Sovranità sfidata e ambiente internazionale: Le transizioni non

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Sovranità sfidata e ambiente internazionale: Le transizioni non
Transizioni non democratiche nel Caucaso meridionale:
Eredità sovietica, crisi della sovranità e ambiente internazionale
Gabriele Natalizia - Link Campus University
Introduzione
L’ipotesi di “Nuova guerra fredda” tra gli Stati Uniti e la Russia ribadisce la necessità di proseguire
gli studi su una delle dimensioni intorno alla quale si è dapprima sviluppato il confronto bipolare e
poi è stato misurato il grado di ordine del sistema unipolare: la diffusione internazionale della
democrazia e il livello di consolidamento delle istituzioni democratiche nei singoli Stati. Uno dei
pilastri della politica estera americana del XX e del XXI secolo, d’altronde, è rappresentato
dall’assunto per cui se un Paese al suo interno adotta un regime politico democratico sarà
inevitabilmente indotto a stringere rapporti di alleanza con il mondo occidentale.
Gli Stati Uniti, di conseguenza, hanno storicamente considerato la moltiplicazione dei regimi
democratici nel mondo come un loro obiettivo primario, da perseguire, dopo la fine della Guerra
fredda, soprattutto negli Stati post-comunisti. La traiettoria delle transizioni nello Spazio postsovietico, formato dai territori divenuti indipendenti da Mosca nel 1991, non è stata lineare come
quella degli altri Stati della “terza ondata”, né è risultata sensibile al trend globale favorevole alla
democrazia che ha preso forma a partire dal 19891. Se all’indomani dell’implosione dell’URSS il
processo di democratizzazione appariva avviato in gran parte dei suoi ex territori divenuti
indipendenti2, dopo un quarto di secolo il suo esito risulta decisamente eterogeneo. Secondo Freedom
House il 47% delle transizioni post-sovietiche si è concluso con un ritorno all’autoritarismo, a fronte
di un 33% da cui sono scaturiti regimi parzialmente liberi e un 20% che ha prodotto regimi
pienamente liberi3 (tab. 1). Tale risultato appare ancor più significativo se messo in relazione con
quello dell’altra metà del mondo ex comunista, l’Europa orientale, con cui per mezzo secolo le 15 ex
Repubbliche sovietiche (RSS) hanno condiviso modelli politici ed economici equivalenti e
l’appartenenza allo stesso blocco internazionale. Nonostante la similitudine delle condizioni di
Nel 1988 gli Stati “liberi” costituivano il 36% del totale, i “parzialmente liberi” il 23% e i “non liberi” il 41%, mentre
nel 2015 rappresentano rispettivamente il 45%, il 30% e il 25% del totale. Gli indicatori utilizzati per formulare il
democracy score di Freedom in the World sono: diritti politici e libertà civili. Freedom in the World 2015: Discarding
Democracy. Return to the Iron Fist, 2015, www.freedomhouse.org.
2
Secondo l’immagine di Samuel Huntington, il concetto di “processo di democratizzazione” non definisce solo il
passaggio da un regime autoritario a uno democratico, ma anche i processi di liberalizzazione o di democratizzazione
parziale che non sfociano necessariamente in contesti compiutamente democratici. S.P. HUNTINGTON, The Third Wave:
Democratization in the Late Twentieth Century, Norman-London, University of Oklahoma Press, 1991, p. 15.
3
Estonia, Lettonia e Lituania nel report di Freedom House sono conteggiate nella regione “Europa”, mentre in questa
sede sono state inserite nella categoria “Stati post-sovietici”, che nella versione originale è definita “Eurasia”.
1
1
partenza e il quasi contemporaneo esaurimento dell’esperienza del comunismo, negli ex Paesi satelliti
dell’URSS la democrazia non ha incontrato ostacoli ineludibili al suo consolidamento, mentre in quasi
tutte le ex RSS il suo sviluppo si è arrestato o si è verificato un riflusso autoritario.
Tab. 1. – I regimi politici nel mondo: trend su base regionale (2015)
Regione
Stati liberi
Stati parzialmente
Stati non liberi
Totale
liberi
Africa sub-sahariana
10 (20%)
18 (37%)
21 (43%)
49
Americhe
24 (68%)
10 (29%)
1 (3%)
35
Asia-Pacifico
16 (41%)
14 (36%)
9 (23%)
39
Europa
34 (87%)
5 (13%)
/
39
Medio Oriente - Nord Africa
2 (11%)
3 (17%)
13 (72%)
18
Stati post-sovietici
3 (20%)
5 (33%)
7 (47%)
15
Totale
89 (46%)
55 (28%)
51 (26%)
195
Fonte: Tabella a cura dell’autore sulla base della riformulazione dei dati di Freedom in the World 2015 (Freedom House)
È proprio nello Spazio post-sovietico che il rinnovato confronto tra Stati Uniti e Russia si traduce
nell’esplosione di tensioni che fanno paventare la possibilità del ritorno ad una condizione pre-1991.
Se la sua manifestazione più eclatante, nonché più recente, è stata la crisi in Ucraina, questo
rappresenta una costante che grava anche sulla vita politica di altre aree, dove non manca di
acutizzarsi ciclicamente. In particolare l’evoluzione dell’assetto interno del Caucaso meridionale, a
causa della sua importanza strategica di connettore tra diversi contesti regionali (Europa occidentale
e Asia centrale, Russia e Medio Oriente), appare legata a doppio filo agli equilibri internazionali e si
presta a mettere in discussione il paradigma della separazione tra sfera politica internazionale e sfera
politica domestica che ha tradizionalmente contraddistinto gli studi di scienza politica.
1. La diffusione della democrazia nello Spazio post-sovietico
Lo Spazio post-sovietico può essere suddiviso in cinque complessi sub-regionali, che corrispondono
ad altrettante categorie di esito dei processi di transizione: 1) l’area Baltica, dove la condizionalità
democratica preclusiva all’ammissione nella NATO e nell’UE è risultata pienamente soddisfatta4 e che,
pertanto, non può essere più considerata come parte del near abroad russo5; 2) la “nuova Europa
4
T. FARRELL (a cura), Force and Legitimacy in World Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 2002; G. MOTTA
(a cura), Il Baltico: Un mare interno nella storia di lungo periodo, Roma, Nuova Cultura, 2013.
5
L’idea di near abroad, coniata già nei primi anni ’90 dall’allora ministro degli Esteri Andrey Kozyrev (1990-1996),
indica quei territori in passato parte integrante dell’Unione Sovietica che, con l’eccezione dei Paesi baltici, vengono
considerati dalla Federazione Russa alla stregua di una zona d’influenza.
2
orientale”, dove si è realizzata una condizione intermedia con i due regimi ibridi di Ucraina e Moldova
e quello autoritario della Bielorussia6; 3) il Caucaso meridionale, dove Armenia, Azerbaigian e
Georgia, sebbene in misura differente, si sono distinte per performance non – o non del tutto sufficienti sotto il profilo democratico; 4) la Russia, che dopo l’avvio del processo di
democratizzazione negli anni ‘90 ha assistito all’affermazione di un sistema a partito dominante,
definito “democrazia sovrana” dai suoi teorici7 e considerato una nuova forma di autoritarismo dai
critici; 5) l’Asia centrale, dove, con la parziale eccezione del Kirghizistan che nel 2005 ha assistito
alla “Rivoluzione dei tulipani”, la transizione si è tradotta nel passaggio da una condizione posttotalitaria a regimi autoritari che presentano elementi di “sultanismo” e di “presidenzialismo
patronale”8 (tab. 2).
Tab. 2. - La democrazia negli Stati post-sovietici (2015)9
Stato
Democrazia
Democrazia semi-
Regime ibrido
Regime autoritario
Regime autoritario
consolidata
consolidata
(4.00-4.99)
semi-consolidato
consolidato
(1.00-2.99)
(3.00-3.99)
(5.00-5.99)
(6.00-7.00)
Estonia
1.96
Lettonia
2.07
Lituania
2.36
Georgia
4.64
Ucraina
4.75
Moldova
4.86
Armenia
5.36
Kirghizistan
5.93
Tagikistan
6.39
Russia
6.46
Kazakistan
6.61
Bielorussia
6.71
Azerbaigian
6.75
Turkmenistan
6.93
6
M. CILENTO, Democrazia (in)evitabile: Lezioni dal mondo post-sovietico, Milano, Egea, 2013.
Nel 2006 Vladislav Surkov, al tempo vice capo segreteria del presidente della Federazione, usò questo concetto per
descrivere «la vita politica di una società dove i poteri politici, la loro autorità e le loro decisioni vengono stabiliti e
controllati dalla nazione russa con l’obiettivo di raggiungere il benessere materiale, la libertà e l’equità per tutti i cittadini,
i gruppi sociali e i popoli che la compongono». Nel corso degli anni la “democrazia sovrana” è diventata la formula
politica utilizzata da Vladimir Putin, dalla classe dirigente di Russia Unita e dal movimento giovanile Nashi.
8
B. PARAKHONSKY, Central Asia: Geostrategic Survey, in www.ca-c.org/dataeng/parakhonsk.shtml, 2000; H.E. HALE,
Regime Cycles: Democracy, Autocracy and the Revolution in Post-Soviet Eurasia, in “World Politics”, vol. 38, n. 1, 2005,
pp. 136-138.
9
Il democracy score di Nations in Transit 2015 è espresso scala da 1 (più libero) a 7 (meno libero). Gli indicatori utilizzati
sono: processo elettorale, società civile, indipendenza dei media, governance nazionale, governance locale, struttura e
indipendenza del potere giudiziario, corruzione. Per tale ragione gli Stati caucasici figurano in tre categorie distinte nella
tabella 2, mentre nella tabella 1 – formulata sulla base dei dati di Freedom in the World 2015 - la Georgia e l’Armenia
figurano entrambe tra gli Stati “parzialmente liberi” (così come il Kirghizistan). Nations in Transit 2015: Eurasia’s
Rupture with Democracy, www.freedomhouse.org.
7
3
Uzbekistan
Media
6.93
5.24
Fonte: Tabella elaborata dall’autore sulla base dei dati di Nations in Transit 2015 (Freedom House)
La rilevanza delle implicazioni sia teoriche che pratico-politiche di questo esito è stata registrata dal
dibattito scientifico, che ha evidenziato la persistenza di vecchie linee di frattura e l’emergere di nuove
tesi in merito alle transizioni post-sovietiche. Da un lato è stata riproposta la polemica tra la teoria
della modernizzazione e i suoi critici10: se alcuni hanno spiegato il mancato conseguimento della
democrazia in quest’area con l’assenza di precondizioni strutturali11, altri lo hanno attribuito alla
variabile procedurale, in particolare alle modalità di interazione tra le élites politiche e alle loro
scelte12, mentre altri ancora hanno preferito far ricorso ad una combinazione tra le due variabili13.
Dall’altro ha suscitato un dibattito serrato sia tra i comparatisti, che tra questi e gli esperti dell’area, i
cosiddetti “sovietologi”14: in risposta al “paradigma transitologico”15 – in chiave più o meno critica sono emersi l’approccio della “consolidologia”16, lo schema della “quarta ondata” e delle transizioni
10
S.M. LIPSET, Political Man: The Social Bases of Politics, Garden City, Doubleday, 1960; W.W. ROSTOW, The Stages
of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, Cambridge, Cambridge University Press, 1960; S.P. HUNTINGTON,
Political Order in Changing Societies, New Haven, Yale University Press, 1968; D.A. RUSTOW, Transitions to
Democracy:0 Toward a Dynamic Model, in “Comparative Politics”, vol. 2, n. 3, 1970, pp. 337-363; G.A. O’DONNELL,
Modernization and Bureaucratic-Authoritarianism, Berkeley, University of California Press, 1973; I WALLERSTEIN, The
Rise and Future Demise of the World Capitalist System: Concepts for Comparative Analysis, in “Comparative Studies in
Society and History”, vol. 16, n. 4, 1974, pp. 387-415; R. BENDIX, Nation-Building and Citizenship: Studies of Our
Changing Social Order, Berkeley, University of California Press, 1977.
11
A. PRZEWORSKI, M. ALVAREZ, J. CHEIBUB, F. LIMONGI, Democracy and Development: Political Institutions and WellBeing in the World, 1950-1990, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; F. FUKUYAMA, The Imperative of Statebuilding, in “Journal of Democracy”, vol. 15, n. 2, pp. 17-31; D. CHIROT, Does Democracy Work in Deeply Divided
Societies?, in Z. BARANY, R.G. MOSER (a cura), “Is Democracy Exportable?”, New York, Cambridge University Press,
2009; D. TREISMAN, Rethinking Russia: Is Russia Cursed by Oil?, in “Journal of International Affairs”, vol. 63, n. 2, pp.
85-102.
12
G. DI PALMA, To Craft Democracies. An Essay on Democratic Transitions, Baltimore, John Hopkins University Press,
1991; M.S. FISH, Postcommunist Subversion. Social Science and Democratization in East Europe and Eurasia, in “Slavic
Review”, vol. 58, n. 4, 1999, pp. 794-823; A. MELVILLE, D. STUKAL, M. MIRONYUK, Trajectories of Regime
Transformation and Types of Stateness in Post-communist Countries, in “Perspectives on European Politics and Society”,
vol. 14, n. 4, pp. 431-459.
13
S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit.; J. LINZ, A. STEPAN, Problems of Democratic Transitions and Consolidation:
Southern Europe, South America and Post-Communist Europe, Baltimore, John Hopkins University Press, 1996.
14
M. CILENTO, The “Fourth Wave of Democratization” and the Difficult Balance between “Transitology” and Area
Studies, in “Mediterranean Journal of Social Sciences”, vol. 5, n. 16, pp. 658-669.
15
G. DI PALMA, To Craft Democracy: An Essay on Democratic Transitions, Berkeley, University of California Press,
1990; G. O’DONNELL, P.C. SCHMITTER, L. WHITEHEAD (a cura), Transitions from Authoritarian Rule: Tentative
Conclusions about Uncertain Democracies, Baltimore-London, John Hopkins University Press, 1986; S.P. HUNTINGTON,
The Third Wave, cit.; F. FUKUYAMA, The End of History and the Last Man, New York, Free Press, 1992; L. DIAMOND,
Promoting Democracy, in “Foreign Policy”, n. 87, 1992, pp. 25-46; G. O’DONNELL, On the State, Democratization and
Some Conceptual Problems: A Latin American View with Some Glances at Post-Communist Countries, in “World
Development”, vol. 21, n. 8, 1993, pp. 1355-1369.
16
P.C. SCHMITTER, T.L. KARL, The Conceptual Travels of Transitologists and Consolidologists: How Far to the East
Should They Attempt to Go?, in “Slavic Review”, vol. 53, n. 1, 1994, pp. 173-185.
4
open-ended17, la denuncia della presenza di una nuova ondata di riflusso18, la questione dell’eredità19
e l’ipotesi della possibilità di esiti istituzionali permanentemente “ibridi”20.
2. La sub-regione del Caucaso meridionale
In questa sede si è scelto di concentrare l’analisi sulla direzione assunta dalle transizioni nel Caucaso
meridionale. I valori della democrazia nell’area a cui si è fatto riferimento sono quelli espressi nei
report Freedom in the World 2015 (FIW) e Nations in Transit 2015 (NIT) di Freedom House. Il primo
studio presenta il vantaggio di permettere la ricostruzione dell’intero andamento del processo di
transizione nell’area sin dal 1991 e ne enfatizza i risultati più squisitamente politici, mentre il secondo,
prendendo in considerazione un paniere più ricco di proxy, esprime un giudizio anche sulla qualità
delle istituzioni e dei rapporti tra i diversi poteri. Il quadro che emerge è quello di tre diverse
gradazioni di lontananza dal modello di “democrazia liberale” degli Stati occidentali.
L’Armenia si contraddistingue per una società civile sufficientemente sviluppata e per una
moderata libertà di associazione. Altri indicatori, tuttavia, risultano fortemente negativi. Nonostante
le elezioni siano organizzate regolarmente la scena politica è stata afflitta dall’instabilità a causa della
frequente contestazione dei risultati elettorali e delle cicliche violenze che ne sono seguite, nonché
dall’incapacità del sistema politico di creare una cornice realmente competitiva tra i partiti e di
produrre alternanza già dalla fine degli anni ‘90. La stessa proposta dell’esecutivo di riformare in
P.G. ROEDER, Varieties of Post-Soviet Authoritarian Regimes, in “Post-Soviet Affairs”, vol. 10, n. 1, 1994, pp. 61–101;
M. MCFAUL, The Fourth Wave of Democracy and Dictatorship: Non-Cooperative Transitions in the Post-Communist
World, “World Politics”, vol. 54, n. 2, 2002, pp. 212-244; V. GEL’MAN, Post-Soviet Transitions and Democratization:
Toward Theory Building, in “Democratization”, vol. 10, n. 2, 2010, pp. 87-104.
18
L. DIAMOND, Is the Third Wave of Democratization Over? An Empirical Assessment, in “Helen Kellogg Institute for
International Studies – Working Papers”, n. 236, 1997, pp. 1-54.
19
O. KIRCHHEIMER, Confining Conditions and Revolutionary Breakthroughs, in “American Political Science Review”,
vol. 59, n. 4, 1965, pp. 864-974; K. JOWITT, The Leninist Legacy, in I. BANAC, “Eastern Europe in Revolution”, Ithaca,
Cornell University Press, 1992; A.C. JANOS, Continuity and Change in Eastern Europe: Strategies of Post-communist
Politics, in “East European Politics and Societies”, vol. 8, n. 1, 1994, pp. 1–31; B. CARWFORD, A. LIJPHART, Explaining
Political and Economic Change in Post-Communist Eastern Europe: Old Legacies, New Institutions, Hegemonic Norms
and International Pressures, in “Comparative Political Studies”, vol. 28, n. 2, 1995, pp. 171-199; G.P. ROEDER, Peoples
and States after 1989: The Political Costs of Incomplete National Revolutions, in “Slavic Review”, vol. 58, n. 4, 1999,
pp. 854–882; G. PRIDHAM, Confining Conditions and Breaking with the Past: Historical Legacies and Political Learning
in Transitions to Democracy, in “Democratization”, vol. 7, n. 2, 2000, pp. 36-64; S. HOROWITZ, Sources of Postcommunist Democratization: Economic Structure, Political Culture, War and Political Institutions, in “Nationalities
Paper”, vol. 31, n. 2, pp. 119-137. G. POP-ELECHES, Historical Legacies and Post-Communist Regime Change, in “The
Journal of Politics”, vol. 69, n. 4, 2007, pp. 908–926.
20
S.M. TERRY, Thinking about Post-communist Transitions: How Different Are They?, in “Slavic Review”, vol. 52, n. 2,
1993, pp. 333-337; V. BUNCE, Should Transitologists Be Grounded?, in “Slavic Review”, vol. 54, n. 1, 1995, pp. 111127; F. ZAKARIA, The Rise of Illiberal Democracies, “Foreign Affairs”, vol. 76, n. 6, 1997, pp. 22-43; T. CAROTHERS,
The End of the Transition Paradigm, in “Journal of Democracy”, vol. 13, n. 1, 2002, pp. 5-21; S. LEVITSKY, L.A. WAY,
Elections without Democracy: The Rise of Competitive Authoritarianism, in “Journal of Democracy”, vol. 13, n. 2, 2002,
pp. 51-65. L. MORLINO, Hybrid Regimes or Regimes in Transition?, in “Fride Working Paper”, n. 70, 2008, pp. 1-18.
17
5
senso parlamentare l’attuale assetto semi-presidenziale è stata respinta dalle opposizioni. L’accusa
rivolta al presidente Serzh Sargsyan è di sostenere la modifica costituzionale per superare il vincolo
della non rieleggibilità per più di due mandati consecutivi, mentre la riforma gli permetterebbe di
mantenere il potere nel ruolo di primo ministro. Per tali ragioni sebbene l’Armenia sia ricompresa tra
i Paesi “parzialmente liberi” (FIW), il suo un regime viene anche classificato come “autoritario semiconsolidato” (NIT)21.
L’Azerbaigian, dal canto suo, per sei anni consecutivi ha registrato un declino progressivo in
tutti gli indicatori di democrazia. Le principali critiche che vengono mosse al suo regime sono
l’assenza di un effettivo bilanciamento tra gli ampi poteri affidati all’esecutivo e la modesta capacità
di controllo esercitata dall’Assemblea nazionale, enfatizzata dall’eliminazione di ogni limite alla
rielezione del presidente della Repubblica con un referendum del 2009, dall’assenza di significatività
delle elezioni e dai limiti imposti all’azione dell’opposizione e alla libertà dei media. È stato così
ricompreso nella stessa categoria degli Stancountries, presentando un grado di libertà di associazione
ed espressione minore del Tajikistan e un tasso di corruzione maggiore del Kazakistan. Pertanto
l’Azerbaigian è progressivamente scivolato nella categoria dei Paesi “non liberi” (FIW) e il suo regime
è stato inserito nella categoria degli “autoritarismi consolidati” (NIT).
La Georgia, infine, ha alternato fasi di espansione a fasi di compressione della democrazia ed
è il Paese dell’area che ha compiuto i passi più consistenti verso il modello occidentale. A fronte della
tradizionale presenza di corpi intermedi, del corretto svolgimento delle elezioni nel 2012 e nel 2013
e della lenta ma inequivocabile diminuzione della corruzione e della dipendenza tra media e potere
politico, restano negativi i valori relativi agli equilibri tra i poteri dello Stato, all’accountability delle
cariche elettive e all’indipendenza della magistratura dall’esecutivo. Un importante passo in avanti
sulla strada della democrazia è stato compiuto con la riforma che ha reso elettive le cariche
amministrative locali, anche se nel 2014 le relative consultazioni si sono svolte in un clima polarizzato
e scosso da violenze. Similmente all’Armenia, la Georgia è computata tra i Paesi “parzialmente liberi”
(FIW), ma, differentemente da questa, è classificata tra i regime “ibridi” (NIT)22.
Il presente lavoro si prefigge l’obiettivo di presentare le variabili che hanno impedito la
prosecuzione del processo di democratizzazione nei tre Paesi del Caucaso meridionale,
Nella classificazione di Leonardo Morlino l’Armenia viene considerata una “democrazia protetta”, ossia un regime
caratterizzato da vincoli, posti da forze interne o esterne, che limitano una reale libertà di voto e/o l’espressione di dissenso
e l’attività delle opposizioni e/o il corretto svolgimento delle elezioni. L. MORLINO, Hybrid Regimes or Regimes in
Transition?, cit., pp. 10-11.
22
Secondo Morlino la Georgia è una democrazia “senza legge”, ossia un regime caratterizzato da una situazione di
illegalità diffusa che impedisce allo Stato sia di realizzare un processo elettorale con gli standard delle democrazie
consolidate, che di proteggere adeguatamente i diritti dei cittadini, a causa del cattivo funzionamento o dell’inesistenza
di istituzioni volte a questi scopi. Ibidem; A. CASSANI, Hybrid What? Partial Consensus and Persistent Divergences in
the Analysis of Hybrid Regimes, “International Political Science Review”, vol. 35, n. 5, 2014, pp. 542-558.
21
6
determinandovi uno stallo democratico o un riflusso autoritario, e di evidenziare al contempo
l’interazione tra le dinamiche politiche internazionali e l’assetto politico interno di Armenia,
Azerbaigian e Georgia.
Fig. 1. – Lo score democratico degli Stati Caucasici (1991-2014)23
7,00
6,00
5,00
Georgia
4,00
Armenia
3,00
Azerbaigian
2,00
2014
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
1993
1992
1991
1,00
Fonte: Figura a cura dell’autore sulla base della riformulazione dei dati di Freedom in the World (Freedom House)
3. Difficoltà esplicative di alcune variabili “classiche”
L’assenza di alcune condizioni considerate determinanti per il successo della democrazia in altre aree
– relative al livello di sviluppo economico, alle modalità d’interazione tra le élites politiche e al
background religioso - non sembra essere stata altrettanto decisiva nel Caucaso meridionale.
Per quanto riguarda la prima condizione, l’esperienza della terza ondata ci dice che i Paesi
con uno sviluppo economico medio-alto sono quelli che con maggiore facilità conoscono sia l’avvio
del processo di democratizzazione che il suo consolidamento24. Nel Caucaso meridionale questo
assunto appare parzialmente contraddetto. Tra i Paesi del gruppo l’Azerbaigian è l’unico a presentare
un reddito pro capite medio-alto, ma, allo stesso tempo, è anche l’unico ad aver sperimentato un vero
e proprio riflusso autoritario25. Questa condizione non è riconducibile all’ipotesi di una sua
trasformazione in un rentier State. Sebbene il settore energetico risulti nevralgico nel funzionamento
I punteggi di Freedom in the World sono stati riformulati invertendo l’originale scala da 1 (più libero) a 7 (meno libero),
in una scala ascendente da 1 (meno libero) a 7 (più libero): 1.0-2.5=Non libero; 3.0-5.0=Parzialmente libero; 5.57.0=Libero; (dal 1991 al 2003: 1.0-2.0=Non libero; 2.5-5.0=Parzialmente libero).
24
S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., pp. 81-83 e 270-279.
25
World Development Indicators, in databank.worldbank.org/
23
7
del suo sistema economico, a differenza dei “petro-Stati” non sembra assistere al classico scambio
tra l’élite al potere e i cittadini dell’elargizione di benefici materiali - in particolare l’assenza di
pressione fiscale26 - per la rinuncia alla partecipazione politica. Similmente non è possibile parlare di
un “effetto repressione”, ossia dell’utilizzo delle rendite energetiche nella costruzione di un apparato
coercitivo statale così efficiente da impedire l’avanzata delle opposizioni e indurre alla smobilitazione
il resto della popolazione. La democrazia in Azerbaigian, infatti, ha imboccato la sua parabola
discendente già nel 2000, prima che l’impetuosa crescita economica nazionale fosse sostenuta dal
rally dei prezzi energetici nel 200527 e dall’inaugurazione delle pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC)
e Baku-Tbilisi-Erzurum (BTE) nel 200628. Il rilancio del settore energetico e dell’economia
azerbaigiana nel suo complesso, quindi, sono intervenuti a democrazia già compromessa e, pur
contribuendo attualmente a rafforzarne il regime, non sembrano essere stati la causa della sua
trasformazione autoritaria. L’insuccesso della democrazia, inoltre, non trova nello sviluppo
economico un fattore decisivo anche in altre transizioni dal comunismo. La Bielorussia presenta
contemporaneamente un reddito pro capite della popolazione medio-alto, in assenza di una resource
based economy, e il terzo peggiore punteggio democratico della regione (tab. 2), mentre la Mongolia,
come la Georgia e l’Armenia, presenta un reddito pro capite medio-basso, ma a differenza loro rientra
nella categoria degli Stati “liberi”29.
Anche il problema del meccanismo di interazione tra il governo e l’opposizione non sembra
aver giocato un ruolo determinante per il risultato delle transizioni post-sovietiche. Negli studi sulla
terza ondata la modalità considerata ottimale per i processi di democratizzazione è la
“transostituzione”, ossia un accordo tra gli elementi riformisti del governo e quelli moderati
dell’opposizione, mentre la seconda soluzione preferibile sarebbe la trasformazione, che avviene
quando è l’élite al potere a guidare la transizione. L’interazione meno adatta, viceversa, sarebbe la
“sostituzione”, ossia la rivoluzione dello status quo ad opera dell’opposizione30. A causa della
particolare natura del regime sovietico e dell’avvio delle transizioni solo come conseguenza del
collasso dell’URSS31, l’esperienza storica non ha confermato la validità di questa ipotesi nelle
transizioni post-sovietiche. Estonia, Lettonia e Lituania sono gli unici Stati di questo gruppo che
26
Rentier States come Bahrain, Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti impongono una pressione fiscale variabile
tra lo 0% e l’1% del Pil, mentre in Azerbaigian questa si attesta al 13%.
27
Come conseguenza dell’aumento della domanda di energia da parte dei Paesi asiatici avvenuta in concomitanza con il
disordine dilagante in Medio Oriente dopo l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, le tensioni politiche in
Venezuela e Nigeria e l’uragano Katrina nel Golfo del Messico.
28
M.L. ROSS, Does Oil Hinder Democracy?, in “World Politics”, vol. 53, n.3, 2001, pp. 325-361; T.L. KARL, Oil-Led
Development: Social, Political and Economic Consequences, in “Encyclopedia of Energy”, vol. IV, pp. 661-672.
29
World Development Indicators, in databank.worldbank.org/
30
S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., pp. 147-182.
31
A.F. BIAGINI, F. GUIDA, Mezzo secolo di socialismo reale. L’Europa centro-orientale dal secondo conflitto mondiale
all’era postcomunista, Torino, G. Giappichelli Editore, 1997.
8
hanno raggiunto una condizione pienamente democratica e lo hanno fatto sperimentando la terza
modalità di interazione. Così come l’Armenia e la Georgia che, al contrario, non hanno ottenuto un
risultato altrettanto positivo. L’Azerbaigian, dal canto suo, ha visto un sostanziale bilanciamento dei
rapporti di potere tra la vecchia classe dirigente e l’opposizione, come avvenuto in Europa orientale
alla Bulgaria e alla Romania e nello Spazio post-sovietico all’Ucraina e alla Moldova. È, tuttavia,
l’unico tra questi Stati ad essersi nettamente allontanato dal “polo” democratico, mentre le prime sono
approdate alla categoria delle “democrazie semi-consolidate” e le seconde a quella dei “regimi
ibridi”32.
Anche la questione religiosa, infine, non sembra poter essere utilizzata come strumento
preferenziale di analisi. È stata evidenziata sia la correlazione tra la cristianità occidentale e la
democrazia, sia la maggiore difficoltà nel svilupparla in cui si imbattono le società appartenenti alla
cristianità orientale o al mondo islamico33. L’Azerbaigian è un Paese prevalentemente islamico,
sebbene con una società secolarizzata come conseguenza del settantennio sovietico. Così come gli
altri Stati post-sovietici e post-comunisti a maggioranza musulmana, conferma la validità di questa
ipotesi34. Questa, tuttavia, non è verificata negli altri due casi. Alcuni Paesi post-comunisti – come
Bulgaria, Montenegro, Romania e Serbia - condividono con l’Armenia e la Georgia l’appartenenza
alla cristianità orientale, ma, a differenza loro, sono approdati alla democrazia.
Con ciò non si vuole sostenere che queste variabili non abbiano avuto alcun ruolo nel mancato
conseguimento della democrazia nel Caucaso meridionale. Tuttavia il loro condizionamento sulle
transizioni in oggetto non appare chiaro, o non sembra aver costituito una causa esiziale per lo
sviluppo e il consolidamento democratico o, ancora, non è utilizzabile per la spiegazione dell’esito
complessivo del processo nella sub-regione.
4. Tre variabili: eredità, crisi della sovranità e ambiente internazionale
Non è possibile, quindi, parlare di un rapporto di causalità tra le variabili “classiche” e il fallimento
della democratizzazione dei Paesi caucasici. Per tale ragione si è scelto di spostare l’attenzione su tre
variabili, talvolta rimaste ai margini degli studi sulle transizioni, ma che sembrano direttamente
collegate all’esito del processo in questa sub-regione dello Spazio post-sovietico.
M.S. FISH, The Determinants of Economic Reform in the Post-communist World, in “East European Politics and
Society”, vol. 12, 1997, pp. 31-78; M. MCFAUL, The Fourth Wave of Democracy, cit., pp. 2221.
33
S.M. LIPSET, K.-R. SEONG, J.C. TORRES, A Comparative Analysis of the Social Requisites of Democracy, in
“International Social Science Journal”, vol. 45, n. 2, pp. 155-175; S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., pp. 95-98.
34
Tra gli Stati post-sovietici Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, mentre tra gli Stati postcomunisti Albania, Bosnia Herzegovina e Kossovo.
32
9
Le prime due – l’eredità e la crisi della sovranità – costituiscono variabili di natura
“contestuale”, in quanto la loro origine va ricercata negli elementi distintivi delle società degli Stati
oggetto dell’analisi e nella loro storia politica:
i.
L’eredità è costituita da quelle confining conditions di ordine strutturale, politico-istituzionale
e culturale che caratterizzano lo spazio all’interno del quale si innesta il processo di
transizione35. L’avvio del regime-building non prende forma su di una tabula rasa, ma risulta
direttamente influenzato da un ampio spettro di fattori legati alla longue durée o al regime
precedente. Il rapporto tra eredità e formazione del nuovo regime può essere risolto o
attraverso il superamento della prima o con l’adattamento del secondo36.
ii.
La crisi della sovranità si traduce nella contestazione del monopolio legittimo della violenza
di uno Stato sul suo territorio ufficiale o nella rivendicazione di un territorio controllato da un
altro Stato37. Alcuni studi classici sulle transizioni hanno presentato le diverse forme di
assenza dell’unità nazionale come il fattore ostativo ante litteram per lo sviluppo democratico
e sottolineato come questa debba necessariamente precedere l’avvio dei processi di
transizione38. Negli anni ‘90, tuttavia, in ambito scientifico si è consolidata l’idea, poi assurta
a pilastro della strategia politica degli Stati Uniti, della capacità della democrazia di attecchire
ovunque39, anche prescindendo da ogni tipo di precondizione40 o di gradualismo nella sua
realizzazione41.
Il ricorso a queste due variabili, per quanto importante, non appare sufficiente a fornire una
spiegazione esaustiva alla domanda di ricerca. Si è scelto, quindi, di integrare le prime due variabili
O. KIRCHHEIMER, Confining Conditions…, cit., pp. 864; P. GRILLI DI CORTONA, O. LANZA (a cura), Tra Vecchio e
nuovo regime: Il peso del passato nella costruzione della democrazia, Bologna, Il Mulino, 2011.
36
G. POP-ELECHES, Historical Legacies…, cit., p. 910.
37
M. WEBER, Politics as a Vocation, in H.H. GERTH, C. WRIGHT MILLS (a cura), “From Max Weber: Essays in
Sociology”, Oxford, Oxford University Press, 1958; K.H.F. DYSON, The State Tradition in Western Europe: A Study of
an Idea and Institution, Oxford, Oxford University Press, 1980.
38
S. ROKKAN, Electoral Mobilization, Party Competition and National Integration, in J. LAPALOMBARA, M. WEINER (a
cura), Political Parties and Political Development, Princeton University Press, Princeton, pp. 241-265; D.A. RUSTOW,
Transitions to Democracy, cit., pp. 350-352; J. LINZ, A. STEPAN, Problems of Democratic Transitions and Consolidation,
cit., pp. 18-23; E.D. MANSFIELD, J. SNYDER, Electing to Fight: Why Emerging Democracies Go to War, CambridgeLondon, MIT Press, 2007.
39
G. O’DONNELL, P. SCHMITTER, L. WHITEHEAD (a cura), Transitions from Authoritarian Rule, cit.; F. FUKUYAMA, The
End of History, cit.; B. RUSSETT, Grasping the Democratic Peace. Principles for a Post-Cold War World, Princeton,
University Press, 1993; R. RUMMEL, Democracies Are Less Warlike than Other Regimes, in “European Journal of
International Relations”, vol. 1, n. 4, 1995, pp. 457-479; M.S. FISH, Postcommunist subversion, cit.
40
E.D. MANSFIELD, J. SNYDER, Democratization and War, in “Foreign Affairs”, vol. 74, n. 3, pp. 79-97; F. ZAKARIA,
The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad, New York, Norton, 2003, p. 15.
41
T. CAROTHERS, How Democracies Emerge: The “Sequencing” Fallacy, in “Journal of Democracy”, vol. 18, n. 1, 2007,
pp. 12-27
35
10
con una terza – l’ambiente internazionale – che rappresenta una variabile di natura sistemica e spesso
determina la subordinazione a se stessa del funzionamento della sfera politica interna:
iii.
L’ambiente internazionale condiziona con incentivi e sanzioni l’azione degli Stati senza
soluzione di continuità42. La magnitudine dei condizionamenti aumenta in misura
inversamente proporzionale al consolidamento del regime e all’ampiezza geografica di un
Paese e direttamente proporzionale alla sua esposizione geopolitica43. Anche la dimensione
politica interna non risulta mai del tutto estranea alla collocazione degli Stati nello spazio e
nella gerarchia di potere internazionale, tanto che questi sembrano meno liberi di seguire le
proprie preferenze interne quanto più sono vulnerabili ai condizionamenti esterni44. Se un
regime change non ha costituito il risultato di un fenomeno di esclusiva portata interna,
similmente il suo esito non può dipendere solo dagli sviluppi che avvengono nell’ambito della
dimensione domestica45.
3. L’eredità sovietica nel Caucaso meridionale
Il primo problema a gravare sul cambio di regime nel Caucaso meridionale è stata la questione
dell’eredità. Si è scelto di concentrare l’attenzione su quella del settantennio sovietico per la lunga
durata del regime, di cui quattro elementi sembrano essere stati più influenti di altri.
Eredità 1 (istituzionale I) - nel 1991 le Repubbliche caucasiche non avevano sperimentato un
first try democratico e risultavano prive di una cultura politica pluralista, condizioni ritenute
funzionali al successo delle democratizzazioni46. Se da un lato la prima indipendenza è corrisposta
agli anni della guerra civile impedendo qualsiasi esperimento democratico, dall’altro l’esperienza dei
partiti che avevano occupato la scena politica in questa fase – il Dashnak armeno, il Musavat
42
S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., pp. 85-105 e 209-21; G. PRIDHAM (a cura), Encouraging Democracy: The
International Context of Regime Transition in Southern Europe, Leicester, Leicester University Press, 1991; L.
WHITEHEAD (a cura), The International Dimensions of Democratization. Europe and the Americas, Oxford-New York,
Oxford University Press, 1996; S. LEVITSKY, L.A. WAY, Rethinking the International Dimension of Regime Change, in
“Comparative Politics”, vol. 38, n. 4, 2006, pp. 379-400; P.C. SCHMITTER, J. SANTISO, Three Temporal Dimensions to
the Consolidation of Democracy, in “International Political Science Review”, vol. 19, n. 1, 1998, pp. 69-92; A. MAGEN,
L. MORLINO (a cura), Anchoring Democracy: External Influence on Domestic Rule of Law Development, London-New
York, Routledge, 2008; P.C. SCHMITTER, Twenty-Five Years, Fifteen Findings, in “Journal of Democracy”, vol. 21, n. 1,
2010, pp. 17-28.
43
A. VANDENBOSCH, The Small States in International Politics and Organization, in “The Journal of Politics”, vol. 26,
n. 2, 1964, pp. 293-312.
44
A. COLOMBO, Tempi decisivi. Natura e retorica delle crisi internazionali, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 65.
45
L. BONANATE, Riti di passaggio. Dimensioni internazionali del difficile cammino della transizione democratica, in F.
Raniolo, XXX, p. 41.
46
S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., pp. 40-45.
11
azerbaigiano e i Menscevichi georgiani - era ormai lontana nel tempo e comunque non era stata mai
caratterizzata dall’identificazione con gli ideali democratici.
Eredità 2 (istituzionale II): - agli Stati caucasici ha fatto difetto anche una prima esperienza
statale “effettiva”47 che potesse costituire un framework di riferimento, soprattutto in un momento di
grandi sconvolgimenti sia domestici che internazionali come quello seguito alla dissoluzione
dell’URSS. Questo deficit ha reso più complessa la sovrapposizione tra democracy-building e Statebuilding48. A differenza dei Paesi baltici, Armenia, Azerbaigian e Georgia non hanno potuto mutuare
– riformandole - strutture e istituzioni ereditate dal passato pre-sovietico ma, al contrario, hanno
cambiato d’etichetta alle istituzioni non democratiche delle SSR, come testimoniato dalla conversione
e dal mantenimento in carica dopo l’indipendenza dei parlamenti eletti nel 199049.
Eredità 3 (amministrativa): il rapporto tra Stato e cittadini nelle Repubbliche caucasiche non
risulta fondato sull’identificazione tra un popolo e un territorio, ma su quella tra le istituzioni
pubbliche e la componente etnica “titolare” della “vecchia” RSS. Tale eredità è dipesa dalla gestione
della questione delle nazionalità nell’URSS secondo il principio del “nazionalismo a matrioshka”, che
prevedeva l’esistenza di quattro tipi di unità amministrative50. Ognuna di queste era identificata con
una nazionalità “titolare” dello Stato, la cui posizione di primato è stata foriera di squilibri con le altre
componenti etniche presenti sullo stesso territorio51. Questa scelta voleva segnare una discontinuità
tra l’URSS e l’Impero zarista, in cui era riconosciuta solo l’esistenza della nazione “russa”. La politica
del radicamento (korenisazija) era considerata funzionale al mantenimento del potere dei soviet e,
integrata con la scelta di incentivare la carriera dei dirigenti non russi nei partiti comunisti delle RSS,
aveva come obiettivo il rafforzamento del legame di fedeltà tra il PCUS e le unità amministrative locali.
Alla fine della guerra civile, tuttavia, proprio a causa del nazionalismo e dei rapporti internazionali
per cui si erano distinti armeni, azerbaigiani e georgiani, l’intero Caucaso meridionale fu unito nella
RSSF
Transcaucasica (1922-1936)52. In questa cornice vennero create le
RSSA
di Nakhichevan,
L’Armenia e l’Azerbaigian hanno sperimentano la loro prima indipendenza tra il 1918 e il 1920, mentre la Georgia tra
il 1918 e il 1921. Queste esperienze ebbero un carattere effimero non solo a causa della loro breve durata, ma perché si
svolsero in concomitanza della Guerra civile russa e in presenza di truppe straniere sul loro territorio. D. POMMIER
VINCELLI, L’epoca zarista e la prima indipendenza (1722-1920), in G. NATALIZIA, D. POMMIER VINCELLI, “Azerbaigian.
Una lunga storia”, Firenze, Passigli, 2012, pp. 35-44.
48
P.G. ROEDER, Peoples and States after 1989: The Political Costs of Incomplete National Revolutions, in “Slavic
Review”, vol. 58, n. 4, pp. 857-860; G. CARBONE, V. MEMOLI, Does Democratization Foster State Consolidation?
Democratic rule, political order and administrative capacity, in “Governance”, vol. 28, n. 1, 2015, pp. 5-24.
49
I parlamenti eletti nel 1990 rimasero in carica in Georgia fino al 1992 e in Armenia e in Azerbaigian fino al 1995.
50
L’Unione Sovietica era composta da 15 Repubbliche Socialiste Sovietiche (RSS), 20 Repubbliche Socialiste Sovietiche
Autonome (RSSA), 8 regioni autonome (oblast’) e 10 aree autonome (okrug).
51
In alcune regioni, come il Caucaso, l’eterogeneità etnica costituiva un dato strutturale storico, mentre in altre fu il
risultato dei trasferimenti forzati di intere popolazioni realizzati in epoca staliniana con l’obiettivo di attenuare il senso di
identità nazionale laddove appariva pericoloso per la stabilità dello Stato. B. BUZAN, O. WÆVER, Regions and Powers:
The Structure of International Security, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, p. 402.
52
A. VAGNINI, L’epoca sovietica (1920-1991), in G. NATALIZIA, D. POMMIER VINCELLI, “Azerbaigian. Una lunga storia”,
cit., pp. 48-52.
47
12
Abcasia e Agiaria e gli oblast’ del Nagorno-Karabakh e dell’Ossezia del Sud. Anche dopo lo
scioglimento della Transcaucasia, queste forme di autonomia furono preservate all’interno delle tre
nuove RSS, costituendo l’impianto giuridico utilizzato per legittimare le rivendicazioni degli anni ’80
e ’90. Per tali ragioni il sistema amministrativo sovietico è stato definito un “incubatore di nazioni”53.
Eredità 4 (etnico-politica): il divampare del nazionalismo nel Caucaso costituisce un effetto
della crisi di legittimità del regime sovietico tra gli anni ’70 e ‘8054. Nel Caucaso il “fattore
Gorbachev”55 aprì lo spazio a forme di associazione alternative a quelle del PCUS, nonché una parziale
rinascita del dibattito politico. L’aggregazione, tuttavia, si coagulò intorno all’attività di promozione
delle culture e delle lingue locali, in opposizione all’idea di nazione sovietica e alle identità delle
comunità minoritarie. La valorizzazione delle specificità nazionali si trasformò, quindi, in espressione
del dissenso nei confronti del potere centrale, sia dove il nazionalismo era rimasto intenso (Armenia
e Georgia), sia dove era stata maggiore l’integrazione con la realtà sovietica (Azerbaigian)56.
L’opposizione al regime, quindi, si coagulò intorno a un numero esiguo di grandi raggruppamenti
politici – il Comitato “Karabakh” e il Movimento Nazionale Pan-Armeno, il Fronte popolare
d’Azerbaigian, la Società di Sant’Ilia “Il Giusto” e la Tavola Rotonda-Georgia Libera – che
condividevano un triplice tratto distintivo: l’ostilità nei confronti del potere sovietico, il nazionalismo
etnico su base esclusiva e l’odio nei confronti delle altre componenti etniche presenti nel loro
territorio (o in un territorio rivendicato)57. I risultati dell’approccio sovietico alla questione delle
nazionalità divennero evidenti quando il ferreo controllo del potere centrale risultò indebolito. Da un
lato, la regione azerbaigiana del Nagorno-Karabakh rivendicò l’unione con la RSS d’Armenia (1988),
determinando lo scoppio di un conflitto a bassa intensità tra armeni e azerbaigiani (1988-1991).
Dall’altro, in Georgia esplose la protesta nazionalista contro le prime rivendicazioni degli abcasi e
degli osseti, di cui esasperò a sua volta i sentimenti indipendentisti all’interno di una dinamica a
spirale.
53
R. SUNY, Revenge of the Past: Nationalism, Revolution and the Collapse of the Soviet Union, Stanford, Stanford
University Press, 1993, p. 87.
54
R.G. SUNY, Provisional Stabilities: The Politics of Identities in Post-Soviet Eurasia, in “International Security”, vol.
24, n.3, 1999-2000, pp. 139-178; G. NODIA, The Impact of Nationalism, in “Journal of Democracy”, vol. 12, n. 4, 2001,
pp. 27-34.
55
A. BROWN, The Gorbachev Factor, Oxford, Oxford University Press, 1996.
56
S.E. CORNELL, Small Nations and Great Powers: A Study of Ethnopolitical Conflict in the Caucaus, London-New
York, Routledge, 2001; V. BUNCE, Is Ethnofederalism the Solution or the Problem?, A. MUNGIU, I. KRASTEV,
Nationalism after Communism: Lessons Learned, Central European University Press, Budapest, 2004.
57
G.E. CURTIS (a cura), Armenia, Azerbaijan and Georgia. Country Studies, Washington, Library of Congress-Federal
Research Division, 1995; V. AVIOUTSKII, Géopolitique du Caucase, Paris, Armand Colin, 2005, pp. 211-215; A.
CARTENY, Questioni e minoranze nazionali in Azerbaigian. Il Nagorno Karabakh, in G. NATALIZIA, D. POMMIER
VINCELLI, “Azerbaigian. Una lunga storia”, cit., pp. 81-89.
13
4. Il processo di democratizzazione e la crisi della sovranità
Nel 1991 il Caucaso meridionale era un contesto privo di esperienze democratiche e statuali
pregresse, connotato da un sistema di autonomie politicamente sostenibili solo nell’ambito dell’URSS
e dalla presenza di un nazionalismo esasperato dall’odio interetnico. Parallelamente l’immediata
adozione di – seppur fragili - istituzioni e procedure democratiche segnò l’accenno di un processo di
democratizzazione nell’area (fig. 1). L’ascesa al potere dei leader dei principali movimenti di
opposizione al regime sovietico nelle elezioni presidenziali58, infatti, confermò l’esistenza di una
discreta discontinuità politica rispetto al passato59.
Secondo l’assunto classico di Dankwart Rustow, tuttavia, la democrazia si configura come un
sistema in cui maggioranze temporanee si alternano al potere e, di conseguenza, l’assenza di
un’organizzazione statale solida e di una comunità nazionale dai contorni ben definiti ne preclude il
radicamento. Affinché l’alternanza possa diventare effettiva, i confini devono essere stabili, i cittadini
devono identificarsi con lo Stato che li amministra e non devono esistere riserve sui membri della
nazione60. È stato anche evidenziato, inoltre, come l’introduzione di procedure democratiche in un
contesto caratterizzato da un processo in corso di State-building e dalla centralità politica di
movimenti nazionalisti su base etnica, si sovrappone con estrema frequenza allo scoppio di guerre
civili o di guerre d’aggressione – tanto da far ipotizzare l’esistenza di un rapporto causale - che si
concludono con l’azzeramento o il forte ridimensionamento del processo di democratizzazione61.
La crisi della sovranità nel Caucaso meridionale sembra aver seguito tale modello. Sull’avvio
dei processi di democratizzazione nell’area, infatti, è immediatamente gravato il coinvolgimento in
una guerra civile internazionalizzata (Armenia) o in un conflitto per il ripristino della sovranità statale
(Azerbaigian e Georgia). In tal senso va ricordato come è proprio nel primo decennio successivo
all’avvio del regime change che emergono i protagonisti della vita politica e le loro modalità
d’interazione, sono indette le prime elezioni e viene promulgata una nuova costituzione che sancisce
le regole del “gioco” politico62. La sfida alla sovranità dello Stato nel Caucaso è intervenuta, quindi,
proprio nella fase in cui cominciavano ad essere modellati i pilastri dei nuovi regimi politici.
58
Nel 1991 in Armenia e Georgia furono eletti Lewon Ter-Petrosyan e Zviad Gamsakhurdia. In Azerbaigian, al contrario,
una tornata a candidato unico portò alla presidenza l’ultimo segretario del Partito comunista azerbaigiano Ayaz
Mutallibov, mentre le prime elezioni libere si tennero nel 1992 e furono vinte dal leader del Fronte popolare Abulfaz
Elchibey.
59
P. GRILLI DI CORTONA, Come gli stati diventano democratici, cit., p. 49.
60
D.A. RUSTOW, Transitions to Democracy, cit., pp. 350-351; J. LINZ, A. STEPAN, Problems of Democratic Transitions
and Consolidation, cit., pp. 18-22.
61
E.D. MANSFIELD, J. SNYDER, Electing to Fight, cit., pp. 169-173.
62
S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., pp. 258-270.
14
All’indomani del crollo dell’URSS, l’Armenia controllava già una porzione del NagornoKarabakh, che era de iure parte integrante dell’Azerbaigian. Il governo di Erevan, per evitare l’accusa
di violazione della sovranità, sostenne le rivendicazioni di Stepanakert, ma non ne riconobbe
l’indipendenza. Nel 1991 il conflitto rimase a un livello di bassa intensità, ma tra il 1992 e il 1994 si
trasformò in una guerra civile internazionalizzata, con l’Armenia che affiancava le truppe dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh (tab. 3). La sostanziale vittoria conseguita, tuttavia,
ha costituito un turning point negativo per la giovane democrazia armena. Da un lato, l’impossibilità
di procedere all’annessione della regione e il problema dei profughi impoverì la dialettica politica del
Paese, schiacciandola sulla questione nazionale, e fece salire la tensione politica tra governo e
opposizione63. Tra il 1994 e il 1995, in risposta ai disordini interni furono messi fuori legge alcuni
partiti e giornali di opposizione64 e approvata una costituzione che prevedeva un sistema semipresidenziale con un presidente dotato di ampi poteri65. Dall’altro, la fine dell’effetto rally ‘round the
flag66 e la crisi economica causarono la delegittimazione della leadership politica, testimoniata dalla
contestazione delle votazioni che portarono alla rielezione di Ter-Petrosyan nel 199667. La
rilegittimazione del presidente passò per la sua identificazione con i successi militari del 1992-1994
e, a tal fine, l’eroe di guerra Robert Kocharyan fu nominato primo ministro nel 1997. Iniziò così a
prendere forma l’occupazione dei vertici dello Stato da parte del clan del Nagorno-Karabakh, formato
da politici originari della regione e da militari. La trasformazione della geografia del potere proseguì
con le dimissioni di Ter-Petrosyan, accusato di cedevolezza nei confronti di Baku a causa della sua
ricerca di un accordo, l’elezione di Kocharyan alla presidenza nel 1998 e nel 2003 e la staffetta con
il suo ex primo ministro Serzh Sargsyan, eletto nel 2008 e nel 2013. Questa sequenza ha così segnato
il passo ad un sostanziale esaurimento dell’alternanza politica68.
La transizione in Azerbaigian è stata influenzata non solo dalla guerra contro la milizie
secessioniste e le forze armene in Nagorno-Karabakh, ma anche dal susseguirsi di rivolte militari. Se
il presidente post-sovietico Mutallibov è uscito di scena in seguito ai primi rovesci militari, al
La tensione raggiunse un picco nel 1999 con l’attentato all’Assemblea nazionale, in cui persero la vita 8 persone, tra
cui il primo ministro Vazgen Sargsyan e lo speaker del parlamento Karen Demirchyan.
64
La Federazione Rivoluzionaria Armena (Dashnaktsutyun), principale partito dell’opposizione, e il quotidiano Yerkir
furono messi fuori legge dal 1994 al 1998.
65
La costituzione del 1995 è stata riformata nel 2006, sancendo il passaggio del semi-presidenzialismo armeno dal
modello president-parliamentary (primo ministro e governo responsabili sia di fronte al parlamento che al presidente) a
quello premier-presidential (primo ministro e governo responsabili solo di fronte al parlamento). M.S. SHUGART, J.M.
CAREY, Presidents and Assemblies. Constitutional Design and Electoral Dynamics, Cambridge, Cambridge University
Press, 1992; R. ELGIE, Semipresidentialism: Sub-Type amd Democratic Performance, Oxford, Oxford University Press,
2011.
66
A. PANEBIANCO, Guerrieri democratici, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 76-78.
67
Le critiche degli osservatori dell’OSCE si unì alle proteste delle opposizioni, che vennero tacitate dall’intervento dei
carri armati.
68
T. DE WAAL, The Caucasus: An Introduction, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 124-126.
63
15
massacro di Khojaly e alla rivolta del Fronte popolare, anche l’esperienza presidenziale di Elchibey
si è esaurita rapidamente. Per le stesse ragioni del suo predecessore fu deposto da una rivolta guidata
dal generale Surat Husseynov (tab. 3). A mediare tra il governo e i ribelli fu chiamato l’ex-vice
premier dell’URSS Heydar Aliyev, che sarebbe diventato presidente nel 1993. Dopo aver represso le
truppe fedeli al Fronte popolare e conseguito alcuni obiettivi strategici, H. Aliyev raggiunse il cessate
il fuoco a Bishkek nel 1994. La scena politica dell’Azerbaigian del dopoguerra è stata contraddistinta
da una situazione emergenziale, dovuta sia a una nuova ribellione delle unità speciali di polizia, che
alla perdita di 1/6 del territorio e all’emergenza dei profughi (tab. 3)69. Il nuovo presidente ha
ricostruito l’apparato statale e ripristinato l’ordine, tenendo unito il Paese in nome del nemico armeno
e della volontà di riscatto nazionale. L’altra faccia della medaglia di questo processo è stata l’estrema
concentrazione del potere nell’esecutivo, realizzata con il sistema semi-presidenziale “forte” previsto
dalla costituzione del 199570, e l’occupazione delle posizioni chiave dell’apparato statale da parte del
clan dell’exclave del Nakhichevan. Il progressivo declino della possibilità di alternanza è riscontrabile
sin dal sostanziale passaggio della presidenza da H. Aliyev a suo figlio Ilham nel 2003, poi rieletto
nel 2008 e nel 201371.
L’assenza di unità nazionale in Georgia, infine, si è materializzata in una guerra civile su più
fronti. La dichiarazione dello stato di emergenza dopo il golpe in
URSS,
la gestione autoritaria del
potere di Gamsakhurdia e il collasso economico del Paese innescò contro il presidente l’unione di
alcune forze che prima gli erano alleate – la Guardia nazionale di Tengiz Kitovani e il primo ministro
Tengiz Sigua - e quelle dei suoi oppositori – tra cui le milizie paramilitari Mkhedrioni di Jaba
Ioseliani. Lo scontro si trasformò in violenza già nel 1991, portando alla deposizione del presidente
l’anno successivo e trascinandosi fino al 1993 (tab. 3). La leadership del Paese fu allora affidata all’ex
ministro degli Esteri sovietico Shevardnadze, che, sullo sfondo di una temporanea sospensione delle
regole democratiche, assunse il ruolo di speaker del parlamento per poi essere regolarmente eletto
nel 1995 come capo dello Stato. Anche lo scontro tra Tbilisi e le repubbliche secessioniste
dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia trovò le sue radici nel periodo della presidenza di Gamsakhurdia.
La revoca dello status di autonomia all’Ossezia del Sud72 e la negazione di qualsiasi riconoscimento
alle identità etniche minoritarie furono recepite con preoccupazione in entrambe le regioni che, già
La guerra ha provocato circa 700.000 profughi azerbaigiani e 300.000 profughi armeni. The State of the World’s
Refugees 2000: Fifty Years of Humanitarian Actions, UNHCR, 2000, cap 8.
70
Di tipo premier-presidential secondo la classificazione di Shugart e Carey; R. ELGIE, List of president-parliamentary
and premier-presidential countries with dates, www.semipresidentialism.com.
71
A. FERRARI, Breve storia del Caucaso, cit., pp. 129-131; T. DE WAAL, Black Garden: Armenia and Azerbaijan through
Peace and War, New York, New York University Press, 2004, pp. 262-278.
72
La decisione fu presa quando Gamsakhurdia era ancora presidente del parlamento della RSS di Georgia.
69
16
alla fine del 1990, si dichiararono indipendenti73. Con la presidenza di Shevardnadze, le tensioni del
1989-1991 si trasformarono in due guerre con protagonisti l’esercito georgiano, le truppe delle
repubbliche indipendentiste, le milizie agli ordini dei signori della guerra e, per un breve periodo,
l’esercito russo (tab. 3). Il principale lascito di questi conflitti, terminati con la sconfitta di Tbilisi,
sono stati l’indipendenza de facto dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, il flusso di profughi dai
territori secessionisti74, il radicamento del potere di gruppi paramilitari in alcune province del Paese
e la parziale destabilizzazione dell’Agiaria75. Anche Shevardnadze si scontrò con la necessità di
ripristinare l’ordine, optando a tal fine per la centralizzazione dei poteri come previsto dalla
costituzione “super-presidenziale” del 199576. La flessione democratica degli anni successivi al 1999,
tuttavia, è stata parzialmente invertita con la “Rivoluzione delle rose” del 2003, l’elezione alla
presidenza di Mikheil Saakashvili e la riforma costituzionale in senso semi-presidenziale. Dopo un
nuovo trend negativo seguito alla Guerra russo-georgiana del 2008, un secondo incremento del livello
di democrazia in Georgia è avvenuto con l’ulteriore riduzione dei poteri del presidente nel 2010 e
l’alternanza al potere generata dai risultati elettorali del 2012 e 201377.
73
V.S.F. JONES, Georgia: The Trauma of the Statehood, in I. BREMMER, R. TARAS (a cura), New States, New Politics:
Building the Post-Soviet Nations, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, p. 513.
74
Le cifre ufficiali parlano di circa 250.000 persone. The State of the World’s Refugees 2000, cit. cap 8.
75
T. DE WAAL, The Caucasus, cit., pp. 139-145 e 157-166.
76
M.M. BLIEV, V.V. DIGOEV, La guerre du Caucase, Moscou, Rosset, 1994; T. DE WAAL, The Caucasus: An
Introduction, cit., pp. 139-145 e 157-166; R. DE QUIRICO, La democratizzazione tradita. Regimi ibridi e autoritarismi nei
paesi ex-sovietici europei, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 98-103.
77
R. ELGIE, List of president-parliamentary, cit..
17
Tab. 3. Presenza e intensità della violenza negli Stati Caucasici (1990-2014)78
Attore A
Attore B-I
Attore
B-II
Territorio conteso
Anno
Intensità
Tipologia di violenza
Azerbaigian
Repubblica del
Nagorno-Karabakh
Armenia
Nagorno-Karabakh
1991
1
Guerra civile internazionalizzata
Georgia
Guardia Nazionale e Forze
“Mkhedrioni”
1991
1
Guerra civile
Azerbaigian
Repubblica del NagornoKarabakh
1992
2
Guerra civile internazionalizzata
Georgia
Zviadisti, Guardia nazionale
e Forze “Mkhedrioni”
1992
1
Guerra civile
Georgia
Repubblica dell’Abcasia
1992
1
Guerra civile
Georgia
Repubblica dell’Ossezia del
Sud
Russia
1992
1
Guerra civile internazionalizzata
Azerbaigian
Repubblica del
Nagorno-Karabakh
Armenia
1993
2
Guerra civile internazionalizzata
Azerbaigian
Forze militari of Surat
Husseynov
1993
1
Guerra civile
Georgia
Zviadisti
1993
1
Guerra civile
Georgia
Repubblica di Abcasia
1993
2
Guerra civile
Azerbaigian
Repubblica del
Nagorno-Karabakh
1994
2
Guerra civile
Azerbaigian
Unità Speciali di Polizia
(OPON)
1995
1
Guerra civile
Georgia
Repubblica dell’Ossezia del
Sud
2004
1
Guerra civile
Azerbaigian
Repubblica del
Nagorno-Karabakh
Armenia
2005
1
Guerra civile internazionalizzata
Georgia
Repubblica dell’Ossezia del
Sud
Russia
2008
1
Guerra civile internazionalizzata
Azerbaigian
Repubblica del
Nagorno-Karabakh
Armenia
Nagorno-Karabakh
2012
1
Guerra civile internazionalizzata
Azerbaigian
Repubblica del
Nagorno-Karabakh
Armenia
Nagorno-Karabakh
2014
1
Guerra civile internazionalizzata
Armenia
Armenia
Nagorno-Karabakh
Nagorno-Karabakh
Nagorno-Karabakh
Nagorno-Karabakh
Fonte: Tabella formulata dall’Autore con i dati dei report UCDP/PRIO
5. L’ambiente internazionale e la transizione della sub-regione caucasica
Le due variabili utilizzate sinora sono intervenute anche in altre aree, ma senza produrre le stesse
conseguenze politiche registrate nel Caucaso meridionale. Sebbene nei Balcani sud-occidentali
abbiano determinato un iniziale backsliding autoritario, successivamente non hanno costituito cause
78
L’UCDP/PRIO attribuisce intensità 1 ai conflitti con meno di 1000 morti e intensità 2 a quelli con più di 1000 morti.
18
ostative per la ripresa e l’esito positivo del processo di democratizzazione. La – lunga – transizione
di Croazia, Serbia e Montenegro, infatti, si è conclusa con il conseguimento di un livello più che
soddisfacente di democrazia79, che ha permesso alla Croazia di entrare nella
NATO
e nell’UE e a
Montenegro80 e Serbia di conseguire lo status di Paesi candidati alla membership europea81.
In virtù di tali considerazioni, è sembrata imprescindibile l’integrazione delle prime due
variabili con una terza, l’ambiente internazionale. Tale scelta, tuttavia, richiede la contaminazione
dell’approccio degli studi sulle transizioni con la letteratura internazionalistica. Nell’ambito di tale
settore di studi, la magnitudine delle pressioni dell’ambiente esterno sulla dimensione politica interna
deve essere contestualizzata allo status internazionale e alla posizione geopolitica dei Paesi oggetto
d’analisi.
Secondo il modello di Martin Wight, Armenia, Azerbaigian e Georgia possono essere inseriti
nella categoria delle minor power82. Tale concetto è applicabile agli Stati il cui ridotto coefficiente di
potenza determina alcune conseguenze principali che ne enfatizzano la particolare permeabilità da
parte dei fattori esterni: 1) una politica estera orientata ad obiettivi circoscritti; 2) l’impossibilità di
ricorrere allo strumento della guerra contro le potenze di rango superiore, che possono imporre
limitazioni consistenti alla loro sovranità; 3) l’esistenza di dispute territoriali in sospeso con gli Stati
limitrofi, a cui viene legata la sopravvivenza stessa dello Stato; 4) l’esternalizzazione della sicurezza
in funzione del bilanciamento delle minacce esterne83.
La fragilità dei tre Stati, tuttavia, non deriva esclusivamente dalla loro condizione di minor
power. Questa, infatti, risulta esasperata anche dalla loro collocazione geografica. Da una prospettiva
latitudinale, il Caucaso meridionale svolge una funzione di cerniera tra due regioni instabili poiché
caratterizzate dalla presenza di un’anarchia internazionale “immatura”, come lo Spazio post-sovietico
e il Grande medio oriente. In tal prospettiva è necessario evidenziare che laddove gli Stati non
dispongono di un regime consolidato, né di istituzioni efficienti, né di un senso di identità nazionale
sviluppato e si trovano a interagire con altri Stati afflitti dagli stessi problemi e con un contesto
In Freedom in the World 2015 Serbia, Croazia e Montenegro sono presentate come regimi “liberi”, mentre Nations in
Transit 2015 sono state inserite nella categoria delle “democrazie semi-consolidate” con i punteggi di 3.64, Croazia 3.68,
Montenegro 3.86.
80
Il Montenegro è anche entrato nella procedura di pre-adesione alla Nato, il Membership Action Plan (MAP).
81
L. BONANATE, Democrazia tra le nazioni, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 179-187.
82
Secondo Martin Wight gli indicatori della potenza di uno Stato sono: popolazione, posizione strategica, estensione
geografica, organizzazione sociale, risorse economiche, produzione industriale, tradizione storica, volontà di potenza. M.
WIGHT, Power Politics, London, Continuum, 2004, p. 65.
83
A. VANDENBOSCH, The Small States…, cit., pp. 296-297; M. BAZZOLI, Il piccolo Stato nell'età moderna: Studi su un
concetto della politica internazionale tra XVI e XVIII secolo, Milano, Jaca Book, 1990; M.I. HANDEL, Weak States in the
International System, London, Frank Cass, 1990; M. WIGHT, Power Politics, cit., p. 65; S.D. KRASNER, Sovereignty:
Organized Hypocrisy, Princeton, Princeton University Press, 1999; M. VALIGI, Il Comportamento delle medie potenze in
ambiente anarchico: un modello, in “Quaderni di Scienza Politica”, vol. 17, n. 1, 2010, pp. 163-204; Le medie potenze:
una questione teorica Aperta, in “Quaderni di Scienza Politica”, vol. 21, n. 2, 2014, pp. 247-266.
79
19
regionale caratterizzato da numerosi focolai di instabilità, l’ordine interno di ciascuno Stato è
continuamente condizionato dagli ordini interni degli altri, così come gli ordini di questi ultimi
risultano vulnerabili alla tenuta dell’ordine internazionale84.
Da una prospettiva longitudinale, invece, il Caucaso meridionale costituisce la linea di
collegamento tra Mar Nero e Mar Caspio e, di conseguenza, tra Europa, Russia, Turchia, Iran e Asia
Centrale. La sua rilevanza strategica, dunque, non è solo “intrinseca”, ossia legata all’interesse a
condizionarne le vicende politiche interne per segnare il confine di un’area di influenza o controllarne
le risorse, ma risulta anche “estrinseca”, in quanto per il suo controllo passa la possibilità di agire più
efficacemente anche sulle regioni circostanti85. Questa particolare posizione ha costituito una sorta di
magnete per l’attenzione e, di conseguenza, per i tentativi di ingerenza nella dimensione domestica
dei tre Stati caucasici da parte delle potenze che si affacciano sulla sub-regione o che vi hanno
interessi e sono in grado di difenderli.
Per meglio distinguere le diverse fonti di pressione esogena che hanno gravato sulle transizioni
nel Caucaso meridionale, dunque, è possibile fare ricorso a due macro-tipologie: le dinamiche, i cui
effetti hanno sovente una natura erratica, e gli attori, le cui strategie politiche possono essere sia
dirette a provocare mutamenti nella dimensione politica interna degli altri Stati, che produrli per via
indiretta86.
5.1 Le dinamiche
Nella letteratura sulle transizioni il “contagio” figura come una prima forma di dinamica
internazionale in grado di condizionare la sfera politica interna di uno Stato, la cui capacità risulta
legata principalmente alla prossimità geografica e, solo talvolta, a quella culturale tra il vettore di
“contagio” e i “contagiati” 87. Tale concetto descrive il processo innescato da un mutamento politico
che, grazie alla sua forza evocativa, causa la moltiplicazione di fenomeni simili ad esso. L’esempio
più noto è il cosiddetto snowballing effect provocato dall’abbattimento del Muro di Berlino e dalla
repentina reintegrazione della Repubblica Democratica Tedesca nell’ambito delle strutture
84
B. BUZAN, People, States & Fear: An Agenda for International Security Studies in the Post-Cold War Era, Harlow,
Person Education, 1991, pp. 96-107; A. COLOMBO, Tempi decisive…, cit., pp. 56-63.
85
M. DESCH, The Keys that Lock Up the World. Identifying American Interests in the Periphery, in “International
Security”, vol. 14, n. 1, 1989, pp. 86-121.
86
R. DE QUIRICO, La democratizzazione tradita, cit., pp. 226-227.
87
R.P.Y LI, W.R. THOMPSON, The “Coup Contagion” Hypothesis, in “Journal of Conflict Resolution”, vol. 19, n. 1,
1975, pp. 63-84; S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., pp. 100-106; P.C. SCHMITTER, The Influence of the
International Context upon the Choice of National Institutions and Policies in Neo-Democracies, in L. WHITEHEAD, (a
cura), “The International Dimensions of Democratization. Europe and the Americas”, Oxford, Oxford University Press,
1996, pp. 27-54; L. BONANATE, Transizioni democratiche, 1989-1999: I processi di diffusione della democrazia all’alba
del XXI secolo, Milano, Franco Angeli, 2000.
20
occidentali, che ha determinato il crollo dei regimi comunisti, la rapida diffusione della democrazia
nell’Europa orientale e il passaggio di quest’ultima nella zona d’influenza americana. Anche le
transizioni in Armenia, Azerbaigian e Georgia sono state provocate da uno shock esterno - la sconfitta
dell’Unione Sovietica nella Guerra fredda che ha determinato lo scioglimento della prima e la
conclusione della seconda – e incentivate dall’avvio del processo di democratizzazione in Russia
dopo il fallimento del “putsch d’agosto”. Le trasformazioni registrate a Mosca, quindi, hanno
costituito una forma di contagio per i Paesi caucasici – e più in generale per lo Spazio post-sovietico
- sia a causa della tradizionale intensità dei rapporti politici, economici e culturali che li legavano,
che della posizione predominante conservata dalla Russia sulla Comunità degli Stati Indipendenti
(CSI) e dalla sua prossimità geografica a quest’area88. Invertendo il paradigma, è possibile ipotizzare
che così come il caso tedesco-orientale abbia determinato un “contagio democratico” nel resto della
regione che a vario titolo le era più connessa, allo stesso modo quello russo abbia provocato un
differente tipo di contagio nella sua ex “periferia”, caratterizzato da una mediazione tra il retaggio
sovietico, l’adattamento alla realtà locale di alcune istituzioni occidentali e la necessità di rifondare
un nuovo Stato sulle macerie dell’apparato sovietico. In altre parole il secondo avrebbe costituito un
caso uguale e contrario rispetto al primo. L’ipotesi dell’esistenza di “poli” di contagio differenti
sembra in buona misura verificabile sia mettendo in relazione gli esiti dei processi di
democratizzazione negli Stati dell’Europa orientale e nello Spazio post-sovietico con la condivisione
di un confine tra questi e l’UE o tra questi e la Russia, sia collegandoli alla distanza che ne separa la
capitale dalla più vicina capitale di un Paese dell’UE e da Mosca89.
L’emulazione costituisce un secondo tipo di dinamica internazionale. Negli studi sulle
democratizzazioni il termine indica quel processo per cui l’affermazione della democrazia in un Paese
stimola un mutamento analogo in quelli vicini, sia perché questi ultimi possono confrontarsi con
problemi comuni al primo, sia perché le sue performance positive inducono a pensare che la
democrazia sia una sorta di panacea. Più questa si diffonde in una regione, tanto più è probabile che
si inneschi un fenomeno di emulazione negli Stati non democratici 90. Ceteris paribus, nelle regioni
in cui la democrazia è un regime minoritario, se non assente, la sua diffusione risulta difficoltosa, in
quanto l’ambiente esterno non fornisce alle élite nazionali esempi da imitare o incentivi a rompere
con il passato, né offre ai cittadini stimoli a rivendicare libertà civili e diritti politici. Allo stesso modo
88
B. BUZAN, O. WÆVER, Regions and Powers, cit., pp. 404-406.
R. LA PORTA, F. LOPEZ DE SILANES, A. SHLEIFER, R. VISHNY, The Quality of Government, in “Journal of Law,
Economics, and Organization”, vol. 15, n. 4, 1999, pp. 222–279; J.S. KOPSTEIN, D.A. REILLY, Geographic Diffusion and
the Transformation of the Postcommunist World, in “World Politics”, vol. 53, n. 1, 2000, pp. 1-37; G. POP-ELECHES,
Historical Legacies…, cit., p. 910.
90
S.P. HUNTINGTON, The Third Wave, cit., p. 100; L.K. JOHNSON, Promoting Democracy by Exemple, in S.W. HOOK,
Democratic Peace in Theory and Practice, Kent, Kent State University Press, 2010.
89
21
anche la presenza di una elevata instabilità in un contesto regionale – segnalata dalla presenza di
guerra, terrorismo e attori “revisionisti” dello status quo - solitamente rende improbabile il
consolidamento della democrazia91. Le transizioni in Armenia, Azerbaigian e Georgia, dunque, vanno
messe in relazione con gli attori esterni con cui hanno intrattenuto rapporti più “densi” e con il loro
contesto macro-regionale92. Gli Stati che si affacciano direttamente sul Caucaso – Russia, Turchia e
Iran - tra il 1991 e il 2014 hanno registrato un forte stallo o un deterioramento della loro condizione
democratica93. Il concomitante miglioramento delle loro performance in campo economico e il loro
rilancio nella dimensione internazionale ne ha permesso, tuttavia, l’affermazione come modelli
politici alternativi alla democrazia rappresentativa. Questa condizione non era stata considerata
verosimile nei primi anni ‘90, in corrispondenza del rilancio degli studi sulle transizioni94. Per i Paesi
caucasici è sempre la Russia ad aver costituito, più degli altri casi, la principale fonte di emulazione.
Nei primi quindici anni della sua storia, sul piano interno la Federazione ha conosciuto lo sviluppo di
alcune condizioni tipiche delle democrazie “elettorali”, come una sufficiente partecipazione politica
e l’organizzazione ciclica di elezioni, ma i fragili vincoli istituzionali al potere esecutivo, la scarsa
indipendenza dei media e la sostanziale assenza di alternanza hanno progressivamente svuotato di
significato i primi aspetti, determinando un lento deterioramento del regime e l’affermazione della
cosiddetta “democrazia sovrana”. Questo modello, che ha preso forma parallelamente al rilancio
internazionale della Russia come grande potenza, in Armenia, Azerbaigian e Georgia può essere
apparso particolarmente efficiente95 per affrontare le sfide poste da un contesto regionale più insidioso
di quello con cui si confrontavano le democrazie rappresentative occidentali e i loro emuli in Europa
orientale96. È verosimile, infine, che la concentrazione del potere e le misure restrittive della libertà
adottate in uno dei tre Paesi della sub-regione, soprattutto in concomitanza di momenti
particolarmente critici, abbiano indotto anche gli altri ad un’emulazione di queste scelte determinando
un rapporto di causazione sfavorevole alla democrazia97.
Z. IQBAL, H. STARR, Bad Neighbors: Failed States and their Consequences, in “Conflict Management and Peace
Science”, vol. 15, n. 4, pp. 315-331.
92
S. LEVITSKY, L.A. WAY, Rethinking the International Dimension of Regime Change, cit., pp. 387-388.
93
Country Status and Ratings Overview, 1973-2014, Freedom House, 2014.
94
F. FUKUYAMA The End of History?, in “The National Interest”, XVI, 1989, 3-18; ID., The End of History and the Last
Man, New York, Free Press, 1992; C. KRAUTHAMMER, The Unipolar Moment, in “Foreign affairs”, vol. 70, n. 1, 1991,
pp. 23-33
95
Una testimonianza di emulazione del modello politico russo è riscontrabile nelle tre costituzioni del 1995, che appaiono
a più riprese ispirate a quella adottata nella Federazione Russa con il referendum del dicembre 1993.
96
Tra i principali focolai di tensione della macro-regione in cui gli Stati caucasici sono ricompresi: guerre civili e
terrorismo nel Distretto Federale del Caucaso settentrionale della Russia, disordini e rivendicazione indipendentiste nel
Kurdistan, guerra civile internazionalizzata e terrorismo in Iraq e Siria.
97
Si confrontino i simultanei cali dello score democratico nel 1993-1994 in Azerbaigian e Georgia e quello
immediatamente successivo alla guerra dell’Armenia, nonché il secondo calo intervenuto nei tre Paesi tra il 2000 e il 2004
(fig. 1).
91
22
5.2 Gli attori
Gli attori che sembrano aver influito maggiormente sui processi di transizione nel Caucaso
meridionale sono la Russia, ovvero la grande potenza della regione, e gli Stati Uniti, ovvero la
superpotenza mondiale esterna alla sub-regione ma con interessi diffusi e capacità di proiezione di
potenza nell’area. L’Unione Europea, a differenza di quanto avvenuto con gli Stati dell’Europa
orientale, sembra aver svolto una funzione solo complementare a quella americana.
L’interesse reale e le azioni della Russia rispetto ai cambi di regime nei Paesi caucasici
contraddicono la sua linea ufficiale rispetto all’assetto interno dei suoi partner. Mosca, infatti, ha
sempre tenuto un approccio ufficialmente “realista” alla questione, ostentando l’attitudine a tenere
separate la sfera politica domestica dalle scelte internazionali di uno Stato. Al disinteresse pubblico
per le questioni di politica interna, tuttavia, ha fatto da contraltare una realtà diversa (come
evidenziato anche dall’atteggiamento tenuto rispetto alla crisi in Ucraina). La possibilità della
diffusione della democrazia occidentale nello Spazio post-sovietico è stata percepita come un primo
passo sulla strada dell’estensione delle alleanze militari occidentali e, quindi, come minaccia per la
sicurezza nazionale russa. La “sindrome dell’accerchiamento”, che sin dall’epoca zarista orienta la
politica estera del Cremlino, è stata così alimentata sia dalla possibilità che l’affermazione di prassi e
istituzioni democratiche realmente funzionanti aprano gli spazi per l’instaurazione di un governo antirusso nel near abroad di Mosca, sia dalla percezione del collegamento tra il consolidamento della
democrazia nella dimensione politica interna di un Paese e il suo allineamento internazionale con gli
Stati Uniti (e, di conseguenza, il suo disallineamento dalle posizioni della Russia)98. Nel Caucaso
meridionale, quindi, la Russia non ha operato affinché prendesse forma un particolare tipo di regime,
ma – come dimostrato dalla sua posizione rispetto alla “Rivoluzione delle Rose” in Georgia - ha
cercato di impedire un esito pienamente democratico delle transizioni.
La politica del divide et impera sembra essere stata l’altro pilastro delle scelte di Mosca nel
Caucaso meridionale. Nonostante abbia sostenuto la posizione armena nella guerra del NagornoKarabakh, ha comunque tenuto buoni rapporti con l’Azerbaigian garantendogli forniture militari
dall’arsenale sovietico ancora presente sul suo territorio99. Sfruttando il successivo stallo dei rapporti
tra Erevan e Baku, la Russia ha cercato di imporsi nel ruolo di peace-enforcer e mediatore, con lo
scopo di mantenere un contingente nel Caucaso meridionale e incrementarvi il proprio peso
98
È oggetto di dibattito se è la condizione di alleati degli Stati Uniti - e dei Paesi occidentali in generale - ad aumentare
la possibilità che uno Stato adotti un assetto democratico al suo interno o se è la sua opzione per la democrazia a
determinare in un secondo momento la scelta di un’alleanza con l’Occidente.
99
T. DE WAAL, Black Garden, cit., p. 198.
23
politico100. Una dinamica simile ha preso forma nelle crisi di Abcasia e Ossezia del Sud. Qui il
Cremlino ha sostenuto l’indipendenza delle Repubbliche, assicurandosi le basi per la penetrazione
militare e d’intelligence sul territorio georgiano. Ha accettato, tuttavia, di ritirare il suo appoggio alle
rivendicazioni indipendentiste, soprattutto a quelle degli osseti del sud, in cambio del parziale
riavvicinamento della Georgia alla Russia con il suo ingresso nella CSI nel 1993 e l’accettazione della
presenza di truppe russe nei territori separatisti. La politica russa nella sub-regione, dunque, è stata
volta a creare una condizione di no war, no peace, considerata funzionale al ripristino della sua zona
di influenza sul cosiddetto “estero vicino” e ad arginarvi la diffusione dei modelli occidentali,
considerati alla stregua di un termometro dell’influenza degli Stati Uniti e dell’UE nell’area101. Una
democrazia realmente funzionante, infatti, ha bisogno di un contesto di stabilità politica per
attecchire. Se l’effetto intenzionale di questa strategia era il rafforzamento della spirale di instabilità
che ha impedito un pieno consolidamento della sovranità nei Paesi dell’area, quello indiretto è stato
l’incentivazione delle condizioni ostative alla democrazia dopo la cessazione delle ostilità,
influenzando negativamente soprattutto l’Armenia e l’Azerbaigian. Nel 2008, tuttavia, sebbene la
Seconda guerra russo-georgiana abbia inizialmente determinato un deterioramento della democrazia
in Georgia, in seguito ha creato la cornice per il suo nuovo miglioramento con l’uscita del Paese dalla
CSI
nel 2009 e l’accordo di Associazione alla
UE
nel 2014, siglato insieme ai patti relativi alla
riduzione dei vincoli commerciali e alla promozione della democrazia (fig. 1).
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, dal canto loro, non hanno rivolto politiche di
“condizionalità”102 nei confronti degli Stati post-sovietici come avvenuto con quelli dell’Europa
orientale, la cui adesione alla NATO e all’UE è stata fatta in buona parte dipendere dall’adeguamento
alle pratiche democratiche. Fatta eccezione dei Paesi baltici, la rinuncia è stata dettata sia dall’intesa
verbale raggiunta al summit di Malta del dicembre 1989 dai presidenti George H.W. Bush e Mikhail
Gorbachev, che dall’inopportunità di estendere la competenza di queste organizzazioni a territori in
buona parte instabili, economicamente al collasso e considerati dalla Russia come parte integrante
del proprio spazio geopolitico.
Nei confronti dei Paesi post-sovietici, tuttavia, è stato fatto ricorso ad una serie di forme di
“socializzazione”103, come l’assistenza economica e la progressiva integrazione in alleanze regionali.
L’obiettivo di medio periodo era la metabolizzazione e il consolidamento delle istituzioni
Sul territorio armeno, la Russia ha mantenuto la base militare di Gyumri, mentre l’Azerbaigian ha respinto la proposta
di truppe d’interposizione russe nelle aree di confine.
101
G. IOFFE, Global Studies: Russia and the Near Abroad, New York, McGraw-Hill, 2010.
102
P. SCHMITTER, I. BOUWER, Promozione e protezione della democrazia: Il concetto, le ricerche, la valutazione, in
“Rivista Italiana di Scienza Politica”, vol. 30, n. 2, 2000, pp. 187-226; L. MORLINO, Democrazia e mutamenti: Attori,
strutture, processi, Roma, LUISS University Press, 2014, pp. 147-149.
103
Ivi, pp. 145-146.
100
24
democratiche nelle nuove Repubbliche e l’intensificazione dei loro rapporti con l’Occidente e, nel
lungo, il loro ingresso nell’area d’influenza americana-occidentale. Dal 1992, con il Freedom Support
Act104 gli Stati Uniti hanno stanziato fondi per la promozione della democrazia nello Spazio postsovietico. Il Congresso, tuttavia, ha emendato il provvedimento sospendendo i finanziamenti nei
confronti dell’Azerbaigian fino alla risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh. In questa fase, di
conseguenza, Washington ha stabilito rapporti preferenziali con Erevan e Tbilisi.
La politica degli Stati Uniti ha subito un mutamento di rotta tra gli anni ‘90 e 2000, a causa
del consolidamento dell’alleanza informale tra Armenia, Russia e Iran, del rally dei prezzi del petrolio
e dell’inizio della global war on terrorism. Se Erevan si è avvicinata a Mosca, il posizionamento filooccidentale di Tbilisi è stato affiancato dal reintegro di Baku nel sistema di alleanze americano.
Insieme a Ucraina, Uzbekistan e Moldova, Azerbaigian e Georgia hanno partecipato alla creazione
dell’Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico GUUAM, il cui scopo era coordinare
le politiche dei Paesi filo-occidentali dello Spazio post-sovietico105. In sinergia con Washington,
Ankara e alcuni partner europei, inoltre, i due Paesi caucasici hanno sviluppato le pipeline BTC e BTE,
che trasportano petrolio e gas dal Mar Caspio al Mar Mediterraneo bypassando la Russia e
l’Armenia106. Infine, il loro contributo si è rivelato significativo anche sotto il profilo militare,
offrendo un supporto logistico determinante alla missione della NATO in Afghanistan.
Al cospetto delle mutate condizioni internazionali, tuttavia, l’Azerbaigian a differenza della
Georgia ha sviluppato un maggiore potere di ricatto nei confronti degli alleati, dovuto principalmente
alla sua partnership strategica nel settore energetico. Questa differenza di posizione è risultata
evidente quando nel 2003 Stati Uniti e l’UE hanno sostenuto la “Rivoluzione arancione” in Georgia,
che ha portato all’annullamento delle elezioni e alla deposizione del presidente Shevardnadze, mentre
nel 2005 hanno tenuto un atteggiamento freddo verso le proteste – ben più modeste – contro il risultato
delle elezioni parlamentari in Azerbaigian, privandole così di una cassa di risonanza imprescindibile
per ottenere qualsiasi forma di cambiamento politico.
Fig. 2. Le transizioni nella sub-regione del Caucaso meridionale
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Freedom in Russia and Emerging Eurasian Democracies and Open Markets Support Act.
Divenuta GUAM nel 2005 per l’uscita dell’Uzbekistan.
106
M. VALIGI, (a cura), Il Caspio. Sicurezza, conflitti e risorse energetiche, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 6-10; M.
VERDA, Politica a tutto gas: Sicurezza energetica europea e relazioni internazionali, Milano, Egea, 2011.
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25
Fonte: Figura a cura dell’Autore
Conclusioni
L’esito di un regime change dipende sempre da una serie di variabili molto ampia. Tra queste,
nondimeno, è possibile individuarne alcune che esercitano un’influenza decisiva, sebbene risulti
sempre difficile affermare un vero e proprio rapporto causale all’interno di un processo politico tanto
complesso. Sulle transizioni del Caucaso meridionale, per via dei numerosi legami che esistono tra i
suoi Paesi, tre variabili comuni – i) l’eredità, ii) la crisi della sovranità e iii) l’ambiente internazionale
- hanno ostacolato in maniera più evidente e più significativa di altre lo sviluppo della democrazia,
determinando un esito “ibrido” (Georgia), uno “semi-autoritario” (Armenia) e uno “autoritario”
(Azerbaigian) delle transizioni.
Le due prime variabili hanno circoscritto le possibilità di uno sviluppo democratico,
intervenendo soprattutto nella prima fase del processo di transizione:
i.
L’eredità del regime sovietico ha gravato sullo scenario politico in cui, all’indomani
dell’indipendenza, Armenia, Azerbaigian e Georgia si sono dotate delle prime istituzioni e
procedure democratiche. Se il deficit di un first try democratico e quello di una prima
esperienza di effettiva indipendenza nel periodo infrabellico ha determinato l’assenza di
modelli di riferimento e la tendenza a mutuare le istituzioni dell’esperienza sovietica, la
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struttura amministrativa dell’URSS ha fornito la cornice giuridica per le rivendicazioni
indipendentiste, mentre l’affermazione di nazionalismi esclusivi su base etnica ha ostacolato
l’estensione del pluralismo politico e determinato una situazione di guerra civile strisciante
(fig. 2).
ii.
La crisi della sovranità e le derive violente che ha assunto tra il 1991 e il 1995, riesplodendo
ciclicamente in seguito, è all’origine di una serie di condizioni che tendono a rallentare o a
provocare un’involuzione autoritaria nel corso di un processo di democratizzazione. Anzitutto
la presenza di leader carismatici che, essendo ritenuti gli artefici della salvezza della patria,
godono di un ampio margine di manovra politica. In secondo luogo l’affermazione di élite,
prive di una reale cultura democratica, provenienti dalla vecchia nomenklatura, dagli apparati
militari o espressione di realtà claniche. E ancora, il forte accentramento di potere nelle mani
dell’esecutivo, legittimato dalla necessità di ripristinare l’ordine destabilizzato dalle violenze
e dalla polarizzazione dello spettro politico. Infine, il fenomeno del rally ‘round the flag, che
appiattisce il dibattito pubblico sulla questione nazionale (fig. 2).
Queste due variabili, pur gravando negativamente sul processo di democratizzazione dell’area, non
sono sufficienti a spiegarne l’esito. Non è possibile sostenere l’ipotesi deterministica secondo cui, in
loro presenza, l’esito delle transizioni di Armenia, Azerbaigian e Georgia non poteva che essere
l’assenza parziale o totale di democrazia. Alcuni Stati post-comunisti dell’area balcanica hanno
registrato l’intervento delle stesse condizioni, ma il loro regime politico è riuscito ugualmente, anche
se con tempi più dilatati rispetto ad altri Stati dell’Europa orientale, a distinguersi per le buone
performance democratiche. Nella seconda fase del processo di transizione il perdurare dell’impasse
democratica, con differenti gradi di intensità nei tre Paesi, può essere in buona misura attribuito
all’influenza negativa dell’ambiente internazionale:
iii.
Le dinamiche internazionali hanno agito in senso sfavorevole alla democrazia, soprattutto
come conseguenza della densità dei rapporti tra i Paesi del Caucaso meridionale e la Russia.
Da un lato, lo shock del 1991 ha favorito un “contagio” del modello di transizione russo
nell’area. Dall’altro, il progressivo recupero di Mosca del rango di grande potenza ha
incentivato un effetto “emulazione” del suo regime tra gli Stati caucasici. Gli attori, dal canto
loro, non hanno contribuito – o hanno contribuito solo in parte - a mantenere la rotta
democratica delle transizioni. La politica russa ha seguito il principio del no war, no peace,
che ha determinato una condizione di instabilità contraria ad un’evoluzione democratica nei
tre Stati. Solo nei confronti dell’Armenia, con cui si è verificato un sostanziale allineamento
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politico, ha seguito un approccio tipicamente realista, che si è tradotto nell’indifferenza per la
forma del suo regime in cambio di un allineamento internazionale alle posizioni del Cremlino
e alla difesa del near abroad dagli interessi occidentali. Al contrario ha guardato con sospetto
e osteggiato i passi di avvicinamento compiuti dalla Georgia verso il modello democratico.
La dottrina statunitense del regime change, o dell’exporting democracy, invece, si è scontrata
con la realtà di una progressiva espansione dell’influenza di Mosca nel Caucaso. Il
progressivo allineamento dell’Armenia alla Russia ha reso vani i finanziamenti del Freedom
Support Act per la transizione nel Paese, che inizialmente erano corrisposti ad alcuni passi in
avanti sulla strada della democrazia. L’Azerbaigian, grazie al ruolo strategico che ha
progressivamente assunto tra lo Spazio post-sovietico e il Medio oriente, si è garantito una
sostanziale immunità dalle pressioni americane ed europee per il rilancio del processo di
democratizzazione. La migliore – anche se non sufficiente – performance democratica della
Georgia, viceversa, è legata al fatto che il Paese, pur non costituendo un target per le politiche
di condizionalità, è stato quello più “socializzato” ai modelli occidentali. Il suo minore potere
di ricatto geopolitico nei confronti degli alleati, inoltre, ha messo l’Occidente in condizione
di promuovere la “Rivoluzione delle rose” e, successivamente, di sostenere la necessità di
nuove riforme in senso democratico anche quando queste hanno comportato un indebolimento
del potere dei governi loro alleati (fig. 2).
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