Diaspora - WebTrekItalia

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Diaspora
Di Eugenio Tamburrini
«Luce!» urlò a squarciagola.
Il muro che stava studiando era all’interno di una profonda cengia che ospitava i
resti di una vetusta città di un misterioso popolo: i Dogon.
La cavità era posta sul fianco di una parete di roccia stratificata, sembrava essere
il prodotto del colpo di un’enorme mannaia tirato di sbieco eoni fa e l’interno
pullulava di costruzioni che arrivavano fino a toccare la volta.
I fabbricati oggetto della sua ricerca si trovavano nella parte più interna della
spelonca, erano fatti d’argilla e riportavano delle raffigurazioni parietali.
Si trattava di affreschi ai quali l’artista aveva aggiunto dei graffiti e delle figure in
rilievo.
Le decorazioni sembravano avere un filo narrativo complicato ma comune ed era
difficile metterle nella giusta frequenza.
Accostò ancor di più gli occhi alla parete e soffocò un’imprecazione: non riusciva
ancora a vedere bene.
«Luce!» sbraitò di nuovo voltandosi verso l’entrata, quando un pensiero
improvviso la colpì e le fece passare la rabbia, disegnando un sorriso sulle sue
labbra.
«Mi ricorda la situazione di un film di oltre duecento anni fa, che ho visto in una
di quelle giornate pazze di full-immersion organizzate da Matunde ai tempi
dell’università.» pensò « Si intitolava “Il quinto elemento” se non erro.»
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Interruppe il lavoro lasciandosi trascinare dai ricordi: aveva passato giorni interi
al cinema, ufficialmente per studiare il ventesimo ed il ventunesimo secolo pre
diaspora, realmente perché scoprì di essere un’appassionata cinefila.
La luce del sole era lo strumento migliore per poter esaminare le pareti illustrate e
per farla arrivare fino all’interno vi era una serie di tre specchi orientati l’uno
verso l’altro, illuminati da un quarto, più grande e concavo, posto all’aria aperta.
La sua estesa superficie riflettente era puntata verso l’astro in modo che riflettesse
la luce concentrata direttamente sul primo della fila.
Ogni tanto qualcuno dei suoi portatori si sedeva in una posizione tale da coprire
con la sua ombra la superficie riflettente, oppure lo urtava vanificando la sua
funzione.
Sbuffò irritata, la sua mente era ritornata al presente, ma la situazione non era
cambiata.
«Allora!» gridò e pensò, ricordando come continuava il vecchio film «Ci manca
solo che arrivi una nave aliena per farmi arrabbiare di più.»
Fece un saltò all’indietro, infatti, come nel film, la stanza venne inondata da una
forte luce innaturale.
Lei si girò e vide un uomo di colore che stringeva tra le mani una grossa torcia
elettrica.
«Carabelli quante volte devo dirti che preferisco la luce del sole.»
Una smorfia di disappunto percorse il volto paffuto dell’uomo, di solito sempre
aperto al sorriso: lui odiava quando lei lo chiamava per cognome, e lei lo sapeva
benissimo.
«Mi dispiace principessa questo è tutto quello che riesco a darti.» disse con voce
lugubre.
Lei rimase interdetta e lui riprese, facendo tornare il buonumore sul suo volto
«Dottoressa Ranjita Padma Anusha Sarvodaya non posso fermare il sole, come
quel imperatore romano di cui mi hai raccontato.»
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«Oh, è già così tardi?» disse lei stupita «Va bene Thabo per oggi basta!»
sentenziò e uscì con lui.
Usciti all’aria aperta lasciò che il vento le accarezzasse i capelli e si godette il
fresco della sera; il suo volto ritornò sereno mostrando tutta la sua bellezza, dalla
pelle ambrata al naso lungo ma affusolato, agli occhi che formavano una
mandorla perfetta, impreziositi da profonde iridi scure.
Il sari che indossava le aderì addosso fasciandole strettamente le forme e Thabo si
massaggiò la pancia in un gesto inconscio: Ranjita aveva un fisico asciutto, forse
anche troppo magro e questo faceva sentiva a disagio l’uomo che tendeva a una
pinguedine fastidiosa.
«La mia pancia tira e molla.» la definiva lui, visti i continui sbalzi dovuti a
momenti di inteso sforzo fisico ad altri di rilassatezza.
I due discesero il sentiero disseminato di casupole di sabbia a base quadrata e
culminanti in un tetto conico di fascine.
Giunsero in un grande spiazzo ai piedi del costone di roccia, qui il vecchio
insediamento si dilatava in una serie di case addossate le une alle altre.
Il sito ricordava un po’ le ricostruzioni dei primi villaggi dell’umanità, quali
Obeid o Tell Brak, dove non esistevano vie e per entrare nelle abitazioni si
passava dai tetti.
Il capitano Carabelli aveva disposto l’accampamento ai confini dell’arcaica città,
al margine della boscaglia.
«Dottoressa Ranjita Padma Anusha Sarvodaya dove sta andando?» disse lui in
tono severo.
«A riversare il lavoro sul computer.»
Thabo scosse la testa ed indicò il centro dell’accampamento.
«Dai Thabo, ho delle cose importanti da controllare.»
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«Ranji, mi dispiace ma devo essere inflessibile: ho un impegno da mantenere!»
disse Thabo, riferendosi alla promessa, fatta ai genitori dell’archeologa, di
prendersi cura di lei.
Thabo sorrise ed aggiunse «So che sei a un punto importante e per questo ti
permetto di continuare dopo cena, ma adesso vai: ho fatto preparare il bagno.»
«Il bagno! Che suono meraviglioso ha questa parola, Thabo non se amarti od
odiarti.»
Thabo assunse un’aria di un gatto sornione che aveva appena divorato un topo e
lei subito gli disse «Frena i tuoi ormoni italiani dongiovanni, altrimenti dovrai
camminare con la coda tra le gambe per tutta la spedizione.»
«Come vuoi, ma non sai cosa ti perdi.» disse lui, voltandosi dall’altra parte con
l’aria offesa.
«Ecco: questa è una delle cose nella mia vita di cui desidero rimanere nella più
beata ignoranza.» rispose lei dirigendosi verso la tenda dove avevano posto la
plastovasca. Questo tipo di oggetto era stato studiato in funzione delle
esplorazioni su altri pianeti: infatti, per renderlo trasportabile, si appiattiva
diventando un foglio di plastica comodamente arrotolabile.
Ranjita iniziò a lavarsi piano, calibrando ogni gesto: per lei, di tradizione indù, il
bagno era quasi un rito sacro.
Finita la toilette, raggiunse velocemente gli altri intorno al fuoco per la cena e
dopo come spesso accadeva, lei e Thabo fecero due passi per digerire.
Il capitano, ovviamente, approfittava della compagnia di Ranjita durante la
camminata, ma il suo scopo principale era quello di controllare che tutto fosse a
posto: guardie ed allarmi.
«Sei sempre così attento, hai paura che ci possano assalire?»
«Qui nell’altopiano del Bandajagara, in pieno Mali siamo troppo vicino al confine
per i miei gusti: girano molti predoni.» indicò i sensori «Inoltre la tecnologia non
ci aiuta abbastanza da queste parti.»
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«Finora non ho avuto particolari problemi Thabo, non sei troppo apprensivo?»
«Meglio un apprensivo vivo che un tranquillo morto, e sai come morì
tranquillo?»
«Si …» disse, ma evitò di pronunciare la fine scurrile della frase, mettendosi la
mano davanti alla bocca in un gesto di vergogna.
«Esatto!» disse lui sorridendo e poi, serio «Comunque i tuoi strumenti sono stati
schermati con molta cura, i miei un po’ di meno e risentono abbastanza degli
effetti del “Broken Doors”.»
«Per non parlare delle radiazioni residue provenienti dal Magreb, lascito delle
Guerre Religiose.» aggiunse lei.
«No, quelle non sono un problema; faccio dei controlli tre volte al giorno e finora
siamo ben sotto i limiti di tolleranza; se i venti stagionali continuano a
comportarsi secondo il loro normale ciclo, non dovremmo aver problemi.»
«Thabo per certi versi sei una sicurezza» disse lei e poi scostando il braccio
dell’uomo dal suo fianco «Per altri invece dovrebbero tagliarti le manine.»
Lui sorrise senza prendersela e finirono il giro soffermandosi nel punto
panoramico dell’altopiano.
«Non ti manca mai il Sudafrica Ranji?» disse lui guardando lontano verso la
vallata.
«Ed a te il Kenya?»
«Sempre, ogni volta che mi allontano, specialmente il parco nazionale di Tasvo
Ovest vicino a casa mia, alla periferia Mombasa.»
Ranjita sorrise rispose a sua volta «E’ il terzo viaggio che faccio ed il Tafelberg,
le Montagne della Tavola, che sovrastano Città del Capo mi mancano moltissimo.
Specialmente quando la cima viene nascosta da una candida nuvola, che
chiamiamo “tovaglia” giocando con il nome della montagna.» sorrise addolcita
dai ricordi e continuò « Ho nostalgia anche delle camminate con i miei genitori
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sul Otter Hiking Trail nel parco di Tsitsikamma, ma devo abituarmi a posti meno
civili oramai.»
«Delle volte penso che le cicatrici delle Guerre Religiose non si rimargineranno
mai.» disse lei triste «Come gli effetti del Broken Door negli Stati Uniti, dovresti
vedere come si sono trasformate quelle meravigliose città di cemento e vetro:
tutta quella povertà, quella criminalità…»
«Siamo stati fortunati a nascere in Africa, specialmente nei due stati fondatori
della Federazione Africana.»
Lei annuì. Rimasero in silenzio ad osservare il panorama poi ritornarono al
campo, Ranjita fece un breve cenno di saluto e s’infilò nella sua tenda.
L’archeologa accese il computer e mentre questi si avviava prese con molta cura
un disco da un bauletto, lo sfiorò con le dita e l’emozione ritornò come sempre.
Si trattava di uno degli ultimi modelli costruiti, centoottanta gigabyt di memoria e
più di duecento anni.
Il Dvd riscrivibile le era stato donato dalla commissione di laurea: li sopra
avrebbe scritto praticamente tutta la storia accademica della sua vita.
Il supporto mnemonico non era all’altezza dei cubi a memoria laser stratificata,
praticamente incorruttibili e riscrivibili in eterno, ma era un grande onore
possederne uno.
«Chissà forse tra diversi anni ritorneranno di uso comune, ho letto che dalle parti
di Nairobi stanno provando a realizzare dei Cd-Room, ma per adesso…» si disse
mentre lo poneva nel masterizzatore come se fosse di cristallo.
Ranjita prese dal baule grande anche diversi libri, da sempre strumento principe
degli studiosi, ed iniziò una consultazione incrociata con i suoi appunti. Più
andava avanti la ricerca maggiormente cresceva in lei la gioia.
«E’ proprio come avevo pensato, non ci sono dubbi.» si disse «Devo svegliare
Thabo.»
Ranjita uscì fuori, si diresse verso il riparo del capitano e vi si fiondò dentro.
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«Thabo, su svegliati.» disse lei dando un calcetto ad un fagotto arrotolato sul
pavimento.
Thabo si voltò, aprì la cerniera del sacco a pelo e disse «Ranji quanta impazienza
mia cara, sono pronto a soddisfare ogni tuo desiderio.»
Lei raccolse i pantaloni dell’uomo e glieli tirò addosso dicendo «Bravo rivestiti,
devo trasmettere dei dati.»
«Adesso? Domani mattina no?» disse lui dando un’occhiata all’orologio
automatico che portava la polso.
«Dai è importante, devo chiedere l’autorizzazione a portare la spedizione in un
altro luogo. Qui ho praticamente finito, ma come avevo immaginato le iscrizioni
fanno riferimento a un altro grande villaggio: ho scoperto che si trova nel centro
Africa. In Uganda per la precisione, sulle Montagne della Luna.»
«Va bene, ma non essere impaziente, lo sai che quando avrai finito vorranno che
torni a discutere i risultati di questa ricerca prima di intraprendere un’altra
spedizione.»
«Il sito è quasi sulla strada del ritorno e in casi eccezionali permettono di
continuare gli studi in un altro luogo, penso che il nostro sia uno di questi.»
Thabo scoprì dal riparo la parabola, più o meno con lo stesso rispetto che aveva
avuto Ranjita nel maneggiare il dischetto, e trasmisero la richiesta.
La sera successiva, ricevettero la risposta: la commissione diede ragione a
Ranjita.
La spedizione aveva una settimana di tempo per finire i rilevamenti ed
organizzare il trasferimento.
I giorni servivano anche al comitato accademico per approntare una seconda
spedizione di sopporto logistico, con approvvigionamenti, rinforzi e cambi di
personale.
Le due carovane si sarebbero dovute riunire in Ciad, vicino a Bokoro.
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L’archeologa prese di buon grado la decisione, nonostante fosse impaziente di
partire
per
il
nuovo
sito,
e
trascorse
i
giorni
seguenti
lavorando
coscienziosamente.
La sera precedente alla partenza, la dottoressa dovette prepararsi una tisana per
poter addormentarsi: proprio come ai tempi degli esami universitari! Un attimo
prima di cedere al sonno constatò con piacere che l’antico rimedio funzionava
ancora.
Ranjita si alzò di soprassalto: improvvisamente la notte si riempì di rumori
svegliandola violentemente.
«Sono spari questi!» disse con voce colma di paura, mettendosi addosso la prima
cosa che trovò.
Fece appena in tempo a vestirsi, quando Thabo irruppe nella tenda prendendola
per mano e trascinandola fuori.
«Presto andiamo alla caverna, cerchiamo di raggiungere l’uscita secondaria,
quella che hai scoperto due settimane fa, Odiambo e Zebenjo ci copriranno.» lei
guardò i due soldati e Thabo aggiunse «Non ti preoccupare i miei due sergenti
sono dannatamente in gamba, non si faranno ammazzare.»
Si precipitarono verso la stretta strada in salita, giunti a metà, rapidamente, i due
compagni di Thabo si nascosero tra le rovine degli edifici.
Raggiunta la grotta ripresero fiato e Ranjita chiese «Ma chi sono? Predoni arabi?»
«No, sono dei professionisti, ben addestrati ed equipaggiati, se avessi seguito il
protocollo ci avrebbero colto completamente di sorpresa.»
«Cosa intendi?» chiese lei
«Siamo ancora nel territorio della Federazione Africana, anche se in luogo
semideserto e di confine, le procedure sono meno rigide. Infatti è previsto che per
sveltire le operazioni di partenza vengano disattivati metà dei congegni di
rilevazione: sembra che lo abbiano studiato apposta questo attacco.»
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Delle rapide raffiche squarciarono di nuovo la quiete della notte, subito sotto la
loro posizione: Odiambo e Zebenjo erano entrati in azione.
«Presto, non devono trovarci, una volta al sicuro potremmo attivare il tuo Irs.»
«Hai visto le difficoltà che abbiamo avuto con i satelliti in questi giorni, non è
detto che il segnale arrivi subito.» disse lei preoccupata
«Dovremo dare diverse ore ai soccorsi per raggiungerci, siamo in mezzo al nulla:
diventa imperativo trovare un posto dove nasconderci e attendere.»
«La caverna del presunto sito Beta.» disse Ranjita riferendosi a un antro dove
aveva ipotizzato fosse ubicato il villaggio al quale facevano riferimento le pitture,
prima di decifrarle correttamente.
«Si, hai ragione è l’ideale non ci troveranno mai.» disse Thabo e le fece segno di
andare.
Corsero fino ad un edificio cilindrico addossato alla parete rocciosa, vi entrarono
e s’infilarono nello stretto passaggio sul fondo.
Il pertugio conduceva ad una specie di vialetto di pietra addossato al costone e
sospeso sopra un dirupo.
Ranjita guardò il sottile lembo di pietra che la sosteneva sopra il baratro e maledì
mentalmente la sua idea; appoggiò la schiena alla parete e la percorse con estrema
cautela.
Una volta attraversata la stradina a strapiombo sul burrone presero fiato un
secondo, per regolarizzare il battito cardiaco e cacciarlo via dalla loro gola, poi
ripresero a muoversi velocemente verso il sito Beta.
Ranjita urlò, Thabo l’aveva spinta brutalmente a terra; cadendo si accorse che
qualcosa di veloce e silenzioso l’aveva sfiorata.
Thabo gettandola via si era lanciato a sua volta verso il terreno ed, estraendo la
pistola, sparò diverse volte a un punto nel buio, Ranjita riuscì soltanto a vedere
un’ombra cadere senza un gemito.
«Di qua.» le fece Thabo lanciandosi verso l’alto delle rocce.
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La loro corsa fu interrotta una decina di metri dopo, quando due figure saltarono
giù da un costone cercando di piombare addosso a Thabo.
L’uomo riuscì ad evitarne uno gettandolo rovinosamente nel dirupo, il secondo,
però, prese in pieno Thabo scaraventandolo per terra.
Il keniano reagì prontamente facendo una capriola e tirando due calci;
l’avversario riuscì a parare i colpi ma venne spinto via dando tempo a Thabo di
respirare e mettersi in piedi.
L’uomo di colore praticava la capoeira per farsi bello con le ragazze, ma per le
colluttazioni spicce preferiva la boxe: adesso che si trovava di fronte il suo
nemico lo affrontò a testa bassa.
Il suo antagonista non era certo un novellino e rispose usando delle tecniche di
difesa orientali, solo la grande resistenza di Thabo gli permise di non soccombere,
infatti fu in grado di resistere alle botte ricevute, a differenza del suo nemico.
Osservò meglio l’aggressore, era un uomo di bassa statura, in mimetica e con il
viso coperto con un passamontagna.
Ranjita dopo il primo attimo di stupore non rimase con le mani in mano e si
guardò intorno, individuò ciò che stava cercando e si tuffò a prenderlo. Nello
stesso momento in cui Thabo mise KO il suo avversario la dottoressa si alzava
brandendo, trionfante, l’arma dell’amico.
Thabo, per quanto pesto e lievemente malfermo sulle gambe, le tributò un sorriso
e le fece segno di riprendere a correre; un secondo più tardi il sorriso gli si gelò
sul viso in una smorfia di dolore, si portò una mano sulla spalla e crollò.
Ranjita si voltò di scatto: altre due persone in mimetica arrivavano dal sentiero
che avevano percorso. Esplose un paio di colpi nella loro direzione prima di
sentire un dolore gelido alla coscia sinistra; vide un oggetto affusolato con una
piuma sulla parte terminale poi tutto si oscurò.
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Ranjita riprese lentamente conoscenza, aveva un sapore acre e spiacevole in
bocca, ogni parte del corpo le doleva.
Si rese conto che erano in movimento e per questo si sentiva sballottata qua e là.
Provò a rialzarsi ma scoprì che era trattenuta da qualcosa.
«Rilassati, siamo legati.» disse la voce di Thabo alla sua sinistra.
Ranjita lentamente stava prendendo contatto con la realtà: era legata al sedile di
un automezzo con delle manette alle mani ed ai piedi, stavano percorrendo un
sentiero a tutta velocità ed era ancora notte.
Emise un sonoro lamento.
«Siamo stati anestetizzati, questo è un bene: vuol dire che ci vogliono vivi! Non
so il perché, però. Ho fatto qualche domanda a questi qui davanti, ma ho ottenuto
solo di essere zittito in modo brutale.» disse Thabo.
«Silenzio!» disse una voce dietro a loro con accento strano; per meglio ribadire il
concetto un uomo si sporse per dargli un ceffone sulla nuca.
Erano seduti sui sedili centrali in un grande fuoristrada a sette posti. Alla guida si
trovavano due figuri in mimetica e passamontagna, altri due erano accomodati
dietro di loro.
Thabo le fece un cenno che lei riuscì ad intuire nell’oscurità, con calma appoggiò
la testa sulla spalla dell’uomo, come se volesse dormire, lui mise la sua guancia
sulla nuca di lei, così da essere in grado di parlarsi sottovoce senza essere notati
dai guardiani.
«Sono sveglio da un paio d’ore, penso che ci abbiano tenuti narcotizzati tutto il
giorno, non riesco a capire minimamente chi siano, tra loro non hanno mai
parlato.» sussurrò Thabo.
«Hai almeno idea di dove stiamo andando?» chiese lei.
«Si, sono riuscito a vedere le stelle fuori dal finestrino, stiamo andando verso
Sud.»
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«Come verso Sud? Ci stiamo addentrando nel nostro territorio, è l’ultimo posto
dove avrei pensato che si dirigessero.»
«Anch’io, ma ho notato che hanno un navigatore satellitare funzionante, hanno
una meta ben precisa.»
Un colpo di ginocchia tirato alle spalle attraverso il sedile fece loro capire che era
meglio smettere di parlare.
Viaggiarono ancora per una decina di minuti, poi la carovana si fermò.
Il convoglio era composto da cinque mezzi identici che vennero schierati a
ventaglio.
I rapitori liberarono i piedi di Thabo e Ranjita e li portarono nel centro illuminato
dai fari.
Altre quattro persone erano già state buttate lì in malo modo, si trattava dei
soldati compagni di Thabo, uno dei quali gravemente ferito.
«E i portatori?» chiese preoccupata Ranjita.
«Erano inutili dottoressa Ranjita Padma Anusha
Sarvodaya.» disse uno dei
rapitori che si erano messi in cerchio intorno a loro.
L’uomo si avvicinò e si tolse il passamontagna rivelando dei tratti orientali,
estrasse una rivoltella dal fodero «Così come ora è inutile lui.» e finito di parlare
sparò senza pietà in pieno volto al soldato ferito.
«Nooo!» urlò Ranjita inorridita.
Thabo ed i suoi compagni, presi da furore cieco, si lanciarono contro gli aguzzini
ma furono fermati immediatamente: i loro carcerieri possedevano dei pungolatori
elettrici in grado di mettere in ginocchio dei tori e li usarono con grande perizia e
piacere.
«Dottoressa la sua collaborazione è ritenuta necessaria per il completamento della
mia missione; necessaria, ma non fondamentale. Come vede tendo a liberarmi di
ciò che ritengo un peso.» disse il capo del commando, assolutamente
imperturbabile.
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Ranjita prese un grande respiro, radunò a se ogni frammento di autocontrollo e
disse «Cosa posso fare per lei mister…?»
Un sorrisetto, praticamente in ghigno malefico di formò sulla faccia dell’uomo e
commentò «Ammirevole! Ammirevole dimostrazione di volontà, davvero
dottoressa, sono colpito. Per rispondere alla sua domanda le dico che può
chiamarmi mister Jiang.»
«Bene, cosa posso fare per il rinato Celeste Impero cinese.»
Jiang fece un cenno e due sgherri porsero un computer portatile a Ranjita,
l’uomo disse «Prego legga questo.»
«Non nega neanche di essere un ufficiale dell’esercito cinese, ciò è preoccupante,
vuol dire che non ha alcuna intenzione di lasciarci vivi una volta finito il nostro
compito: a questo punto non vedo perché mi convenga aiutarla?» disse cercando
di restare fredda.
«Perché nel frattempo vivrà.» disse Jiang con estrema logica e poi «Legga, dopo
sarò più preciso riguardo alla sua sorte, così potrà decidere.»
Ranjita fece come ordinatole e subito smise di scorrere le pagine elettroniche
dicendo, colma di stupore «Ma questa è la mia relazione, quella che ho spedito
all’università una settimana fa.»
«E’ esatto: conferma le sue deduzioni.»
«Si, ma…»
Lui la interruppe con un movimento imperioso della mano e disse «Devo scovare
quel sito, ho ragione di credere che lì vi sia qualcosa di fondamentale per il
Celeste Impero. Se troveremo quello che cerchiamo, ciò che abbiamo fatto qui
diverrà irrilevante ed irrilevanti saranno i testimoni. Se non vi sarà nulla, sarà
stato tutto inutile sarà inutile spargere altro sangue.»
«Va bene, lo troveremo.» disse Ranjita decisa.
«In tre giorni.» disse Jiang.
«In tre giorni!» ripeté Ranjita «Perché in tre giorni?»
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«Perché stamattina, dopo la vostra cattura, ho mandato, io stesso, il rapporto sulla
vostra regolare partenza ai vostri superiori. Per cui non hanno ragione di
preoccuparsi, ma quando non vi vedranno arrivare in orario all’appuntamento con
i rifornimenti vi cercheranno. Non trovandovi né sulla strada, né in Mali
scatteranno le ricerche su larga scala. Noi stiamo procedendo a tappe forzate ed
arriveremo in Uganda giusto tre giorni prima del vostro previsto rendez-vous.»
«In tre giorni! Ma è pazzesco: è rimasto nascosto per secoli, come può pretendere
che io lo trovi in una manciata di ore.»
«Sono sicuro che saprà trovare le giuste motivazioni.» disse il cinese
appoggiando la canna del revolver alla nuca di Thabo.
«Ma lei è una bestia, non dà alcun valore alla vita umana.» disse Ranjita
disperata.
«Al contrario, sa quanta gente muore di fame ogni giorno nel mio paese.»
«E questo la giustifica?»
«Questo mi motiva ed è più che sufficiente.»
«Già, voi siete abituati a non considerare la vita del singolo, ho visto le
testimonianze
sulle
stragi
perpetrate
dalla
Serena
Campagna
di
Riappacificazione.»
«E’ stata una guerra dolorosa ma necessaria.»
«Dolorosa? Da quella specie di medioevo nel quale eravate sprofondati è sorta la
dinastia dei vostri nuovi imperatori che ha riunito intorno a se tutta la Cina. O, per
meglio dire, la popolazione cinese che non è stata massacrata: i vostri primi tre
condottieri, con le loro campagne di sterminio programmato, hanno fatto apparire
Gengis Khan uno scolaretto.»
«Dottoressa, lei non può comprendere pienamente del dopo Broken Doors.
L’esplosione dei portali aveva causato decine di milioni di vittime ed annullato
quasi integralmente la possibilità di usare la tecnologia. Avevamo altrettante
decine di milioni di persone da curare e tutti gli altri da sfamare.»
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«Certo, tutto a causa dei numerosissimi portali che avevate realizzato in fretta e
furia a ridosso delle città. Costruiti con sistemi di sicurezza irrisori: nessuna altra
nazione ha avuto effetti devastanti come i vostri dal Broken Doors.» commentò
Ranjita, finendo con una smorfia.
«Dottoressa, come le ho già detto, lei non può capire: eravamo riusciti a
competere con le nazioni occidentali e cominciavamo a godere del benessere che
ci era sempre stato negato quando che ecco, nel duemilaventi, arrivare questa
nuova cosa: tutto ad un tratto la possibilità di accedere a nuovi mondi da
sfruttare.» fremette di rabbia «Capisce, spazio, nuovi materiali, nuove specie
animali e vegetali, risorse praticamente infinite: non potevamo starne fuori.»
«Si ed avete fatto come al solito: vi siete buttati a capofitto senza pensare alle
conseguenze ed ignorando ogni buon senso; neanche gli stati arabi o il Sud
America hanno usato la nuova tecnologia così a cuor leggero come avete fatto
voi.»
«Lei non ha neanche idea dell’influenza che avevano gli stati chiamati occidentali
allora, se non avessimo fatto così ci avrebbero schiacciati.»
«Non ho idea? Mentre eravate intenti ad ammazzarvi tra di voi» marcò il “voi”
«Noi costruivamo un unione africana pacifica.» lei lo guardò torvo «E sa quando
ci siamo riusciti? Quando gli stati occidentali si sono infilati nelle Guerre
Religiose con gli stati arabi, scatenate dalla Guerra della Fame, scoppiata tra India
e Pakistan.» fece un mezzo sorriso di disprezzo «Chissà come mai, liberi dal loro
controllo, in meno di vent’anni siamo riusciti ad appianare la maggior parte delle
nostre divergenze interne. Lo ammetto persistono ancora degli antichi odi tribali
in Ruanda od in Somalia, ma sono solo un fenomeno marginale.»
Jiang fece un gesto irritato e Ranjita sentì scoppiare il mondo: si trovò in
ginocchio con ogni terminazione nervosa in fiamme ed a lottare per poter
respirare.
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«Basta parlare di storia o di politica: il tempo è poco bisogna rimettersi in
marcia.» disse il cinese rimettendo a posto il pungolatore elettrico e dando ordine
di far caricare i superstiti sulle auto.
I giorni necessari al trasferimento passarono in un baleno, Ranjita non sapeva se
quello fosse effetto della tensione o della stanchezza per il viaggio ma passava
quasi tutto il tempo in un costante stato di dormiveglia.
La sera prima dell’arrivo, dopo aver oltrepassato il fiume Congo, Thabo le si
avvicinò e disse «Come stai Ranjita?»
«Tutto sommato bene, mi si stanno schiarendo un po’ le idee, riesco ad
allontanare la sonnolenza che mi ha preso in questi giorni.»
«Ci drogavano Ranji, me ne sono accorto dall’odore del cibo, un sedativo leggero
ma molto efficiente. Sto cercando di non assumerlo, ma ci osservano
attentamente mentre mangiamo e i miei riflessi sono intorpiditi, non sempre
riesco ad ingannarli e sono costretto ad ingoiare almeno qualche boccone.»
«Adesso non mi narcotizzano più, ovvio: siamo vicini alla meta e mi vogliono
ben sveglia per lavorare.»
«Esatto, ma di noi soldati a loro non importa nulla per cui ci tengono in questo
stato.»
«Adesso sono lucida Thabo, cercherò di distrarli così potrai ritornare pienamente
in te.»
La sera stessa fecero come d’accordo e Ranjita riuscì a sottrarre parte del suo cibo
non narcotizzato per darlo a Thabo, in modo che potesse sostenersi.
«Da qui comanda lei: dove ci dirigiamo?» disse Jiang.
«Verso il complesso del Ruwenzori in una valle a Sud-Est della cima
Margherita.»
«Sarà fatto, arriveremo in serata, le consiglio di studiare i suoi appunti,
dopodomani mattina inizieremo le ricerche ed inizieranno i suoi tre giorni.»
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Ranjita avrebbe voluto ribattere che l’avrebbe fatto anche per tutto il resto del
viaggio se non l’avessero intontita con le droghe, ma questo li avrebbe resi
sospettosi e riuscì a trattenersi appena in tempo, proprio con la risposta pronta
sulla punta della lingua.
Trovare la vallata raffigurata nella cavità in Mali fu relativamente semplice, ma
assai più difficoltoso risultò individuare l’insediamento.
Il primo giorno passò senza raggiungere risultati di sorta, il versante della
montagna esplorato non recava alcun segno di un insediamento umano.
«Avevo intenzione di domandartelo durante il trasferimento, ma gli avvenimenti
hanno preso tutta un’altra piega.» le sussurrò Thabo la sera, quando riuscirono ad
avvicinarsi.
«Domandarmi cosa?» disse lei.
«Cosa ci fa un insediamento Dogon così a Sud?»
«Si pensava che vivessero sull’altipiano del Bandjagara per sfuggire alle spinte
espansionistiche dei grandi e potenti imperi medievali, nati sulle sponde del Niger
intorno al 1000 dopo Cristo.» storse la bocca «Posso fare due ipotesi, la prima che
in realtà i Dogon siano originari di questa regione, la seconda che un altro gruppo
migrò verso Sud e non verso Est mantenendo sporadici contatti con il nucleo
principale.»
«Pensi di saper ritrovare il villaggio descritto nelle pitture, qui l’ambiente è
completamente diverso, ti mancheranno i riferimenti.»
«Infatti, conto…» Ranjita si fermò all’improvviso, la loro conversazione stava
dando nell’occhio e smisero subito.
Per tutto il resto della serata non riuscirono ad avvicinarsi senza essere osservati
per cui decisero di andare a riposare e continuare la conversazione in tempi più
felici.
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Il secondo giorno passò senza sostanziali progressi, esplorarono diverse vallate
laterali, ma non trovarono nessuna cengia o grotta od apertura di qualche genere.
Ranjita controllò alcuni riferimenti geografici che erano dipinti sulle case in Mali
ed era sicura: la valle era questa.
Il giorno terminò e Ranjita finì di cenare velocemente per andare a consultare per
l’ennesima volta i suoi testi.
La dottoressa rimase china sui libri per un paio d’ore prima che Jiang le si
avvicinasse.
Vedendolo arrivare alzò appena la testa e disse con tono scocciato «Jiang, lo so il
mio tempo è quasi finito, ma non mi tormenti: sono già molto stanca, troppo
stanca.»
Il cinese fece un sorriso sardonico e disse «Infatti io desidero solo motivarla.»
Alle sue parole un altro dei militari prigionieri venne gettato ai suoi piedi e
brutalmente giustiziato con una breve raffica di una mitraglietta.
«Nooo, maledetto bastardo figlio di puttana!» urlò saltando in piedi e cercò di
cavargli gli occhi, ma venne prontamente fermata dagli sgherri dell’orientale.
«Perfetto, come vede le sono già tornate le energie.» commentò e si allontanò.
Ranjita rimase raggomitolata ai piedi del militare per un tempo indefinito poi
raccolse tutte le sue forze e, lentamente, si alzò e riprese a studiare.
Passata un’altra mezz’ora smise di scatto di studiare ed iniziò a guardarsi intorno
stranita, poi si infilò nel sacco a pelo.
L’archeologa non riusciva a prendere sonno e continuava a rigirasi nel giaciglio,
quando avvertì un tonfo soffocato; si alzò sui gomiti per vedere cosa succedeva e
vide una figura avvicinarsi nel buio.
L’uomo le fu addosso in una baleno e prima che potesse emettere alcun suono lui
le coprì la bocca con la mano e disse «Ranji sono Thabo.»
«Alzati andiamo via.» continuò lui porgendole velocemente le scarpe, lei le infilò
e lo seguì.
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«Ma le guardie?» sussurrò lei.
Lui le fece segno di fare silenzio e di seguirlo, appena si furono allontanati di
diverse centinaia di metri dal perimetro del campo dei nemici rispose «Ci ho
pensato io ed ho recuperato questo.» disse lei e le mostrò la sua cavigliera.
«L’Irs, il localizzatore satellitare.» disse lei al colmo della felicità.
«Lo ho già attivato adesso cerchiamo di nasconderci.»
«I tuoi due compagni?»
«Ci tenevano in posti separati, io per fortuna ero vicino a te.»
«Ma non liberiamo anche loro: li vuoi abbandonare?» fece lei esterrefatta.
«Ranji loro sono ancora sotto l’effetto del sedativo, è impossibile portarli con noi,
riescono a fare si e no due passi.»
«Ma lasciarli là.»
«Sono soldati, sono pronti a morire. Quando si accorgeranno della nostra assenza,
comunque, avranno il loro bel da fare nel cercarci, piuttosto che infierire su di
loro.» ed aggiunse in tono mesto «Almeno spero.»
Ranjita soppesò la situazione e disse «Si, inoltre credo che Jiang se non ci
rintraccerà subito li userà per ricattarci e farci uscire allo scoperto.»
«E’ quello che spero, così i rinforzi avranno il tempo di intervenire.»
Ranjita prese la sua cavigliera e la accarezzò, sua madre era un diplomatico di
una certa importanza ed era riuscita a farle avere un localizzatore satellitare
nascosto in un semplice ornamento di metallo, non appetibile ad eventuali
predoni.
Aver messo in funzione l’Irs voleva dire che avevano immediato bisogno di
aiuto. In territorio ugandese erano sufficientemente lontani dagli effetti delle
esplosioni dei portali degli arabi; adesso era una questione di poche ore.
«Ho un’idea su dove potremmo nasconderci.» disse Ranjita e poi aggiunse «E
spero che vada meglio dell’altra volta.»
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«Spara, l’altra volta avevano i tuoi appunti e sapevano dell’esistenza del sito
beta, stavolta saremo avvantaggiati.»
«Sul costone qui, vicino a quelle rocce granitiche ci dovrebbe essere l’entrata di
una grotta. Il significato di “piccolo” che ho interpretato credo sia relativo
all’ingresso e non alle dimensioni dell’insediamento.» ragionò un secondo
«Infatti il segno si può tradurre anche con “stretto”, infatti “piccolo” non mi
tornava.»
«Cioè?»
«Non era logico che venisse rappresentato con quella importanza un insediamento
minore, le scritte volevano dire che a differenza degli altri sull’altopiano del
Bandjagara questo è ubicato in una grotta con un ingresso angusto.»
Arrivarono sul luogo alle prime luci dell’alba ed in meno di mezz’ora trovarono
l’ingresso: furono decisamente fortunati, non solo vi era la caverna ma vi era
anche la città.
Ranjita spalancò la bocca estasiata, dopo un disagevole corridoio la cavità di
allargava in una vasta cavità illuminata da numerose spaccature nella volta che
proiettavano raggi di luce come in un cattedrale gotica.
Il raffronto con le grandi chiese del medioevo non si limitava all’effetto luce, qui
la volta era decisamente più alta di quelle del Mali e gli edifici circolari
sembravano delle enormi colonne.
Ranjita prese per mano Thabo e lo portò verso il fondo dove normalmente si
trovavano gli edifici istoriati e fu rapita dalla bellezza di quelli che trovò.
Le strutture erano tre o quattro volte più grandi ed i disegni erano realizzati tutti
con monumentali figure di terracotta applicate al muro e dipinte con colori
sgargianti.
Ranjita iniziò studiarle muovendo gli occhi di qua e là, focalizzando questo e quel
simbolo, cercando di interpretarli.
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Si sentì trascinare a terra e mettere seduta su di un masso «Basta Ranji svuota la
mente, quando i nostri avranno fatto piazza pulita di quei bastardi avrai tutto il
tempo di studiare questi simboli.» le disse Thabo.
Esaurita parte della tensione Ranjita si sentì tremare tutta e Thabo l’aveva fatta
sedere appena prima che crollasse.
«Grazie Thabo, hai ragione.» disse appena si fu ripresa un po’ e poi chiese «A
proposito: come hai fatto a fuggire?»
«Ho notato che da quando abbiamo iniziato le ricerche hanno cambiato le mie
due guardie.» scosse la testa «Stranamente i miei nuovi secondini si sono
dimostrati molto meno attenti dei loro predecessori. Ho subito pensato ad un
trucco ma visto che il tempo stringeva ho tentato il tutto per tutto: stanotte sono
riuscito a procurami una lama e…» alzò le spalle «Cosa devo dirti sono bravo a
muovermi silenziosamente ed ad usare il coltello.»
«Pensi che sia la città che stanno cercando quei maledetti cinesi.» chiese Thabo
d’un tratto.
Ranjita indicò l’abitazione decorata di fronte a loro «Non lo so proprio, queste
storie fanno riferimento ai Nommo, gli otto antenati dei Dogon; arrivarono sulla
Terra dalle stelle portando un paniere contenente l'argilla necessaria alla
costruzione dei granai dei villaggi.»
«I Nommo?»
«Nommo, creature anfibie civilizzatrici provenienti da Sirio, secondo l’antica
cosmologia dei Dogon: non sai questa storia, nel ventesimo secolo aveva
suscitato un certo clamore?» disse Ranjita divertita.
«No, perché?»
«Nel 1950 vennero pubblicati gli studi degli antropologi francesi Marcel Griaule
e Germaine Dieterlen. Innanzitutto, i Dogon erano a conoscenza del fatto che
Sirio è un sistema multiplo, con una stella principale Sirio A, e due gregarie, Sirio
B e Sirio C. Sirio B era chiamata "Po Tolo"; "Tolo" significa stella mentre "Po" è
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il nome di un cereale che ha la caratteristica di essere pesante nonostante le
piccole dimensioni. Sirio B è, infatti, una nana bianca con una densità molto
elevata, i Dogon sostenevano che essa era composta da una sostanza "più pesante
di tutto il ferro della terra". Ogo Temmeli, lo sciamano con il quale gli
antropologi erano entrati in amicizia, rivelò anche che la seconda compagna di
Sirio A era chiamata "Emmeia" ed era quattro volte più leggera di "Po Tolo".»
«Sconcertante se non sbaglio è vero: Sirio è realmente un sistema ternario?» disse
Thabo.
«Esatto, verso il 2030, quando oramai la fase sperimentale della tecnologia dei
portali era terminata ed altri mondi iniziavano ad essere colonizzati, alcuni
studiosi proposero di esplorare proprio i pianeti orbitanti intorno al sistema
ternario di Sirio, ma non si riuscì ad agganciare il loro pozzo gravitazionale.»
«Strano, ma Sirio non è stato il solo sistema a cui successe, se ben ricordo?»
«Si, i portali sfruttavano i pozzi gravitazionali delle stelle e dei pianeti a loro
legate. Con la loro massa le stelle creano delle distorsioni nel tessuto dello spazio
producendo un effetto imbuto.» spiegò lei e chiuse le dita come a formare con
entrambe le mani due becchi di papera e le fece toccare, quasi a far baciare i due
becchi «I canali formati alla fine di queste profonde depressioni di toccano, si
intersecano e con la giusta quantità di energia si possono aprire delle porte da
ambo i lati e percorrerli.» adesso gli mostrò i palmi in un tipico gesto di
scoramento «Gli studiosi non sono mai riusciti a capire perché per alcune
destinazioni non era possibile aprire dei passaggi. Successivamente i portali sono
collassati su loro stessi liberando una grande quantità di energia, maggiore di
quella di uno scoppio di una bomba all’idrogeno, e, soprattutto, perturbando il
campo magnetico della terra, disturbando, così, tutti i fenomeni elettrici.»
«Il Broken Doors.» disse Thabo e chiese «L’effetto non sarebbe dovuto cessare
subito dopo le esplosioni, come succede con gli ordigni atomici?»
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«In realtà abbiamo scoperto di recente che i portali sono ancora attivi, per questo
continuano a produrre l’onda di disturbo. Il fenomeno, ora, sta scemando: è come
se si fossero surriscaldati ed adesso stanno tornando lentamente alla normalità.»
«Questo non lo sapevo, e quando ritorneranno attivi?»
«Ovvio che non ne sei al corrente: non è di dominio pubblico, sono studi riservati
dei quali mi ha raccontato mia madre; si pensa tra diverse centinaia di anni,
comunque.»
Thabo fece una faccia triste «La via delle stelle per noi è preclusa dunque?»
«Così parrebbe.» disse lei poi si alzò, si tolse la polvere dai pantaloni dandosi
delle pacche e poi osservò di nuovo i resti delle costruzioni Dogon.
«Ho un’idea, seguimi!»
«Cosa vuoi fare?»
«Nel sito in Mali le case istoriate erano riunite in gruppi, come delle pedine su di
una scacchiera, e per capire l’ordine di lettura bisognava spostarsi seguendo un
determinato filo logico. Gli spostamenti necessari riproducevano il percorso della
processione della loro festa più sacra, il rito Sigui, dedicato a Digitaria, che viene
celebrato ogni 50 anni.»
Lui assunse un’espressione interrogativa e lei chiese «Ti ricordi della casa con
l’uscita secondaria a strapiombo sul burrone?»
«Come dimenticarla?» rispose e poi, stupito «Vuoi vedere se qui c’è qualcosa di
simile? Ma ci stai conducendo verso la fine della grotta, vi è solo una parete
granitica.»
«Infatti, la cosa si fa interessante.» commentò lei.
I due percorsero la cavità compiendo degli strani giri e facendo delle tappe
davanti a questo o quell’edificio, finché giunti di fronte ad uno Ranjita vi penetrò
decisa.
L’archeologa vide che anche all’interno vi erano delle figure in terracotta, quasi
dei simboli, disposti sulla parete di fondo. Si soffermò davanti a questi leggendoli
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velocemente e poi annuì a sé stessa. In maniera decisa allineò la fila centrale
seguendo con un certo criterio e il muro si scostò mostrando un passaggio.
«Ranji sei un genio.» disse Thabo.
Lei fece un cenno di approvazione con la testa e disse «Purtroppo dovremmo
aspettare ad esplorarlo, non abbiamo neanche una torcia elettrica.»
«Se è per questo rimediamo subito.» disse la voce di Jiang alle sue spalle.
Ranjita e Thabo si voltarono di scatto e si accorsero che erano praticamente già
circondati.
«Bravissima dottoressa lo ha trovato!» disse il cinese colmo di gioia ed
applaudendo «Ha visto che avevo ragione: sono bravo a motivare la gente.»
«Maledetto come avete fatto a trovarci? Ho anche cancellato le tracce vicino
all’entrata!» disse Thabo, irato.
«Trovarvi? Ma io non vi ho mai perso!» disse Jiang con il suo risolino ironico.
«Ma per fuggire ho ucciso alcuni dei suoi!» disse Thabo.
«Sacrificabili! Da quando ho notato che stava smettendo di assumere il cibo
drogato ho fatto apposta a far allentare la sua sorveglianza, pensando di usarla
come mia ultima carta: la libertà fa pensare più velocemente!» Jiang indicò il
localizzatore alla caviglia di Ranjita «Suppongo sia inutile dirvi che quello non
funziona!»
L’orientale godette nel vedere le loro espressioni di scoramento poi disse «Suvvia
entriamo. Non sia triste, ha fatto una scoperta straordinaria: non è contenta? Non
vuole vedere cosa c’è alla fine di quel cunicolo?»
«Non vuole farlo lei, accertarsi che vi sia quello che sta cercando con tanta
crudeltà?»
«Andare prima della scopritrice? Non sia mai, prego dopo di lei dottoressa.» disse
in tono canzonatorio.
Ranjita fece come ordinato ed entrò illuminando il corridoio con la torcia
fornitale da uno degli uomini di Jiang.
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Il passaggio risultava liscio al tatto, quasi fosse stato fuso dentro la roccia.
Una luce pulsante proveniva alla fine del passaggio e Ranjita affrettò il passo
scoprendo che non era così vicino come si aspettava.
Ranjita entrò nel nuovo ambiente e fu quasi abbacinata, non appena si abituò al
chiarore quello che vide la lasciò totalmente stupita.
La nuova grotta era almeno cinque o sei volte più grande da quella da cui
provenivano, tanto ampia da contenere comodamente uno stadio ed era sepolta
nel cuore della montagna.
Gigantesche colonne erano messe in tre circoli concentrici percorsi da una strada
che terminava in una piattaforma.
I pilastri erano di un materiale traslucido che emanava una luminescenza dorata
ed intorno al grande spiazzo si vedevano dei complessi meccanismi.
Ranjita iniziò a correre verso il centro e Jiang non la trattenne affatto, anzi si
lanciò di volata dietro di lei.
Non poteva ancora vederlo, ma sapeva che c’era e si fermò giusto quando giunse
ai suoi margini: nel centro della grotta vi era un enorme vortice di luce che
sprofondava nel terreno.
«Mio Dio ma è un portale.» disse Thabo.
«Non ne ho mai visto uno grande come questo! Guarda Thabo è decisamente più
stabile di quelli dei documentari. Osserva non è percorso da nessuna scarica di
energia, tutto il plasma sembra seguire, docile, il flusso della spirale.» disse
Ranjita.
«Lei è stata perfetta!» disse Jiang e poi in tono solenne «Rivendico questa
scoperta in nome del popolo del Celeste Impero!» indicò l’uscita «Dieng Mao,
Ling Wu andate a trasmettere il segnale: che l’invasione abbia inizio.»
Jiang si voltò verso Thabo «Voi avete più risorse, ma noi siamo milioni, non ci
toglierete questo portale. Appena lo metteremo in piena funzione potremmo
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ritornare sulle stelle dove avremmo tutte le risorse che ci occorrono e dove la
tecnologia funziona ancora.»
I due cinesi che stavano correndo verso l’uscita vennero inceneriti da un lampo
purpureo ed un uomo apparve dalla piattaforma dicendo «Non pensa che prima
dovrebbe parlarne con noi?»
I cinesi aprirono immediatamente il fuoco contro il nuovo arrivato, ad eccezione
di tre persone.
Due furono i luogotenenti di Jiang, che si scostarono rapidamente a lato.
Il terzo fu il loro capo che rimase, placido, ad osservare il combattimento,
tenendo le mani dietro la schiena.
I proiettili degli orientali impattarono contro un muro invisibile prima di colpire
l’uomo e sparirono in numerosi sfavillii senza arrivare a sfiorarlo.
L’uomo percorse la distanza che lo separava dal gruppo in un attimo, volando a
qualche centimetro da terra e giunto in loro prossimità fulminò tutti i cinesi ed
eccezione di Jiang, dei due che si erano scostati e di Ranjita e Thabo, che si erano
gettati a terra non appena era iniziato il combattimento.
L’uomo si bloccò di fronte a Jiang e Ranjita, vestiva con una larga tunica
assomigliante a quella degli uomini blu del deserto, sotto si intravedeva una
specie di armatura fatta dello stesso materiale scintillante delle colonne.
I lineamenti del volto, completamente scoperto, ricordavano quelli dei tuareg, con
i tratti decisi, quasi alteri, ma gli occhi erano di un oltremare profondo e la pelle
più scura, simile a quella degli indonesiani.
«Non siate patetici.» disse il nuovo venuto con tono distaccato.
«Servirebbe a farci sopravvivere?» chiese Jiang imperturbabile.
«No!» disse il suo antagonista e dal suo guanto scaturì di nuovo il raggio rosso
sangue che aveva ucciso tutti gli altri.
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Ranjita si rifugiò dietro a Jiang; la cosa le fece schifo, ma le salvò la vita: il fascio
di luce venne fermato da uno scudo di energia verdastra che si formò di fronte al
cinese.
Lo schermo del nuovo venuto fu raggiunto a sua volta da due getti d’energia
biancastra che iniziarono ad intorpidire l’aria intorno a lui, finché si videro alcune
scintille fuoriuscire dalla sua corazza.
«Basta!» urlò Jiang e i suoi due sottoposti abbassarono i grossi fucili al plasma
che avevano tenuti celati in voluminosi zaini.
Jiang impugnò il pungolatore e lo colpì. Lo strumento di costrizione non trovò
ostacoli e fece appoggiare un ginocchio sul terreno al suo avversario, facendogli
assumere una postura simile a quella di deferenza di un cavaliere antico.
«Così le sembriamo meno patetici?» disse Jiang, sovrastandolo con il solito modo
di fare indisponente.
«Bene: adesso parliamo, non aveva detto così prima? Si, disse “parlare con noi”,
chi sareste, dunque, voi?» e lo torturò ancora.
L’uomo sopportò stoicamente il dolore, alzò il capo, guardandolo negli occhi e
disse, con disprezzo «Noi siamo i custodi di questo luogo da millenni, da così
tanto tempo così remoto che la tua piccola mente non riuscirebbe a cogliere.»
«Vedo che sei ancora altezzoso, anche dopo il tuo attacco azzardato: spesso chi è
troppo sicuro di sé va incontro ad una sonora sconfitta.» sentenziò Jiang.
«Non pensi che questo valga anche per te?» ribatté il custode, sempre strafottente.
«Perché? Come vedi anche il mio popolo sapeva progettare armi avanzate, più di
cent’anni fa. Io, tuttavia, le ho tenute nascoste e le ho usate solo quando era
strettamente necessario, cogliendola di sorpresa.» replicò Jiang.
Il guerriero sogghignò e subito altri uomini con il suo stesso tipo di armatura si
materializzarono sulla piattaforma. Fulmineamente ingaggiarono battaglia con i
due soldati di Jiang, che riuscirono ad abbatterne uno prima di soccombere; gli
altri circondarono il cinese.
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«Una piccola frazione dell’energia del vortice è sufficiente a far funzionare il
teleporto, uomini e mezzi possono entrare ed uscire da qui in un attimo, al mio
comando.» disse il difensore del portale.
«Allora non vorrai che tutto sparisca in un attimo.» replicò Jiang e gli mostrò una
sfera «Questo è un attivatore termico: sa cos’è, non è vero?»
«E come pensa di uscire di qui?» gli fece presente il custode.
«A questa ci penserà lei, ordinerà ai suoi uomini di togliersi le corazze e poi le
teleporterà lontano da qui, dopodichè io e lei usciremo come dei buoni amici.»
fece Jiang.
«Come suo ostaggio vuol dire.» precisò l’altro.
«Naturalmente.» disse il cinese sempre con il solito sarcasmo e poi riprese «Non
le dispiace vero eseguire il mio semplice ordine, o preferisce che vaporizzi tutto
qui. Sa che i suoi uomini non riusciranno a neutralizzare il mio schermo prima
che io faccia detonare l’ordigno.»
L’uomo disse qualche parola in una strana lingua e i suoi compagni si diressero
verso la piattaforma.
«Bravo, adesso vieni qui davanti a me, vicino vicino.» disse Jiang.
Il guerriero eseguì e con un gesto compassato, quasi il tocco di una farfalla, fece
un piccola ferita sulla mano di Jiang, che guardò inorridito la scalfittura.
«Il tuo scudo reagisce all’intensità dell’attacco, un movimento così lieve non lo
calcola neanche; così lieve, ma anche così mortale. Come vedi non faccio conto
solo sulla tecnologia, questo è un veleno antico, ma estremamente micidiale, ti
paralizza i muscoli: prima non ti puoi più muovere poi, piano, piano arriva
fermare il cuore.» avvicinò i suoi occhi a quelli di Jiang «Lo senti, sta già
rallentando, non pompa più il tuo sangue.»
L’uomo guardò negli occhi Jiang finché questi non crollò a terra poi rivolse la sua
attenzione a Ranjita e Thabo.
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«Noi siamo solo degli studiosi, non abbiamo intenzione di impossessarci di
niente: suppongo che questo non cambi le cose, che non vogliate mantenerci in
vita!» disse Ranjita.
«No, non è possibile.» disse l’uomo e gli altri lo raggiunsero.
Un’esplosione squarciò l’aria portandosi via parte dei meccanismi del teleporto,
immediatamente dopo degli uomini con delle tute metalliche entrarono,
volteggiando, dal passaggio scoperto da Ranjita.
I nuovi arrivati ingaggiarono battaglia con i custodi, volando tra i pilastri: un'altra
volta l’etere si riempì di lampi.
Thabo fece un cenno a Ranjita che capì al volo ed entrambi gattonando si
spostarono, cercando di stare il più vicino possibile al pavimento.
Ranjita intravide un’insegna a stelle e strisce attorniata da altre grosse stelle e
capì subito l’identità degli ultimi venuti.
Gli euroamericani ebbero ragione dei guardiani che indossavano le antiche
armature, non senza subire pesanti perdite però. Infatti alla fine ne rimasero in
piedi soltanto tre.
Uno di questi si portò di fronte al custode, un altro prese posizione di fronte
all’entrata e l’ultimo si appoggiò al suolo ed iniziò a togliersi la tuta potenziata,
gravemente danneggiata.
«Sono il colonnello Jack Mac Taggart, dell’esercito degli Stati Uniti d’America e
d’Europa, con chi ho il piacere di parlare?» disse l’uomo sollevando la visiera e
rivolgendosi all’unico sopravvissuto dei suoi avversari.
«Il mio nome è ininfluente.» disse l’uomo usando sempre un tono di superiorità.
«Insisto.» disse l’americano.
«Tkall Marduk.» disse con estremo distacco l’uomo, come se avesse gettato delle
perle a dei porci.
«Lama, spada di Marduk, dio sumero: interessante nome.» commentò Ranjita.
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«La nostra studiosa, molto bene Dottoressa Ranjita Padma Anusha Sarvodaya,
lei è stata preziosa.» disse il colonnello.
«Non pensavo di essere così conosciuta! C’è qualcun altro che conosce il mio
nome per intero?» disse Ranjita, infastidita.
«Dottoressa, chi crede che abbia passato le informazioni ai cinesi? Loro hanno
usato voi per trovare questo posto, noi abbiamo usato loro per saggiarne le
difese.»
«Siamo stati usati fino dall’inizio, allora?» l’americano annuì e lei continuò a
porre domande chiedendogli «Una curiosità colonnello: non pensavo che una
tecnologia così raffinata fosse sopravvissuta al Broken Doors.»
«Argo.» disse semplicemente il colonnello.
«La base stellare? Argo era la vostra installazione spaziale più grande ed
innovativa, ma pensavo aveste abbandonato le stazioni orbitali, non potendo più
accedervi.»
«Con grandi sacrifici abbiamo costruito un centro di lancio in Antartide, dove non
vi era nessun portale; in cento anni usando razzi rudimentali abbiamo smontato
Argo pezzo per pezzo e l’abbiamo ricostruita nel continente ghiacciato in modo
da poter usare la sua preziosa tecnologia.»
«La rivincita degli stati occidentali.» commentò Ranjita, permettendosi a sua
volta una punta disprezzo.
«Fa presto a parlare lei, ma in Africa, oltre a quelli dei paesi del Magreb, vi era un
solo portale presso Pretoria, e di piccole dimensione, in sostanza un’opera di mera
rappresentanza.» rispose Mac Taggart irato «Voi non avete praticamente patito
l’olocausto del Broken Doors .»
«Si è mai chiesto come mai c’era ne era uno solo?» ribatté Ranjita.
«Voi della Federazione Africana avete finito di fare il bello ed il cattivo tempo: è
da cent’anni che se qualcuno vuole un po’ di tecnologia spicciola, di nuova
costruzione, deve venire da voi.» continuò la tirata il colonnello senza degnarsi di
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rispondere alla domanda di Ranjita che, probabilmente, non aveva neanche
sentita.
Mac Taggart si fermò solo per prendere fiato e poi riprese «Per non parlare di
quando vi è la necessità di fare un esame accurato, solo da voi le macchine
diagnostiche funzionano ancora ed allora bisogna venire ad elemosinare, dico
elemosinare, alla vostra porta.» grugnì ed aggiunse, risoluto «Ma adesso basta
sottostare ai vostri capricci: la musica cambia!»
Ranjita si assicurò che avesse finito e chiese «Perché afferma che abbiamo
terminato di imporre condizioni? Non mi risulta che siate tornati ad essere la
superpotenza del pianeta.»
«Perché questo portale muterà tutto, ritorneremo sulle stelle e ritorneremo
grandi.»
«E come avete intenzione di prender il controllo di una struttura che si trova nel
cuore di una nazione che non è la vostra? Vi preparate ad invaderci militarmente
come voleva fare il Celeste impero?»
«Nulla di così drammatico, era nostra intenzione portare buona parte delle
installazioni di Argo qui dentro e con quella pedana di teleporto sarà un gioco da
ragazzi; prima dell’attacco ho studiato bene la piattaforma e mi sono premurato di
colpire solo il blocco che la riforniva di energia: conto di poterla ripristinare
facilmente.» spiegò Mc Taggart.
«Capisco, un’operazione coperta.» disse Ranjita.
«Esatto! Con la piattaforma potremo anche riportare in patria quello che
vogliamo, senza doverci concentrare a ricostruire tutto su di un altro mondo
prima di prendere definitivamente il controllo di questo.»
«E di noi due cosa ne sarà, saremmo teleportati in un carcere segreto di massima
sicurezza?» chiese Ranjita.
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Il viso del colonnello si intristì «Mi dispiace dottoressa ma i vostri corpi saranno
ritrovati tra diversi giorni, molto lontano da qui: ufficialmente sarete tutti caduti
vittima di una banda di predoni.»
«Naturalmente, così cesseranno le operazione di ricerca della nostra spedizione
da parte del governo, ci saranno le esequie formali e voi avrete il tempo di
sigillare le entrate delle due grotte in modo da essere sicuri che nessun altro
scopra questo posto.» disse Ranjita con voce fredda come il marmo, come se non
parlasse della sua vita.
«Esatto mi fa piacere che comprenda, che sia consapevole che non ho altra
scelta.» disse l’americano.
Ranjita rise di gusto lasciandolo sconcertato e poi disse «Chissà perché oggi
nessuno mi vuole lasciare vivere, non mi sembra di essere così male!» e al
termine della sua provocazione fece segno a Thabo che nel frattempo si era
impossessato di un fucile al plasma dei cinesi che era rimasto intatto.
Thabo sparò dritto nella schiena del soldato rimasto a guardia dell’entrata,
danneggiando pesantemente la sua armatura.
Il colonnello reagì immediatamente ma trovò Ranjita sulla traiettoria, esitò un
secondo, poi le scaricò addosso tutta la potenza del suo pulso laser.
I colpi di Mac Taggart furono deviati dallo scudo di Jiang, anche lei aveva
approfittato del combattimento per recuperare l’equipaggiamento del cinese.
Ranjita aveva notato che l’armatura di Tkall Marduk aveva smesso di sfrigolare e
che si era autoricostruita chiudendo alcuni piccoli squarci, per cui contava su
quello che sarebbe accaduto.
Un lampo purpureo impattò l’esoscheletro dell’americano, a distanza ravvicinata,
oltrepassando il suo schermo energetico.
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Mac Taggart riuscì a scambiare alcuni colpi con Tkall Marduk prima che la sua
tuta potenziata esplodesse.
Lo scontro durò così tanto da mandare in definitivo corto circuito l’antica corazza
del guerriero.
«Attento!» urlò Ranjità, Thabo era riuscito a distruggere il suo avversario, ma
l’ultimo si era infilato di nuovo il suo esoscheletro.
Thabo si gettò a terra e colpì il suo nemico, ma lo schermo di questi, per quanto
danneggiato, riuscì ad assorbire il colpo: Thabo si trovò indifeso di fronte a lui.
«No!» urlò Ranjita ed usò la mitraglietta ad alta velocità di Jiang, un’arma che
sparava piccoli proiettili calibro ventidue a tremila colpi al minuto senza alcun
rinculo.
La raffica ebbe ragione dell’euroamericano ma non riuscì ad impedire che
sparasse a sua volta.
Ranjita corse a perdifiato verso Thabo e gli prese il capo tra le mani ma non
poteva fare nulla: una scarica di pulso laser era in grado di fermare un carro
armato e su di un uomo aveva effetti devastanti.
Ranjita rimase abbracciata a ciò che rimaneva del suo più caro amico finché non
si voltò di scatto «Fermo tu, con quel tuo micidiale veleno.» disse rivolta a Tkall
Marduk che si era avvicinato di soppiatto.
«Uccidimi allora donna, sono indifeso contro quella tua arma.» le disse,
mostrandole il petto.
Ranjita, schifata, gettò lontano la mitraglietta e disse «Basta uccidere oggi. Ma
siete impazziti: non date nessun valore alla vita umana? Ma quali ideali superiori!
Che ideali sono che non considerano minimamente l’esistenza delle persone?
Sono davvero così importanti?» indicò il corpo dell’amico steso al suolo «Thabo
Carabelli era una persona straordinaria, amava la natura e cucinare, aveva un
sacco di amici e troppe ragazze, aveva dei sogni meravigliosi ed un cuore
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sensibile ed adesso che cos’è? Un ammasso di carne e sangue buttato sul
pavimento di questa cosa!»
Ranjita prese la bomba del cinese, tolse la sicura e si voltò verso il portale pronta
a lanciarvela dentro «Ma pensi che valga così tanto questa mostruosità? Che
valga le vite, i sogni, i desideri di tutti quelli che sono morti? Anche l’esistenza di
quel disgraziato che ho ammazzato per cercare di salvare Thabo, cosa di cui non
mi perdonerò mai di aver fatto.»
Tkall Marduk si inginocchio ai suoi piedi e disse «No ti prego non farlo!»
Ranjita soppesò l’ordigno tra le mani, poi lo mise via e disse «Si, un portale è
veramente importante per l’umanità, ma basta morti, basta uccidere: bisogna
trovare una soluzione alternativa!»
Tkall Marduk la guardò e fece per parlare, poi si fermò come se non sapesse cosa
dire.
«Ha ragione Ranjita, ma non sarà facile!»
Ranjita si guardò intorno senza riuscita a capire da dove era arrivata la voce,
finché una figura apparve davanti a lei.
L’uomo che le stava di fronte era vestito con una tunica color azzurro decorata
con numerosi arabeschi, e sotto non portava alcuna corazza. I tratti del suo viso
assomigliavano a quelli Tkall Marduk, solo erano più aggraziati, aveva gli occhi
di un intenso verde e portava il pizzetto, l’età era indefinibile ed i capelli erano di
un biondo bruciato, quasi bianchi.
«Guardiano!» disse Tkall Marduk.
«Amran Marduk.» disse rivolto a Ranjita.
«Figlio di Marduk, ma sono veramente i vostri nomi?» chiese Ranjta.
«Da tempo lo sono.»
«Vedo che ha riparato il teleporto.»
«Ho usato un allacciamento secondario, ma il meccanismo ha iniziato la
procedura di riparazione automatica, tra poco sarà pienamente attivo.»
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«Spero che abbia una soluzione altrettanto pratica alla nostra situazione.»
«Quella più semplice sarebbe che si unisse a noi, alla nostra confraternita e ci
aiutasse a celare il segreto.»
«Chissà come mai immaginavo una cosa del genere.» disse Ranjita storcendo la
bocca.
«Ed io ero sicuro che non avrebbe accettato.» ribatté il guardiano con tranquillità.
Ranjita indicò il portale e disse «Questa è una grande risorsa per l’umanità,
l’uomo non si è ancora ripreso dal Broken Doors e dalle guerre che ne
susseguirono: Jiang su qualcosa aveva ragione, sa quante persone muoiono di
fame ogni giorno in tutto il mondo, non solo in Cina.»
L’uomo annuì e disse «Si, ma lasci che le spieghi. L’energia che si usa per aprire
ed usare questi passaggi è quella stessa del pianeta, che è legato alla sua stella. Il
continuo uso strema l’equilibrio delle forze finché vi è un cedimento catastrofico
che distrugge ogni vortice e tutto quello che vi è intorno, lasciando al suo posto
una terribile anomalia spazio temporale.»
«Ma questo portale ha resistito al Broken Doors.» gli fece notare Ranjita.
«Grazie alle colonne! Sono state create apposta, hanno assorbito l’energia di feed
back e stabilizzato il vortice, sia questa che l’altra volta.»
«Altra volta?» chiese Ranjita sorpresa.
«Millenni fa e fu peggio. Allora qui quasi tutto andò distrutto: la struttura è auto
rigenerante e, in diverse centinaia di anni, si ricostruì. Per fare un paragone
rimediò ai danni del Broken Door in soli dodici anni.» rivelò lui.
«Millenni fa.» ripeté a se stessa Ranjita e poi quasi urlando «Qui siamo nella Rift
Valley, dove è nato l’uomo… Non ci posso credere, non siamo indigeni di questo
pianeta. L’uomo, rimase prigioniero sulla terra a causa di un disastro maggiore
del Broken Doors. L’umanità, non potendo usare più alcuna tecnologia, ritornò
allo stato primitivo e dovette ricostituire la sua civiltà da zero.»
«Esatto.»
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«E vi erano molti altri portali oltre a questo?»
«Si.»
«E sono sopravvissuti?»
«No, sono esplosi come i vostri, con deflagrazioni ancora peggiori.»
«Non avevano anche loro le colonne di assorbimento?»
«No, gli arcani scritti narrono che questo complesso era sperimentale. Furono
necessari moltissimi anni e innumerevoli risorse per creare il materiale che
compone i piloni, è qualcosa che esiste e non esiste al contempo in questa realtà,
è transdimensionale.»
«Il disastro che tu mi racconti ci ha riportati allo stato primitivo allora.»
«Esatto.»
«Noi abbiamo rilevato che le anomalie spazio temporali, conseguenza del
collasso dei portali, si stanno riassorbendo. E’ successo così anche millenni fa?»
«Si.»
«L’equilibrio del sistema tende a ristabilirsi dunque! Basterebbe usare i vortici,
come li chiami tu, con parsimonia in modo da non sforzare l’insieme e farlo
arrivare al punto di rottura.» esplicò Ranjita convinta.
«E quando mai l’uomo ha usato parsimonia in qualcosa? Non lo ha fatto millenni
fa, non lo ha fatto cent’anni fa, non lo ha fatto neanche riguardo allo stesso
mondo in cui viveva: l’unica cosa che ha salvato la Terra dal disastro ecologico
sono state le migrazioni di massa sugli altri pianeti attraverso i portali, come li
chiami tu. Il loro utilizzo ha generato le conseguenze che conosci.»
Ranjita soppesò a lungo le parole del guardiano, poi disse «Hai ragione, ma non
possiamo rinunciare a questa opportunità: l’umanità non lo farà mai! La tua
organizzazione ha impedito che questo macchinario venisse scoperto, ma non ha
proibito la creazione di altri simili e non sarà in grado di ostacolare la prossima
distruzione dell’ecosistema della Terra.»
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Fu il turno di Amran Marduk di ragionare sulla parole di Ranjita, prima di dire
«Hai ragione anche tu, cosa proponi di fare?»
«Veritas liberat! La verità rende liberi, sveliamo questa conoscenza a tutti,
rendiamo consapevole l’umanità dei rischi: diremo loro tutto, eccetto dove si
trova quest’installazione.» disse Ranjita, ispirata.
«E poi?» chiese il guardiano.
«Poi la useremo, con parsimonia, ma la useremo. Una commissione deciderà
quando usarla ed un’equipe di scienziati studierà gli effetti della sua messa in
funzione. Cercheremo di capire come e quando andrà ad influire sull’equilibrio
delle forze interstellari, in modo da fermarci quando, anche solo lontanamente, si
prospetterà la possibilità di avvicinarci ad un collasso.»
«Pensi che accetteranno questo?» disse scettico Amran Marduk.
«Lo dovranno fare. Il colonnello Mac Taggart aveva avuto una buona intuizione,
sigilleremo tutto: sarà possibile accedere qui solo dalla pedana di teleporto che mi
risulta essere l’unica sul pianeta.»
«E’ così.»
«Nessuno si stabilirà qui, saranno tutti di passaggio, anche gli studiosi saranno
collegati a questa installazione solo attraverso un canale telematico.»
«Non sarà facile far accettare questo alla mia gente.» disse Amran Marduk.
«Saranno costretti. Come avete visto, mantenere il segreto non serve, prima o poi
l’uomo ci ricade: bisogna insegnare, non nascondere.»
«Faremo così, sono certo di poter convincere gli altri.» sentenziò Amran Marduk
e poi, solenne «Si apre una nuova era per l’umanità e speriamo che questa volta
sia duratura.»
Ranjita guardò Thabo con le lacrime agli occhi e commentò «Si, e come al solito
l’abbiamo pagata troppo cara.»
Fine
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