortesia del Dr. Ivan Casagrande, TRI-Technologies). L’asimmetria nell’altezza dei perni era inferiore ai
0,08 mm nel 46% dei casi, fra 0,08 e 0,20 mm nel 44%, fra
0,20 e 0,35 nel 9,3%; un solo caso (0,7%) mostrava una
asimmetria fra 0,35 e 0,50 mm. L’asimmetria era maggiore
(>0,25 mm) nei modelli di diametro compreso fra 21 e 25
mm.
Conclusioni
1) Tutte le protesi valvolari TRI-Tech non impiantate e ritirate dal commercio mostravano un certo grado di asimmetria
nell’altezza dei perni e quindi un errore di fabbricazione.
2) Nel 90% dei casi questa asimmetria era inferiore ai 0,20
mm.
3) Non è mai stata osservata una asimmetria così spiccata come quella misurata nel caso fatale.
La tolleranza all’asimmetria nell’altezza dei perni è sconosciuta, cosicché il destino di queste protesi valvolari nei portatori è imprevedibile. Tuttavia, l’assenza negli ultimi due
anni di altri casi di cedimento strutturale e la mancata osservazione di gravi asimmetrie nelle protesi ritirate dal commercio depongono per una prognosi favorevole e un carattere isolato degli eventi occorsi.
Infarct-related artery occlusion, tissue
markers of ischemia, and increased apoptosis
in the peri-infarct viable myocardium
A. Baldi*, A. Abbate**, R. Bussani***, G.G.L. Biondi-Zoccai**, C. Morales****, R.J. Gelpi****, L.M. Biasucci**, F. Silvestri***, F. Baldi*
*
Dept. of Biochemistry , Section of Pathology, Second University of Naples; ** Dept. Of Cardiology, Catholic University, Rome; *** Dept. of Pathologic Anatomy, University of
Trieste; **** Ints. of Cardiovascular Physiopathology, University of Buenos Aires, Argentina
Background
Unfavorable cardiac remodeling may occur following acute
myocardial infarction (AMI) in part due to cardiomyocyte
loss by apoptosis associated with infarct-related artery (IRA)
occlusion. It is currently unknown whether ongoing ischemia
is an independent determinant for increased apoptosis in the
peri-infarct viable myocardium.
Methods
In order to assess the link between IRA occlusion, ischemia,
and apoptosis, 50 subjects dying 4-220 days after AMI (30
with IRA occlusion and 20 with patent IRA) and 5 control
subjects were selected at autopsy. Cardiomyocytes were defined as apoptotic if co-expressing TUNEL and activated caspase-3. Expression of both hypoxia-inducible factor-1 and
413
cyclo-oxygenase-2 was assessed in the peri-infarct myocardium in 28 cases and considered as tissue marker of ischemia.
Results
Evidence of ischemia was significantly more frequent in cases with IRA occlusion (53%) than in cases with patent IRA
(15%) or control hearts (0%, P = 0.026). The finding of IRA
occlusion and markers of ischemia identified cases with
higher apoptotic rate (AR) in the peri-infarct viable myocardium (12.2% [8.2-14.0], P<0.001 vs others), whereas
IRA occlusion without ischemia was associated with lower
AR, not significantly different from patent IRA (3.0% [1.07.9] vs 2.2% [1.0-5.8], respectively. P = ns). In an animal
model of IRA occlusion, increased AR and COX-2 expression were observed in the peri-infarct region and a gradual
decrease over time of AR in the peri-infarct region was observed.
Conclusion
Myocardial ischemia is present in over 50% of subjects dying later after AMI with IRA occlusion, and its associated
with increased apoptosis in the peri-infarct viable myocardium. Relief of ischemia after AMI may prove of benefit in
preventing apoptosis and adverse cardiac remodeling.
Network of immunoregulatory cell subsets
and mediators involved in human cardiac
allograft rejection
E. Di Carlo*, C. Sorrentino*, T. D’Antuono*, A. Scarinci**,
A. Pellicciotta*, S. Rosini*, P. Musiani*
*
Department of Oncology and Neurosciences, Surgical
Pathology Section, “G. D’Annunzio” University, Chieti,
Italy; ** Medical and Surgical Department of Cardiology,
Cardiology Section, “SS Annunziata” Hospital, Chieti, Italy
Introduction
Intragraft leukocyte recruitment and activation are essential
to the pathogenesis of heart allograft injury and acute rejection. The related mechanisms, however, are mostly unknown.
Our goal is to identify graft infiltrating cells, immunomodulatory mediators and endothelial adhesion molecules implicated in this phenomenon.
Methods
We performed immunohistochemistry and confocal laser
scanning microscopy analysis on 52 selected endomyocardial
biopsies with a rejection grade (G) from 0 to 3A.
Results
DC-SIGN+ dendritic cells (DC) were well represented and
evenly distributed within the cardiomyocytes in G 0, while
they accumulated perivascularly in G1 A/B and G 3A rejection. G1 A/B rejection was characterised by a significant
CD4+ T lymphocyte influx, while the transition to G 3A was
associated with 1) a significant increase of CD4+ and CD8+ T
lymphocytes, DC-SIGN+ and CD83+DC, and macrophages,
2) a distinct CD20+B cell influx and, 3) CD94+NK cell infiltration around highly vascular cell adhesion molecule-1
(VCAM-1) and intercellular cell adhesion molecule-1
(ICAM-1)-expressing and severely injured microvessels. G
3A rejection was characterised by increased intragraft production of both IL-12, which co-localised with DC-SIGN +
DC and CD20+B cells, and IL-10 along with the expression
of HCC-4/CC-chemokine ligand 16 (CCL16) by antigen presenting cells (APC) and cardiomyocytes. NK cell-activating
fractalkine/CX3CL1 was frequently produced by APC and
RIUNIONE SATELLITE
414
vessels, while B-cell-attracting chemokine-1 (BCA-1/
CXCL13) was found only in biopsies with a greater B cell recruitment.
Conclusions
A new pattern clearly emerged, namely that DC and B cells
in addition to macrophages, and NK cells in addition to T
lymphocytes may function as promoters and effectors respectively in allograft rejection. The recently discovered
chemokines CCL16, CXCL13 and CX3CL1 appear involved
in their intragraft recruitment and activation.
Ricorrenza delle miocarditi virali dopo
trapianto cardiaco nella popolazione
pediatrica
E. Carturan*, F. Calabrese*, A. Angelini*, O. Milanesi**,
M. Valente*, G. Thiene*
*
Istituto di Anatomia Patologica;
tria, Università di Padova
**
Dipartimento di Pedia-
Introduzione
La miocardite è stata considerata una controindicazione al
trapianto cardiaco perché aumenta l’incidenza del rigetto e
quindi il rischio di mortalità 1. A tutt’oggi non è nota la frequenza di ricorrenza della miocardite virale 2. Lo scopo di
questo studio è determinare la presenza di virus nel cuore nativo e la frequenza della ricorrenza virale dopo trapianto cardiaco nella popolazione pediatrica.
Materiali e metodi
Dal marzo 1987 al novembre 2000 presso la Cardiochirurgia
dell’Università di Padova sono stati effettuati 36 trapianti di
cuore in pazienti pediatrici (da 1 mese a 18 anni) (24 M/12
F). Di questi pazienti 20 avevano una diagnosi di cardiomiopatia infiammatoria (55%); 8 di cardiomiopatia
ipertrofica/restrittiva (25%); 6 di cardiomiopatia congenita
(17%) e 1 tumore cardiaco (3%). In tutti i cuori nativi sono
stati effettuati studi istologici ed immunoistochimici. Foci di
miocardite attiva sono stati trovati anche in un caso di cardiomiopatia ipertrofica/restrittiva ed in un altro di cardiomiopatia congenita. Un’analisi molecolare retrospettiva per
la ricerca di virus cardiotropi è stata effettuata in 20 cuori nativi (55%) e in tutte le biopsie post-trapianto dei casi pre-trapianto PCR virus-positivi. L’analisi di sequenza è stata utilizzata per caratterizzare e confrontare i genotipi virali.
Risultati
In 10 cuori nativi (50%) è stato identificato un agente virale:
4 casi Enterovirus (40%), 1 Herpes Simplex virus 2 (10%); 1
Epstein barr virus (10%); 1 Adenovirus (10%); 1 Cytomega-
lovirus (10%); 2 doppie infezioni: Cytomegalovirus and Adenovirus (10%); Enterovirus and Adenovirus (10%). In 5 casi
è stato ritrovato lo stesso virus con identico genotipo nella
biopsia post trapianto: quattro hanno avuto esito fatale e solo
dopo un mese dal trapianto in due forme enterovirali.
Conclusioni
Pazienti pediatrici con miocardite virale sottoposti a trapianto d’organo hanno un alto rischio di ricorrenza con evoluzione progressiva ed esito fatale. Un’accurata analisi infettivologica molecolare del cuore nativo appare utile non soltanto
per un esatto inquadramento diagnostico ma soprattutto per
prospettare un mirato screening nel periodo post-trapianto.
Bibliografia
1
Calabrese F, Valente M, Thiene G, Angelini A, Testolin L, Biasolo
MA, Soteriou B, Livi U, Palu G. Enteroviral genome in native hearts
may influence outcome of patients who undergo cardiac transplantation. Diagn Mol Pathol 1999;8:39-46.
2
Loria K, Jessurun J, Shumway SJ, Kubo SH. Early recurrence of
chronic active myocarditis after heart transplantation. Hum Pathol
1994;25:323-326.
Patologia postoperatoria nei difetti troncoconali: correlazioni clinico-patologiche
M. Fedrigo, A. Angelini, M. Padalino, C. Frescura, G.
Russo, G. Stellin, L. Daliento, G. Thiene
Istituto di Anatomia Patologica, Servizio di Patologia Cardiovascolare; Istituto di Cardiochirurgia; Dipartimento di
Medicina Clinica e Sperimentale, Clinica Cardiologia, Università di Padova
Introduzione
La storia naturale delle Cardiopatie Congenite è stata drammaticamente modificata negli ultimi anni grazie alle opzioni
chirurgiche sia di correzione radicale che di palliazione che
sono state offerte ai bambini portatori di tali patologie sia
semplici che complesse. L’obiettivo di questo lavoro è stato
quello di verificare se nel corso degli ultimi 30 anni le cause
di morte dei pazienti operati per una cardiopatia congenita
tronco-conale siano cambiate, cercando di identificare relazioni rispetto alla diagnosi, alle tecniche chirurgiche, al decorso postoperatorio e al follow up.
Metodi
Sono stati studiati dal punto di vista clinico, chirurgico e patologico 93 casi deceduti dopo intervento di chirurgia correttiva di Tetralogia di Fallot (TOF), di Trasposizione delle
grandi arterie (TGA) e di Tronco Arterioso Comune (TA) nel
periodo che va dal 1969 al 2002 e conservati nella Collezio-
Tab. I.
Cause di insuccesso
postoperatorio
Diagnosi incompleta
e/o errato timing chirurgico
Deficit chirurgico
Complicanze postoperatorie
Morte inspiegata
Totale
<’91
N° %
TOF
>’92
N° %
<’91
N° %
TGA
>’92
N° %
<’91
N° %
TA
>’92
N° %
Totale
1969-2002
N° %
1 (4)
2 (14)
6 (20)
2 (10)
1 (17)
2 (33)
14 (15)
12 (44)
11 (41)
3 (11)
27 (100)
12 (86)
–
–
14 (100)
15 (52)
9 (30)
–
30 (100)
5 (50)
3 (40)
–
10 (100)
2 (33)
3 (50)
–
6 (100)
3(50)
1 (17)
–
6 (100)
49 (53)
27 (29)
3 (3)
93 (100)
COMUNICAZIONI
ne Anatomica di Cardiopatie Congenite dell’Università di
Padova. Le cause di morte sono state classificate in base ad
un criterio temporale; in base ad una suddivisone di ordine
cronologico e infine classificando le cause di morte in quattro gruppi che rappresentano le cause di insuccesso postoperatorio: diagnosi incompleta e/o errato “timing” chirurgico,
deficit chirurgico, complicanze postoperatorie e morti inspiegate.
Risultati
Vedi Tabella I.
Conclusioni
L’analisi dettagliata dei risultati ha evidenziato una netta riduzione delle complicanze postoperatorie, verosimilmente da
attribuire ad una maggior attenzione all’assistenza in terapia
intensiva a cui non è corrisposta una riduzione dei casi di decesso attribuibili a diagnosi incompleta, nonostante la maggior capacità di diagnosi strumentale. Questo paradosso può
essere spiegato con il fatto che l’ecocardiografia non presenta la stessa sensibilità riguardo la definizione morfologica
delle origini e del percorso delle coronarie al cui stato anomalo è da riferire la maggior parte dei decessi. Per quanto riguarda gli insuccessi da deficit chirurgico, l’aumento relativo nel secondo intervallo di tempo considerato è, a nostro avviso, da attribuirsi all’introduzione di nuove tecniche chirurgiche e all’allargamento di indicazione dei casi particolarmente complessi.
Applicazione del laser capture
microdissection allo studio del tessuto di
conduzione cardiaco
C. Travaglini, D. Pistilli, P. Sale, C.R.T. di Gioia, C. Giordano, M. Sebastiani, P. Gallo, G. d’Amati
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Il sistema di conduzione cardiaco è un tessuto specializzato
ad innescare l’impulso ritmico per la contrazione cardiaca.
L’approccio anatomopatologico allo studio delle patologie di
questo tessuto è attualmente limitato all’analisi istologica,
che risulta peraltro particolarmente indaginosa sia a causa
delle difficoltà nella localizzazione che dell’esiguità delle
strutture che lo compongono. Questi stessi motivi, oltre alla
relativa scarsità di cuori umani di provenienza chirurgica,
hanno inficiato l’effettuazione di studi di espressione genica
sul tessuto di conduzione normale e patologico. Abbiamo
pensato pertanto di applicare la tecnica della microdissezione laser (LCM) allo studio dell’espressione genica del tessuto di conduzione cardiaco umano. Abbiamo inoltre utilizzato
questa metodica per ottimizzare il prelievo del tessuto di conduzione (TC) da cuore fissato per l’analisi del DNA in patologie mitocondriali.
Metodi
Analisi dell’espressione genica. Campioni di TC (nodo atrioventricolare, fascio di His) sono stati prelevati a fresco da
dieci cuori espiantati in corso di trapianto cardiaco ortotopico ed immediatamente congelati in isopentano raffreddato in
azoto liquido. Da ciascun campione sono state quindi allestite multiple sezioni criostatiche dalle quali è stato selettivamente prelevato il TC tramite LCM. Dopo l’estrazione con
apposito kit, la presenza e la qualità dell’RNA sono state ve-
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rificate tramite RT-PCR per il gene della beta-actina con successiva elettroforesi su gel d’agarosio. Analisi del DNA. Per
l’estrazione del DNA è stato utilizzato un cuore autoptico fissato in formalina proveniente da una donna affetta dalla sindrome di Kearns-Sayre. Dopo il prelievo selettivo del nodo
seno-atriale, del nodo atrio-ventricolare e del fascio di His
tramite LCM, il DNA è stato estratto, precipitato e purificato. La percentuale di delezione del DNA mitocondriale
(mtDNA) nelle diverse sedi prelevate è stata valutata con
PCR quantitativa radioattiva.
Conclusioni
L’utilizzo dell’LCM ci ha permesso, per la prima volta in assoluto, di isolare e di amplificare l’RNA ottenuto dal tessuto
di conduzione cardiaco umano. Abbiamo inoltre potuto verificare come l’LCM sia una metodica affidabile per lo studio
selettivo delle alterazioni del mtDNA nel TC in patologie mitocondriali associate a disturbi della conduzione.
Tronco arterioso comune nel feto: resoconto
di uno studio multicentrico di 23 casi
A. Marzullo, P. Volpe*, D. Paladini**, M. Marasini***, A.L.
Buonadonna****, M.G. Russo, G. Caruso, M. Vassallo**, P.
Martinelli**, M. Gentile****
Patologia Cardiovascolare, Università di Medicina, Bari
*
Dipartimento Ostetrico-Ginecologico. Ospedale “Di Venere-Giovanni XXIII, Bari **Unità di cardiologia fetale. Dipartimento Ostetrico-Ginecologico. Università Federico II, Napoli ***Dipartimento di Cardiologia Pediatrica, Istituto Gaslini. Genova ****Dipartimento di Genetica. Ospedale “Di
Venere-Giovanni XXIII, Bari
L’obiettivo della ricerca era valutare l’accuratezza della diagnosi prenatale, l’incidenza di anomalie extracardiache e cromosomiche in una popolazione di feti con diagnosi confermata di tronco arterioso comune (CAT), proveniente da tre centri
di riferimento. Tutti i feti sono stati sottoposti ad ecocardiografia, dettagliata valutazione anatomica e cariotipizzazione.
In 19 casi è stata effettuata la FISH per individuare la microdelezione del cromosoma 22q11. Sono state considerate le seguenti variabili: età gestazionale alla diagnosi, le varianti anatomiche del CAT, presenza di anomalie extracardiache e cromosomiche, outcome neonatale. In tutti i casi era disponibile il
risultato dell’autopsia o del quadro clinico postnatale. La diagnosi prenatale è risultata confermata in 23 su 24 casi, ad eccezione di una atresia polmonare con difetto settale ventricolare. Una seconda anomalia cardiovascolare era presente in 8 casi (34.8%) e anomalie extracardiache in 10 (43.4%). La FISH
ha dimostrato microdelezione 22q11 in 6 casi (31.6%). In 8 casi la gravidanza è stata interrotta (34.8%), in 2 si è avuta la
morte endouterina del feto (8,7%) e 5 neonati sono morti prima o successivamente all’intervento chirurgico (21.7%). I rimanenti 8 neonati (34.8%) sono attualmente vivi dopo l’intervento chirurgico (6) o in sua attesa (2). Il CAT può essere pertanto ben diagnosticato e caratterizzato nella vita prenatale,
sebbene la differenziazione ecografica dall’atresia polmonare
con difetto del setto interventricolare può risultare difficoltosa.
L’associazione con altre anomalie cromosomiche è risultata significativa (8.7%), ma maggiore è il rischio di associazione
con la microdelezione 22q11. La scarsa sopravvivenza
(34.8%) riflette l’alta incidenza di interruzioni e la situazione
anatomica sfavorevole in alcuni casi.